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Full text of "La poesia popolare italiana"

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LA  POESIA  POPOLAEE 

ITALIANA 


LA 


POESIA  POPOLARE 


ITALIANA 


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E  CONCA   EDIZIONE   ACCRESCIUTA 


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LIVORNO 


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RA  ^^AELLO  GIUSTI,  EDITORE 

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LIBRAIO-TIPOORAFO 


1906 


PROPRIETÀ   LETTERARIA 


Livonio,  Tipografia   Kaflfaello    Giusti 


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COSTANTINO  NIGRA 

AMOROSO  E  SAGACE  ILLUSTRATORE  DELLA  POPOLARE  POESIA 

DEGNO    DI    RAPPRESENTARE    A    STRANIERE    NAZIONI 

IL    NOME    E    l'  INTELLETTO    d'  ITALIA 

in  testimonio  di  antica  amicizia 

questi  studi  offre 

l'a. 

(1878-1905) 


Esaurita  ormai  la  prima  edizione  di  questo  mio 
libro,  adei'ii  volentieri  alla  richiesta  del  compianto 
cav.  Raffaello  Giusti,  di  por  mano  ad  una  ristampa. 
Il  lavoro  pertanto  ritorna  agli  studiosi  riveduto  nella 
forma,  identico  nella  sostanza  ;  ma  chi  paragoni  fra  loro 
la  mole  dei  due  volumi,  vedrà  facilmente  quanto  questa 
siasi  accresciuta. 

Ho  lasciato  al  libro  il  titolo  primitivo  di  StudJ, 
perchè,  conservando  l'antico  carattere,  non  discorre  ora, 
né  prima  discorse,  di  tutte  le  forme  della  poesia  popolare, 
ma  quasi  soltanto  della  forma  lirica,  cercandone  le  ori- 
gini, seguendone  i  ti'amutamenti  di  regione  in  regione, 
e  mettendone  in  luce  le  relazioni  colla  poesia  eulta.  Li- 
mitate per  tal  modo  le  indagini  a  pochi  punti  contro- 
versi, pervenni  già  ad  alcuni  resultati,  ch'ebbero  il  suf- 
fragio dei  competenti,  e  che  ora  sono  avvalorati  da 
maggior  copia  di  ragionamenti  e  di  riscontri. 

Pei  ricordati  aumenti  molto  ho  in  questi  anni  spi- 
golato da  per  me  tenendo  dietro  alle  pubblicazioni  di 
Canti  popolari  italiani  e  agli  studj  su  di  essi;  ma  di 
utili  indicazioni  mi  furono  larghi  alcuni  esperti  in  tal 


YIII 

materia,  fra  i  quali  l'antico  alunno  ed  ora  amico  caris- 
simo, prof.  Giovanni  Giannini,  die  me  ne  fornì  in  gran 
copia,  e  al  quale  attesto  qui  la  mia  riconoscenza.  Altret- 
tanto grato  mi  professo  ad  altro  alunno  ed  amico,  il 
prof.  F.  C.  Pellegrini,  che  rivide  le  stampe  e  mi  diede 
opportuni  ed  utili  suggerimenti. 

Alla  prima  edizione  andava  innanzi  un  Avverti- 
mento, nel  quale  affermavo  che  i  miei  StudJ  nulla  dove- 
vano alla  Storia  della  poesia  popolare  italiana  di  Er- 
molao Rubieri,  pubblicata  quando  già  tutto  avevo  scritto 
e  consegnato  all'editore  e  buona  parte  del  mio  lavoro 
era  stampata,  sicché  non  esisteva  plagio  da  parte  mia  là 
dove  andavamo  d'accordo,  né  coperta  confutazione  là 
dove  discordavamo.  Quanto  alla  «  scoperta  »  dei  capo- 
versi di  poesie  popolari  nel  Capitolo  di  Agnolo  Bronzino, 
facevo  notare  che  l'avevamo  fatta  tutti  e  due  contempo- 
raneamente, senza  saper  l'uno  dell'altro.  Ma  ora,  come 
potrà  vedere  il  lettore,  ho  creduto  potermi  valere  del- 
l'opera del  defunto  amico,  citandola  ogni  qual  volta  mi 
fosse  dato  confortarmi  dell'autorità  sua,  o  dovessi  dis- 
sentirne. 

Né  altro  aggiungo,  salvo  l' augurio  che  le  nuove 
cure  date  a  questo  lavoro  possano  cattivargli  la  bene- 
volenza degli  studiosi. 

A.  D'A. 


Le  molte  pubblicazioni  di  canti  popolari  delle 
diverse  provincie  d'Italia,  cbe  sonosi  andate  facendo 
in  questi  ultimi  anni,  lianno  reso  filialmente  possi- 
bile, per  ricchezza  di  doctnnenti  e  por  saggi  di  com- 
parazione, di  studiare  la  materia  secondo  i  dettami 
della  critica  odierna  e  trarne  qualcba  resultato  utile 
alla  scienza  e  alla  storia.  Invero,  quei  canti  furono 
dapprima  raccolti  dalle  labbra  del  volgo  per  vaghezza 
di  forme  nuove,  piìi  semplici  e  spo]  tanee,  da  con- 
trapporre a  quelle  artificiose  troppo  e  troppo  logore 
degli  scrittori  in  sussiego  ed  in  gala:  e  sebbene  ta- 
lora si  eccedesse  nel  lodarvi  la  cara  naturalezza  dei 
sentimenti  e  del  linguaggio,  e  alle  vecchie  categorie 
della  versificazione  da  improvvidi  imitatori  se  ne 
aggiungesse  un'altra,  che  ha  prodotto  soltanto  frutti 
bastardi,  noi  non  vorremo  certamente  negare  che, 
anche  mancandovi  spessissimo  il  logico  concatena- 
mento dei  pensieri  e  degli  affetti,  e  talvolta  pur 
anco  un  senso  ben  determinato,  non  dessero,  ad  ogni 
modo,  prova  di  ingenita  virtù  al  poetare,  e  non  for- 
nissero esempj  di  vena  schietta  e  e  _;^'osa  di  poesia 
nel  nostro  popolo.  Se  non  che,  come  dicevamo,  e'  ci 

D"Axco>'A,  La  poesia  pop.  Hai.  —   1 


2  LA   POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

pare  che  dopo  le  ammirazioni,  eque  od  esagerate,  sia 
venuto  il  momento  di  trattare  di  questa  particolare 
forma  di  poesia,  non  rispetto  alla  estetica  ed  alla  filo- 
logia soltanto,  ma  anche  considerandone  l'origine  e 
gli  svolgimenti,  e  le  relazioni  colla  poesia  dell'arte. 
Del  che  si  è  pur  dato  qualche  rilevante  accenno 
in  recenti  studj;  ma  essendoci  sembrato  che  ancora 
restasse  qualche  cosa  da  dire,  da  chiarir  meglio 
qualche  punto  oscuro  o  controverso,  da  correggere 
qualche  erroneo  concetto,  ci  siamo  posti  in  animo 
di  trattare  l'argomento  con  qualche  larghezza.  L'esa- 
mineremo, adunque,  rispetto  all'antichità  dei  canti, 
alla  origine  e  alla  forma  loro  primitiva,  e  ai  mutui 
imprestiti,  che  insieme  vennero  facendosi  l'umile 
Musa  del  popolo  e  quella  dei  dotti.  Invochiamo  da 
l)el  principio  l'attenzione  dei  lettori  per  le  minute 
ricerche,  le  faticose  analisi,  le  frequenti  compara- 
zioni che  dovremo  istituire,  parendoci  tuttavia  che 
qualche  resultato,  ottenuto  dallo  studio  assiduo  e 
dal  molto  esercizio  di  memoria,  non  sia  al  tutto  in- 
degno dell'altrui  considerazione.  E  senz'altro,  comin- 
ceremo dal  ricercare  quanta  sia  l'antichità  di  questi 
canti,  ai  quali  nessuno  disconosce  indole  tradizio- 
nale; e  se,  cioè,  essa  debba  affermarsi  soltanto  come 
probabile,  o  se  soccorrano  documenti  che  la  facciano 
risalire  ben  addietro  ;  e  in  tal  caso,  quanti  secoli 
sarebbero  scorsi  dacché  primamente  furono  trovati, 
trasmettendosi  quindi  di  generazione  in  generazione, 
colle  necessarie  modificazioni  apportate  dalla  labi- 
lità della  memoria,  nonché  dal  variare  del  costume, 
del  sentimento,  del  linguaggio. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 


IL 


Non  sono  passati  molti  anni  dacché  chi  avesse 
voluto  trattare  delle  prime  origini  della  poesia  in 
Italia  ne  attribuiva  tutto  il  merito  all'esempio  dei 
Trovatori  provenzali,  imitati  di  poi  siffattamente  dai 
nostri  pili  antichi  rimatori,  da  far  credere  che  indi 
fossero  state  tolte  le  immagini,  le  frasi,  le  formole 
del  dire  amoroso,  e  in  molti  casi  anche  le  parole;  co- 
sicché il  primo  impulso  al  poetare  sarebbeci  venuto 
di  fuori.  Se  non  che,  meglio  studiando  la  materia 
(e  parmi  che  di  ciò  debba  attribuirsi  il  merito  spe- 
cialmente a  Claudio  Fauriel),  C)  si  scorse  che  tutti 
quei  rimatori  del  primo  secolo,  se  avevano  molto  di 
comune  fra  loro,  avevano  anche  non  poco  di  diverso; 
per  modo  che  fosse  buono  espediente  lo  spartirli  in 
tre  gruppi,  di  siciliani,  bolognesi  e  toscani.  Ma  la 
scuola  siciliana,  se  ebbe  principal  sede  ne'  dominj 
degli  Svevi,  trovò  seguaci  in  tutta  la  penisola;  e 
Dante  apertamente  ricongiunge  la  scuola  toscana 
colla  bolognese,  chiamando  padre  suo  il  Guinicelli, 
e  a  lui  facendo  risalire  l'invenzione  del  dolce  stil 
nuovo.  Cosicché,  le  distinzioni  topiche  parve  doves- 
sero cedere  il  luogo  ad  altre,  desunte  da  altri  cri- 
terj  piìi  conformi  all'intrinseca  natura  delle  poesie. 
Si  avrebbero,  adunque,  una  forma  modellata  sugli 
esempj  stranieri:  provenzali,  massimamente  per  la 
poesia  lirica,  francesi,  invece,  per  la  narrativa  e  la 
didattica;  una  seconda  forma,  dedotta  così   per  rì- 


(•>  Dante  et  les  origines  de   la   langiie    et    de    la    lillérature   italienne, 
Paris,  Dui-and,  185i,  voi.  I,  p.ag.  308  e  segg. 


4  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

spetto  alla  sostanza,  come  per  rispetto  a  certe  fogge 
particolari  di  sintassi,  dalle  menomate  ed  ambigue 
tradizioni  dell'arte  antica;  e  finalmente  una  terza, 
clie  avrebbe  tratto  le  sue  ispirazioni  dal  volgo,  rag- 
gentilendo al  possibile  e  perfezionando  gli  inconditi 
carmi,  co'  quali  esso  veniva  manifestando  i  proprj 
concetti  e  sentimenti.  La  prima,  che  per  l'indole  sua 
potrebbe  dirsi  poesia  cortigiana  e  cavalleresca,  e 
per  certi  rispetti  anche  feudale  e  ghibellina,  raggiò 
colle  agili  forme  della  lirica  da  Palermo  e  da  Na- 
poli per  tutta  Italia,  e  come  poemetto  narrativo 
od  insegnativo  apparve  specialmente  nel  Veneto  e 
nella  Lombardia;  la  seconda,  scolastica  e  dottri- 
nale, è  rappresentata  in  Bologna  dal  Guinicelli,  in 
Toscana  dai  poeti  pisani,  seguaci  forse  a  Guittone 
d'Arezzo,  sentenzioso  nella  sostanza,  latineggiante 
nel  periodo:  la  terza  poi,  com'è  naturale,  vien 
fuori  dappertutto,  ovunque  sia  popolo;  se  non  che, 
dove  pili  la  plebe  sorge  a  dignità  di  popolo  poli- 
ticamente sovrano,  ivi  più  adorna  ed  abbellisce  il 
suo  rozzo  linguaggio.  Per  tal  ragione,  ad  esempio, 
vi  ha  gran  divario  fra  il  Contrasto  amoroso  di  Cielo 
dal  Canio  e  le  Pasiorette  di  Ciacco  dell' Anguiìlara 
e  di  Guido  Cavalcanti,  sebbene  il  fondo  sia  identico 
ed  ugualmente  tratto  dal  popolo;  ma  i  poeti  fioren- 
tini, oltreché  nati  più  tardi  e  appartenenti  a  più  po- 
lita cittadinanza,  conoscevano  anche,  per  maggiore 
cultura  d'intelletto,  quei  componimenti  provenzali 
e  francesi,  nei  quali  già  la  contesa  dell'amatore  col- 
l'amata  aveva  vestito  forme  cavalleresche  :  il  che 
non  sapremmo  veramente  ammettere  per  rispetto 
al  canto  alterno  del  siculo  poeta.  (^) 


(1)  Vedi  Slufli  sulla  ìetterat.  iteti,  dei  primi  secoli,  Ancona,  Morelli,  1S8+, 
pag.  241;   Cielo  dal  C'amo.  Ho  mantenuto  su  questo   argomento   l'opinione 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  5 

Vi  è,  adunque,  nella  prima  origine  della  poesia 
volgare  un  rivoletto,  che  scaturisce  dal  fondo  stesso 
del  suolo  italico  ;  e  per  qupaito  esso  appaja  talvolta 
men  limpido  e  copioso  degli  altri  due  rivi,  che  sgor- 
gano l'uno  dai  delubri  e  dalle  scuole  dell'antichità, 
l'altro  dalle  reggie  e  dalle  liete  ragunauze  d'ol- 
tralpe, non  però  potrebbe  negarsene  l'esistenza:  che 
del  rimanente  dovrebbe,  a  fil  di  logica,  supporsi, 
quand'anche  non  ne  avessimo  sicure  testimonianze. (^) 
Né  queste  certamente  abbondano;  ma  sono  tuttavia 
tali  e  tante,  che  bastano  a  dimostrare  il  fatto.  Chi 
invero  consideri  le  condizioni  della  cultura  italiana 
anche  nei  tempi  piìi  tenebrosi  dell'età  media,  e  segua 
il  progressivo  innalzarsi  del  volgo  abietto  a  libera 
cittadinanza,  e  degli  aspri  e  rozzi  parlari  provinciali 
a  lingue  letterarie,  non  dovrà  meravigliarsi  che  nei 
petti  italiani  sopravvivesse  una  scintilla  almeno  di 
poesia.  La  discendenza  latina  non  era  ridotta  a  gregge 
ignobilmente  inselvatichito  ;  restavano  vivaci  le  forze 
dell'  immaginazione  e  dell'  affetto ,  mantenute  ga- 
gliarde dallo  stesso  immutato  aspetto  della  natura 
e  del  cielo  ;  restavano  memorie  dell'antica  grandezza, 
abbarbicate  quasi  ai  ruderi  dei  templi,  dei  fóri,  dei 
palagj,  degli  anfiteatri:  indi  nascevano  favole  intes- 
sute con  mirabili  colori  sui  fatti  e  sui  personaggi  del- 
l'antichità latina,  e  per  contrario,  altre  di  tutt'altra 


mia  circa  la  distinzione  originaria  delle  due  forme,  non  soltanto  dopo  quanto 
ne  disse  in  contrario  il  compianto  N.  Caix  (vedi  ivi,  pag.  386).  ma  anclie 
dopo  quello  che  ne  ha  scritto  A.  Jeanrot,  La  lirica  francese  in  Italia  nel 
periodo  delle  origini,  traduz.  di  G.  Eossi,  Firenze,  Sansoni,  1897,  p.  3^-67. 
(1)  Vedi  a  questo  proposito  l'ultima  Lezione  della  cii.  op.  del  Faukiel: 
Poesìe  populaire  italiemie  ati  XIII  siede,  voi.  II,  pag.  460  e  segg.  E  ora  vedi 
più  specialmente  A.  Gaspary,  La  scuola  poetica  siciliana,  traduz.  di  S.  Fried- 
manii,  Livorno,  Vigo,  1882,  pag.  145  e  segg.;  G.  A.  Cesareo,  La  poesia  sicil. 
sotto  gli  S'-evi,  Catania,  Giannotta,  1894,  pag.  243  e  segg.  e  del  medesimo.  Le 
origini  della  poesia  lirica  in  Italia,  Catania,  Giannotta,  1899. 


6  LA   POESIA   POPOLARE   ITALL\XA. 

indole  sui  tempi  e  sugli  uomini  delle  dominazioni 
barbariche.  Quindi  il  contrasto  delle  narrazioni  dei 
Mirabilia  e  della  Graphia  urbis  Boììiae,  del  Libro 
lìììperiale  e  delle  leggende-  su  Giulio  Cesare,  su  Vir- 
gilio, su  Trajano  e  sulle  mitiche  origini  delle  città 
italiane,  coi  paurosi  racconti  intorno  alla  vita  e  alla 
morte  di  Attila,  di  Teodorico,  di  Rosmunda.  Natu- 
ralo e  necessaria  forma  di  siffatta  condizione  d'animo 
e  d'intelletto  doveva  essere  e  fu  la  poesia,  sebbene 
per  età  non  breve  dovesse  trovar  ostacolo  a  mani- 
festarsi nella  perplessità  stessa  dell'idioma,  ancora 
non  del  tutto  sciolto  dall'involucro  del  latino.  Nulla 
perciò  alle  età  venture  rimase  a  testimoniare  di 
quella  rozzissima  poesia  popolare  del  Medio  Evo  ; 
e  pur  ammettendo,  ad  esempio,  che  il  canto  delle 
scolte  modenesi  del  924  sia  da  riporsi  tra  le  poesie 
popolari,  (^)  opineremmo  però  che,  quale  ci  è  stato 
trasmesso,  abbia  a  dirsi  un  po'  ritoccato  da  qualche 
retore  di  que'  tempi. 

Ma  via  via  che  scorrevano  gli  anni,  anzi  i  se- 
coli, e  miglioi'avasi  la  civile  condizione  delle  plebi, 
e  si  andava  recando  a  più  corretta  forma  l'idioma, 
è  naturale  che  quella  torbida  vena  di  poesia  dovesse 
chiarirsi  e  crescere  in  copia,  finché  giungessero  al- 
tri tempi,  ne'  quali  al  suo  libero  espandersi  fosser 
tolti  i  maggiori  ostacoli.  E  se  i  saggi  della  prisca 
poesia  popolare  non  sono  molti,  ciò  deve  soprattutto 
attribuirsi  a  due  ragioni.  In  primo  luogo,  per  le  con- 
dizioni stesse  della  nostra  penisola  era  siffatta  poesia 
confinata  per  lo  piìi  entro  i  limiti  del  breve  terri- 
torio in  cui  nasceva;  e  nel  rapido  svolgimento  della 


(1)  Du  Mlrii,,    Foésies   popiilaires   latines    antérietives  au  XII  siede, 
Paris,  Brockhaus,  1843,  pag.  208. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  7 

nuova  vita  sociale,  passava  insieme  la  memoria  dei 
fatti  e  quella  dei  canti  cLe  vi  alludevano:  salvo  il 
caso,  come  vedremo  della  canzone  messinese,  che 
qualche  cronista  ne  lasciasse  ricordo  per  iscritto, 
0  per  cagioni  da  ricercare  e  apprezzare  volta  per 
volta,  il  suono  se  ne  spandesse  anche  di  fuori.  Che 
invero,  e  questa  può  dirsi  seconda  causa  del  suo  solle- 
cito disperdersi,  questa  poesia  era  di  sua  natura  fatta 
per  esser  cantata,  né  altrimenti  si  propagava,  che 
per  tradizione  orale:  cosicché  è  caso  veramente  for- 
tuito se  sino  al  dì  d'oggi  ne  sia  giunto  qualche  raro 
frammento. 

Non  però  si  potrebbe  dire,  a  giudicare  da  quanto 
ne  sopravvanza,  che  la  poesia  popolare  di  quella  pri- 
sca età  non  toccasse  tutti  gli  argomenti  da'  quali 
si  manifesta  la  vita  operosa  di  una  cittadinanza.  Ce- 
lebrava, in  fatti,  gli  avvenimenti  prosperi  od  infe- 
lici del  Comune:  del  Comune,  che  tenendo  luogo 
della  Nazione,  era  quasi  a  dire  1'  unica  patria  del- 
l'uomo  italiano.  Ben  qualche  volta  univansi  insieme 
i  Comuni  contermini  ad  imprese  di  generale  van- 
taggio: testimone  la  Lega  lombarda.  Però  di  questo 
gran  fatto  del  duodecimo  secolo  ci  restano  atti  di- 
plomatici e  sincrone  narrazioni,  anche  poetiche,  C) 
ma  neanche  un  verso  che  esprima  i  fermi  propositi 
dei  collegati,  i  lamenti  delle  città  arse  e  seminate  di 
sale,  la  gioja  della  vittoria,  l'entusiasmo  del  trionfo.  (") 


(1)  Vedi,  ad  es.,  le  Gesta  di  Federigo  I  in  Italia,  descritte  in  versi 
latini  da  Anonimo  contemporaneo,  a  cura  di  E.  Monaci,  Roma,  Forzani,  1887. 

(2)  È  noto  come  fra  i  componimenti  degli  apocrifi  poeti  del  sec.  XII 
trovisi  anche  una  Canzone  di  petrarchesca  architettura,  attribuita  ad  Al- 
dobrandino da  Siena  sulla  battaglia  di  Legnano.  Cito  questa  Canzone,  che 
ad  ogni  modo  non  sarebbe  popolare,  per  sempre  più  affermare  la  mia  in- 
credulità sulle  Carte  di  Arborea,  e  loro  annessi  e  connessi.  Del  resto,  se 
un  canto  volgare  e  popolare  nel  1176  sarebbe  cosa  difficile  ad  ammettersi, 
una  poesia  letteraria  con  dei  versi  come  :  Inchinati  a'  suoi  pie  gl'Itali  figli, 


8  LA  POE^ilA  POPOLARE   ITALIANA. 

Forse  troppo  ormai  logoro  era  il  latino  plebeo,  troppo 
rude  ancora  il  nascente  volgare.  O 

Restano,  invece,  tuttora  alcuni  frammenti  di 
canti  politici  municipali.  Dei  quali  il  più  antico 
esempio  si  avrebbe  in  quattro  versi,  frammento  forse 
di  canto  pili  lungo,  coi  quali  si  celebrerebbe  la  vit- 
toria dei  Bellunesi  in  Casteldardo: 

De  Casteldard  havi  li  nostri  bona  pait: 
I  lo  getà  tutto  intio  lo  fiumo  il'Ard; 
E  sex  cavaler  de  Tarvis  li  pini  fer 
Con  sé  duse  li  nostri  cavaler.  (^) 

L'impresa  risale  al  1193;  ma  noi  non  sapremmo  li- 
berarci dal  dubbio  che  i  versi  non  siano  veramente 


ed  espressioni  come  a  difesa  di  dritti  universale,  non  altro  può  essere  die 
una  goffa  falsificazione. 

(1)  È  degno  di  osservazione  un  fatto  accaduto  nel  1101,  e  narrato  da 

Landolfo  il  giovane:  Ansclmus  de  Bnis  mediolanensis  archiepiscopus 

permonuit  prielectcon  jucentnlem  mediolanensem  crucis  suscipere  et  cantilenam 
de  Ultreja,  Ultreja  cantare.  Atque  ad  vocem  huius  prudentis  viri plures  viri 
cujuslibet  conditionis  per  civitates  Longobu rdorum ,  villas  et  castella  eoriim, 
cruces  susceperunt,  et  eamdem  cantilenam  de  LTtrcja,  Ultreja  cantaverunt 
(lier.  Ital.  Script,  voi.  V,  pag.  472).  A  che  lingua  appartiene  Ultreja  ?  Se- 
condo il  Saint-Maec  {Ahrérjé  chronolog.  3.  2,  890)  questo  sarebbe  il  principio 
d'una  canzone  francese  che  comincerebbe:  O altre  ja  sont  allées  les  Franar. 
Ignoro  se  quest'asserzione  sia  esatta:  certo  è  die  Outrée  era  il  grido  dei 
crociati:  Dex,  guani  crieront  outrée,  Sire,  aidiés  à  pélerin:  come  si  legge 
nel  Laio  della  Dama  di  Fayel  (Le  Rorx  de  Linct,  Chants  historiq.frant;., 
Paris.  1847,  voi.  I,  10.5).  E  nella  canzone  di  Carlomagno:  Utrée,  Diex  a'ie, 
crìent  e  hall  e  cler.  Ei/a  sarebbe  perciò  una  interjezioue,  come  nella  Can- 
zone francese:  Al  enti-ade  del  tens  cler,  Eya,  l'ir  joje  cnmmencar,  Eya,  Et 
pir  jaloux  irritar,  Eija  eie.  Comunque  sia,  gridossi  Ultreja  o  Ultr'eja  ai 
tempi  delle  crociate,  né  solo  in  Italia;  e  nel  secolo  XIII  ripetevasi  ancora 
questo  motto,  quando  il  muoversi  aveva  per  fine  qualche  atto  devoto:  onde 
nel  Canto  dei  romei  di  Santiago:  Fiat  amen,  alleluja,  dicamus  solemniter 
E  Ultreja  e  sus  eja  decantamus  Jugiter  (Mila  y  fontanals,  Obserracion 
sabre  la  poes.  popul.,  Barcelona,  1853,  pag.  29).  Ad  ogni  modo,  i  Lombardi 
del  secolo  XII  gridando  Ultreja  ultreja,  adoperavano  una  voce  francese 
pretta,  o  tolta  dal  francese  e  latinizzata. 

(2)  Vedi  L.  MoEASDì,  Origine  della  lingua  italiana.  Città  di  Castello, 
Lapi,  1891,  pag.  71  ;  E.  Monaci,  Crestomaz.  ital.  dei  primi  sec,  ibid.,  1889, 
pag.  15;  C.  Salvioni,  in  Raccolta  nuziale  Cian-Sappa,  Bergamo,  Arti  gr.a- 
fiehe,  1894,  pag.  235;  V.  Ciìescini,  in  Misceli,  lingnist.,  in  onore  di  G.Ascoli, 
Torino,  Loescher,  1901,  pag.  539. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  9 

coevi  al  fatto,  ma,  composti  più  tardi,  ricordino  una 
gloria  municipale  più  antica. 

Al  1235  0  al  1250  si  vorrebbero  far  risalire  al- 
cuni versi  in  dialetto  marchigiano,  riguardanti  un 
Pier  da  Medicina,  che  non  è  ben  certo  sia  quello 
ricordato  da  Dante,  o  altro: 

Ser  Petiu  da  Medicina 
9'a  fatu  una  fucina  {')  ecc. 

e  sembra  fosser  cantati  popolarmente  in  vituperio 
di  lui.  Così  anche  quando  nel  1240  frate  Elia,  ge- 
nerale dei  francescani,  staccatosi  dal  papa  aderì  al- 
l'imperatore, "  rustici  et  pueri  et  puellae  —  come 
narra  Salimbene  —  quotiens  obviabant  fratribus  mi- 
noribus  per  vias  in  Tuscia,  ut  centies  audivi,  can- 
tabant:  Hor  atforna  fra t' Elia  che  pres'ha  mala  via, 
et  tristabantur  boni  fratres  et  irascibuntur  vere 
usque  ad  mortem,  dum  talia  audiebant  „.  O 

Ma  del  1255  avremmo  in  Siena  un  cospicuo  esem- 
pio di  poesia  popolare,  commessa  a  un  cantastorie  dai 
reggitori  stessi  del  Comune  per  celebrare  la  presa 
fatta  del  castello  di  Torniella  sui  suoi  feudatarj.  La 
ballata  non  ci  resta;  ma  ci  rimangono  due  ordini 
di  pagamento  di  cento  soldi  di  danari  a  Guidaloste 
joculatori  de  Fistoria  prò  uno  pario  pannorum,  quia 
fecit  cantionem  de  capi  ione  Tornielle,  o  come  è  pur 
detto  anche  più  specificatamente,  quandam  Ballatani 
de  Torniella.  O  Non  abbiamo  dati  sufficienti  per  dire 


(1)  Vedi  G.  Pace,  in  Rif.  Ahruzzese,  agosto-settembre  1900,  e  G.  Beo- 
GXOLIGO,  in  Bibliot.  Scuole  Hai.,  IX,  145. 

(-)  C/ironica,  Parma,  Fiaccadori,  18.57,  pag.  411.  Vedi  anche  Affò,  ì'ila 
di  fi:  Elia,  Parma,  Carmignani,  178.3.  pag.  90. 

Pj  Comunicazione  amichevole  del  cav.  A,  Lisini  direttore  dell'Arch. 
di  Stato  in  Siena.  —  Un  Guidaloste  è  ricordato  da  Guittone  (Lettere,  Honia, 
1745,  pag.  .32)  come  tale  che  sol  valer  si  dice  in  giostrar  motti,  meglio  cioè 


10  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIA2CA. 

popolari  i  canti  dell'Anonimo  Genovese  sulla  vitto- 
ria di  Lajazzo  (1294),  su  quella  di  Scurzola  (1298), 
sulla  venuta  di  Carlo  di  Yalois  (1300),  sulla  discesa 
di  Arrigo  VII  (1311),  (^)  sebbene  difficilmente  possa 
credersi  che  l'ignoto  poeta  li  componesse  per  sé  me- 
desimo soltanto,  e  non  per  farne  partecipi  i  suoi 
concittadini,  de'  quali  celebrava  come  meglio  sapeva 
i  fasti,  e  significava  gli  affetti.  Tutto  quanto  il  can- 
zoniere dell'Anonimo,  qualunque  sia  l'argomento  ch'e' 
tratta,  lia  la  stessa  indole;  ed  il  componimento  sotto 
forma  di  prece,  di  leggenda,  di  inno,  di  ammaestra- 
mento, par  sempre  destinato  a  diffondersi  fra  quanti 
parlavano  il  medesimo  idioma  dell'autore.  Ma  po- 
polare non  solo,  bensì  anche  corsa  per  tutta  Italia,  è 
quella  ballata  sull'assedio  di  Messina  del  1282,  della 
quale  il  Villani  riporta  forse  soltanto  un  brano  : 

Dell,   com'egli  è  gran  pietate 
Delle  donne  di  Messina, 
Yeggendole  scapigliate 
Portando  pietre  e  calcina! 
Dio  gli  dea  briga  e  travaglio 
Chi  Messina  vuol  guastare.  (^) 

Altre  volte  sono  motti  di  vituperazione  fra  città 
e  città,  e  rappresaglie  cantate,  o  satire  cittadinesche 
e  di  fazioni.  Un  frammento  di  una  canzone  che  corse 
per  Firenze  quando  uno  dei  Chiaramontesi  —  di  quelli, 
come  dice  Dante^  che  arrossan  per  io  stajo  —  essendo 
camerlingo  del  sale,  alterò  a  suo  vantaggio  la  mi- 
sura, ci  è   conservato   da   un   antico   commentatore 


.idoperando  la  lingua   che  la  lancia:  e  potrebb'esser  questo  giullare,  che 
l'aretino  avrebbe  ti'ovato  nella  corte  del  Conte  da  Romena. 

(1)  Bime  genovesi  della  fine  del  secolo  XIII  e  del  principio  del  XIV, 
edite  ed  illustrate  da  N.  Lagomaggiore,  neW Archivio  glottologico  italiano, 
voi.  II,  pagg.  221,  223,  2-13,  2f,2. 

(2)  Giovanni  Villani,  Cronica,  1.  VII,  cap.  G8. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  11 

della  Commedia:  "  et  fessi  di  ciò  in  lor  vergogna  una 
canzoncella  che  dicea:  Egli  é  tratta  una  doga  del  sale 
Et  gli  uffici  so)i  tutti  saldati  ecc.  „  (\ì  L'anno  non  è 
riferito,  ina  debb'essere  il  1295  o  giù  di  li.  Non  men 
numerosi  e  frequenti  dovevano  essere  i  canti,  scam- 
biatisi fra  Comune  e  Comune,  specialmente  quando 
venivano  ad  armato  conflitto.  L'esempio  che  Danto 
adduce  del  parlar  pisano  : 

Bene  aiulonno  li  fanti 
De  Fioransa  per  Pisa  (^) 

ha  tutta  l'apparenza  di  appartenere  a  una  poesia 
cantata.  Il  cronista  Simon  della  Tosa,  all'anno  1309 
narra  che  "  di  maggio  cavalcaro  i  fiorentini  a  oste 
fino  ad  Arezzo  ;  e  da  questo  si  cominciò  la  guerra 
tra'  Volterrani  e  quelli  di  San  Gimignano:  e  allora 
si  fece  la  canzone: 

I  nostri  cavalcarono  „.  (^) 

E  quando  nel  1313  i  Pisani  giunsero  alle  porte  di 
Lucca,  vi  rizzarono  due  antenne,  alle  quali  appesero 
due  specchi,  scrivendovi  sotto,  come  ce  n'ha  lasciato 
ricordo  il  cronista  padovano  Albertino  Mussato: 

Or  ti  specchia,  Bontur  Dati 
Ch'e'  Lucchesi  hai  consigliati  : 
Lo  die  di  San  Fridiano 
Alle  porte  di  Lucca  fu  '1  Pisano.  [*) 

E  perciò,  dice  un  cronista  Pisano,  "  e  perciò  disseno 
li  Lucchesi: 


(1)  Comm.  d'Anonimo  fiorentino,  edito  da  P.  Fanfaiii,  Bologna,  Roma- 
gnoli, 1868,  li,  207. 

{-)  De   Vulg.  Eloq.,  I,  13. 

(3)  Cronichette  antiche,  Firenze,  Manni,  1733. 

[*)  De  gestis  iteti,  post,  Henric.  Caes.,  Ili,  3,  in  Script.  Rerum  Italie. 
voi.  X,  pag.  595. 


12  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Ahi  Bontuio  Dati,  che  al  cor  ci  hai  feiuto 
Poi  che  ai  Pisani  mostrasti  lo  specchio; 
Ma  elli  ce  l'han  posto  sì  presso, 
Che  inai  nel  mondo  tu  non  fosse  vennto  !  „ 

alludendo  a  un  motto  di  Bonturo,  "  clie  voleva  che 
Pisa  si  speccliiasse  in  Asciano,  lo  quale  Asciano 
tennero  li  Lucchesi  vintiotto  anni  „.  (^) 

Grande  avvenimento  nella  vita  dei  Comuni  era 
la  elezione  del  Vescovo  e  del  Potestà,  e  le  costoro 
solenni  entrate  in  ufficio  dovevano  porgere  occa- 
sione a  canti  festivi  e  laudatori,  dei  quali  il  tipo 
potrebbe  esser  la  strofetta,  che  i  Reggiani  canta- 
vano nel  1243  a  gloria  del  podestà  fiorentino  Lam- 
bertesco  de'  Lamberteschi  : 

Venuto  è  '1  lione 
De  terra  fiorentina. 
Per  tenire  raxone 
In  la  cita  regina.  (^) 

Tutti  questi  sono  come  gridi,  che  escono  sponta- 
nei dal  petto  dei  volghi,  sono  esclamazioni  univoche, 
delle  quali  non  si  sarebbe,  neanche  quando  nacquero, 
potuto  riutracciarc  e  fermare  chi  ne  fu  primo  autore. 
Interi  o  frammentar],  sono  tipici  esempj  della  forma 
lirica,  se  così  possiamo  chiamarla,  della  poesia  del 
popolo.  Invece,  questi  altri  componimenti,  cui  ora 
accenneremo,  per  l'indole  loro,  per  l'ampiezza  mag- 
giore, per  le  fonti  a  cui  risalgono,  pel  nome  dell'au- 
tore, che  spesso  conservano,  si  potrebbero  dire  poesia 
popolareggiante  ;  scritta,  ripetuta,  cantata  pei  vol- 
ghi, e  da  questi  appresa  volentieri,  fatta  propria  e 


(1)  Saiìdo,  Cron.  pisana,  in  ArcJi.  Storico,  voL  VI,  p.  lì.  pagg.  96-98. 

(-;  FiiA  Salimiìenk,  Chronic.  cìt.,  pag.  .'i8.  Vedi  questi  e  altri  frammenti 
eli  canti  storici  nel  Caiìhucc-i.  Cantilene  e  Baìlate,  Strambotti  e  Madrigali 
ite' sec.  XIII  e  XIV,  Pisa,  Nistri,  1871,  pag.  18  e  segg. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  13 

tramandata  altrui.  Di  siffatto  genere  una  categoria 
assai  ricca  dovette  essere  quella  dei  canti  popolari 
ispirati  dal  sentimento  religioso,  potendovisi  com- 
prendere le  parafrasi  in  rima  del  Vecchio  e  del 
Nuovo  Testamento,  le  vite  e  leggende  dei  Santi  e 
delle  Sante,  e  le  descrizioni  dei  mondi  eterni  della 
pena  e  del  premio.  Un  esempio  dei  canti  sui  fatti 
della  Storia  sacra  l'abbiamo  nel  componimento  del 
dugentista  milanese  Pietro  da  Barsegapè,  nel  quale, 
narrato  della  creazione  del  mondo,  accennato  alla 
caduta  ed  ai  peccati  mortali,  viene  poi  a  riassumere 
i  fatti  principali  della  vita  di  Cristo.  (^)  Maggiore  è 
il  numero  delle  narrazioni  agiografiche  in  forma  poe- 
tica, appropriata  alla  intelligenza  dei  volghi.  Il  rac- 
conto in  prosa  era  destinato  alla  lettura,  onde  il 
nome  di  legemìcL-ma  ben  si  comprende  come  quei  ma- 
ravigliosi  fatti  preferissero  la  veste  poetica;  oltreché 
per  tal  modo  assai  meglio  s'imprimevano  nella  me- 
moria SI  degli  ascoltanti  e  si  dei  volgari  dicitori. 
Abbiamo  narrazioni  della  Passione  in  veronese,  (^)  e 
vite  di  Santi  e  Sante:  in  dialetto  genovese,  dell'Ano- 
nimo: O  in  milanese,  di  Bonvesin  da  Riva:  (^)  in  ve- 
ronese, (^)  e  in  quasi  tutti  i  dialetti  italiani.  Né  meno 
rilevanti  e  copiose  dovevano  essere  le  cantilene  che 
dicevano  dello  stato  delle  anime  dopo  la  morte,  delle 
quali  il  più  notevol  esempio  potrebbero  essere  i  poe- 


(I)  BioNDELLi,  SlucìJ  linguistici,  Milano,  Bernardoni,  1850,  pagg.  Wi 
e  segg.  ;  Salvioni,  in  Zeitschv.  f.  Roman,  l'itilolog.,  XV;  E.  Keller,  Die 
Reimpredigt,  d.  P.  da  B.,  Fiauenfeld,  1901. 

{-)  Ad  es.  la  Passione  e  Resurrezione  in  veronese,  poemetto  del  se- 
colo XIII,  pubbl.  da  L.  Biadene,  in  Studi  di  filolog.  romanza,  I,  215. 

(3)  De  Beata  Margherita,  pag.  164;  De  Sancta  Kathelina  virgine,  pa- 
gina 171  ecc. 

(■1)  Vulgare  de  Passione  S.  Job,  Vita  6.  Alexii,  pubbl.  dal  Bekker,  nei 
Berichte...  der  K.  Acad.  d.  Wissensch.  zu  Berlin,  1851,  pag.  209,  217  ecc. 

(5)  Zur  Katharinenìegende,  von  Prof.  A.  Mussafla,  Wien,  Gerold's. 
Sohn,  1874. 


14  LA   POESIA  POPOLARE    ITALIANA. 

metti  di  Giacomino  da  Verona.  C)  E  di  queste  non  è 
da  dubitare  che  non  fossero  rapsodie  composte  pel 
popolo,  affin  di  distoglierlo  dalle  fobìe  e  diti  de  bufoni, 
raccontate  dai  giullari  profani,  come  lo  Sciavo  da 
Bar  e  Osmundo  da  Vero)ia,  (^)  e  rivolgerne  invece  la 
mente  a  devoti  affetti  :  e  se  non  fosse  altro,  baste- 
rebbe por  mente  alle  solite  formole  colle  quali  il 
poeta  sembra  chiamare  a  cerchio  intorno  a  sé  gli  ar- 
tieri e  le  donnicciuole.  (^) 

A  queste  poesie  spitituali  si  aggiungano  le  Espo- 
sizioni e  parafrasi  delle  preghiere,  e  della  liturgia 
in  generale.  Tali  sarebbero  il  Decalogo  e  la  Salve- 
regina  che  leggonsi  in  una  pergamena  bresciana  del 
1253,  (*)  alcune  preghiere  bolognesi  dei  Servi  di  Ma- 
ria del  1281,  O  ed  in  generale  le  Laudi  dei  Disci- 
plinati, che  uscite  primamente  dalle  labbra  dei  fla- 
gellanti nell'empito  del  fervore,  (")  ad  imitazione  di 
quelle  onde  Francesco  d'Assisi  (^)  faceva  risonare 


(1)  A.  MussAFiA.  Monumenti  anti'-Jii  di  dialetti  italiani,  Vienna,  Ge- 
rold,  1864. 

(2)  Op.  cit.,  pagg.  4G,  8-2. 

(3)  Il  sig.  Arboit  lia  pubblicato,  in  Appenriiee  alle  Villoile  friulane 
da  lui  raccolte,  alcuni  canti  saci-i  in  dialetto,  che  diremmo  di  remota  an- 
ticliità  e  trasmessi  di  generazione  in  generazione,  dove  si  trovano  queste 
stesse  formole  proprie  agli  antichi  cantastorie.  Ad  esempio,  nella  Canzone 
dei  Ke  Magi  (pag.  :J04)  : 

Staimi  attenz.  pizzui  e  granz. 
Femmini.  umings,  e  bon  infanz  ecc.: 

(■i)  G.  Rosa,  Dialetti,  costumi  e  tradizioni  delle  Prorincie  di  Bergamo 
e  Brescia,  Bergamo,  Pagnoncelli.  18.58,  pag.  197, 

(5)  Bagola  dei  Se>-vi  della  lieina  gloriosa  ordinata  e  fatta  in  Bologna 
nell'anno  1281,  pubbl.  da  G.  Ferrare,  Livorno,  Vigo.  1875,  pag.  ;^1. 

C^)  Laudes  divinas  ad  honorem  Dei  et  h.  Virginis  eomponehant ,  dum, 
se  verberando,  incedebant:  Fra  Salimbene,  op.  cit.,  pag.  239. 

(■)  E  da  notarsi  che  il  linguaggio  primamente  adoper.ato  dal  .Santo  fu 
il  francese:  onde  gli  autori  della  sua  Vita:  Laudes  domino  cantahat  lingua 
francigena.  —  E  anche:  Infra  se  ipsum  bidliens  frequenter  e.rterius  gallicuiii 
erwnpebat  in  jubiUtm;  e  un  Inno  in  sua  lode:  Seminudo  corpore  Laudes 
decantai  gallice.  Ma  veramente,  secondo  i  Tre  Socj,  elemosgnam  gallice 
])ostulabat,  lihentcr   lingua    gallica    loijuebatur,  licei  ea  recte   loqui  nesciret. 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  15 

la  Marca  d'Ancona  cantando  e  laudando  magnifica- 
mente Iddio,  (^)  corsero,  accompagnando  il  diffondersi 
delle  divote  Compagnie,  per  tntta  la  Penisola,  e  la 
forma  tipica  se  ne  trova  nel  sacro  canzoniere  di 
Jacopone  da  Todi. 

Affini  alle  Canzoni  di  sacro  argomento  sono 
quelle  che  diremmo  morali,  cioè  contenenti  mas- 
sime per  l'onesta  condotta  della  vita  e  per  l'urbano 
costume.  A  tale  specie  appartengono  le  rime  di 
uno  fra  i  piìi  antichi  versificatori  italiani,  anzi  del 
primo  fra  i  conosciuti  a  tutt'oggi,  Girardo  Pateg, 
del  quale  piìi  volte  fa  menzione  fra  Salimbene  nella 
sua  Cronaca,  dicendolo  del  Monferrato,  benché  al- 
trove lo  dica  da  Cremona,  e  il  cui  fiorire  potrebbe 
assegnarsi  alla  prima  metà  del  secolo  deeimoterzo. 
Rimanevano  di  lui  soltanto  alcuni  frammenti;  (^)  ma 
altri  in  maggior  quantità  ne  bau  poi  pubblicati  il 
valente  professore  Mussafia,  (^)  e  più  tardi  Adolfo 
Tobler  (*)  e  Francesco  Nevati  :  (!')  e  al  caso  nostro 
appunto  fa  l'Esposizione  o,  come  dice  l'autore,  lo 
Spianamento  dei  proverbi  di  Salomone,  ridotti  in  in- 
culti versi  volgari,  e  senza  pretesa  di  uscir  dalle 
forme  del  nativo  vernacolo.  Ugual  carattere,  mi- 
sto di  religioso  e  di  morale,  di  preghiere  e  di  am- 


Poi  adoperò  il  suo  linguaggio  nativo:  uè  sapremmo  ammotteie  con  taluno 
che  il  cosi  detto  Cantico  del  Sole  non  fosse  originariamente  italiano,  sebbene 
ci  sia  giunto  in  più  lezioni  diverse.  Certo,  quando  predicavadovette  adoperare 
il  linguaggio  volgare,  qualunque  fosse  la  vaghezza  e  la  pratica  della  lingua 
donde  traeva  il  nome:  sappiamo  in  fatti  che  nel  1226  predicò  a  Montefeltro 
e  scelse  a  testo  questi  due  versetti,  probabilmente  di  una  poesia  popolare: 
Tanto  è  il  bene  ch'io  aspetto,  Chogni  pena  m'è  diletto  {Fioretti  di  S.  Frane: 
Delle  s.  s.  stimai.  I). 

(i)  Fioretti  di  S.  Frane.,  Vita  di  Frate  Egidio,  cap.  I. 

(2)  Salimbene,  Chron.  pagg.  21,  54,  196,238,  329,  .384,  394,  402,  408,  414. 

(3)  'H&WJahrhuch  f.  roman.  liiterat.,  voi.  VIII,  20.5. 
(«)  Das  Spruchgedicht  des  G.  P.,  Berlin.  1886. 

(5)  In  Bendic.  Istit.  Lomh.,  serie  2»,  XXIX  (1896). 


16  LA   POESIA   POPOLARE   ITALL\^;A. 

inaestramenti,  ha  il  rozzo  Libro  di  Uguccione  da 
Lodi,  C)  repertorio  giullaresco  dello  stesso  tempo, 
destinato  anch'esso  alla  recitazione  plateale. 

Altre  poesie,  dicemmo,  racchiudono  sentenze  e 
norme  di  condotta  civile  e  riflessioni  opportune  al 
ben  vivere.  E  qui  pur  ritroviamo  il  Pateg,  che,  a 
testimonianza  di  Salimbene,  il  quale  ne  arreca  de' 
brani,  scrisse  un  poemetto  intitolato  de'  Tedj,  de 
Taediis,  ove  annovera  tutte  le  cose  nojose  e  dispia- 
cevoli, e  del  quale  rimase  durevole  memoria  anche 
ne'  tempi  appresso.  (")  Potrebbe  dirsi  un  galateo  di 
buone  usanze,  misto  di  satirico  sale,  nel  quale  in- 
segnando ciò  che  è  da  fuggire,  si  inculca  ciò  che  è 
bene  si  faccia.  Allo  stesso  fine,  ma  con  diretto  am- 
maestramento delle  gentili  usanze,  mira  il  compo- 
nimento di  Bonvesino  sulle  cinquanta  cortesie  da 
usarsi  a  tavola  {De  qiiiiìquaginfa  curiaUfatibìi.^  ad 
ììiensaììi),  (^)  manuale  di  buone  creanze  con  partico- 
lare appropriazione  ai  conviti. 

Il  quarto  gruppo,  che  chiameremmo  delle  Poesie 
facete,  ha  origine  dai  fatti  della  vita  comune,  anzi, 
potrebbe  dirsi,  dal   vivere   grossolano  e  materiale 


(1)  A.  ToBi.ER,  Dcls  Buch  cles  Uguron  da  Laodìio,  Berlin,  If^S-t. 

(2;  Vedilo  ora,  non  senza  lacune,  nella  citata  memoria  ili  F.  XovAxr. 
A  metà  circa  del  sec.  XIV,  Antonio  Pucci  imitò  o  rifece  il  poemetto  del 
l'ateg,  in  un  componimento  in  terzine.  In  un  codice  lio  trovato  il  com- 
ponimento del  Pucci  col  titoto  Le  j\'oie  del  Falecchia,  quasi  come  il  nome 
ilei  primo  autore  fosse  rimasto  indivisìbile  dall'argomento,  e  il  professor 
Fi.AM.  Pellegrini  lo  riscontrò  in  altro  cod.  bolognese  (v.  Gioni.  Stoi: 
Leti,  [tal.,  XVI,  342).  Fra  Salimbene,  ad  siiiìiliti(dinem  l'aleceli,  compose 
anch'esso,  mentre  nel  1259  stava  a  Borgo  S.  Donnino,  (lUum  libriim  Te- 
dìoruiH.  Un  poemetto  del  sec.  XV,  contro  le  donne,  il  Maiigamllo,  ha  poi 
tutto  un  capitolo,  il  duodecimo,  le  cui  terzine  cominciano  A  noja  ni' è,  come 
quelle  del  Pucci. 

P)  Nelle  cit.  Bericht,  1851,  pag.  85.  e  efr.  L.  Biadene,  Cortesie  da  ta- 
vola in  latino  e  in  prorenzale, l'isn.MAriottì,  \Sdiì.\c(\i  del  Bonvesin  anche 
il  Contrasto  dei  mesi,  pubbl.  prima  dal  Lidforss,  poi  con  copiose  illustra- 
zioni da  L.  Biadene,  in  Studi  filolog.  rom.,  IX,  1. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALLVXA.  17 

de'  tempi.  Si  direbbero  destinate  soprattutto  ad  ec- 
citare le  risa  dei  buoni  borghesi  nei  giorni  di  festa 
e  di  ritrovo,  e  rallegrare  le  sollazzevoli  mense  e  le 
danze  delle  vie  e  delle  piazze.  Sono  contrasti  di  fi- 
glie desiderose  di  marito  colle  loro  madri,  lamenti 
di  innamorati  o  di  donne  mal  maritate,  dialoghi  ap- 
passionati di  amanti,  battaglie  di  comari,  celebra- 
zioni del  vino  e  simili.  Alcuni  di  questi  temi  comuni 
furono  poi  riprosi  e  raffinati  dalla  poesia  eulta,  come 
vedremo  procedendo.  Di  questo  genere  avevamo 
esempi  non  pochi  nella  bassa  latinità  ;  (^)  ne  man- 
cavamo per  l'età  del  nascente  volgare;  ma  Giosuè 
Carducci  ne  rinvenne  per  primo  notevoli  frammenti 
in  certi  libri  di  notaj  bolognesi  dello  scorcio  del  du- 
gento.  (")  Fra  mezzo  a  transunti  di  memoriali  appar- 
tenenti alla  Camera  degli  atti,  sia  per  alleviar  le  noje 
del  lavoro,  sia  per  utilmente  adoperare  una  carta 
rimasta  in  bianco,  si  trovano  da'  notaj  trascritte  al- 
cune Canzoni  in  volgar  bolognese,  che  possono  es- 
ser citate  come  modelli  del  genere  a  cui  alludiamo. 
Sono  cinque  in  tutto  ;  e  in  quattro  di  esse  almeno 
mal  si  apporrebbe  chi  non  sapesse  ravvisare  l'an- 
damento e  r  indole  della  Poesia  popolare ,  anzi 
plebea. 

La  prima,  tratta  da  un  libro  del  1282,  è  triviale 
contesa  fi'a  due  cognate,  che  si  rimproverano  vicen- 


(1)  Vedi  ad  es.  Du  Meril,  Foésies  j^opid.  latin,  da  moijen  age,  Paris, 
Franck,  1847,  pag.  202-206,  222-237;  Carmina  Burana.  Stuttgart,  1847;  Co- 
vati,  Carmina  medii  aevi.  Firenze,  libr.  Dante,  1883. 

(-)  Vedi  gli  Atti  e  memorie  della  lì.  Dejnitazione  Storica  Romagnola , 
voi.  IV  (1864)  e  i  testi  nella  citata  raccolta  di  Cantilene  e  Ballate,  e,  me- 
glio, negli  Studi  intorno  ad  alcune  rime  dei  secoli  XIII  e  XIV  ritrovate 
nei  Memoriali  dell'Archivio  notarile  di  Bologna,  Imola,  Galeati,  1876.  Dai 
memoriali  notarili  bolognesi  altre  liime  dei  sec.  XIII  e  XIV  trasse  Fl.  Pel- 
legrini, Bologna,  Fava  e  Garagnani,  1891,  e  Tre  Ballate  d'amore,  per  Nozze 
Fraccaroli-Bezznnico,  Verona,  1895;  fra  esse  ve  ne  ha  taluna,  come  ad  es. 
la  canzone  della  Rosa  tempestina,  che  ha  evidente  andatura  popolaresca. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  2 


18  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

devolmente  le  loro  pecche,  anzi  portano  l'accusa  in 
pubblico  colla  consueta  formola  : 

Oi  bona  gente,  oclite  et  entenditi  ; 

ma  poi  finiscono  coll'accordarsi  insieme  a  danno  dei 
loro  mariti,  promettendosi  scambievole  ajnto  nei  loro 
sozzi  amori  : 

Cognata  mia,  90  clied  eo  t'ho  detto 
Io  sa^o  ben  ched  ell'è  mal  a  dire  ; 
Ma  menarotti  a  casa  un  fancelletto, 
E  lui  daremo  ben  manzare  e  bere  ; 
E  tu  recherai  del  to  vin  bruschetto, 
Eo  recarò  del  meo  plen  un  barile. 
Quando  gli  avren  dà'  ben  manzare  e  bere, 
(J'ascuna  fa^a  la  soa  cavalcata. 

È  la  seconda  un'avvinazzata  Canzone  di  due  co- 
mari, che  si  animano  l'una  coU'altra  a  bere  : 

Pur  bei  del  vin,  coniadre,  —  e  no  lo  temperare  ; 

e  mangiano  e  cioncano  così  smodatamente,  che  il  vino 
entrato  per  bocca,  esce  così  in  abbondanza  da  un'al- 
tra parte,  che  un  albero  ne  è  svelto  dalle  radici: 

Comen^-a  de  pissare   —  la  bona  bevedrise  ; 
Ella  descalza  l'albore  —  tra  qui  e  le  radise. 
Disse  l'altra  comare:   —  Per  Deo,  quel  buso  stagna, 
Che  fatt'ài  tal  lavagna   —   podressi  navegare.  —  (*) 


(1)  Cfr.  uii  clic  di  simile  in  Gianandrea,  Cantipopul.  marchig.,  pag.  172, 
n.  23.  Consimile  ì;  pure  una  Canzone  provenzale  (D.  Arbaud,  C/iants  popid. 
(le  la  Froi\,l,  180)  di  tres  coumairetos  che  vanno  insieme  alla  taverna  :  una  di 
esse,  dopo  manj,'iato  a  crepapelle,  n'en  lancilo  qitatv'ou  cinq  pete,  e  ne  casca 
in  chiesa  la  statua  del  Santo,  anzi  peggio  sarebbe  successo:  Moiin  Dioii  ! 
s'aqueou  temps  duravo  Uestarie  pa'n  auhre  drech,  Lantiri  li  goiidet,  Mestarle 
2>a  'n  auhre  drech.  Ubriacature  di  comari  trovansi  anche  in  una  Canzone  po- 
Ijolare  di  Guascogna:  v.  Cenac-Moncaut,  Liltérat.  popul.  de  la  Gascogne, 
Paris,  Dentu,  1868,  p.  484.  Cfr.  anche  una  poesia  popolare  gallega,  in  Ro- 
mania, VI,  53. 


LA   POESLV   POPOLARE   ITALIAXA.  19 

La  terza  è  un  Dialogo,  come  tanti  altri  se  ne 
trovano  nella  poesia  popolare  di  ogni  tempo  e  di 
ogni  nazione,  (^)  tra  nna  figlia  che  vuol  marito  e  una 
madre  che  non  vuol  darglielo.  L'nltima  poi,  è  ben 
definita  dall'editore  per  "  una  di  quelle  volate  aeree 
del  sentimento,  cosi  comuni  nella  poesia  popolare ,,;('") 
e  così  breve  com'è,  anzi  evidentemente  incompiuta, 
non  parrà  superfluo  riportarla  qui  per  intero  : 

Fuor  de  la  bella  caiba 
Fuge  lo  lusignolo. 

Piange  lo  fantino  —  poi  che  non  trova 
Lo  so  osilino  —   ne  la  gaiba  nova  ; 
E  dice  cum  dolo:  —  Chi  gli   avvi  l'asolo? 
E  dice  cum  dolo  :  —  Chi  gli  aviì  l'usolo  ? 

En  un  buschetto  —  se  mise  ad  andare, 
Sentì  l'ozletto  —  si  ào\(^e  cantare: 
01  bel  lusignolo  —  torna  nel  mio  brolo  ; 
Oi  bel  lusingnolo  —  torna  nel  mio  brolo. 


(1)  Confr.  colla  XXIV  delle  Canzoni  a  Ballo:  Madre  tuia,  dammi  ma- 
rito; Figlia  mia,  dimmi  perchè  ecc.;  e  colla  Canzonetta:  Madre,  che  2>ensi 
tu  fare  Che  marito  non  midai  ecc.;  in  Carducci,  Cantilene  cit.,  pag.  .336.  11 
tema  è  tuttavia  popolare  :  nel  fase.  64  della  Baccolta  di  canzonette  'edita  dal 
Salani  (1S791  vedasi  la  Canzonetta  brillante  tra  madre  e  figlia:  Mamma 
mia,  state  a  sentire,  ecc.  Questo  soggetto  è  stato  ampiamente  trattato, 
dopo  notevoli  accenni  di  V.  Rossi  in  Giorn.  Star.  Lett.  Ital.,  IX,  289,  e  di 
A.  Saviotti,  ibid.,  XIV,  249,  XIX,  4."2,  da  E.  Eenier,  Appunti  sul  Con- 
trasto fra  la  madre  e  la  figliuola  bramosa  di  marito,  nella  Miscellanea  nu- 
ziale Sossi-Teiss,  Bergamo,  Ist.  Ital.,  1S97. 

(2;  Si  potrebbe  paragonare  quest'antico  canto  popolare  bolognese  con 
lino  modernamente  raccolto  nell'isola  di  Milo,  e  cos\  di  greco  volgare  tra- 
dotto dal  Tommaseo:  Un  uccellino  aoei'o  nella  gabbia,  dolce  lo  careggiaco 
E  lo  nutrivo  di  zucchero,  di  muschio  l'abbeveravo.  In  quel  che  l'uc<€llino  stava 
per  gorgheggiare  Così  da  sé  mi  scappò,  ed  il  suo  affetto  si  spense.  Piglio  i 
monti  correndo,  e  le  montagne  chiedendo.  Le  fonti  e  tutti  gli  alberi  istante- 
mente pregando.  —  Ditemi,  o  fo.iti,  se  e'  bevve  dell'acqua  vostra,  E  voi,  alberi 
fruttifeii,  se  rimase  nella  vostr' ombrai  —  Jeri  uccelli  passarono  parecchi 
in  compagnia  E  tra  quegli  uccelli  era  un  uccello  afflitto,  Colle  sue  aline  chi- 
nate giù  giti  basso.  —  Vieni,  uccellino  mio,  meco,  deh,  vieni  meco,  Ch'io  faccict 
una  gabbia  d'oro,  un  aureo  recinto,  Ch'io  ci  ponga  l'amor  nostro,  che  l'ab- 
biamo sicuro.  Vedi  C.  popol.  dell'isola  di  Milo,  pubbl.  da  E.  Teza,  Pisa,  Ni- 
stri,  1877,  pag.  14. 


20  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAXA. 

E  tcinto  più  volentieri  abbiamo  riferita  questa  Can- 
zonetta, in  quanto  ci  offre  occasione  a  raffrontarla 
con  altra  francese  del  secolo  XV,  o  almeno  conte- 
nuta in  un  codice  di  quell'età: 

J'ay  bien  nourry  sept  ans  ung  joly  gay 

En  une  gabiolle, 

Et  quant  ce  vint  au  premier  jour  de  may 

Mon  joly  gay  s'en  vole. 
11  s'en  vola  dessus  un  pin, 

A  dit  mal  de  sa  danfve  (?), 

—  Reviens,  leviens,  mon  joly  gay, 
Dedans  ta  gabiolle. 

D'or  et  d'argenfc  la  te  feray 
Dedans  comme  dehors  — . 

—  Ja,  par  ma  foy,  n'y  entreray, 
De  cest  an  ne  de  l'autre  — . 

Le  gay  vola  aux  bois  tout  droit; 
Il  feict  bien  sa  droiture; 
Ne  retourner  ne  doit  par  droit  ; 
Francbise  est  sa  nature.  (') 

La  rassomiglianza  fra  le  due  canzoni,  avvertita  già 
anche  da  Gaston  Paris,  (")  è  semi^licemente  fortuita, 


(1)  G.  Parts,  C/nnisoiis  dii  XV  siì'cle,  Paris,  Didot,  1S75,  pag.  29,  Vedi 
anclie  una  canzone  slava  di  lamento  sulla  fuga  deiruccellino,  in  U.  Chiu- 
BiXA,  Canti  del  popolo  slavo  tradotti,  Firenze,  Cellini,  1898,  \,  192.  Si  pos- 
sono inoltre  confrontare  queste  antiche  forme  di  un  tema  assai  ditfuso 
con  un  canto  della  montagna  luccliese: 

....Quando  fumo  compiti  i  sett'a' 
Bell'uecelliu  riprese  la  vola... 

E  ne  andiede  di  là  dal  mar. 
Di  là  dal  mar,  dalla  marina. 

Torna,  torna,  quel  bell'uccellino 
Torna,  torna,  vieni  in  gabbiola... 

Ti  farò  fare  una  gabbina  d'o' 
Tanto  di  dentro,  elio  tanto  di  fuora. 

Ti  farò  fare  una  gabbina  d'argen' 
Tanto  di  fuora,  che  tanto  di  drente. 

Vedi  G.  Giannini,  C.  pop.  della  tiiont.  lucchese,  p.  222.  Cfr.   uno  stornello 
lucchese  in  Niehi,  C.  p.  lucchesi,  n.  9.5. 

(2)  Nella  Ji'jiiiania,  voi.  l,  pag.  117. 


LA   POESLV   POPOLARE   ITALIANA.  21 

ovvero  l'iina  deriva  dall'altra  ?  Noi  opineremmo  che 
la  versione  italiana  fosse  anteriore,  non  solamente 
avuto  considerazione  ai  manoscritti,  che  però  sarebbe 
criterio  insufficiente;  ma  fondandoci  piuttosto  su 
quel  gahioìle,  che  anche  l'editore  osserva  esser  forma 
italiana,  In  tal  caso  converrebbe  supporre  che  uno 
dei  Cantores  francigeìianim,  che  sulla  fine  del  secolo 
decimoterzo  cantavano  in  plateis  Communis  i  lai  ed 
i  romanzi  di  Francia,  riportasse  seco  oltr'alpi  la  can- 
zonetta bolognese,  e  tradottala  in  francese,  ne  per- 
petuasse la  memoria  in  patria.  Tuttavia  potrebbe 
darsi  un'altra  spiegazione,  mettendo  a  raffronto  la 
canzone  provenzale  dell' Auceou  en  gabiolo.C)  Un 
amatore  regala  alla  sua  dama  un  usignolo  ;  ma  dopo 
sett'anni  l'uccello  fugge  : 


•co^ 


La  damo  li  coiiri'  k  l'apres 
Coum'  uno  fremo  fouelo  : 

—  Anest',  arresto,  roussignou, 
Retouern'  en  gabiolo. 

Te  farai  mangear  de  pan  blanc, 
Te  darai  de  moun  bouaro  — . 

—  N'  en  vouere  gis  de  toun  pan  blanc, 
Et  ni  mai  de  toun  bouuro  ; 

lou  mangearai  d'berbo  de  camp, 

De  la  pas  caussigado. 
lou  beurai  d'aiguo  doou  roucas. 

De  la  pas  trebourado. 
lou  cantarai  à  moun  plesir 

Coumo  mes  camarados. 
Ame  mai  estr'  auceou  de  camp 

Qu'  auceou  de  gabiolo, 
Vola  ! 
Qu'  auceou  de  gabiolo.  — 

I  tre  canti  sono  molto  simili,  e  gahiola  è  anche  in 


0)  D.  Aebaud,  op.  cit.,  I,  153. 


22  LA  POESIA  POPOLARE    ITALI.V^'A. 

un  canto  monferrino:  (^)  ma  resta  difficile  il  decidere 
se  la  versione  provenzale  sia  primitiva,  e  abbia 
raggiato  da  un  lato  in  Francia  dall'altro  in  Italia: 
0  se  la  poesia,  nata  fra  noi,  sia  passata  poi  nelle 
altre  dne  contrade  di  nnova  latinità.  La  prima  ipo- 
tesi sembrerebbe  confortarsi  di  altri  casi  consimili; 
tuttavia  dopo  l'affermazione  del  Paris  che  il  gahioììe 
del  canto  francese  è  forma  italiana,  converrebbe 
sapere  se  il  gahioìo  del  canto  provenzale  sia  forma 
indigena  o  no. 

Questa  canzonetta  ci  apre  la  via  a  discorrere 
di  un  quinto  gruppo,  che  chiameremo  dei  Lai  o  La- 
menti, posti  in  bocca  di  amanti  abbandonati  o  traditi, 
de'  quali  potrebbe  offrirci  antico  esempio  quello  della 
donna  padovana  per  la  lontananza  del  marito,  forse 
crociato.  (^)  Fu  dal  Brunacci  rinvenuto  in  una  perga- 
mena che  porta  la  sottoscrizione  notarile  del  1277, 
e  nella  sua  rozzezza  è  componimento  di  nota  melan- 
conicamente  soave;  ma  qual  sarebbe  la  crociata,  alla 
quale  potrebbesi  riferire?  Non  certo  quella  del  109G, 
che  si  risalirebbe  troppo  indietro,  quando  ancora  il 
volgare  padovano  non  poteva  avere  le  forme  che  ci 
presenta  in  questa  poesia.  Non  impossibile  sarebbe 
assegnarle  la  data  del  1147  o  del  1189,  perchè  in 
tale  età,  sebbene  ciò  sembri  difficile,  un  saggio  di 
poesia  volgare  non  sarebbe  interamente  da  riget- 
tarsi ;  ma  nulla  vieterebbe  riferiida  al  1218,  anno 
della  crociata  di  Giov.  di  Brienne.  Tuttavia,  con  mag- 
gior probabilità,  potrebbe  appropriarsi  al  1204,  l'anno 
della  presa  di  Costantinopoli,  essendo  questa  la  cro- 


(1)  Vedi  Ferraro.  C.  p.  monferr.,  n.  88;  KioRA,  C.  p.  del  Piemonle, 
n.  G3. 

(-)  Carducci,  op.  cìt.,  pag.  22;  o  vocìi  su  di  esso  L.  Lazzaeini  in 
Propugnatore,  N.  S.  I  (1888),  862  e  F.  Novati,  in  Giorn.  LigHst.,X\l  (1889). 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALLA.XA.  23 

ciata  alla  quale  i  Veneti  presero  maggior  parte 
sotto  la  condotta  del  Dandolo.  Né  farebbe  ostacolo 
a  tal  supposto  che  la  crociata  effettivamente  si  fosse 
fermata  a  Bisanzio,  avendo  essa  avuto  da  principio 
di  mira  non  già  la  fondazione  dell'  impero  latino,  ma 
la  conquista  dell'Egitto  per  la  liberazione  di  Terra 
Santa  dai  Saraceni. 

Pili  del  letterario  ha  invece  l'altro  affettuoso 
Lamento  d'altra  donna  per  l'amante  partito  per  la 
crociata  (quella  al  certo  di  Federigo  II),  che,  forse 
impropriamente,  va  sotto  il  nome  di  Rinaldo  d'A- 
quino, (^)  poeta  di  tutt'altro  stile  nelle  sue  rime  di 
certa  paternità.  Egli  è  notevole,  intanto,  che  nel- 
l'ultima strofa  l'amante  si  volga  a  un  ignoto  poeta: 

Però  ti  prego,  Dolcetto, 
Che  sai  la  pena  mia, 
Che  me  'n  facci  un  sonetto 
E  mandilo  in  Soria. 

Sarebb'egli  questo  Dolcetto  l'autore  stesso  della  pie- 
tosa canzonetta  ?  A  ogni  modo,  qui  non  abbiamo  la 
rozzezza  del  Lamento  padovano,  fatto  per  consimile 
occasione  ;  e  posti  l'uno  a  confronto  dell'altro,  e  am- 
messe le  date  da  noi  supposte,  si  direbbe  che  a  poco 
a  poco  la  forma  indigena  e  popolare  della  antica 
volgar  poesia  si  andasse,  ne'  suoi  temi  pili  favoriti, 
avvicinando  a  sempre  maggior  perfezione  ;  come  è 
pur  tuttavia  certissimo  che  qui  non  ritroviamo  il 
solito  formulario  della  poesia  cortigiana  e  delle 
imitazioni  dal  provenzale. 

Ordito  letterario  sopra  una  primitiva  trama  po- 
polare ci  offre  pure,  se  mal  non  vediamo,  il  Lamento 


(1)  Vedi  la  poesia  di  Rinaldo,  in  Rime  antiche  volgari  secondo  la  lezione 
del  Cod.  Vaticano  3793,  Bologna,  Romagnoli,  1876,  I,  pag.  90. 


24  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIAN\\. 

della  Lisabetta  di  Messina,  accennato  dal  Boccaccio, 
come  cantato  a'  dì  suoi,  (^)  in  fine  alla  novella  dei 
casi  di  quella  amante  infelice,  e  che  ci  è  porto  per 
intero  da  un  codice  laurenziano.  (")  La  forma  stessa 
della  strofa  ci  sembra  indicare  un  raffazzonamento 
di  penna  più  colta:  e  certo  è  che  il  Lamento,  smoz- 
zicato dei  sei  primi  versi,  allungato  di  altri  quattro 
in  fondo,  e  alterato  nella  struttura  strofica  e  nella 
misura  de'  versi,  durava  tuttavia  nel  1533  quando 
si  poneva  a  stampa  la  Raccolta  delle  Canzoni  a 
Ballo  fiorentine.  {^) 

Venendo  adesso  alle  poesie  d'amore,  diremo  che 
se  fosse  fuori  d'ogni  controversia  l'autenticità  dei 
Diurnali  di  Matteo  Spinello  da  Giovenazzo,  contro 
i  quali  invece  sonosi  arrecati  argomenti  di  non  lieve 
peso,  assai  ci  gioverebbe  un  passo  di  quelli,  già  molte 
A^olte  citato,  per  assicurarci  che  fino  dalla  metà  dèi 
dugento  esisteva  quella  forma  capitale  della  poesia 
del  popolo,  che  è  lo  Strambotto,  e  che  sin  d'allora 


(1)  Giornata  IV,  nov.  5  :  "  Ma  poi  a  certo  tempo,  divenuto  (il  suo  di- 
savventurato amore)  cosa  manifesta  a  molti,  fu  alcuno  che  compuose  quella 
canzone  la  quale  ancora  oggi  si  canta,  cioè:  Qual  esxo  fu  lo  mal  criàiiano 
che  mi  furò  la  yrasta  „. 

(-)  stampato  la  prima  volta  dal  Fanfani  nel  Decameron,  ediz.  Le  Mou- 
nier, 1857, 1,  349  :  e  con  raffronti  di  varie  lezioni,  dal  Carducci,  op.  cit.,  p.  48. 
Kon  mi  trovo  però  d'accordo  col  Carducci  nel  tenere  al  secondo  verso  per 
miglior  lezione  il  vocabolo  grasca,  dacché  in  siciliano  dicesi  grasia  e  non 
grasca:  Alofru  di  Missina  si'  vinuto,  Ti  tegnu'nta'na  rosta  piantattc  (Vigo, 
Baco,  ampliss.  di  C.  pop.  Sicil.,  n.  1629)  ;  0  grasta  eli  yalofaru  galanti  (Id., 
n.  1971)  ecc.;  e  anche  nei  dialetti  meridionali:  'rasta:  v.  Imbriani,  Cani, 
popolari  delle  prov.  meridion.  I,  140,  320;  lì,  154,  212  ecc.  Altri  ms.  però  re- 
cano: resta,  testa  (il  toscano  testo  per  vaso  da  fiori)  e  gresta,  che  in  siciliano 
vale  coccio:  e  parrebbero  lezioni  da  preferirsi,  perchè  le  parole  che  cor- 
rispondono in  rima  nel  4"  e  5"  v.  sono  podestà  e  festa.  Una  miova  edizione 
del  Lamento  diede  E.  Ai.visi  nello  Canzonette  antiche,  Firenze,  libr.  Dante. 
1884,  p.  21  ;  e  il  sig.  T.  Cannizzako  l'ha  ora  riprodotto  novamente,  Catania, 
tip.  Tribunali,  1903,  nel  suo  scritto  :  Il  Lamento  di  Lisabetta  da  Messina  e  la 
leggenda  del  vaso  di  basilico,  pel  quale  mi  riferisco  a  ciò  che  ne  scrissi 
nella  I{ass.  Bibliog.  d.  Lettera t.  Ital.,  XI,  124. 

(3)  Vedilo  al  n.  CXIV, 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALLIXA.  25 

Re  Manfredi  sotto  le  finestre  delle  belle  di  Barletta 
ne  cantava,  al  modo  stesso  che  nei  secoli  successivi 
i  rustici  amanti  della  Sicilia  o  di  Toscana.  Lo  Be. 
direbbe  il  cronista,  (^)  spisso  la  notte  asceva  per  Bar- 
letta cantando  Stramhuotti  et  canzune  chella  state,  pi- 
gliando lo  frisco,  et  co  isso  levano  dui  musici  siciliani 
che  erano  gran  rommanzcdiiri.  (^)  Volendo  dunque  pro- 
cedere con  ogni  cautela,  lasceremo  da  parte  non  senza 
rincrescimento,  questa  testimonianza  tanto  utile  al- 
l'assunto nostro.  Vero  è  che  possiamo  addurne  altro 
di  pari  antichità. 

Parla  l'Anonimo  genovese,  già  addietro  ricor- 
dato, della  morte  dell'uomo  ricco  vissuto  in  zogui  e 
convij  e  iugorar,  fra  homi  de  corte  e  sonaor  Con  si- 


(1)  La  edizione  rlol  Del  Re  fatta  sull'altra  del  Duca  di  Luynes  por- 
rebbe il  fatto  sotto  la  data  del  1258  (Cronisti  e  Scrittori  sincroni  napole- 
tani editi  ed  inediti,  Napoli;  Stamperia  dell'Iride,  1860,  voi.  II,  pag.  640); 
quella  del  Miuieri-Riccio  sotto  la  data  del  1263  (Id.  pag.  731}.  Il  medesimo 
erudito  napoletano,  C.  Minieri-Riccio  nel  suo  libro  /  notamenti  di  M.  S. 
difesi  ed  iUustrati,  Napoli,  Metitiero,  1870.  pag.  1.55,  a  difendere  l'autenti- 
cità anche  di  questo  passo,  riporta  un  brano  di  Salimbene,  ove  si  parla 
di  Manfredi  Maletta,  zio  di  Manfredi  re,  chiamandolo  optimus  et  perfectus 
in  cantionihus  inveniendis  et  cantilenis  excogitandis,  et  in  sonandis  instrii- 
mentis  non  ereditar  habere  parem  in  mundo:  ma  nel  cantionibus  non  tro- 
viamo proprio  gli  Strambotti,  e  Vinveniendis  ci  rammenta  piuttosto  i  tro- 
vatori e  la  poesia  cortigiana. 

(-)  Nella  Raccolta  del  Vigo  fn.  5153)  si  registra  come  antico  ed  au- 
tentico questo  Canto  allusivo  a  Manfredi  : 

Giria  'ntornu  lu  jornu  e  la  notti 
E  duci  duci  cci  cogghiu  la  mota, 
E  duci  duci  cantannu  strammotti 
Come  lu  risignolu  di  la  rrosa  ecc. 


E  al  n.  127-t  : 


'Facciti,  bella  mia,  donna  riali, 
Senti  la  vuci  di  lu  rre  Manfredi  ecc. 


Sono  interamente  d'accordo  col  Nigea,  op.  cit.,  pag.  xxvi,  n.,  nel  rico- 
noscervi canti  di  età  posteriore,  ispirati  dalla  Cronaca  dello  Spinelli.  Av- 
vertasi che  il  primo  passo  citato,  nella  raccolta  di  S.  Salomone-Maeino. 
Leggende  2>opoì.  siciliane  in  poesia,  Palermo,  Pedone,  1880,  pag.  9,  fa  parte 
d'un  componimento  su  la  Bigina  de  li  fati,  sul  quale  l'editore  stesso  osserva 
che  la  forma  troppo  elegante  e  talora  ricercata  della  poesia  fa  dubitare 
della  sua  origine  popolare. 


26  LA  POESIA  POPOLARE  ITALW.NA. 

voreli  e  tanbor,  e  poi  lo  vede  giunto  all'estremo  della 
vita  : 

Or  son  andai  li  lor  tanbuti, 

Li  sivoveli  e  ]i  franti; 

Li  strumenti  e  iugorai  tnti 

Alantor  son  faiti  muti. 

Tuta  la  soa  compagnia 

Vego  star  monto  strenua, 

Sì  che  in  cexia  ni  in  via 

Non  è  alcun  chi  guari  ria, 

Ni  vego  in  quelo  scoto 

Usar  solazo  ni  stramboto.  (') 

Ove  mi  par  chiaro  che  la  voce  sfrconboto,  pretta 
maniata  sorella  dello  sfranihot  piemontese,  dello 
Mrambottu  siciliano  e  del  toscano  sfraììibotfo,  non 
debba  recarsi  al  senso  deWestn'bot  provenzale,  del 
francese  edrabot  o  dell' esfranibof e  castigliano,  O  ma 
voglia  designare,  assai  opportunamente,  in  luogo 
ove  si  moralizza  sulla  caducità  delle  gioie  mondane, 
la  forma  più  ingenua  della  poetica  espressione  di 
affetto  alla  donna.  Altro  esempio  assai  antico  sa- 
rebbe quello  che  leggesi  nel  Miracolo  di  Nostra 
Donna  d'uno  che  rinnegò  Cristo,  se  col  Palermo  po- 
tessimo ammettere  che  la  Sacra  Rappresentazione 
di  tal  nome  abbia  a  riferirsi  al  secolo  XIV,  quando 
invece  per  noi  è  del  secolo  successivo.  Ivi  è  detto: 
Mangiato  eli' egli  anno,  cantino  qualche  Strambotto,  (^) 
al  modo  stesso  come  altrove  :  Dica  così,  cantando 
come  i  Fispetti  :  {*)  e  il  Pulci  nel  Morgante  :  Ove  sono 
ora  i  bcdli  e  i  gran  conviti.  Ove  sono  ora  i  romanzi  e 
i  rispetti  ?  (^)  Ma  ormai  nel  secolo  decimoquinto.  Io 


(1)  Piig.  231,  2;ì2. 

{-)  NlGBA,    Op.    Cit.,  p.    XII. 

(3)  Palermo,  Illustraz.  elei  CotUc.  l'alat.,  voL  n,  pag.  355. 

{*)  Id.  ibid.,  pag.  346. 

(5)  Cant.  XIX,  23, 


LA   POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  27 

Strambotto  siciliano  era  stato  trapiantato,  e  fioriva 
rigoglioso  in  Firenze,  col  proprio  nome  o  con  quello 
di  Rispetto  :  così  equivalente  al  nativo,  che  in  fronte 
a  una  Laude  di  Francesco  d'Albizzo  è  detto  :  Can- 
tasi come  gli  Strambotti  o  vero  lìispetti.  (^) 

Il  prof.  Carducci  trasse  fuori  da  un  codice  ma- 
gliabecliiano  e  stampò  O  alcuni  componimenti  eli' ei 
giudica  antichi  esempj  dello  Strambotto  siciliano. 
Il  codice  veramente  è  dei  primi  del  400,  o  al  più 
degli  ultimi  tempi  del  secolo  antecedente  ;  ma  non 
ci  opporremmo  a  chi  giudicasse  maggiore  l'anti- 
chità di  questi  versi,  ai  quali  riconosciamo  l'indole 
nonché  la  forma  e  il  linguaggio  degli  Strambotti  iso- 
lani. Gioverà  qui  addurne  qualche  saggio.  Il  primo 
di  essi,  al  quale,  secondo  il  Carducci,  mancherebbero 
quattro  versi  dopo  il  primo  tetrastico,  e  altri  due 
dopo  il  verso  decimo,  suona  cosi: 

Sonno  fu  che  me  ruppe,  donna  )nia, 
En  quelle  parte  dov'io  m'arrivai. 
Un  angioletta  in  sonno  me  dicia, 
Che  per  troppo  dormir  perduta  m'  ài  : 

—  0  dormiglioso,  forte  addormentato 

Già  non  sia  amante  per  donna  acquistare. 

Stanotte  mi  levai,  vennit'  a  lato, 

Credendomi  con  teco  solazare: 

Tu  eri  tanto  forte  adormentato, 

Che  già  mai  non  te  potè'  esvegliare.  — 

—  Gentil  Madonna,  non  me  biasimate, 
Che  la  vostra  venuta  non  sapìa: 

Il  sonno  traditor  che  m'ha  ingannato  (^) 
A  già  gabbato  piì;  saggio  de  mia. 


(1)  Laudi  Spirituali  di  Feo  Belcari,  di  Lorenzo  de'Medici  ecc.  Firenze, 
Molini,  1861,  pag.  55. 

(-)  Cantilene  e  Ball.,  cit.  p.  56;  S.  Feekaiìi,  Bihliot.  della  Letferat. 
popol.  ital.,  Firenze,  Polverini,  1882,  I,  69. 

(3)  Questo  verso  quasi  identico   si  trova  in  un  Canto  di  Montella  ; 


28  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

Non  me  lamento  tanto  de  lo  sonno, 
Quanto  faccio  de  voi,  patrona  mia. 
Che  nei  venisti  a  l'alba  dello  giorno 
Quando  lo  dolce  sonno  me  tenia. 
Sonno  fu  che  me  ruppe,  donna  mia.  (') 

Questo  motivo  poetico  non  più  riferito  ad  ima 
visita  amorosa  di  donna  ad  uomo,  ma  invece  d'uomo 
a  donna,  vive  tuttora  in  parecchi  canti  popolari.  Ne 
sia  d'esempio  questo  di  Caballino: 

'Na  donna  mnie  prumise  alle  cinc'ore, 

Jeu,  lu  meschinu,  mme  nde  'scii  a  dnrmire; 
Quandu  mme  risvegliai  fora  le  nove, 
Pigghiu  li  panni  e  mme  'ncignu  a  bestire  : 
Nme  nd'  'au  'rretu  la  porta  alla  miu  amore; 

—  Aprimi,  beddha  mmia,  'ogghiu  trasire.  — 
Iddha  mme  disse  :  —  A  ba  uegghi  cicore  ! 
Ci  ama  donna  nu'  bascia  a  durmire  : 

Mme  prumettisti  ca  'jeni  a  cinc'ore, 

Mo'  su'  li  noe,  e  nu'  te  pozzu  aprire  —  (^) 

E  quest'altro  di  Carini  in  Sicilia: 

La  bella  dissi:  —  Veni  a  li  dui  uri  — ; 
Ed  eu,  l'amaru  !,  mi  jivi  a  curcari  ; 
Sona  lu  roggiu  e  sonanu  tri  uri, 
Satu  'ntra  un  lampu  e  dugnu  lu  signali  : 

—  Grapimi,  bedda,  ca  sunnu  tri  uri.  — 

—  Né  quattru,  nò  cincu  ti  pozzu  grapiri  ; 
Cci  curpa  lu  tò  sonnu  tradituri  ; 

Cu'  porta  amuri  nun  diva  durmiri  — .  (^) 

Più  strette  somiglianze  con  canti  tuttora  viventi 


Lo  suonno  traritore  inmi  'sgannavo  :  ImbiìIANI,  XII  Canti  pì(iHÌgUanesi,ì^a.- 
poli,  Detken,  1877,  p.  135. 

(1)  Oj>.  cit.,  p  .  56. 

(")  Imbeiant,  C.  popol.  pvov.  vieiid., voi.  Il,  427-8:  clr.  Molinako  dei. 
Chiaro,  C.  p.  di  Terra  d'Otranto,  in  yiich.  trad.  popoL,  III,  270,  li.  10  ecc. 

(3)  Vigo,  n.  1042. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  29 

ha  quest'altro  componimento,  che  nel  codice  maglia- 
bechiano  porta  scritto  in  fronte  NapoUtana:{^) 

Gimene  al  letto  della  donna  mia, 
Stesi  la  mano  e  toccaile  lo  lato. 
Ella  si  risvegliò,  ch'ella  domila: 

—  Onde  ci  entrasti,  o  cane  rinnegato  ?  — 

—  Entraici  dalla  porta,  o  vita  mia; 
Priegoti  eli' io  ti  sia  raccomandato  — . 

—  Or  poi  che  ci  se'  entrato,  fatto  sia; 
Spogliati  ignudo,  e  corquamiti  a  lato.  — 

Poi  ch'avem  fatto  tutto  nostro  gioco, 
Tolsi  li  panni  e  voleami  vestire  : 
Ed  ella  disse  :  —  Stacci  un  altro  poco, 
Che  non  sai  i  giorni  che  ci  puoi  transire  — . 

A  Spinoso  nel  napoletano  si  canta  a  questo  modo: 

Vurria  pi'  'sta  funestra  mo'  saglire, 
r  cummi  nei  saglivi  l'ata  sera. 
Lu  coro  tuppè  tuppè  mmi  facia, 
Sindennini  chiamare,  gioja  cara  : 

—  Amniore,  ca  si'  ahbascio,  saglitinni. 
Ma  ca  j'è  giuto  a  lu  rusario  mamma.  — 
Piglio  la  scala  e  mmi  n'anchiano  sopa, 
Truvai  la  bella  ca  facìa  lu  lietto; 
Cuscini  r'  oro  e  cotri  ri  villuto, 

Cu'  'na  cammisa  'janca  'mpusimata. 
r  mmi  chiecai  e  li  tuccai  li  menno, 
Jessa  si  rivultò  tutta  scantosa. 

—  0  caro  ammanto,  addìi'  nni  si'  trasuto?  — 

—  Pi'  li  porte  r'  ammore,  gioja  mmia.   — 


(1)  Carducci,  Cantiì.  e  Ball.,  cit,  p.  57.  Che  La  serie  di  canzonette  con- 
tenute nel  cod.  e  riprodotte  dal  Carducci,  ojd.  cit.,  pagr.  .52  e  seg.,  sia  di 
origine  meridionale,  oltre  l'intitolazione,  anche  da  altri  argomenti  si  de- 
sume. In  una  è  detto:  Ai  le  bellezze  della  Camiola,  ed  è  costei  la  celebre 
messinese,  della  quale  novella  anche  il  Bandello,  e  che  è  pur  ricordata  in 
un  canto  siculo;  0  ÒKÌdlia,  quanta  t'aju  addisiatu,  Cchih  di  la  Camiola  di 
Missina  (Vico,  n.^SoG).  Altrove  è  detto  :  Brunetta  ch'ai  le  ruose  alle  ma- 
scelle; e  mascella  per  guancia  è  siciliano  pretto  :  A  li  masciddi  aviti  li  ruseddi,- 
dice  quasi  identicamente  un  canto  di  Minèo  (Id.,  n.  1525);  e  altrove:  E ssi 
masciddi  dui  grasti  sciuruti  (Id.,  n.  55)  ;  Quanto  su'  beddi  chissi  to  masciddi 
(Id.  n.  C.3)  ;  Tetti  dui  puma  rrussi  a  li  masciddi  (Id.,  n.  100);  Havi  dui  puma 
russi  pri  mascidda  (Id.,  n.  197),  e  così  in  moltissimi  altri  luoghi. 


30  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

E  jedda  mmi  vasavi  e  nimi  licivi: 

—  Spogliati,  ammante,  e  corcati  cu'  minia.  — 
0  coi  iiuttata,  o  cci  mittata  bella! 
Quanni  niii  1' ham' a  fare 'n 'ata  vota!(') 

Nel  Veneto  invece  dice  così: 

Stanote,  auema  mia,  so  vegnù  al  leto, 
Ti  gèri,  sangue  mip,  che  ti  dormivi. 
Ti  gèri  descoverta '1  bianco  peto; 
Un  anzolo  del  ciel  ti  me  parevi. 
E  mi  te  meto  una  manina  al  peto, 
E  ti  me  disi:  —  0  siestu  benedeto!   — 
Cussi  pian  pian  te  meto  una  ma'  al  core, 
E  ti  me  disi  :  —  Xestu  lo  mio  Amore? 
Ma  da  che  parte  mai  xestu  vegnìo? 

—  Su  per  i  to  balconi,  anema  mia,  — 

—  E  xestu  sì  venudo  e  così  sia: 
Spogite,  caro,  e  fame  compagnia, 
E  fame  compagnia  s'in' a  set' ore, 
Sin  a  lo  canto  de  la  rondinela.  — 
La  rondinela  scemenza  a  cantare: 
Leva  su,  belo,  che  zorno  voi  fare. 
0  rondinela,  falsa  traditora. 

Via,  lassime  dormire  un'altra  ora, 

Che  ti  m'à  roto '1  sono  delicato: 

0  che  dolce  dormir  da  iiiamorato!  (-) 

Questo  stesso  canto,  e  ciò  è  assai  notevole  per  co- 
noscere le  trasformazioni  della  versificazione  popo- 
lare, si  è  raccolto  in  brevi  strofette,  e  così  si  ode 
cantare  tutto  giorno,  o  per  dir  meglio,  tutta  notte. 
Eccone  una  lezione  monferrina: 


(1)  Imbriani,  voi.  IL  pag.  89.  Cfr.  Mazzatim'i,  C.  pop.  umhri,  ii.  .301, 
e   Maesiliani,  C.  pop.  di  liolsenu,  ecc.,  ii.  41,  e  00. 

{-)  Dal  Medico,  Canti  del  popolo  veneziano,  pag.  41.  Con  qualche  v.n- 
riante  è  pure  del  Bernoni,  Canti  popol.  veneziani,  puntata  VII,  n.  18:  in 
IVE,  C.pop.  istriani,  pag.  15,  e  in  Villanis,  C.  pop.  dalmati,  pag.  20.  Il  primo 
tetrastico,  in  Pasqualioo,  Canti  popol.  vicentini,  n.  31  ;  Giananueea,  C. popol. 
marchigiani,  p,  7G,  e  Tommaseo,  C.  popol.  toscani,  p.  149. 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIAKA.  31 

Asmi  andà  ca  cantèe 

Sutta  ra  cà  dra  me  siura: 

Ar'ho  truaja  an  letto, 

Oa  ra  drumiva  siila. 
A  r'iio  ciamà  ina  vota, 

Ra  bela  min  sentiva, 

E  ra  secunda  vota  : 

—  Oiniè,  ca  san  tradija!  — 

—  No,  no,  eh'  an  t'  ei  tradija, 
Non  sun  qua  pir  tradite; 
Mi  a  sun  culi  giuvinettu 

Ch'  u  t'  porta  grand  amari.   — 

—  Si  t'  ei  culi  giuvinettu 
Andanua  chi  t'  ei  pasà?  — 

—  Da  quella  finestretta, 
Andanua  chi  m' liei  ansgnà.   — 

—  Si  t'  ei  culi  giovinetta, 
Anseste  an  s'culla  banca, 
Faruinnia  l'amar  ansein 

Fin  che  la  rundanin-nha  canta.  — ■ 

—  0  rundanin-nha  bela. 
Ti  t'  ei  ina  traditnra. 
T'  ei  bitaja  a  cantèe 

Ch'  u  'n  era  aiicara  1'  aia 
O  rundanin-nha  bela. 
Ti  t'  ei  ina  busarda, 
T'  ei  bitaja  a  canteo 
Ch'  u  'n  era  ancura  1'  arba!  —  (^) 

Né  altro  diremmo  essere  questo  canto  salvo  una 
varia  forma  in  dialetto  monferrino  di  altro  canto 
così  riferito  dal  Kopiscli,  (")  e  raccolto  in  Roma  : 

Me  ne  andai  a  casa,  a  casa  della  Signora, 
E  la  trovai  nel  letto  che  lei  dormiva  sola. 


(1)  Ferearo,  Canti lìopol.  inonferrini,  n.  5+,  e  altre  lezioni  in  KiGRA, 
11.  64,  e  in  G.  Pinoli,  C.  popol.  caiiaceaani,  ji.  1-1  e  una  lezione  di  Pieve 
Tesino  in  G.  Kekvo,  per  nozze  Fietta-Mendini,  1885,  p.  19;  Widter-Wolf, 
Volkslieder  aus  Venetien,  u.  2;  Gianandrea,  pag.  274;  Rondini,  C.  popol. 
marchigiani,  p.  135,  ecc. 

(2)  KOPISCH,  Agrumi,  Berlin,  Crantz,  1888,  pag.  SO. 


32  LA   POESIA   POPOLARE   ITALLVXA. 

La  presi  per  la  mano,  la  bella  non  sentiva: 

—  Sol  un  bacio  d'amore.  —  Oimè,  io  son  tradita  !  — 

—  No,  no,  non  sei  tradita  ;  che  io  son  quel  giovanotto 
Ch'io  son  quel  giovanotto,  che  a  te  vuol  tanto  bene.  — 

—  Se  sei  quel  giovanotto,  di  dove  sei  passato  ?  — 

—  Per  quella  finestrella,  che  tu  m'hai  insegnato.  — 

—  Se  sei  quel  giovanotto,  vadi  dall'altra  banda, 

E  fa  la  ninna  e  dormi,  finché  la  rondin  canta.   — 

—  0  rondinella  bella,  tu  sei  una  traditora  ! 
Tu  sei  venuta  a  cantar,  non  era  ancora  l'ora  ! 

0  rondinella  bella,  tu  sei  una  meretrice, 
Tu  m'hai  svegliato  dal  sonno  mio  felice! 
0  rondinella  bella,  tu  sei  una  gran  bugarda  ; 
Tu  sei  venuta  a  cantar,  non  era  ancora  l'alba  !  — 

Qui  facilmente,  oltre  una  lezione  qua  e  là  er- 
rata, e  clie  abbiamo  in  qualche  punto  cercato  di 
correggere,  potrebbe  al  Kopiscb  rimproverarsi  di 
aver  scritto  dei  settenarj  come  versi  di  quattordici 
sillabe.  Né  altrimenti  clie  in  settenarj  questa  Can- 
zone ci  si  presenta  innanzi  in  una  versione  toscana, 
della  quale  ci  suonano  all'orecchio  alcuni  versi  : 

Io  le  toccai  lo  petto, 
La  bella  non  sentiva: 
Le  diedi  'n  bacin  d'amore, 
Lei  disse  :  Son  tradita.... 

—  No,  che  non  sei  tradita. 
Io  son  quel  giovinetto 
Che  ti  donò  la  vita.  — 

—  Dimmi,  bel  giovinetto, 
Di  dove  sei  passato  ?  — 

—  Da  quella  finestrella, 

Bella,  che  m'hai   insegnato.  —  (') 

Ma  in  quest'altra  versione  romnna,  stampata 
dal  Mueller  (")  e  da  noi  fedelmente  riprodotta  quan- 


(1)  Vedila  intera  in    Giannini,  C.  popol.  lucchesi,  pag.  lyO,  e  in  Rac- 
colta di  Canzonette  del  Balani,  fase.  56. 

(2)  Eyeria,  Lipsia,  Flcischcr.  18J9,  p.  12.  Cfr.  Agrumi,  p.  78,  e  Mengiiini, 
C.  2'opol.  I-umani,  n.  2:31. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  33 

timque  assai  guasta,  ritorna  il  metro  endecasillabo 
della  antica  canzone  : 

Questa  ò  la  casa,  dove  stetti  da  (ier?)  sera, 

■Questa  è  la  finestiina  dov'entrai  ; 

Andetti  alla  stanza  della  mia  bella, 

La  presi  per  la  mano  e  la  svegliai. 
Ed  ella  aprì  gli  occhi  sbigottita: 

—  Ah  ladron  traditor,  do'  se'  entrato  ?  — 

—  Sono  entrato  per  questa  fìnestrina, 
L'era  aperta,  e  poi  l'ho  rinserrata. 

Braveggio  la  fortuna,  che  l'ho  tentata; 

Venghiamo  a  luogo,  o  bella,  e  cava  i  panni, 

E  spandili  sul  tetto  (letto?)  sopra  alla  casa  (cassa?)  : 

Questa  notte  per  me  duri  cent'anni! 

Dal  canto  antico  al  moderno  napoletano,  veneto,  mon- 
ferrino,  romano  o  toscano  ognuno  vede  quanto  poche 
•sieno  le  differenze  sostanziali,  delle  quali  la  più  note- 
vole è  forse  soltanto  quella  dell'imprecazione  alla 
rondinella  importuna  :  C)  imprecazione  che  ricorda 
l'allodoletta  nunzia  del  mattino,  che  svelle  Romeo 
dagli  amplessi  di  Giulietta.  (■'')  Il  rimanente  è  varia- 


ci) Il  seguente  canto  toscano  evidentemente  allude  allo  stesso  fatto, 
e  staccatosi  dal  fondo  narrativo,  si  è  esplicato  liricamente  : 

O  rondinella  che  canti  si  bene, 
Ti  levi  la  mattina  e  vai  cantando  ; 
In  aria  porti  la  tua  bella  voce. 
Che  tutti  i  tuoi  amanti  vai  svegliando. 
Amanti,  amanti,  non  dormite  pine. 
Perchè  il  troppo  dormire  assai  fa  danno. 

Questo  lo  dico  perchè  l'ho  provato: 
Chi  troppo  dorme,  rimane  ingannato. 

Questo  lo  dico,  perchè  provo  ognora  : 
Chi  troppo  dorme  ingannato  si  trova. 

Tigri,  C.  pop.  toscfir.i,  n.  502.  Cfr.  Bekxoni,  o^j.  cif.,  TV,  22. 

(-)  Atto  3",  se.  V.  Un  canto  del  Berry  ha  lo  stesso  rimprovero  alla 
lodoletta,  come  nota  il  Ratherv,  Ch.  popul.  de  l'Hai.,  pag.  27  ;estr.  dalla 
I{ev.  (les  d.  mondes,  15  marzo  '62). 

A  peine  ensemble  j'nons  trcuvions 
Qu'  l'alouett'  fit  entend'  sa  chanson. 

D'Ancoxa,  Ln  lìoesia  pop.  iful.  —  3 


34  LA   POESIA  POPOLARE   ITALIAXA. 

zioue  più  o  men  nuova  sopra  un  tema  anteriore,  (') 
conservandone  qualche  nota  fondamentale.  O 


Vilaine  alouett',  v'  là  d'  tes  tours, 
Mais'  tu  mentis  : 
Tu  nous  cliantes  le  point  <Ju  jour, 
C'est  pas  minuit. 

Cfr.  con  altra  canzone  francese,  riferita  da  Y.  Smith,  Vieilles  Chansons 
recueillies  en  Vela;i  et  en  Forez,  n.  IV  (estr.  dalla  Bomania,  VII),  e  con 
quelle  riferite  dal  Eolland,  Recueil  de  Ch.  popul.,  Paris,  1882,  IV,  43,  e 
nella  Méhcsine,  I,  286.  E  qualche  cosa  di  simile,  in  un  canto  rumeno: 
V.  E.  PicoT,  Docuiìients  pour  servir  à  l'étude  des  dialectes  roumains,  Paris, 
Maisonneuve,  p.  55.  Per  altri  raffronti,  vedi  Nigka,  p.  343. 

(1)  Sul  tema  degli  amanti,  le  cui  gioie  notturne  sono  interi'otte  dal 
canto  dell'allodola  o  dal  grido  della  scolta,  vedi  A.  Jeankoy,  Les  origines 
de  la  poesie  lijrique  ecc.,  Paris,  Hachette,  1889,  pag.  61  e  segg.  Talvolta, 
come  nota  il  Jeanroy,  il  distacco  è  prodotto  dalla  paura  del  marito  ge- 
loso, come  in  questa  canzonetta  d'addio,  tratta  da  un  memoriale  bolognese 
del  1202: 

Partite,  amore,  adeo, 
Cile  tropo  ce  se'  stato: 
Lo  maitino  è  sonato, 
Zorno  me  par  che  sia. 
Partite,  amore,  adeo, 
Che  non  fossi  trovato 
In  s\  fina  celata 
Come  nui  senio  stati. 
Or  me  basa,  odo  meo, 
Tosto  sia  l'andata 
Tenendo  la  tornata 
Come  d'innamorati, 
SI  che  per  spesso  usato 
Nostra  voglia  renovi, 
Nostro  stato  non  trovi 
La  mala  gelosia. 
Partite,  amore,  adeo, 
E  vane  tostamente, 
C'onne  tua  cossa  faggio 
Pareclata  in  presente. 

Monaci,  Crestomaz.  Hai.  dei  primi  secoli,  Città  di  Castello,  Lapi,  1883,  p.  202. 
(-)  Cfr.  con  questo  canto  di  Termini,  in  Vigo,  u.  1102: 

Figghiuzza,  ca  tu  'nsonnu  mi  vinisti, 
Bedda,  ch'a  lu  c.apizzu  t'assitasti, 
Tanti  e  tanti  carizzi  mi  facisti 
Sparti  di  li  vasuni  chi  mi  dasti. 
Tu  dimmi,  amuri  miu,  d'unni  trasisti  ? 
Li  porti  e  li  finestri  trafnrasti? 
Ora  m'arrisbigghiavi  e  ti  n'jsti  : 
Figghiuzza,  "ntra  lu  megghiu  mi  lassasti! 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  35 

Ma  sullo  Strambotto  e  siri  luogo  del  suo  nasci- 
mento, sulla  prima  sua  forma,  e  sulle  imitazioni  let- 
terarie che  se  ne  fecero,  dovremo  ritornare  fra  breve. 
Intanto  giova  aver  posto  in  sodo  che  nei  primi  se- 
coli, allato  alle  poesie  imitate  dai  modelli  dell'an- 
tichità 0  dai  recenti  esempj  degli  stranieri,  vi  ebbe 
una  maniera  tutta  popolare  ed  indigena.  Che  se  non 
tutti  i  canti  da  noi  citati  qua  addietro  potrebbero  in 
egual  modo  affermarsi  dirsi  nati  fra  il  popolo  o  dal 
popolo  fatti  proprj,  certo  è  che  tutti  debbono  il  lor 
nascimento  a  forme  di  sentire  ben  diverse  da  quelle 
cui  ispiravasi  la  poesia  letteraria  di  quell'età. 


III. 


Né  potrebbe  dirsi  che  questa  forma  piìi  ingenua 
e  spontanea  di  affetti  e  di  sentimenti  restasse  sol- 
tanto negli  inconditi  carmi  del  volgo,  e  mai  non  ne 
facesse  suo  prò  la  poesia  eulta,  riducendola  a  per- 
fezione d'arte  :  dacché  può  affermarsi  che,  sotto  un 
certo  rispetto,  la  scuola  fiorentina  cogliesse  il  fiore 
della  popolar  poesia.  Questa  scuola,  invero,  sorta 
ultima  in  un  Comune  ordinato  a  popolo,  godè  anche 
tutti  i  benefici  del  tempo  e  del  luogo.  Ammaestrata 
dagli  stessi  esempj  anteriori,  lasciò  da  parte  le  for- 
mole  trovadoriche,  logore  ormai  dal  grand'uso  che 
se  n'era  fatto  di  qua  e  di  là  dalle  Alpi,  e  quasi 
mutate  in  gergo  delle  signorili  dimore;  e  si  avviò 
animosa  sulle  orme  dei  Bolognesi,  correggendo  tut- 
tavia quel  certo  che  di  soverchiamente  dottrinale, 
che  annebbiava  le  rime  del  Guinizelli  e  dei  suoi  se- 
guaci. Ma  se  la  gaja  scienza  dell'amor  cavalleresco 


36  LA  POESIA  POPOLARE  ITALL4.NA. 

e  cortigiano  è  il  substrato  della  poesia  dei  Siciliani 
e  di  quanti  in  tutta  Italia  li  imitarono  ;  e  se  le  dot- 
trine della  Scuola  sono  intima  sostanza  della  bolo- 
gnese, il  costume  cittadinesco  e  il  cuore  nella  spon- 
taneità delle  sue  sensazioni,  danno  forma  ed  atto  ai 
prodotti  poetici  della  fiorentina.  Ben  vi  hanno  a  ciò 
notevoli  eccezioni:  perchè  Dante  nelle  sue  primissime 
rime  rammenta  i  Trovatori  e  Guittone,  (^)  come  piìi 
tardi  dettò  difficili  canzoni  di  argomento  morale  e  di 
veste  allegorica  ;  e  il  Cavalcanti  andò  anche  piìi  là 
del  Guinizelli  nella  sua  famosa  Canzone  della  ori- 
gine e  natura  d'Amore  ;  ed  egli  stesso  ed  altri,  piti 
o  men  felicemente  imitarono  alcuni  generi  partico- 
lari della  poesia  d'Oltralpe,  ad  esempio  la  Pasforetfa. 
Ma  se  è  vero  che  la  poesia  fiorentina  delle  forme 
anteriori  coglie  il  più  bel  fiore,  e  le  conclude  per- 
fezionando ciò  che  era  in  esse  di  ancor  vivo  e  vi- 
tale, non  è  men  vero  che  il  principio  sommo  che 
tutta  la  informa,  è  l'esemplare  nel  verso  quello  che 
il  core  detta  deìitro  :  sicché,  per  questo  lato,  essa 
trovasi  in  continua  ed  immediata  relazione  col  po- 
polo, come  i  poeti  antecedenti  colla  Corte  e  colla 
Scuola.  Il  sentimento  comune  espresso  nella  comune 
parola,  l'uno  e  l'altra  affinate  dal  magistero  dell'arte, 
diedero  materia  e  forma  al  nuovo  stile,  del  quale  solo 
un  piccol  cenno  aveva  dato  il  Guinizelli.  E  come  la 
plebe  in  Firenze  coll'esercizio  della  libertà  era  di- 
venuta popolo,  cosi  il  pensiero,  l'affetto,  il  senti- 
mento comune,  salendo  a  maggior  nobiltà  nella  mente 
del  poeta  artista,  divennero  capaci  ad  esser  effigiati 
ed  espressi  nel  linguaggio  del  verso. 


(1)  Vedi  nella  Vita   Nuova   della   edizione  2-i  da  me  procurata  (Pisa. 
libr.  Galileo,  1884)  la  nota  a  pag.  123. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALU.XA.  37 

Non  pochi  esempj  potrebbero  addursi  del  modo 
col  quale  i  poeti  della  scuola  fiorentina  improntano 
del  proprio  suggello  la  materia,  che  il  popolo  loro 
offre  innanzi  nella  sua  schietta  ingenuità  e  senz'or- 
namenti fìttizj.  Quando,  ad  esempio,  Lapo  Gianni, 
in  una  delle  sue  più  belle  e  men  note  poesie,  strana 
del  resto  anche  nel  metro,  a  sé  stesso  invoca  tutte 
le  perfezioni,  la  bellezza  di  Assalonne,  la  forza  di 
Sansone,  e  che  l'Arno  per  lui  corra  balsamo  fino,  e 
le  mura  di  Firenze  sieno  d'argento,  e  l'aria  tempe- 
rata egualmente  d'ogni  stagione,  e  che  migliaja  di 
donne  e  di  donzelle  gli  cantino  attorno  sera  e  mat- 
tina, entro  giardini  pieni  di  frutta  e  di  augelletti, 
rinfrescati  da  acque  correnti  e  risonanti  della  mu- 
sica di  chitarre  e  di  violini  :  in  questi  ambiziosi  ane- 
liti d'una  immaginazione  riscaldata  dalla  voluttà  dei 
sensi  troviamo  un  fondo  di  immagini,  che  non  ap- 
partengono al  poeta  in  proprio,  ma  al  poeta  di  tutti 
maggiore,  al  popolo.  In  fatti  anche  al  dì  d'oggi  il 
poeta  popolare  siciliano  così  augura  a  sé  medesimo: 

Oli  Diu,  cli'avissi  'iia  niiintagna  d'oru, 
Quattrucent'unzi  di  reunita  l'aiinu, 
Di  lu  CTiantiucu  voriia  lu  tisoru, 
E  di  la  Gran  Signuri  lu  comannu  ; 
Vorrìa  Palermu  cu  tuttu  lu  molu, 
D'ogni  mercanti  'na  l»adda  di  panna  ; 
Ogni  fratazzo  mi  dassi  la  soru, 
E  li  mugghieri  d'autro  a  me  comannu.  (') 


(1)  PiTEÉ,  S^cc'J  di  poesia  popolare,  pag.  189,  ove  si  reca  anche  ima 
vaiiante  catanese,  nonché  una  lezione  aulica  tratta  da  un  ms.  del  sec.  XVIL 
In  questa  il  verso  penult.  dice:  E  issi  nparadisu  quanmc  morti,  che  ri- 
sponde a  quello  di  Lapo  Gianni:  Poscia  do rer  entrar  nel  cielo  empirò.  Iden- 
tico augurio  si  trova  nell'antica  poesia  francese  Les  souhaits  chi  paijsan, 
pnhbl.  da  A.  Boucheeie  nella  Uei-ne  des  lang.  roman.,  Ili,  318:  et  en  lafìii 
paradis  éuisson. 


38  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

E  l'appassionata  madre  avellinese,  sospesa  sulla 
cuna  del  figliuolo  e  commossa  alle  infantili  bellezze 
di  lui,  ne  molce  il  sonno  con  questi  versi: 

Quanto  si'  bello!  Dio  te  pozza  dare 
La  forza  de  Lorlando  e  de  Sanzone, 
Li  bellizzi  che  avia  Carlo  Romano, 
La  sapienza  che  avia  Salomone;  (') 
Dudici  figli  mascoli  puozzi  fare, 
Puozzi  guarnì'  lo  Regno  ogni  pontone; 
Uno  vescovo,  'n  auto  cardinale, 
Lo  Papa  Santo  co'  hi  'mperatore;  (^) 

né  diversamente,  dalla  costa  adriatica,  esclama  la 
madre  z aratina  : 

Ti  xe  cussi  bel  !  Dio  te  possa  dare 
La  forza  de  Rolando  e  de  Sanzone, 
E  le  bellezze  di  Carlo  Romano, 
La  sapienza  del  vedo  Salomone.  (^) 

La  maniera  poetica  della  scuola  fiorentina  non 
deriva  soltanto  da  un  piìi  degno  concetto  dell'arte 
e  delle  strette  relazioni  del  bello  col  vero,  ma  è 
anche  effetto  degli  ordini  civili,  coi  quali  allora  reg- 
gevasi  Firenze,  e  delle  costumanze  che  il  viver  li- 
bero e  popolare  vi  aveva  ingenerato.   Cotesti  poeti 


(1)  Nell.a  testò  cit.  poesia  francese:  Et  Je  sonshaide  autretant  de  hoii 
seas  Et  de  niesure  e' onkes  cut  Salomones.  E  una  cabla  anonima  provenzale 
pubbl.  dallo  Stengel  nella  Jiivisla  di  Filolog.  liomama,  I,  40:  Lo  sen 
l'olgra  de  Salomo  E  de  liotlan  lo  ben  ferir,  E  l'nstre  de  sei  qne  pres  Tir 
E  la  gran  forssa  de  Samso,  E  que  sembles  Tristan  d'amia  E  Galoanìi  de 
cavalaria,  E  lo  ben  sen  de  Merli  etc. 

(■^)  Imbriani,  C.  popol.  avellinesi,  pag.  49:  cfr.  Molinari  del  Cuiaro, 
n.  42."..  Il  solo  primo  tctrastieo  in  Villanis,  XXV  Stramb.  Zarat.,  n.  21. 

(S)  ViLl.ANiS,  A'A'K  Strambotti  popol.  zaratini,  n.  24.  Nel  libro  di 
D.  SiLVAGNi,  La  Corte  e  la  società  romana  nei  sec.  XVIII  e  XIX  (Firenze, 
tip.  Gazzetta  d'Italia,  \8S2,Ì,  108)  è  riferito  un  consimile  canto  romanesco: 
Che  possa  avere  cinque  figli  maschi  E  tutti  quanti  di  casa  Colonna;  Uno 
2>apa,  l'altro  cardinale  Ed  uno  arcivescovo  di  Colonia.  Ed  uno  2)0ssa  avere 
tanta  possanza  Da  levar  la  corona  al  re  di  Pranza  E  l'altro  possa  avere 
tanto  valore  Da  levar  la  corona  all'Imperatore. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALL\XA.  39 

non  potevan  essere  né  cortigiani  né  accademici;  non 
potevano  ispirarsi  né  al  galateo  cavalleresco  né  alle 
sottili  speculazioni  delle  università,  vivendo,  come 
e'  facevano,  in  mezzo  a  quella  lieta  vita  nuova  della 
risorta  gente  latina.  La  poesia  fu  per  essi  forma  di 
gentil  costume  ed  ornamento  della  vita  civile:  e  da 
questo  spettacolo  poetico  che  gli  stava  attorno  e 
dinanzi,  il  rimatore,  vero  interpetre  del  popolo,  che 
ne  intendeva  e  ripeteva  i  versi,  traeva  ispirazioni 
al  suo  canto.  Le  Canzoni  dantesche,  sposate  alla 
dolce  musica  di  Casella,  allegravano  i  gaj  ritrovi  di 
quel  popolo,  il  quale  più  tardi  accorrerà  in  Santo 
Stefano,  come  ad  un  rito  religioso,  a  udire  Giovanni 
Boccaccio,  che  dalla  Divina  Commedia  trae  fuori 
notizie  di  storia,  dottrine  di  scienza,  norme  di  mo- 
rale, precetti  d'arte. 

Ma  le  Canzoni  e  la  Coìumexiia-  sono,  a  cosi  dire, 
le  ardue  cime  della  poetica  fiorentina  nel  secolo  XIII, 
che  però,  se  non  sempre  con  tutto  l'intelletto,  col- 
l'aifetto  almeno  e  coli' ingenua  ammirazione  riusci- 
vano a  superare  anche  quei  fornai  e  calzolai,  pe'  quali 
fu  detto  più  tardi  che  Dante  avesse  pensato  e 
scritto.  C)  E  se  fosse  autentico,  come  è  invece  apo- 
crifo ed  appositizio,  il  fatterello  narrato  dal  Sac- 
chetti, (^)  del  fabbro  che  trametteva  i  versi  danteschi 
smozzicando  ed  appiccando  di  suo,  e  dell'asinajo  che 
fra  un  verso  e  l'altro  incitava  la  bestia,  onde  il 
poeta  ebbe  a  dirgli:  cotest' arri  non  vi  misi  io,  se,  di- 
ciamo, tutto  ciò  non  si  fosse   già  narrato  prima,  e 


(1)  Gino  Rixuccini,  Invettiva  contro  a  cierti  calunniatori  di  Dante  etc. 
stampata  dal  Wesselofsky,  Il  Paradiso  degli  Alberti,  voi.  2",  p.  Il,  p.  303.  — 
F.  FlLELFO,  Due  orazioni  in  lode  dello  illustrissimo  poeta  D.  A.,  pubblio,  da 
Michele  dello  Russo,  Kapoli,  Ferrante,  1869,  pag.  26. 

(2)  Novelle,  n.  Ui,  115. 


40  LA   POESIA   POPOLARE   ITALLVKA. 

d'altri,  Q)  certo  è  che  non  potendo  intendersi  della 
Commedia,  converrebbe  supporre  che  si  trattasse 
delle  Canzoni,  ed  avremmo  in  ciò  una  prova  della 
popolarità  loro.  Se  non  che  tale  ipotesi  non  è  accet- 
tabile ;  ma  è  ben  certo  che,  oltre  questo,  che  potrebbe 
dirsi  (ìe  arie  major,  vi  ha  un  altro  genere  di  poesia 
che  dal  popolo  veniva  e  nel  popolo  ritornava,  e  in 
che  si  esercitarono  Guido  Cavalcanti,  Lapo  Gianni 
e  Dante  stesso. 

Nata  dalle  usanze  stesse  della  città  è  la  Ballata 
0  Canzone  a  Ballo,  poesia  musicale  e  corale  del  po- 
polo, come  il  Madrigale  o  Mandriale  è  poesia  della 
cittadinanza  piìi  eulta  e  del  mondo  elegante  (")  di 
quell'età   e  della  successiva.  La  ballata  accompa- 


(1)  Si  trova  già  in  Diogene  Laerzio  nella  Vita  di  Arcesilao,  e  nello 
spagnuolo  Juan  Manuel  (m.  1317)  :  nel  primo  caso,  come  avvenuto  fra 
Filomeno  e  un  fornatiaio,  nel  secondo,  fra  un  trovatore  e  un  calzolaio  : 
vedi  Papanti,  Dante  secondo  la  tradizione  e  i  novellatori,  Livorno,  Vigo,  1873. 
pag.  61,  e  ora  L.  di  Francia,  F.  Sacchetti  novelliere,  Pisa,  Nistri,  1902,  pag.  129. 

{")  Vedi  Carducci,  Musica  e  poesia  del  mondo  eie/fante  italiano  del 
sec.  Xn^,  negli  Studi  letterari,  Livorno,  Vigo,  1874,  pag.  373  e  segg.  Poesie 
musicali  del  mondo  elegante  del  sec.  XIV  e  XV,  e  anche  del  XVI,  oltrecliì 
nella  cit.  raccolta  di  Cantilene  e  Ballate  del  Carducci,  trovansi  nelle  Ballate, 
liispetti  d'amore  e  poesie  varie  tratte  da  codici  musicali  dei  sec.  XIV,  XV, 
XVI,  pubbl.  da  Ant.  Cappelli,  Modena,  1866;  nelle  Poesie  musicali  de! 
sec.  XIV,  XV  e  XVI,  con  un  saggio  della  musica,  pubbl.  dal  medesimo,  Bo- 
logna, Romagnoli,  1868;  nelle  l'oesie  raccolte  da  rodd.  estensi,  Modena,  1886. 
e  nelle  Poesie  musicali  del  sec.  XIV,  pubbl.  pur  dal  Cappelli,  Modena,  1871  ; 
nelle  Poesie  musicali  inedite  ed  anonime  del  sec.  XIV,  pubbl.  da  P.  Ferrato. 
Padova,  Seminario,  1870,  e  a  cura  del  medesimo  in  Tre  lettere...  e  tre 
poesie  musicali  del  sec.  XIV,  Padova,  Prosperini,  1872,  e  nelle  Poesie  musi- 
cali del  sec.  XIV,  Padova,  Randi,  1873;  nei  Madrigali  inediti  d'incerti  rima- 
tori antichi, -pvàihl.  da  P.  Bilancioni,  Ravenna,  Lavagna,  1873;  in  A.  Zenatti. 
Cinque  barzellette  tratte  dalle  raccolte  musicali  di  Andrea  Antico  da  Montone. 
Bologna,  R.  tipografia  1887,  e  Cinque  poesie  musicali  del  sec.  XVI,  Firenze, 
Carnesecchi,  1893;  in  A.  Saviotti,  Un  codice  musicale  del  sec.  XVI  (Giorn. 
Stor.  Lett.  Ital.,  XIV,  234  e  XIX,  446)  e  Mime  ined.  del  sec.  XV  {Propugna- 
tore, X,  S.  V,  p.  2"  (1893);  in  L.  Gentile,  XIV  Canzoni  musicali  ined., 
Firenze,  Carnesecchi.  1884;  in  E.  Pììrcopo,  Madrigalisti  najioletani  ante- 
riori al  1538,  Napoli,  De  Rubertis,  1887;  in  T.  Casini,  Ballate  d'amore  del 
sec.  XIII,  Roma,  Metastasi©,  1884  ecc.  Vedi  poi  la  pubblicazione  fatta  da 
F.  L.  Valdrigiii,  del  Libro  di  canto  e  di  liuto  di  C.  Bottegari,  Firenze. 
Orlando,  1891,  e  quella  dello  Stainer,  Uufag  and  Iris  Conlemporaries,  ecc.. 
London,  Novello,  1898  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  41 

gnandosi,  come  il  nome  stesso  lo  dice,  colla  danza  e 
col  suono,  illeggiadriva  le  ragiinate  popolari,  che 
nell'antica  Firenze  pigliavano  occasione  dagli  sposa- 
lizj,  (')  dalle  onoranze  a  principi  ed  ambasciatori,  (") 
e  pili  specialmente  dalle  feste  del  Maggio  O  e  del 
S.  Giovanni.  {*) 


(1)  In  una  tavola  o  spalliera  dipinta,  die  conservasi  in  Firenze  nel- 
l'Accademia delle  Belle  Arti,  si  rappresentano  le  nozze  di  un  Adimari  con 
una  Ricasoli.  Vi  si  vede  la  piazza  e  il  tempio  di  S.  Giovanni  con  varj 
casamenti  merlati,  e  coppie  d'uomini  e  donne  vestiti  con  abiti  guarniti 
d'oro,  di  perle  e  di  vaj,  die  si  tengono  per  mano  in  atto  di  danzare  dentro 
un  recintò  di  panche  coperto  di  arazzi,  mentre  altri  stanno  a  riguardarli, 
e  i  trombetti  della  Signoria,  posti  sugli  scalini  delle  Loggie  del  Bigallo. 
suonano  i  loro  strumenti,  da'  quali  cadono  pennoni  bianchi  quadrati,  en- 
trovi  il  giglio  i-osso.  Sotto  la  loggia  stanno  alcuni  donzelli  con  bacili  ed 
altri  vasi,  avviati  verso  casa  Adimari.  La  piazza  è  tutta  coperta  di  sopra 
da  una  tenda  rossa  e  bianca,  che  prende  dalla  loggia  fino  a  via  de'  Martelli, 
ed  è  sostenuta  da  stili  ed  attaccata  alle  mura  del  S.  Giovanni.  V.  l' Osser- 
vatore Fiorentino,  Firenze,  18,31,  voi.  I,  pag.  98. 

('■^)  Per  esempio,  nel  sec.  XV:  a  di  24  di  febhrajo  (1454)  per  onorare 
s)  degno  capitano  (il  Duca  di  Calabria)  s'ordinò  per  moìti  giovani  fiorentini 
e'  più  ricchi  e  più  gentili,  un  ballo  appiè  della  ringhiera  della  Signoria, 
verso  la  Mercatantia,  cor  uno  steccato  attorno  ;  e  detto  Signore  stette  a  sedere 
■in  mezzo  elei  10  della  Balìa,  e  a  detto  ballo  venono  le  più  belle  fanciulle  et 
giovane  maritate,  vestite  di  drappi,  a  danzare,  e  fessi  magne  colizioni,  e  andò 
molto  bene  tutto:  Cambi,  Stor.  di  Firenze,  voi.  I,  pag.  321.  —  E  per  la  venuta 
di  papa  Pio  II:  a  dì  29  d'ajjrile  1459  fecesi  un  magnifico  ballo  in  sul  Mer- 
cato Nuovo  chiuso  da  uno  steccato,  e  di  sopra  coperto  di  rovesci,  con  palchetti 
attorno  coperti  di  arazerie,  e  furono  a  danzare  CO  giovani  fiorentini  de' primi 
ciptadini  e  de' piti  opti  a  ballare,  adornati  riccamente  di  pierle  e  gioje,  e  molte 
gentile  fanciulle  e  giovane  atte  a  danzare,  e  mutoronsi  el  dì  molte  veste  cia- 
scuno di  qice'  danzavano,  e  fuvi  a  vedere  tutti  i  signori  Imbasciadori,  e  parte 
di  Cardinali  ci  si  trovava;  e  feciesi  conto  che  tra  palchi  e  case  e  in  terra 
fussi  il  dì  60  mila  persone:  Id.,  p.  369-370. 

(3)  Per  le  feste  maggiaiole  del  1283,  vedi  G.  Villani,  Cronaca,  lib.  VII, 
§  89,  e  per  quelle  del  '92  lo  stesso  autore,  lib.  VII,  §  132.  Le  feste  del  1333 
sono  COSI  descritte  da  altro  cronista:  Erano  i  Fiorentini,  cioè  gli  arte- 
fici, montati  in  superbia,  che  ogni  dì  facevano  novità  di  feste  e  giuochi  ed 
altre  allegrezze,  più  che  a  loro  non  si  richiedea,  e  fecersi  molte  brigate:  in 
fra  le  quali  conteremo  due:  l'iina  nella  Via  Ghibellina,  nella  quale  si  vesti- 
rono 477  uomini,  tutti  di  giallo,  e  feciono  loro  Signore,  e  con  cene  e  desinari  e 
spese,  e  ciò  fu  di  Maggio  (1333),  e  durò  un  mese.  E  poi  ne  fu  fatta  per  S.  Ono- 
frio nel  Corso  de'  Tintori  un'altra  di  520  uomini  vestiti  di  bianco,  con  grande 
armeggiare  e  festa, e  feciono  correre  palio  bianco  ecc.:  Stefani,  C'i-on.,  lib.  VII, 
§  495;  cfr.  G.  Villani,  lib.  X,  §  216.  Vedi  per  le  feste  maggiajole  del  1459, 
un  poemetto  sincrono  nel  Taetini,  Ecì:  Italie.  Script.,  voi.  Il,  pag.  721. 

(*)  Per  la  festa  di  S.Joanni  Batista  (1283)...  si  cominciò  brigate  a  festa 
ed  a  balli  d'uomini  e  di  femmine,  e  durò  questo  in  vestire  ed  in  danzare  e 


42  LA   POESIA  POPOLARE   ITALLA.NA. 

Figuriamoci  l'approssimarsi  del  Maggio,  O  con 
le  strade  corse  da  brigate  di  Cavalieri  tutti  ad  una 
divisa,  sotto  il  comando  del  Signor  dell'amore,  come 
cliiamavasi  il  capo,  (")  ed  echeggiare  di  voci  plau- 
denti e  di  risa  giulive  le  vie,  le  piazze,  le  logge:  e, 
sotto  un  cielo  limpido  ed  azzurro,  vaghe  donzelle 
inghirlandate  dei  fiori  primaverili  gettar  melarance 
dai  balconi,  (^)  o  muovere  il  piede  alle  danze.  (*)  La 
festa  durava  tutta  la  stagione  primaverile  sino  al 
giorno  dedicato  al  santo  patrono  della  città:  allora 
la  pubblica  gioja  toccava  il  colmo,  e  la  città  tutta 


metter  tavole  ogni  d)  ili  festa  circa  a  line  anni....  in  fra'  (inali  furono  Ol- 
trarno brigala  bianca,  e  chiamavasi  la  Brigata  amorosa.  (Stefani,  Cron., 
lib.  111.  §  160. 

m  Una  descrizione  delle  Feste  maggiaiole  si  trova,  chi  '1  crederebbe?, 
nell'antico  romanzo  francese  di  Cléomaclh  (voi.  I,  pag.  85).  Un  cavaliere 
capita  in  un  paese  Qui  ore  est  Toscane  appelée,  e  vi  trova  usarsi  grandi 
feste  Pour  Mai/  et  Gaijn  honnorer:  Le  Mug pour  sa  joUreté  Et  le  Gai/n  ponr 
sa  piante.  Descritto  il  convito,  il  poeta  soggiunge:  Ailont  leur  feste  com- 
menQoit,  Piente  d'estrumens  g  avoit,  Vieles  et  salterions  Harpes  et  rotes  et 
canons  Et  estives  de  Cornouaille.  N'i  falloit  estrumens  qui  vaille  ecc. 

(")  In  Bologna,  FeiTara,  Modena  ecc.  si  usavano  fare  in  tale  occa- 
sione le  Hegine  di  Maggio:  v.  Borghi,  Il  Maggio,  ossia  Feste  e  sollazzi popol. 
ital.,  Modena,  Eossi,  1848;  Rezasco,  Maggio,  Genova.  Sordo-muti,  1886. 

v^)  Rompere  e  fiaccar  higordi  e  lance  E  piover  da  finestre  e  da  balconi 
Jn  gin  ghirlande  ed  in  su  melarance:  E piilìeUette  giovene  e  garzoni  Baciarsi 
nella  bocca  e  nelle  guance:  cosi  Folgoije  da  S.  Gemigs^ano,  nel  suo  Sonetto 
sul  mese'  di  Maggio. 

(4;  In  un  Cod.  niagliabecli.  datato  del  1407  trovasi  una  importante 
descrizione  poetica  delle  feste  di  S.  Giovanni,  certo  anteriore  al  cod.,  ove 
sta  scorrettissima.  Eccone  un  brano,  clie  si  riferisce  alle  donne  fiorentine: 
Viddi  quel  dì  migliaja  di  reine:  O  potenze  divine!  E  chi  potrà  pure  contare 
il  sesto  I)i  quel  ch'agli  occhi  miei  fu  manifesto  ?  I  ricchi  vestimenti  a  seta 
ed  oro.  Sciamiti  bianchi,  azzurri  e  violati  Con  velluti  adornati.  Drappi  d'ogni 
color  vidi  quel  giorno.  I  giovinetti  andavan  tra  costoro  Puliti  vagheggiando 
innamorati  Que'  visi  angielicati.  Che  fan  di  mesa  notte  un  chiaro  giorno.  Io 
mi  vùlgea  d'intorno.  Che  mi  pareva  essere  in  Paradiso  ;  Or  l'uno  or  l'altro 
viso  Miravo,  come  io  fosse  inamorato.  Vidimi  inamorato  mille  volte,  Che  l'una 
più  che  l'altra  mi  piada.  Piene  di  cortesia  Parevan  tutte,  e  saziar  di  vederle 
Xon  mi  potea,  che  mi  pareano  perle.  Sopra  le  bionde  trecce  avean  corone  E 
ghirlande  preziose;  Gigli,  viole  e  rose  Parevan  tutte  negli  ornati  visi.  Tu 
non  avresti  detto:  son  persone.  Ne'  lor  costumi  angeliche  e  vezose.  Soavi  ed 
amorose,  Anzi  parevctn  mille  paradisi  ecc.  L'intero  componimento  fu  da  me 
pubblic.ito  per  nozze  nel  1882:  indi  riprodotto  con  altri  nel  libro  del  Guasti 
che  qui  sotto  citiamo. 


LA  POESIA   POPOLARE  ITALLVXA.  43 

era  adornata  a  festa  solenne,  come  sposa  che  si 
metta  i  più  vaghi  e  ricchi  monili  e  le  vesti  più 
suntuose.  Q) 

A  questi  spettacoli  di  schietta  bellezza  e  di 
gioja  espansiva  ispiravasi  il  poeta  fiorentino;  e  il 
suo  canto  era  gentile  come  le  donzelle  che  con 
onesta  baldanza  e  sicure  dell'onestà  propria  allieta- 
vano di  danze  la  Città  dei  fiori,  ed  appassionato 
come  i  garzoncelli,  che  col  liuto  misuravano  le 
cadenze  o  si  gittavano  ne'  rapidi  giri  del  ballo.  In 
questi  épettacoli  il  poeta  purificava  quasi  se  stesso, 
e  la  parola  ch'eì  volgeva  a  cuori  giovani  e  casti,  e 
inconsci  delle  amarezze  della  vita,  prendeva  nuova 
delicatezza  ed  eleganza  di  forme.  Dante  intonava 
allora  la  sua  gentil  Ballata  della  ghirlanda: 

Pei'  una  ghirlandetta 

Ch'io  vidi,  mi  fava 

Sospirar  ogni  fiore. 
Vidi  a  voi,  donna,  portar  ghirlandetta 

A  par  di  fior  gentile, 

E  sovra  lei  vidi  volare  in  fretta 

Un  angiolel  d'amore  tutto  umile, 

E  'n  suo  cantar  sottile 

Dicea  :  Chi  mi  vedrà 

Lauderà  il  mio  Signore. 
S'io  sarò  là  dove  un  fioretto  sia 

Allor  fia  ch'io  sospire: 

Dirò:   La  bella  gentil  donna  mia 

Posta  in  testa  i  fioretti  del  mio  Sire. 

Ma,  per  crescer  desire. 

La  mia  donna  verrà 

Coronata  da  Amore. 
Di  fioj  le  parolette  mie  novelle 

Han  fatto  una  Ballata: 


(1)  Vedi  ciò  cbe  dicono  Goeo  Dati,  Istoria  di  Firenze,  1736,  pag.  84:  il 
Cambiaci,  Memorie  istoriche  risgnardanti  le  feste  di  S.  Gioraii  Battista, 
Firenze,  1766;  ed  il  Guasti,  Le  feste  di  S.  G.  B.,  Firenze,  Loesclier,  1884. 


44  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Da  lor  per  leggiadria  s' hanno  tolt'elle 
Una  veste,  ch'altrui  non  fu  mai  data; 
Però  siete  pregata, 
Quand'uoni  la  canterà, 
Che  le  facciate  onore. 

Cos'i  il  popolo  educava  il  poeta  a  gentilezza  di  ispi- 
razioni, e  il  poeta  ravvivava  l'arte  nelle  fonti  perenni 
del  sentimento  popolare.  Se  non  che,  come  accade, 
il  popolo  facendo  sue  queste  canzoni,  le  modificava: 
e  ne  sia  prova  questa  di  Dante,  che,  smozzicandola 
nei  versi  di  lunga  misura,  veniva  recata  a  quest'altra 
lezione  : 

Vidi  a  voi,  donna,  portare 

Ghirlandetta  di  fior  gentile, 

E  sovra  lei  vidi  volare 

Angiolel  d'amore  umile. 

E  nel  suo  cantar  sottile 

Dicea  :   Chi  mi  vedrà 

Lauderà  il  mio  Signore. 
S'io  sarò  là  dove  sia 

Fioretta  mia  bella  e  gentile, 

Allor  dirò  alla  donna  mia 

Che  porti  'n  testa  i  miei  suspiri: 

Ma  per  crescere  i  desiri 

Una  donna  ci  verrà 

Coronata  dall'Amore. 
Le  parole  mie  novelle 

Che  di  fior  fatto  han  ballata, 

Per  leggiadria  ci  han  tolt'elle 

Una  veste  ch'altrui  fu  data. 

Però  ne  siate  pregata 

Qual  uom  la  canterà. 

Che  a  lui  facciate  onoro. 

Qua  e  là  il  senso  è  guasto  ;  ma  non  è  proprio,  diremo 
col  Carducci,  (^)  il  caso  del  fabbro  di  Porta  S.  Piero 
della  novella  del  Sacchetti?  E  se  qua  e  là  si  smar- 


(1;  Cantilene  e  Ballate  ecc.,  pag.  S2. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  45 

risce  il  significato  della  parola,  resta  di  essa  il  suono 
a  carezzare  l'oreccliio  dei  cantori  e  degli  ascoltanti. 
Né  la  città  soltanto,  ma  anche  il  contado  aveva 
le  sue  feste,  i  suoi  canti,  i  suoi  balli.  Celeberrimo 
fra  questi  ultimi  doveva  essere  quello  che  sapeva 
così  bene  ballare  la  Belcolore  di  Yarlungo,  secondo 
ne  attesta  il  Boccaccio,  (^)  o  che  accompagnavasi  a 
parole.  Un  anonimo  possessore  della  ventisettana, 
vissuto  nel  secolo  decimosesto,  udiva  e  vedeva  tut- 
tavia cantare  e  ballare  L'acqua  corre  alla  horrana, 
non  molto  lungi  da  Varlungo;  e  sui  margini  del  li- 
bro ne  lasciava  ricordo  in  questa  forma:  "  Io  udì' 
cantare  a  Rovezano  l'anno  1552  quella  canzone  di 
che  fa  menzione  il  Boccaccio,  che  comincia  L'acqua 
corre  alla  borrana,  la  quale  è  questa  appresso,  et 
cantasi  nel  modo  ch'io  dirò.  Cantasi  in  ballo  tondo, 
dove  sia  ugual  numero  di  uomini  et  di  donne  di- 
sposti un  uomo  et  una  donna,  et  colui  che  la  impone 
comincia  così,  nel  tuono  di  quella  canzone  che  voi 
potete  aver  sentita:  Quanti  polli  è  in  sul  pollajo:{^) 

L'acqua  corre  alla  borrana, 
Et  l'uva  è  nella  vigna: 

alias  : 

Et  fa  tremar  la  foglia,  (^) 


(1)  Vecam.,  Vili,  2. 

'-)  Su  questa  antica  Canzone,  ajipartenente  a  un  antico  ginoco  e 
ballo  fanciullesco,  tuttora  in  uso,  vedi  F.  Novati,  Madonna  Pollaiola,  in 
Ardi.  Tradiz.  popol.,  IV,  15. 

(3)  Nel  cod.  ricard.  2849  è  cos\  riferita: 

Casca  l'acqua  dalla  fontana 
E  fa  tremar  la  foglia, 
E  fa  tremar  la  foglia. 
"       Il  mal  villan  gli  chiese  da  bere, 
E  doglien  io,  madonne. 
Non  gliene  dare. 
Pali  arrabbiare. 
Fallo  morir  di  doglia: 

vedi  S.  Ferrari,  Cam.  ricordate  dal  Btanchino  (estr.  dal  Giorn.  di  Filoloy. 
liomanza,  I,  48). 


46  LA   POESIA  POPOLARE   ITALIAlsA. 

elle  COSI  diversamente  da  due  diverse  persone  la 
sentì'  cantare.  Ripetonsi  per  le  persone  del  ballo 
questi  due  versi  nel  medesimo  tuono;  et  così  detto, 
colui  clie  impone  si  parte  dal  lato  suo,  et  va  a  quella 
donna  che  gli  è  da  man  ritta,  et  presala  per  la  man 
manca  la  leva  dal  lato  suo,  dicendo  nel  medesimo 
tuono: 

Et  mio  padre  mi  vuol  gran  bene, 

Et  datemi  questa  figlia. 

Et  ritornasi  con  essa  nel  lato  suo,  mettendosela  da 
man  manca,  et  el  ballo  ripete  :  L'acqua  corre  alla 
horrana  etc.  Et  tante  volte  fa  così,  che  egli  leva 
tutte  le  donne  del  lato  loro  et  mettele  da  man 
manca,  in  modo  clie  l'ultima  è  quella  che  gli  resta 
da  man  manca  come  prima,  et  così  si  trovano  tutte 
le  donne  da  una  banda  et  gli  uomini  dall'altra:  et 
allora  muta  parole,  dicendo  pur  nel  medesimo  tuono: 

Questo  ballo  non  sta  bene, 
Et  io  ben  lo  veggio. 

Le  quali  parole  si  ripetono  per  il  ballo  nel  suono 
detto,  et  dipoi  colui  che  impone  seguita  pur  nel 
tuono: 

Et  tu  N.  .  .  .  compagno  mio, 

Vanne  allato  al  tuo  desio 

Et  quivi  ti  sta  fermo. 

Et  facendo  dare  una  volta  a  colui,  che  egli  tiene 
con  la  man  destra,  lo  lascia  andare,  et  colui  se  ne 
va,  et  trameza  due  donne  dove  gli  pare,  e  il  ballo 
intanto  replica: 

Questo  canto  non  istà  bene  ecc. 
Et  così  fa  tante   volte,   che   gli   uomini   tramczono 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  47 

tutte  le  donne,  e  tornono   un  uomo  et  una  donna, 
come  erano  prima;  et  finisce  la  Canzone  „.(^) 


IV. 


Di  allegre  canzoni  sonava,  adunque,  l'antica  Fi- 
renze entro  il  cerchio  delle  mura  e  tutt'all'intorno; 
ma  qui  debbesi  notare  come  non  fossero  soltanto 
canti  d'amore  e  di  lieta  vita  ;  bensì  anche,  secondo 
conveniva  a  città  la  quale  reggevasi  a  Comune,  non 
pochi  prendessero  argomento  dalle  pubbliche  fac- 
cende. Fu  detto  in  altri  tempi  che  la  Francia  era 
una  monarchia  assoluta,  temperata  da  canzoni;  po- 
trebbesi  dire,  anche  con  egual  ragione,  che  Firenze 
fu  un  Comune  nel  quale  la  poesia  era  uno  dei  pub- 
blici poteri.  Non  avvi,  invero,  fatto  importante  alla 
vita  esterna  od  interna  di  Firenze,  a  proposito  del 
quale  non  si  udisse  la  voce  della  poesia  popo- 
lare, per  incitamento  o  per  rampogna,  per  lode  o 
per  biasimo.  Ognuno  comprende  fìicilmente  che  di 
poesie  di  tal  fatta,  per  le  stesse  ragioni  dell'esser 
loro  e  della  loro  vita  fuggevole,  assai  poche  possano 
essersi  sottratte  alle  ingiurie  del  tempo  e  all'incu- 
ria dei  contemporanei  e  dei  posteri  :  ma  pur  tante 
ve  n'ha,  come  delle  consimili  già  accennate  appar- 
tenenti ai  primordj  della  nostra  letteratura,  che  ba- 
stano a  chiarirci  in  proposito:  e  cominciando  da 
quella  Canzone  popolare,  che  già  ricordammo,  e  che 


\ 


(1)  Pubbl.  da  A.  MussAFiA  nel  Propugnatore,  I,  231.  Una  lezione  di 
poco  variata,  trovasi  nella  Raccolta  mouekiana-biscioniana  della  Bibl.  di 
Lucca,  e  si  legge  nella  cit.  op.  del  Carducci,  pag.  60.  Ma  ora  vedasi  E.  Al- 
Visi,  Canzonette  antiche  cit.,  pag.  19. 


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c3u3i"Li  ii  5  :  :  lite.  5^sa:  piùsnùr 


rr^Lé.    _  nn_ 


50  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIAXA. 

sentire  la  sua  voce  entro  le  mura  del  Palagio,  si 
mette  a  cantar  sott'esso;  e  atterrito  dai  mali  che 
sovrastano  alla  patria,  invocata  per  sua  Musa  la 
gloriosa  Vergine  Maria,  fa  sue  scuse  ai  reggitori,  ma 
non  tace  quel  che  sul  conto  loro  e  delle  pubbliche 
faccende  corre  sommesso  di  bocca  in  bocca  nelle 
botteghe  e  nei  fondachi  di  Mercato  vecchio  e  di  Ca- 
limara  : 

Signor,  pogiiàm  ch'i'  sia  di  vii  nascenza, 
r  pur  nacqui  nel   corpo  di  Fiorenza, 
Come  qual  c'è  di  più  soffic'ienza: 

Onde  '1  mi  duole 
Di  lei,  considerando  che  esser  suole 
Tenuta  più  che  madre  da  figliuole  ; 
Oggi  ogni  bestia  soggiogar  la  vuole 
E  occupare. 
Ma  perchè  '1  no'  m'è  lecito  parlare 

Dove  avre'  luogo  quel  ch'i' vo'  contare, 
Dirò  per  rima  che  mi  par  da  fare 
A  questo  tiatto. 
Dico,  clie  pacie  né  tricgua  né  patto 
Con  Pisa  non  se  facia  a  néun  atto. 

E  conclude: 

So  ben,  Signori,  ch'i'  ò  fatto  fallanza: 

Ch'un  semplic'uom,  coni' io,  pien  d'ignoranza 
Non  de'  consiglio  dare  a  comunanza 
Sì  verace  ; 
Ma  poi  che  volontà  mi  fé'  fallace, 
11  Salvatore,  in  cui  tutto  ben  giace, 
Tosto  vi  dia  vittoriosa  pace 

Al  vostro  onore.  (') 

L'opinione  cosi  espressa  in  facili  versi  si  farà  strada 
0  giungerà  alle  orecchie  di  chi  ne  potrà  far  suo 
vantaggio. 


")  Semi  intese  xlorico  di  A.  Pucci  per  la  guerra  di  Firenze  con  Pisa, 
da  me  stampato  per  Nozze  Paoli-Martelli,  Livorno,  Vigo,  187(5. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  51 

Altra  volta  "  volendo  Antonio  Pucci  consigliare 
il  Comune  per  cierte  cose  ch'apariano  per  prestanze 
e  seghe,  e  per  aparecliiamento  d'oste  „,  così  can- 
tava nel  Novembre  del  1346: 

De,  vero  Salvator,  fìgliuol  di  Dio, 
Couciedi  grazia  a  lo  'iitelletlo  mio, 
Ch'i'  sappia  e  possa  dir  quel  ch'io  desio 
Col  core  acieso, 

Per  modo  tal  clied  io  non  sia  ripreso. 
Ma  volentier  da  tutta  giente  inteso: 

e  segue  proponendo  quale,  in  simili  frangenti,  era 
al  parer  suo  il  miglior  consiglio.  Ma  più  lieto  è  il 
suono  del  Sermintese  pucciano  quando  ei  può  can- 
tare le  belle  donne  che  rifioriscono  Firenze,  (^)  o 
esaltare  le  novelle  imprese,  per  le  quali  si  amplifica 
il  dominio  del  Comune.  Tale  è  la  canzone  fatta 
"  quando  i  Fiorentini  comparare  Lucca  da  Messer 
Mastino  „  : 

Spero  che  '1  giglio  di  Fiorenza  avanzi, 
E  di  vittoria  far  nuovi  romanzi  : 

o  quando  nel  1337  Messer  Piero  Rosso  ebbe  vittoria 
a  Padova: 

A  morte  e  struggimento  de'  tiranni, 

Che  consumati  ci  anno  già  è  più  anni:  {-) 

o  quando,  finalmente,  lasciato  il  solito  metro,  e  in- 
tonato quello  della  fiorentina  ballata,  inneggiava, 
cacciato  il  Duca  d'Atene,  (^)  alla  cara  libertà: 


(!■)  Semi  httei-e  per  i-iioi'ilo  de  le  belle  donne  ch'erano  in  Firenze  ntl  1345, 
■da  me  stampato  nella   Vita  Nuova,  ediz.  12',  libr.  (Galileo,  1884,  pag.  47. 

(2)  Sermini'Sae  del  Pucci  stampato  ila  P.  Ferrato  per  le  Nozze  Fadelli- 
Alberti,  Padova,  Prosperini,  1874. 

(3)  Stampata  da  U.  Paoli  neWArch.  Storico,  serie  III,  tomo  XVI,  1872, 
in  seguito  all'articolo:  Nuovi  Ducumenti  intorno  a  Gualtieri  di  Brienne.  E 
vedi  A.  Medin,  //  duca  d'Atene^iella  poenia  contemporanea,  Bologna.  Fava 
«  Garagnani,  1890  (estr.  del  Propugnatore,  N.  S.,  111). 


52  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Viva  la  libertà 

Ch'à  rinfrancato  il  Coniun   di  Fiorenza  !  (^) 

Quanta  parte  avesse  la  poesia  nel  reggimento 
politico  di  Firenze  (^)  anche  nel  secolo  decimoqninto, 
due  fatti  specialmente  dimostrano:  l'uno  del  1426, 
quando  Niccolò  da  Uzano,  prevedendo  nella  rovina 
degli  ottimati  ond'era  capo,  quella  pure  delle  istitu- 
zioni che  fin'  allora  avean  governato  e  mantenuto 
la  Repubblica,  e  temendo  soprattutto  il  sormontare 
della  ge.nte  nuova,  plebei  arricchiti  o  nuovi  alle  ca- 
riche dello  Stato,  per  muover  l'animo  della  moltitu- 
dine in  favor  suo,  anziché  con  acconcia  orazione,  in- 
fiorata de' fiori  rettorie!  che  i  tempi  avevan  rimesso 


(i)  Delle  poesie  politiche  e  storicbe  del  Pucci  fu  ancora  stampata 
lina  Canzone  di  Antonio  Pucci  ai  Lucchesi,  per  nozze  Giaiinelli-Tesini. 
Lucca,  1868,  da  Eurico  Ridolfì.  Tutte  queste  rime  furouo  da  me  copiate 
di  sur  uu  codice  sincrono,  appartenente  già  al  cav.  Seymour  Kirkup,  adesso 
passato  in  Inghilterra.  Per  cura  mia  o  di  miei  amici,  ai  quali  ne  diedi 
copia,  sono  dunque  a  stampa  cinque  di  queste  poesie,  pcrcliè  quelle  che 
riguardano  il  Duca  d'Atene  sono  due:  le  rimanenti  furono  date  al  dottor 
S.  Morpurgo.  che  mise  a  stampa  finora  quella  soltanto  de  la  mortalità  die 
fu  in  Firenze  nel  1348  (Firenze.  Carnesecchi.  18S41;  le  altre  saranno  pub- 
blicate quando  che  sia. 

(-;  E  non  di  Firenze  soltanto.  Per  es.  a  Viterbo  nel  l-i;ìl  si  cantava 
contro  Giacomo  da  Vico:  Oninf  pensiero  falla  Al  Prefetto  superì>o  Volea  liis- 
far  Viterbo,  Or  si  lolla  Vefi-alla:  1.  Ciampi.  Cronache  della  città  di  ì'iterho, 
Firenze,  Vieusseux,  1872,  pag.  119.  A  Venezia  nel  1494  sì  cantava  contro 
l'Estense:  Marchese  di  Ferrara,  Di  la  casa  di  Magaiìza  Tu  perderà  '1  stado 
Al  dispello  del  He  di  Franza:  M.  Sanudo.  La  spedizione  di  Carlo  VIIT, 
Venezia,  1873,  pag.  485.  Forse  sono  brevi  motti  rimati,  ma  forse  anche 
principj  di  vere  e  proprie  canzoni,  com'è  il  caso  di  certi  versi  ricordati  da 
G.  Cavalcanti  (Istorie  fiorentine,  Firenze,  1838,  I,  332),  quando  nel  1430 
nella  guerra  contro  Lucca  "  per  li  nostri  male  ammaestrati  figliuoli  per  tutta 
la  città  si  cantavano:  Ave  Maria,  grazia  piena,  Auto  Lucca  acremo  Siena, 
e  altri  cantavano:  Guarii  Siena  Chi  Lucca  triema  „  ;  ma  il  Rossi  nella  liist. 
suor.  temp.  (lìer.  Hai.  Scri2>t.,  XX,  29),  afferma  che:  i  Senesi  st.avano  in  so- 
spetto cum  audirent  Cantilenam  qiiandam  per  Florentiam  vulgo  decantari, 
qua,  post  captam  Lucani,  Senus  etiam  se  pelituros  esse  jactahant.  A  questi 
tempi  e  a  questi  fatti  appartiene  la  Canzone  de' Meucci  di  Siena,  in  lode 
del  Marzocco  e  in  obbrobrio  della  Lupa,  stampata  da  F.  Novati  e  F.  C.  Pei.- 
LfXJRiNi,  in  Poesie  polit.  popol,  dei  sec.  XV  e  XVI,  Ancona.  Morelli,  188."). 
(Questa  è  la  prima  delle  tre  raccolto  in  codesto  libretto  :  la  seconda  è  contro 
Bartolomeo  Colleoni,  dopo  la  rotta  di  Molinolla  del  I4G7:  la  terza,  dei  primi 
del  sec.  XVI,  è  a  gloria  del  Leone  di  S.  Marco. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  53 

in  voga,  manifestò  i  suoi  timori  e  diede  i  suoi  con- 
sigli in  certe  terzine,  che  fece  di  nascosto  affiggere  al 
palagio  della  Signoria.  (^)  La  quale  mandò  un  bando 
che  chi  ne  svelasse  l'autore,  ne  riceverebbe  un  premio 
di  cento  fiorini  d'oro.  O  L'altro  fatto  è  questo:  che 
nel  1441,  per  ristorar  la  città  dei  danni  sofferti  e 
delle  angustie  provate  durante  la  guerra  col  Duca  di 
Milano,  gli  ufficiali  dello  Studio,  per  consiglio  di  Leon 
Battista  Alberti  e  di  Piero  di  Cosimo  de' Medici,  ban- 
dirono un  torneo  poetico,  sul  tema  della  vera  amicizia, 
e  il  luogo  ove  recitaronsi  i  componimenti  fu  la  chiesa 
di  S.  Maria  del  Fiore,  presenti  la  Signoria,  l'Arci- 
vescovo, l'Ambasciatore  di  Venezia,  i  segretarj  e 
prelati  del  Concilio,  allora  adunato  in  Firenze:  e 
premio  al  più  valente  poeta  fu  una  corona  d'argento: 
onde  la  prova  venne  detta  certame  coronario.  (^) 

Ma  noi  dobbiamo  ricordare  soltanto  le  poesie  ve- 
ramente popolari:  e  a  dimostrare  l'efficacia  di  questa 
forma  e  la  sua  importanza  nella  vita  pubblica  del 
Comune,  faremo  menzione  di  ciò  che  avvenne  nel- 
l'anno 1420.  Trovavasi  allora  in  Firenze  il  pontefice 
Martino  Y,  eletto  nel  Concilio  di  Costanza.  Egli 
attendeva  in  Fireuze  che  lo  Sforza  gli  sgombrasse 


C)  A  Siena  il  luogo  dove  si  appiccavano  simili  scritture  in  versi, 
esprimenti  un'opinione  comune  o  che  voleva  diventar  tale,  era  la  loggia 
degli  Uflfiziali  della  mercanzia:  vedi  Sozzini,  Diario,  Firenze,  Vieusseux, 
1842,  png.  89  e  92.  Anche  A  Genova  si  affiggevano,  come  si  vede  da  questa 
aggiunta  ad  una  poesia  del  1477  di  argomento  politico:  Fittis.  Chi  mi  leze 
ine  lassa  stare  Azio  che  x^ossa  essere  exemplata  :  vedi  De  Simoni,  Tre  Cantai  i 
(lei  set:  XV  e  Xf'I  concernenti  fatti  di  storia  genovese,  Genova,  Tip.  Sordo- 
Muti.  1876,  pag.  25. 

(2',  I  versi  drfl"  Lizzano  sono  stampati  neir,4)-c-/;.  Storico,  voi.  IV,  pa- 
gina 297. 

(3)  Le  mediocri  poesie  del  Certame  coronario  si  trovano  in  moltissimi 
codici  delle  Biblioteche  fiorentine,  in  numero  di  otto;  e  furono  stampato 
dal  Bonucci,  nelle  Opere  rolgari  di  L.  B.  Alberti,  Firenze,  Galileiana,  1844. 
voi.  I,  pag.  CLXVII  e  segg.  Vedi  in  proposito  del  certame,  F.  Flamini,  La 
lirica  toscana  del  liinascimento  ecc.,  Pisa,  Nistri,  1891,  pag.  3,  sgg. 


54  LA  POESIA  POPOLARE  IT  ALLENA. 

il  cammino  di  Eoma,  e  gli  assicurasse  il  possesso 
della  sua  sede,  combattendo  il  fortunato  avventu- 
riere Braccio  da  Montone.  Lo  Sforza  riuscì  nell'im- 
presa, e  Braccio  si  sottomise  al  Pontefice,  cui  venne 
a  prestar  ossequio  in  Firenze,  antica  amica  sua  e 
collegata.  Ma  l'animo  del  popolo  si  voltò  contro  il 
Pontefice,  quando  ammirò  da  presso  la  magnificenza 
e  il  valore  del  soldato  perugino  nella  giostra  da  lui 
ordinata  sfarzosamente,  e  dopo  clie  già,  con  senti- 
mento di  simpatia  alla  sventura,  eransi  viste  le 
genuflessioni  del  deposto  pontefice  Giovanni  XXIII 
ai  piedi  del  suo  avventurato  successore.  Di  questi 
sentimenti  popolari  fu  eco  la  canzone,  che  i  Fiorentini 
"  andavano  cantando  dì  e  notte  per  tutta  la  città  ,.  : 

Papa  Martino,  Signor  di  Piombino. 

Conte  de  Urbino  (')  non  vale  un  quattrino: 

Ah  ah  ah  ah; 
Ptrazo  valente,  nostro  parente. 
Itonipe  ogni  gente,  ah  ah  ah  ah.  (") 

Il  Pontefice,  che  sentivasi  echeggiare  agli  orecchi 
la  molesta  cantilena,  se  ne  crucciò  tanto,  che  la  Si- 


(1)  Il  sijj;nor  ili  riombino  era  .Iacopo  d'Appiaiio  marito  a  Paola  so- 
rella del  Papa:  il  Conte  di  Urbino,  Giiidantonio,  gran  fautore  del  Pontefice, 
aveva  da  lui  ottenuta  ai  2Ò  di  aprile  del  1420  una  bolla  d' investitura  degli 
stati  fi'ltresclii  ;  e  nel  febbraio  si  era  condotto  a  Firenze,  dove,  a  interces- 
sione del  papa  e  della  Signoria,  si  era  rappaciato  con  Braccio. 

(-}  Minuti,  Vita  di  Muzio  Sforza,  edit.  dal  Porro,  nella  Mixcelìanea 
tli  Storia  Italiana,  Torino,  Stanip.  Reale,  voi.  VII,  pag.  246.  Il  CAjrrANo. 
ì'ita  Brachiì,  lib.  IV,  cosi  dice:  Quae  res  (la  giostra)  adeo  r/rata  fitit  po- 
pn/o  fiorentino,  adeoque  visu  gloriosa,  ut  nihil  in  orn  ODiniuni  allud  guani 
ìinus  Brachius  versaretur.  Illiim  interdiu  per  iirhem  ìinivemi  comifari,  illuni 
domi  taciti  ac  fere  attoniti  sufpicere.  Noitii  carmina  per  urbem  ceteris  igno- 
miniosa, illi  laudem  dicentia  canebaniiir.  Primo  noctix  adi'entii  pueri  jnvenes 
et  ipsae  ante  sua  liniina  mnlieres  liaec  ad  li/ram  rarneirrn^;  Bracbius  invictus 
omncm  debellai  gcnteni;  Martinus  Papa  non  valet  qnadrantem.  Mnltis  in 
locis  liaec  eadem  parietibìis  inscripta,  nec  praeconiis  snepe  factin  parehatirr. 
Quod  adeo  J'onlificis  offendi!  animimi,  ut  saepe  postea  Florentinis  qnadran- 
tem exprohraverit,  cnpitaleque  in  eos  conceperit  odiiini:  in  Jì'er.  Italie.  Script., 
voi.  XXX,  pag.  565. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIAXA.  55 

gnoria  dovè  mandargli  Bartolommeo  Valori,  "  per 
veder  di  mollificare  questo  sdegno,  con  dire  che  il 
Senato  non  pnò  tenere  che  altri  non  componga  Can- 
zoni, 0  che  a'  fanciulli  non  torni  bene  cantarle  per 
le  strade,  per  infinchè  a  lui  ne  venga  certa  notizia, 
e  sia  sicurata  che  ella  ferisca  direttamente  l'onore 
di  un  principe:  ma  che  Sua  Beatitudine  poteva  esser 
sicura,  che  simili  baje  erano  seguite  tra  la  sfrenata 
plebe  solamente,  e  contro  ogni  intenzione  della  no- 
1)iltà  „.  (^)  Kon  pertanto  il  Pontefice,  irritato,  fulminò 
l'interdetto,  che  però  tosto  venne  levato  "  per  non 
dare  alterazione  alla  città  ,.  ;  (")  ma  l'animo  suo  ri- 
mase esacerbato  contro  i  Fiorentini.  Io  ricordo,  dice 
Leonardo  Aretino  segretario  della  repubblica,  "  io 
ricordo  che  non  molti  giorni  innanzi  alla  partenza, 
io  fui  nella  sua  cameretta  con  pochi  suoi  famigli. 
Passeggiava  egli  dalla  biblioteca  alla  finestra  che 
guarda  gli  orti,  e  dopo  aver  fatto  alquanti  passi 
tacitamente,  si  volse  a  me  e  fattosi  vicino,  sporgendo 
verso  di  me  il  volto  e  il  braccio  mi  disse:  Papa  Mar- 
fino  non  vale  un  quattrino. '  Riconoscendo  io  subito 
([uesti  versi  della  cantilena  volgare  che  di  lui  ripe- 
tevasi:  e  che?,  risposi,  dunque  pervennero  alle  tue 
orecchie  queste  ciance  di  monelli?  Ei  non  replicò 
lìulla:  ma  fermandosi  novamente  soggiunse:  Fajxc 
Martino  non  vale  un  quattrino!  AUor a.  io,  vedendo  qual 
fosse  la  disposizione  dell'animo  suo,  poiché  sempre 
replicava  le  parole  che  di  lui  cantava  il  volgo,  cercai 
se  potessi  rimediare  al  ferito  onore  della  città  „  :  O 
e  con  un  forbito  discorso  s'ingegnò  di  placarlo. 


(1)  Della  Robbia.  Vita  di  B.  Valori,  in  Arch.  Slot:,  voi.  IV,  p.  I,  pag.  2^4. 

(2)  Cambi,  Istorie,  voi.  I,  pag.  149. 

(3)  Commeiitfiriiis,  in  Ber.  Hai.  Script.,  voi.  XIX,  col.  931.  Cfr.  Vesp. 
DA  Bisticci,  Vita  di  Lionardo  d'Arezzo,  §  III  e  IV.  Ivi  è  la  variante:  non 
vale  un  lupino. 


56  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

Nello  stesso  temiDo,  e  mentre  in  Consiglio  trat- 
tavasi  del  come  piegar  a  benevolenza  l'animo  offeso 
del  Pontefice,  veniva  cavata  fuori  in  Firenze  un'"  al- 
tra Canzona  da  fanciulli,  che  in  sostanza  conteneva, 
die  nella  città  erano  tre  famiglie,  alle  quali  stava 
bene  il  Governo,  assegnando  il  primo  luogo  a'  Va- 
lori, il  secondo  a'  Guadagni,  e  il  terzo  a'  Guicciar- 
dini „.  (^)  NuH'altro  sappiamo  di  questa  canzone,  oltre 
il  ricordo  lasciatone  dal  biografo  di  Bartolommeo 
Valori;  e  medesimamente  solo  i  due  primi  versi  ci 
restano  di  una  canzone  che,  probabilmente  verso 
il  1426,  correva  per  Firenze,  sui  fatti  della  guerra, 
allora  combattuta  in  Lombardia.  Noi  li  troviamo 
in  un  Codice,  dove  son  riferiti  soltanto  per  indicare 
l'aria,  sulla  quale  va  cantata  una  Lauda  spirituale: 

Chi  vedesse  il  Conte  Caiinignohx 
Cavtalcar  per  lo  bresciano.  (') 

Né  per  altro  modo  argomentiamo  l'esistenza  di  altre 
canzoni  politiche  di  questo  tempo  o  di  quello  imme- 
diatamente successivo,  delle  quali  il  capoverso  viene 
rammentato,  in  servigio  della  intonazione  musicale, 
nelle  Raccolte  di  Laudi.  Tali  sarebbero  quella  che 

dice: 

Se  mai  lo  Viceré  viene  in  'sta  terra; 

l'altra: 

Signor  nostro  da  Pavia; 

e 

A  cavai  a  cavai,  Pavia  Pavia; 
e  il  Canto  deW  Imperai  ore,  e  qualche  altro.  O 


(1)  Cit.  voi.  àdWArch.  Ulor.,  pag.  2G1. 

(2)  Cod.  magliabcch.  VU,  367. 

(3)  Mettiamo  in  Appendice  ima  Tavola  dei  capoversi  di  Canzoni  clie 
si  ti'ovano  nelle  Raccolto  di  Laudi,  perchè  serva  a  dar  un'idea  della  ric- 
chezza di  questo  genere  di  poesia,  per  la  maggior  parto  perduta,  o  se- 
polta nei  Codici. 


LA  POESIA  POPOLARE  IT  ALLENA.  57 

Per  quel  grande  avvenimento,  che  fu  nel  1478 
la  congiura  de' Pazzi,,  la  musa  popolare  non  restò 
muta,  benché  solo  un  frammento  di  Canzone  ci  sia 
rimasto,  per  opera  del  diarista  Luca  Landucci.  I 
monelli  fiorentini  dissotterrarono  la  spoglia  di  mes- 
ser  Iacopo  de'  Pazzi,  che  era  stato  impiccato  sopra 
la  ringhiera  di  Palazzo,  la  strascicarono  per  tutta 
la  città,  e  poi  la  gettarono  in  Arno;  "  e  levorono 
una  Canzona,  che  diceva  certi  strambotti;  fra  gli  altri 
dicevano:  riesser  Iacopo  giù  per  Arno  se  ne  va  „.  (^) 

Ma  il  tempo  nel  quale  maggiormente  imperò  in 
Firenze  la  canzone  popolare,  e  maggiormente  tro- 
vossi  congiunta  colle  vicende  storiche  e  coi  tumul- 
tuosi avvenimenti  del  Comune,  fu  quello  in  che  pre- 
dicò il  Savonarola  e  aspramente  si  combatterono 
nella  città  le  fazioni  dei  Piagnoni  e  dei  Compagnacci. 
Entro  il  tempio  "  i  fanciulli  cantavano  Laudi  con 
tanta  dolcezza,  che  pareva  si  aprisse  il  Paradiso. 
Pel  contado  non  si  udivano  pili  Rispetti  e  Canzone 
e  vanità,  ma  Laudi  e  Canti  spirituali,  che  a  quel 
tempo  in  gran  copia  si  componevano,  cantando  alle 
volte  insieme  a  vicenda  da  ogni  banda  della  via, 
come  -usano  i  frati  in  coro,  mentre  lavoravano  in 
somma  letizia  „.  ("j  II  Benivieni  dettava  versi  che  i 
Piagnoni  cantavano  tenendosi  per  mano;  e,  ballando 
intorno  al  rogo  delle  ixinità,  ripetevano  a  squarcia- 
gola, invasati  dal  furore  della  sacra  pazzia: 

Non  fu  mai  più  bel  sollazzo 
Più  giocondo  né  maggiore, 
Glie  per  zelo  e  per  amore 
Di  Gesù  divenir  pazzo  : 


(V  Diario  fiorentino,  piibb.  da  I.  Del  Badia,  Firenze,  Sansoni.    1S83, 
png.  21. 

(-)  BuELAMACCHi,   Vita  del  Savonarola,  Lucca,  1T6L  pag.  87. 


58  LA   POESIA   POPOLARE   ITALLIXA. 

Ognun  grilli  coni' io  grido, 
Sempre  pazzo,  pazzo,  pazzo. 
To'  tre  once  almen  di  Speme, 
Tre  di  Fede  e  sei  d'Amore, 
Due  di  Pianto,  e  poni   insieme 
Tutto  al  fuoco  del  Timore, 
Fa'  dipoi  bollir  tre  ore  ; 
Premi  in  iìne,  e  aggiungi  tanto 
D'  Umiltate  e  Dolor,  quanto 
Basta  a  far  questa  pazzia. 

Intanto  nn  Girolamo  Muzi  faceva  affiggere  alle  porte 
di  S.  Maria  del  Fiore  e  a  quelle  del  Palagio  una 
sua  Frottola  in  vitupero  del  frate: 

0  popolo  ingrato. 

Tu  ne  vai  preso  alle  grida, 
Et  drieto  ad  una  guida 
l'iena  d'ipocresia... 
In  lui  non  è  bontà 
Se  non  di  borbottare, 
Et  graffiare  ogni  altare 
Et  battersi  la  bocca,  (^) 

E  di  rimpallo  i  Piagnoni: 

Voi  ridete,  e  con  sonetti 

Dispregiate  il   divin  Verlio, 

Ma  'spettate  il   dnro  nerbo 

Che  le  spalle  vi  rassetti. 
Su,  mosconi,  a  scompigliare. 

Scarafaggi,  a  vostra  stalla: 

Calabron  che  siete  a  galla 

Fate  i  vizj  un  po' svegliare. 
Ma  sappiate  che  inai  falla 

Tja  instizia  col  snp(ilicio.  (-) 


(1)  PnbW.  dal  Passerini,  Ginm.  Stoi:  Avch.  Tonc,  voL  II  (1858\  pag.  80. 
TI  Nardi,  Storia  di  Firenze,  Firenze,  Le  Mounier,  18.5S,  voL  I,  pag.  104, 
)icor(La  molti  Sonetti  e  Canzoni  e  Pi-stoìe  invettive  e  siniil  coae,  latine  e  vol- 
t/ari, in  vituperio  del  Frate  e  della  sua  dottrina. 

(-)  Vn.i.ARi,  Storia  di  Girolamo  Saronarola"  Firenze,  Lo  Monniov,  1887, 
voi.  I,  pag.  <!■}'^^ 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  59 

Processionalmejite  incedevano  i  devoti  cantando  la 
Landa  del  Benivieni  : 

Viva  ne'  nostri  cuor,  viva,  o  Fiorenza, 
Viva  Cristo   il   tuo  re; 

e  il  brnciamento  delle  raìiità  nel  Carnevale  del  '97 
e  del  '98  lasciava  memoria  di  sé  in  Canzoni  popolari, 
in  nna  delle  qnali  si  raccontava  di  Carnesciale  "  fng- 
gente  con  nn  asinelio  carico  di  sna  masserizie  e  col 
fardello  in  spalla  „,  e  a  chi  lo  interrogava: 

Dove  è  Giove,  Jiino  e  Marte, 
Vener  bella  tanto  adorna? 
Bacco  stolto  con  le  corna. 
Che  solea  cotanto  aitarte  ? 

egli  rispondeva  piangente: 

Son  prostrati  in  terra  tutti  : 

Croce  Rosse  e  Viva  Cristo 

Hanno  fatto  nn  tale  acquisto 

Ch'kn  disperso  i  nostri  frutti. 

Disprezzare  ognor  m'ho  visto 

Per  un  certo  Re  maggiore, 

Onde  mosso  dal  dolore, 

Vonne  a  Roma  che  mi  crede.... 
Da  Fiorenza  maladetta. 

Glie  m'ha  fatto  quasi  frate, 

E  pel  snon  delle  granate 

Fuggo  a  Roma  benedetta....  (') 

Ma  poco  appresso  la  piazza  della  Signoria  in  illn- 
minata  dal  bagliore  di  altro  fuoco,  e  i  segnaci  del- 
l'arso profeta  sommessamente  e  nel  silenzio  delle 
mura  domestiche  o  negli  oratoi'j  deserti,  ripetevano 
la  mesta  Canzone  : 

La  Carità  è  spenta. 

Amor  di   Dio  non   v'è.... 


(1)  Canzona  d'un  Fiagiione  jiel  hr  ne  la  mento  delle  Vanitti,  ecc.  Firenze, 
Dotti,  1804. 


60  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Che  debbo  dir,  Signore, 

Se  non  gridare:  ohimè! 
Oliiniè,  che  '1  Santo  è  morto, 

Ohimè,  Signore,  ohimè. 
Tu  togliesti  il  Profeta, 

11  qual  tira.sti   a  te. 
0  Geronimo  santo, 

Cho  in  ciel  trionfo  se', 
Tra  le  tue  pecorelle 

Entrato  il  lupo  gli  è. 
Ohimè,  soccorri  presto, 

Ohimè,  Signore,  ohimè.  (') 

Ma  la  fazione  vincitrice  gavazzava,  e  il  Nardi,  in- 
tegerrimo cittadino  e  storico,  ricorda  con  sdegno 
le  "  molte  vituperose  Canzoni,  che  inlino  dalle  fem- 
mine ne'  balli  e  da'  fanciulli  di  giorno  e  di  notte  erano 
cantate  in  dispregio  del  Frate  e  de'  Piagnoni,  ed 
eziandio  di  tutti  i  Ferraresi:  della  qual  cosa  avendo 
querela  alla  Signoria  l'ambasciatore  di  Ferrara,  fu 
il  compositore  castigato  dalla  Signoria  in  pili  tratti 
di  corda  e  d'un  confine  „.  (") 

Spigolando  negli  storici  e  nei  cronisti  altre  men- 
zioni potremmo  rinvenire,  che  farebbero  al  caso  no- 
stro. Così  Benedetto  Varchi  racconta  che,  essendo 
tornato  in  Firenze  il  cardinal  de'  Medici,  futuro  papa 
Clemente  VII,  un  adulatore,  Luigi  della  Stufa,  gli 


(1)  Pubblicata  (Ini  Biiidi  no'  liicoriìi  liìologiti  e  LelterarJ,  Pistoja, 
1847,  11.  2. 

(-)  Ediz.  cit..  voi.  I,  pag.  132.  —  Alle  vicende  di  Firenze  in  questo 
scorcio  del  scc.  XV,  e  precisamente  alla  ribellione  e  guerra  di  Pisa,  ap- 
partengono le  poesie  di  metro  vario  —  ottave,  sonetto,  canzoni  a  rigoletto, 
frottole  —  pn))blicate  da  T.  Casini  per  nozze  Zenatti-Covacieh  (Firenze. 
Carncsecclii,  1888),  piene  tutte  di  livore  contro  la  città  rivale,  e  se  non 
per  Torigine,  popolari  certamente  per  la  loro  dift'usione.  Una  di  esse  co- 
mincia: Ogniun  venghi  con  diletto  A  udir  cantar  di  Pisa,  Ch'io  ne  scoppio 
dalle  risa  Del  suo  pazzo  e  van  concetto  ;  e  termina:  Canzonetta,  cerca  a  tondo 
Ogni  stato  e  signoria:  Di'  che  Pisa  è  andata  al  fondo  J'er  la  sua  cieca  paz- 
zia :  Gli  anz'ian  della  /tedia  Tutti  sono  andati  a  bere.  Chi  di  Visa  vuol  pia- 
cere Canti  questa  a  rigoletlo. 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALL\XA.  61 

mostrò  un  pane  bianco  che  vendevasi  a'  fornaj  quat- 
tro quattrini,  affermando  che  pili  di  due  non  co- 
stava; "  certa  cosa  è,  che  i  fanciugli  sparsi  per 
Firenze  a  tal  voce  gii  levarono  subitamente  addosso, 
secondo  il  costume  loro,  una  Canzone,  ne  a  patto 
veruno  tenere  si  potevano,  che  eglino  per  tutte  k; 
vie  andassero  cantando  queste  parole,  così  da  loro 
in  rima  poste  : 

Messer  Luigi  della  Stufa 

Ha  fitto  il  capo  in  una  buca, 

Il  qual  non  ne  può  nscire 

Se  il  gran  non  vai  tre  lire  „.  (') 

E  il  Busini  scrive  al  Varchi  come  nel  '27  quando 
uno  dei  Da  Diacceto,  detto  il  Cicala,  uccise  uno  dei 
Gherardini,  soprannominato  //  Gracchia,  si  cantò  per 
Firenze  una  Canzone  che  cominciava: 

Il  Cicala  ha  morto  il  Graccliia.  (-) 

Stampe  rarissime  del  tempo  ci  conservano  Can- 
zoni in  lode  dei  Medici  e  della  loro  insegna:  questa 
ad  esempio  che  si  riferisce  ai  fatti  del  1512  : 

Sempre  Palle,  e  Lega  lega 
Ciascun  gridi  con  gran  festa; 
E  nessun  non  faccia  testa, 
Canti  ognun  con  faccia  allegra. 

Palle  palle  su  cantiamo, 
Palle  palle  ciascun  canti, 
Grandi,  piccol,  tutti  quanti 
Tutti  Palle  su  gridiamo  ecc.  (^) 


(1)  Vabchi,  storie  fiorentine,  Firenze,  Le  Mounier,  1857,  voi.  I,  p.  ù8. 

(-)  Lettere,  Firenze,  Le  Monnier,  1861,  pag.  71. 

(5)  Sonetti  e  Capitoli  in  lode  della  inclita  casa  de"  Medici,  nuovamente 
composti.  —  Fece  stampare  Maestro  Zanobi  della  Barba.  Vi  è  unita  un'altra 
Canzone  che  comincia:  Son  le  ptille  sì  hcdzale,  e  uno  Strambotto,  non  che 
altre  rime  di  forma  letteraria. 


62  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

La  seguente  invece,  che  pare  l'urlo  di  un  energu- 
meno, dovè  esser  composta  poco  appresso,  quando 
Giovanni  fu  eletto  papa  col  nome  di  Leone  : 

Palle,   Palle,  viva,  viva, 

Grida  il  mar,  la  terra,  il  cielo, 

Venga  ognun  con  pronto  zelo 

A  dir  Palle,  e  viva,  viva. 
0  soave  e  lieta  insegna 

Ben  girò  la  ruota  a  sesto  ! 

Qual  fu  mai   casa  più  degna  ? 

El  suo  nome  è  manifesto. 

Tutto  '1  mondo  oggi  s'è  desto 

A  dir:  Palle,  e  viva,  viva.... 
Palle,  Palle,  Palle,  Palle, 

Grida  ognun  giovine  e  vecchio  ; 

Rosse  sieno  e  non  più  gialle, 

Del  lion  fortezza  e  specchio; 

Rintronar  sento  ogni  orecchio 

Nel  dir:  Palle,  e  viva,  viva. 
Tante  volte  ho  Palle  detto 

Che  alla  fin  tornonno  a  galla  : 

Balzan  oggi  per  diletto, 

Per  letizia  ognun  traballa: 

0  felice  e  grata  Palla, 

El  tuo  nome  eterno  viva  ! 
Poi  che  '1  ciel  le  Palle  onora 

Sia  quest'arme  universale  ; 

Palle,  palle  drento  e  fuora, 

Sopra  gli   usci,  acquaj  e  scale; 

Chi  l'ha  sperse  per  suo  male 

Le  rifaccia,  e  gridi   viva.  (') 

Che  durante  l'assedio,  in  quella  grande  commo- 
zione degli  animi  uniti  in  un  solo  pensiero  di  carità 
patria,  tacesse  la  musa  popolare,  non  possiamo  cre- 
derlo, sebbene  il  Varchi  senil)ri  alludere  soltanto  a 


(1)  Trovasi  questa  Caii/.uiio  in  lino  del  rarissimo  libercoli):  CK^tellunus 
de  Caslellanis  ì.  dottor,  In  laudibiis  Auiictiòn.  p.  Leonia'  de  Medìcis  noviler 
creati. 


LA   POESIA    POPOLARE   ITALIANA.  63 

poesie  letterarie  quando  ricorda  che  "  in  varj  luoghi 
da  diverse  persone  dotte  molti  versi  componevansi, 
COSI  latini  come  toscani,  parte  in  lode  della  città,  e 
parte  in  biasimo  del  pontefice,  i  quali  non  è  neces- 
sario che  quivi  si  pongano  altrimenti  „.  Q)  Ma  so 
di  queste  rime  eulte,  che  secondo  lo  storico  sareb- 
bero state  in  gran  numero,  oltre  il  primo  verso  di 
due  sonetti  di  Salvestro  Aldobrandini,  altro  non  ci 
resta  salvo  un  sonetto  di  Veronica  Gambara,  per 
non  dire  di  altro  sonetto  del  Casa  e  delhi  vitupe- 
rosa Canzone  di  Claudio  Tolomei  all'Orange,  non 
in  lode  ma  contro  la  magnanima  città;  non  devo 
far  meraviglia,  che  le  Canzoni  nate  fra  il  popolo 
sparissero  dalla  memoria,  quando  i  vincitori  infello- 
nirono sì  crudelmeiìte  sui  vinti. 

Del  resto,  in  quell'età  di  grandi  connnovimenti, 
di  nuovi  ed  inopinati  casi,  di  sciagure  pietosissime, 
che  corre  tra  la  calata  di  Carlo  Vili  C)  e  l'assodarsi 
del  dominio  spagnuolo  in  Italia,  non  in  Firenze 
soltanto,  ma  in  tutta  la  penisola,  la  Canzone  popo- 
lare fu  bene  spesso  di  politico  argomento.  Se  d'al- 
tronde noi  sapessimo,  ce  ne  darebbe  certezza,  chi  il 
crederebbe?,  Gonzalo  Ferdinando  d'Oviedo  nella  sua 
Naturale  et  generale  N/storia  delle  Indie  a'  tempi  no- 
stri ritrovate.  (^)  Il  quale  parlando  delle  Ballate  degli 


(1)  Storie,  ediz.  cit ,  voL  II,  pag.  203. 

(2)  A  questi  tempi  appartiene  un  mottetto  Litino,  musicato  dal  Com- 
pere: Quis  numerare  qiieat  Belìoruin  praeha  sacra,  che  secondo  lo  storico 
della  musica  Guglielmo  Anibros  si  riferisce  alla  calata  di  Carlo  VIII; 
"quando  l'Italia,  stanca  per  la  vergognosa  guerra  invocava  dal  cielo  la 
sospirata  pace:  Da  pacein,  domine  è  il  grido  che  emana  da  quella  pagina, 
che  avrà  echeggiato  sotto  le  volte  de'  nostri  templi,  e  cosi  avranno  con 
-ansia  risposto  i  battiti  di  tanti  cuori  f  A.  Vernarecci,  Ottaviano  de'  Pe- 
trucci,  Bologna.  Romagnoli,  1882,  pag.  82)  „. 

(3)  Nella  Raccolta  del  Ramusio,  Venetia,  Giunti,  ICOG,  voi.  Ili,  pag.  9.3. 
Ma  notisi,  quanto  al  nome,  elio  nella  stessa  pagina  sono  usate  promiscua- 
mente le  forme  di  Areilo  e  Arieto. 


64  LA   POESIA   rOPOLARE   ITALIANA. 

Indiani,  cliiamate  Areiti,  con  che  si  ricordano  da  essi 
le  cose  passate  ed  antiche,  soggiunge,  descritta  la  ma- 
niera propria  del  canto  e  del  ballo  :  "  Questa  ma- 
niera di  balli  si  somiglia  alquanto  alle  danze  de'  con- 
tadini, quando  la  primavera  in  alcuni  luoghi  di 
Spagna  si  prendono  a  questa  guisa,  e  gli  uomini  e 
le  donne  sollazzano  con  cemboli;  et  io  bo  in  Fiandra 
veduto  uomini  e  donne  in  molti  cerchi  cantare  bal- 
lando, e  rispondendo  ad  uno  che  guidava  gli  altri, 
et  era  il  primo  a  cantare.  Nel  tempo  che  "1  com- 
mendatore maggiore  fra  Niccola  d'Ovando  gover- 
nava l'isola,  fece  davanti  a  lui  un  Areito  l'Ana- 
caona,  che  fu  moglie  del  Caciche  Caonabo,  la  quale 
fu  gran  signora,  et  andavan  in  questa  danza  più 
di  300  donzelle,  tutte  create  sue,  et  non  ancora  ma- 
ritate ;  perchè  non  volle  che  nel  ballo  entrasse  uomo 
alcuno,  ne  donna  che  avesse  conosciuto  uomo.  Sì  che 
ritornando  al  proposito  nostro,  questa  maniera  di 
cantare  in  questa  e  nell'altre  isole  et  in  terra  ferma 
anco,  è  una  istoria  o  un  ricordo  di  cose  passate, 
così  di  guerra  come  di  pace:  perchè  col  contino- 
vare  queste  canzoni  non  si  vengono  a  dimenticare 
i  gesti  e  l'altre  cose  accadute,  che  restano  impresse 
nelle  memorie  loro,  invece  di  libri.  Per  questa  via 
recitano  le  genealogie  de'  loro  Cacichi  et  Signori,  et 
i  gesti  e  l'opere  loro,  con  li  buoni  o  cattivi  tempi 
che  passati  hanno,  et  altre  cose  che  essi  vogliono 
che  si  sappiano  da'  piccoli  et  da'  grandi  et  che 
non  vadano  in  oblivione;  e  spezialmente  le  famose 
vittorie  avute  in  battaglia....  Et  non  paja  al  lettore 
che  questo  che  io  ho  detto,  sia  cosa  molto  selvaggia 
et  strana,  perchè  in  Spagna  si  usa  il  medesimo  et 
in  Italia,  et  nella  maggior  parte  de'  cristiani  penso 
che  debbia  farsi  così.  Perciò,  che  altra  cosa  sono  li 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  65 

Romanzi  o  Canzoni,  che  si  fondan  sopra  cose  vere, 
se  non  una  parte  dell'istorie  passate?  Almen  fra 
coloro  che  non  sanno  leggere,  per  via  di  Canzoni 
si  sa  che  stando  il  Re  Don  Alfonso  nella  città  di 
Siviglia  li  venne  in  cuore  d'andare  ad  assediare 
Algezira,  perchè  così  si  canta  in  una  Canzone,  e 
così  fu  nel  vero:  che  da  Siviglia  partì  il  Re  Don 
Alfonso  secondo,  (^)  quando  quel  luogo  guadagnò,  e 
fu  a'  28  di  Marzo  del  1344  :  di  modo  che  ha  189  anni 
che  questa  Canzone  o  Areito  dura.  Et  per  un'altra 
Canzone  si  sa  che  il  Re  Don  Alfonso  VI  fece  corte 
in  Toledo  per  compire  di  giustizia  al  Cid  Ruidas  et 
alli  Conti  di  Carione.  Questo  re  Alfonso  VI  morì  il 
primo  di  Luglio  del  llOG,  sì  che  son  passati  fino  ad 
ora  429  anni,  et  erano  state  già  prima  le  contese 
delli  Conti  di  Carion  et  del  Cid;  et  fino  ad  oggi  dura 
questa  memoria  o  Canzone.  Per  un'altra  Canzonetta 
si  sa  anco,  che  il  Re  Don  Sancio  di  Leone,  primo 
di  questo  nome,  mandò  a  chiamare  Fernan  Gon- 
zales  suo  vassallo,  perchè  venisse  alla  corte  di 
Leone  ;  questo  Re  Don  Sancio  prese  il  regno  nel  924 
della  salute  nostra,  et  regnò  12  anni,  di  modo  che 
morì  nel  936,  et  sono  fino  ad  oggi  più  di  597  anni 
che  questo  Areito  o  Canzone  in  Spagna  dura.  In 
Italia  anco  si  canta  una  Canzonetta  che  dice  : 

Alla  mia  gran  pena  e  forte 
Dolorosa,  afflitta  e  rea, 
Diviserunt  vesteni  niea»i 
Et  super  eam  mlsenint  sorieni  ;  {'^) 

et  la  compose  il  Re  Federigo  di  Napoli  nel  1501 


(1;  Così  la  stampa;  ma  correggasi  secondo  in  itndeiimo. 

(-)  Per  questa  mescolanza  di  motti  e  versetti  biblici  o  liturgici  iu 
poesie  volgari  vedi  F.  Novati,  La  parodia  sacra  nelle  ietterai,  moderne, 
in  Studi  critici  e  letterari,  Torino,  Loescher,  18S9. 

D"Ancoxa,  La  poesia  pop.  ital.  —  5 


66  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

che  perse  il  regno,  perdio  centra  lui  s'unirono,  et 
toltogli  regno  so  lo  divisero  insieme,  il  Re  catto- 
lico di  Spagna  et  il  Re  Luigi  di  Francia,  che  fu 
predecessore  del  Re  Francesco,  che  oggi  vive.  Questa 
Canzone  ha,  che  si  canta,  34  anni,  et  non  si  dimen- 
ticherà di  molto  altro  tempo.  Nella  prigione  del 
medesimo  Re  Francesco  si  compose  un'altra  Can- 
zone 0  Areito,  che  dice  : 

Ee  Francesco,  mala  guida 
Dalla  Francia  voi  portaste, 
Poi  che  qui  prigion  restaste 
Di  Spagnuol  presso  a  Pavia. 

Et  pur  cosa  nota  è,  che  questo  passò,  così  in  ef- 
fetto :  che  stando  il  Re  Francesco  di  Franza  con 
ogni  suo  sforzo  sopra  Pavia,  fu  in  battaglia  vinto 
et  fatto  prigione  co  '1  fiore  della  Francia  a'  24  di  Fe- 
braro  del  1525,  dal  valoroso  capitano  il  signor  An- 
tonio di  Leva  et  dalTesercito  imperiale  che  lo  soc- 
corse. Si  che  questa  Ballata  o  Areito,  è  tale  che  a 
guisa  d'un' istoria  farà  sempre  chiara  una  cos'i  glo- 
riosa vittoria,  per  accrescere  i  trofei  della  Maestà 
Cesarea  et  de'  suoi  Spagnuoli,  et  mentre  durerà 
il  mondo  et  da  i  fanciulli  et  da  i  vecchi  si  can- 
terà sempre  questa  Canzone.  Et  di  questo  modo 
ne  vanno  oggi  molte  altre  simili  per  tutto,  che  si 
cantano,  et  si  fanno  da  quelli  anco  cbe  non  sanno 
leggere  „. 

Di  questi,  come  l'Oviedo  li  chiamerebbe,  Areifi 
italiani,  possiamo  arrecare  parecchi  esempj  :  ed  uno 
de' pili  antichi  è  quello  per  la  morte  di  Jacopo  Pic- 
cinino, ucciso  a  tradimento  dal  Re  di  Napoli  nel  14G5, 
e  che  comincia  : 

Pianga  '1  granile  e  '1  piccolino, 
De'  bracceschi  ogni  soUlato, 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIAXA.  67 

Poi  che  morto  è  il  nominato 
Conte  Jacom  Piccinino.  (') 

Un  altro,  pur  col  metro  deirottonario,  die  a  tutti 
generalmente  è  j^roprio,  ed  è  il  metro  più  comune 
della  Ballata,  celebra  la  lega  de'  Veneziani  e  dei 
Francesi  contro  il  Moro  (1499),  ed  è  una  Canzone 
di  guerra  degli  uomini  d'arme  della  Repubblica,  che. 
avverte  il  codice  ond  e  tratta,  se  cauta  in  campo  de 
Cara  va zo  : 

Ora  il  Moro  fa  la  danza 

Viva  Marco  e  '1  rei  di  Pranza..,. 
Tu  sai  bene,  oca  sforzesca, 

Che  per  te  cominciò  il  ballo, 

Quando  festi  uscire  il  Gallo.... 
Che  credevi,  o  sfortunato, 

Che  San  Marco  fosse  morto  ? 

Ed  a  quei  che  li  fa  torto 

Non  sapesse  dar  la  mancia? 
Ora  il  Moro  fa  la  danza  : 

Viva  Marco  e  '1  roi  di  Pranza.  (^) 

Gridavasi  allora  in  favor  di  Francia,  ma  evi- 
dentemente questa  Cauzone,  come  l'altra  dell'anno 
innanzi  :  Moro,  Moro,  questa  danza,  sono  rifacimenti, 
secondo  i  tempi,  di  altra  anteriore,  la  quale  rispon- 
deva ad  altre  condizioni.  Difatti  l'oratore  milanese 
Battista  Sfondrati  ai  21  dee.  1496  così  scriveva  da 
Venezia  al  suo  signore  :  "  Qui  fo  facto  beri  publica 
crida,  per  la  quale  se  iniunge  grande  pena  ad  chi 
andarà  pili  cantando  o  dicendo  per  Venetia  quella 
Canzone  quale  si   era  solita  cantare   per   la  terra 


(1)  Rosmini.  Sf.  di  Milano,  Milano,  18-20,  voi.  IV,  pag.  77  ;  Fabeetti, 
Biograf.  de'  Capit.  ventur.  dell'Umbria,  pag.  .3.57. 

(2)  Trucchi,  Poesie  italiane  inedite  di  diigento  autori,  Prato,  Guasti. 
184:7,  voi.  Ili,  pag.  102:  vedilo,  con  miglior  lezione,  in  S.  Fekraei,  Poesie 
tu  Lod.  il  Moro,  Bologna,  Zanichelli,  1887. 


68  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

tutti  questi  mesi  passati,  che  incomenza  :  El  reame 
fa  la  danza,  dove  è  quella  parte  Mora,  mora  el  re 
(Il  Franza.  Et  li  sono  deputati  tre  gentilliouiini,  che 
facino  inquisitione  de  li  contrafactori  „.  (^) 
Ma  dopo  la  caduta  del  Moro,  si  cantava  : 

Ogni  fumo  viene  al  basso,  (-) 

Contro  il  ciel  non  vai  trar  calzi: 
Se  talora  par  che  '1  s'alzi, 
Soffre  al  fin  maggiore  il  squasso: 

Ogni  fumo  viene  al  basso.... 
Che  ti  giova  aver  tesoro  ? 
Ognun  grida  :   mora  il  Moro  ! 
]1  Leone  e  il  Gal  tra  loro 
Si  comparte  il  stato  grasso  : 

Ogni  fumo  viene  al  basso.... 
Chiama  mo'  per  tuo  governo 
Turco,  turco,  in  sempiterno  ; 
Chiama  il  diavol  da  l'inferno 
Che  ti  aiuti  a  simil  passo  : 

Ogni  fumo  viene  al  basso. 
Aspettar  tanto  t'inveschi 
Nel  soccorso  dei  Tedeschi  ; 
Pili  non  sai  ciò  che  ti  peschi  : 
Va'  leggero,  or  vanne  a  spasso 

Ogni  fumo  viene  al  basso.  (^) 


(1)  E.  Motta,  in  Archìrio  Veneto,  XXXVII,  146;  e  vedi  A.  Medin,  La 
Storia  delia  repiihì/l.  di  Venezia  nella  Poesia,  Milano,  Hoepli,  1004,  pag.  l.'l.'i  n. 
Una  severa  proibizione  dell'autorità  pnbl)lica  rispetto  ad  una  Canzone  po- 
polare non  scevra  forse  d'allusioni  politiche,  la  troviamo  anche  in  Genova 
ai  l.'J  dee.  15:22,  quando  fu  vietata  la  maledetta  canzone  de  Balaridone,  quale 
contamina  le  menti  non  soliim  de'  secolari,  ma  de'  religiosi,  cosci  homini  come 
done,  che  la  odeno,  sotto  pena  di  multa  o  fustigazione.  E  se  saranno  putti , 
li  saranno  date  tante  patte.  Della  canzone  non  si  conosce  altro  che  il  ri- 
tornello: Balaridon  ridon,  ridona,  Balaridon,  ridon,  rida:  v.  Belgrano, 
in  Caffaro  del  2(>  dee.  1882. 

('-)  Tale  e  pure  il  principio  di  una  Frottoletta  cantra  Viniziani  di  un 
poeta  Betuzo  da  Cotignola:  vedi  Medin,  op.  cit.,  pag.  509. 

(3)  Trucchi  cit.,  p.  104.  —  A  questi  tempi  e  ad  una  Canzono  popol.Tif 
appartengono  certo  i  duo  versi  riforiti  dal  Nakdi,  St.  di  Firenze,  cdiz.  cit.. 
voi.  I,  pag.  171  : 

Cristo  in  cielo  e  il  Moro  in  terra 
Sol  sa  il  fin  di  questa  guerra. 


LA   POESIA   POPOLARE    ITALIANA.  69 

Quest'altra  Ballata  fu  composta  per  la  venuta  del 
Ke  Lodovico  XII  di  Francia  e  dopo  la  conquista  della 
Lombardia  ;  e  così  comincia  : 

Viva  il  Re  alto  e  soprano 
Che  di  Fianza  ha  la  corona: 
Ch'è  venuto  in  persona 
A  far  guerra  al  Veneziano  : 

Viva  il  Re  alto  e  soprano.  (') 

E  segue  narrando  tutte  le  imprese  del  Re  dal  giorno 
che  s'insignorì  di  Milano  fino  alla  vittoria  sui  Ve- 
neziani alla  Ghiara  d'Adda  (1509),  incolpando  Ve- 
nezia d'ogni  male  occorso,  e  chiamando  su  lei  la 
vendetta  del  cielo: 

Venezian,  che  volete  fare? 

Poco  vai  vostro  tesoro.- 

Io  vi  vedo  rovinare, 

Con  il  vostro  argento  e  oro  : 

Voi  mandaste  via  il  Moro, 

Cercastivi  vostra  mina, 

E  così  una  mattina 

Simil  festi  di  Ascano  ; 

Viva  il  Re  alto  e  soprano. 
Quante  guerre  è  state  in  Italia 

Voi  ne  siate  stati  cagione  : 


Il  qual  motto  proverbiale  è  ricordato  anche  nel  Fiaiifo  et  Luìnento  del- 
l'IIÌ.mo  Sig.  Ludovico  Sforza  che  già  fu  Duca  di  Milano,  composto  pei-  un 
Vito  fido  cangilero,  Jiomo  valentissimo  : 

Son  quel  Duca  di  Milano 

Che  con  pianto  sto  in  dolore.... 
Io  diceva  che  un  sol  Dio 

Era  in  cielo,  e  nn  Moro  in  terra: 

E  secondo  il  mio  disio 

Io  facevo  paco  e  guerra  ecc. 

Vedi  Rosmini,  St.  di  Milano,  voi.  Ili,  pag.  252. 

(1)  Trovasi  nell'Ambrosiana,  e  l'autore  si  manifesta  per  un  tal  Simone 
Litta  da  Milano  :  nel  frontispizio  è  raffigurato  Marte  che  percuote  Venezia. 
La  ballata  fu  tradotta  in  francese  e  stampata  a  Lione:  vedi  Medin,  op.  cit.. 
pag.  511. 


70  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Vostro  gran  foco  di  paglia 

Fatto  ha  poca  fazione  : 

Perchè  allora  Biscione 

Si  avea  gran  possanza; 

Voi  chiamasti  il  Re  di  Franza  : 

Venga,  venga  il  tramontano: 

Viva  il  Re  alto  e  soprano. 
E  mo'  che  gli  è  venuto, 
In  bon'ora  alle  tue  spese 
Tutto  il  mondo  gli  dà  ajuto 
Per  scacciarti  del  paese: 
E  così  i  Milanese 
Li  mettesti   in  gran  tempesta; 
L'è  venuto  la  sua  festa 
Che  usciran  fuori  d'affanno: 

Viva  il  Re  alto  e  soprano  ecc. 

Quest'altra  Ballata  invece  è  in  vituperio  dello 
stesso  re  Lodovico,  e  deve  esser  stata  scritta  dopo 
gli  avvenimenti  del  1512  : 

Su  su  su,  Furie  infernale 

Con  le  vostre  ardente  face, 

Da  poi  che  per  me  la  pace 

Non  si  trova  in  tanto  male: 

Su  su  su,  Furie  infernale. 
Io  son  quel  Re  di  Franza 

Che  nomato  nella  Italia, 

Tanta  era  mia  possanza 

Più  che  Cesare  in  Tessalia; 

Ora  ho  perso  la  scrimaglia 

E  la  mia  fiorita  gente: 

Ohimè,  tardi  me  ne  pente: 

Cosi  voglion  le  fatale: 

Su  su  su.  Furie  infernale... 
Poi  ch'io  vedo  che  Bellona 

Tolta  sì  m'à  ogni  possanza, 

lo  starò  con  veste  bruna. 

Sempre  mai  senza  speranza; 

Trista  te,  superba  Franza, 

Fatta  sei  del  ciel  nemica: 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  71 

L'è  ben  tempo  che  io  dica: 
A  Dio  patron,  gè  me  ne  aie: 

Su  su  su,  Furie  infernale.  (^) 

E  intanto  che  così  la  musa  popolare  faceva  che 
il  re  francese  si  disperasse,  un'altra  voce  gli  gri- 
dava, ripetendolo  sempre  come  ritornello: 

Non  sperar  piìi,  re  de  Franza, 
e  fra  altre  cose  gli  diceva: 

Tu  ti  avevi  posto  in  core 
E  giurato  nel  tuo  petto 
Di  voler  che  '1  Gran  Pastore 
Fatto  fosse  un  petit  niretto; 
Che  lui  t'ha  fatto  un  galletto 
Senza  cresta  e  senza  coda; 

ammonendolo  coll'esperienza  del  passato: 

Tu  puoi  ben  considerare 

Se  non  hai  il  cor  di  paglia 

Che  mai   Franza  potè  durare 

Lungamente  in  quest'Italia.... 
Alla  venuta  di  Carlo  re 

In  Italia,  nostri  paesi, 

El  g'è  morto,  per  mia  fé', 

Cento  miara  de  Francesi, 

Sicché  adonca,  in  'sti  paesi 

Non  pon  far  vecchi  li  ossi  ; 

El  n'è  pieno  i  pozzi  e  i  fossi; 

Per  la  sua  prava  'roganza.  (^) 


(1)  Da  stampa  rarissima,  conservata  anch'essa  nella  Biblioteca  Am- 
brosiana, riprodotta  nella  raccolta  Medis-Frati,  III,  145.  —  G.  A.  Prato  ri- 
corda una  Canzone  popolare  milanese  di  questi  tempi,  quando  la  fortuna 
di  Lodovico  XII  volgeva  in  basso:  Questa  nova  tanto  ingagliaì-dì  li  animi 
(iella  plebe  di  Milano,  che  già  si  teneano  per  certo  di  avere  il  tutto  vincto: 
et  facto  aveano  una  canzone  in  terza  rima  che  dicea  :  Pane  di  miglio  et  acqua 
Ha  caccia  il  sig.  Jan  Jacomo:  Arch.  Star.  voi.  III,  pag.  340. 

ì;2)  Medix-Feat],  III,  321,  e  E.  G.  Ledos,  Frottola  del  J?e  de  Franza, 
Chanson  populaire  contre  Louis  XII,  Montpellier,  Hamelin,  1893.  Contro  i 
Francesi  è  pure  una  Frottola  politica  scritta  nel  1504,  pubblicata  da  G.  Eyveau, 


72  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

E  del  1512  è  quest'altra  Canzone  o  Barzelletta, 
che  invita  i  Genovesi  a  recuperare  la  loro  libertà 
a  zò  sia  sto  Boi  distrutto: 

Su  su,  Genoa,  in  libertade; 

Disse  un  giorno  il  Santo  Padre; 
Cacciani  fuor  le  genti  ladre 
Di  tua  bella  e  gran   cittade: 

Su,  su  Genoa,   in  libertade.  (') 

Dalla  menzione  che  vi  si  fa  di  Pio  III  si  scorge 
che  quest'altra  sia  più  antica,  ed  appartenga  al  1503, 
quando  il  misero  regno  napoletano  era  conteso  fra 
Spagnuoli  e  Francesi  : 

Son  quel  Regno  sfortunato 

Pien  di  pianto,  danni  e  guerra: 

Francia  e  Spagna  in  mare  e  in  terra 

M'hanno  tutto  disolato: 

Son  quel  Regno  sfortunato.... 
Prosperai  in  sommo  bene, 

Vissi  un  tempo  in  santa  pace: 

Poi  cascai  in  foco  e  in  pene, 

Tra  le  reti,  lacci  e  face.... 
El  magnanimo  Ferrando 

Del  gran  sangue  di  Ragona, 

Ebbe  Italia  al  suo  comando, 

Tremar  fece  ogni  persona: 

Poi  che  morse  sua  persona 

Persi  il  ramo  de  l'oliva: 

Or  più  pace  non  si  scriva 

Per  me  tristo  disgraziato: 

Son  quel  Regno  sfortunato. 


Torino-Roma,  1891,  elie  toccando  via  via  di  tutte  le  regioni  d'Italia,  mostr.a 
i  danni  che  ebbero  dai  Francesi,  concliiudendo  a  questo  modo: 

El  Franzeso  e  il  Taliano 
L'uno  e  l'altro  par  cortese; 
Ch'ognun  stia  al  suo  paese 
Prego  il  re  del  Paradiso. 

(1)  Riferita  per  intero  da  F.  Gras.setto  nel  suo  Viaggio  lungo  le  coste 
dalmate,  greco-venete  ed  italiche,  pubbl.  da  A.  Ceeuti  nei  voi.  della  R.  Do- 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  73 

E  dopo  narrati  tutti  i  suoi  mali,  e  invocato  l'acuto 
di  tutti  i  potentati  d'Italia  e  d'Europa,  conchiude: 

Gli  è  dieci  anni  eh'  io  son  gramo, 
Che  mai  pace  a  me  si  piega: 
'Taccherommi  a  qualche  ramo, 
Come  quello  el  qual  s'annega; 
Se  non  veggo  pace  o  tregua. 
Chiamerò  in  mare  e  in  terra 
E!  gran  Turco  con  sua  guerra. 
Come  Regno  disperato: 

Son  quel  Regno  sfortunato.  (') 

E   agli   stessi   avvenimenti  si  riferisce  quest'altro 
Lamento  : 

Triema  il  ciel  la  terra  e  '1  mare; 
Poi  che  Franza  e  '1  campo  ispano 
Sono  giunti  al  Garigliano, 
Sarà  crudo  battagliare. 

Triema  il  ciel,  la  terra  e  '1  mare. 
S'  e'  Franzesi  vuol  il  regno 
Convien  tórlo  con  la  spada; 
Li  Spagnuoli  mossi  a  sdegno 
Franza  stimano  per  nada: 
Signoreggiano  ogni  strada 
Del  bel  regno  signorile; 
Stan  con  animo   virile 
Per  voler  battaglia  fare: 

Triema  il  ciel,  la  terra  e  '1  mare.  (-) 

Diamo  ancora  altri  due  esempj  di  questi  Areiti, 
che  fra  noi  ebbero  il  nome  di  Lamenti  ;  e  primo  sia 


pntaz.  Veneta  di  Storia  patria,  Venezia,  188-1.  pag.  48.  Il  meclesimo  viag- 
giatore riferisce  un  Lamento  dei  Fiorentini  contro  il  Re  Carlo  per  la  libe- 
razione di  Pisa,  p.  77.  La  Barzelletta  genovese  è  anche  in  Neki,  Poesie 
storiche  genovesi,  Genova,  Sordo-muti,  1885,  p.  36,  dove  sono  pure  altri 
componimenti  in  versi  di  argomento  storico,  del  1-16Ì  e  del  1473. 

(1)  La  historia  di  quel  Regno  isforttinato.  Fece  stampare  Francesco 
di  Iacopo  della  Spera:  opuscolo  nella  Tjivulziana.  Ora  è  riprodotto  nella 
raccolta  Medix-Frati,  IV,  1. 

(2)  Raro  opuscolo,  s.  a.  n.,  della  Palatina  di  Firenze. 


74  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

questo  del  re  Francesco  dopo  la  rotta  di  Pavia: 

Son  di  Fianza  el  re  Cristiano 

Che  son  sciolto  con  amore 

Da  lo  sacro  Iinperadore, 

Ch'era  preso  di  sua  mano: 

Son  di  Franza  el  re  Cristiano. 
Per  aver  in  mia  possanza 

Milan  grande  e  ancor  Pavia, 

Mi  partì'  di  Gallia  mia 

Con   duo!   re  di  gran  possanza; 

Duchi,  Conti  con  leanza 

Mi  seguivan  sopra  el  piano  : 

Son  di  Franza  el  re  Cristiano... 
Ebbi  incontra  la  fortuna, 

Ebbi  incontra  e  cielo  e  terra, 

Ebbi  incontra  sole  e  luna, 

Ebbi  incontra  l'aspra  guerra, 

Perciò  fu  posta  per  terra 

La  mia  gente  sopra  el  piano: 

Son  di  Franza  el  re  Cristiano.  (^) 

Qiiesfiiltimo  è  il  Lamento  di  Siena  (-)  per  l'as- 
sedio che  la  ridusse  in  signoria  di  Cosimo  : 

Sono  Siena  sfortunata 

Che  pensavo  di  far  bene: 

Sono  entrata  in  tante  pene: 

Certo  fui   mal  consigliata: 

Sono  Siena  sfortunata. 
Quando  facemmo  il  consiglio 

Di  cacciare  gli  Spagnuoli, 

Non  mirammo  il  gran  periglio. 

Né  a'  nostri  gravi  duoli. 

Sopra  noi  e'  nostri  figliuoli 


(1)  Ristamp.  nell.T,  Unccoìla  di  Cronisti  e  Documenti  storici  lomhiirdl, 
Milano,  Colombo,  18J7,  voi.  II.  pag.  247,  e    nella  race.  Medin-Feati,  IIL  .'Ì21. 

(2)  Stamp.  da  Dom.  Giiaflì  in  Firenze,  dopo  il  Lamento  di  Fiero 
Strozzi:  il  raro  opuscolo  si  conserva  iieirArcli.  di  Stato  in  Firenze,  cart. 
Strozziane,  Serie  Uguccioni,  M,  3,  135. 


LA  POESIA   POPOLARE    ITALIANA.  75 

Correran  tutte  le  offese, 
Perchè  veggio  che  '1  Francese 
Non  ne  vie»  con  sua  brigata: 

Sono  Siena  sfortunata. 
Questi  miei  gran  capitani 

Che  son  dentro  alle  mie  mura, 
Son  pur  tutti  Italiani, 
Mostran  star  senza  paura: 
Ma  chi  vede  la  pianura 
E  la  valle  e  le  pendice, 
S'egli  è  ver  quel  clie  si  dice. 
Non  arò  buona  deirata: 

Sono  Siena  sfortunata.  {') 

Per  questo  modo  e  in  questa  forma,  atta  alla  re- 
citazione in  pubblico  e  al  canto,  si  spandevano  per 
tutta  Italia  le  notizie  dei  fatti  di  qualche  importanza, 
che  accadevano  in  questa  o  in  quella  parte  della  Pe- 
nisola, come  al  di  d'oggi  farebbero  le  Gazzette,  salvo 
che  la  trasmissione  da  un  punto  all'altro  non  era 
tanto  sollecita.  Ma  l'esser  queste  Canzoni  recitate 
e  cantate  in  pubblico  faceva  sì  che  le  notizie  degli 
avvenimenti  politici  si  spandessero  largamente  fra 
le  plebi,  e  forse  più  addentro  penetrassero  che  non 
al  di  d'oggi. 

Allo  stesso  genere  appartengono  i  Poemetti  sto- 
rici, de'  quali  è  gran  copia  nel  periodo  che  corre 
dalla  discesa  dei  Francesi  alla  perdita  dell'indipen- 
denza d'Italia:  (')  tanto  che  si  potrebbe   con  essi  e 


(1)  NeHa  prima  edizione  di  questi  stndj  avevo  q\ii  posto  una  nota 
bibliografica  di  alcuni  Lamenti  del  sec.  XV  e  XVI.  diventata  inutile  dopo 
la  pubblicazione  di  A.  Medin,  Lamenti  dei  sec.  XV  e  A'I'/,  Firenze,  aJl' in- 
segna di  Dante.  ISS'i,  e  più  ancora  dopo  ramplissinia  raccolta,  per  cura 
dello  .stesso  Medin  e  di  L.  Frati,  di  Lamenti  storili  (lei  sec.  XIV,  XV  e  XVI, 
voi.  I,  Bologna,  Romagnoli,  1887,  voi.  II,  ibid.  1888,  voi.  IIL  ibid.  1890, 
voi.  IV.  Verona-Padova,  Di-ucker,  189-1. 

(-)  Ve  ne  lia  tuttavia  anche  del  tempo  anteriore  :  per  esempio  la 
Battaglia  d'Angliiari,  stampata  dal  FaiìKEtti,  op.  cit ,  pag.  249  ;  la  J'resa 
di  Se>-ez--(iia  :  v.  Libki,  Catal.  1847,  n.  Vl(i2,  ristampata  dal  Fanfa.vi  (Fi- 
renze,  1862),   e   dal  Neri   (Sarzana,   1867),  il    Sacco  di  Volterra  del   1472, 


76  LA   POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

per  essi  raccontare  tutta  quanta  la  storia  di  que' 
tristi  e  strepitosi  casi  di  guerra.  0  Questi  compo- 
nimenti differiscono  dai  sopra  mentovati  per  la  for- 
ma, epica  anziché  lirica,  e  per  la  maggior  ampiezza 
che  la  natura  stessa  della  variata  forma  dimanda  : 
ma  nel  resto  sono  similissimi  ai  primi,  nati  essendo 
pur  essi  fra  il  popolo  e  per  il  popolo.  Più  che  opera 
sudata  di  qualche  mediocre  letterato,  sono,  infatti, 
il  pili  delle  volte  parto  della  facoltà  poetica  di  un 
improvvisatore  o  canfen'iio  da  piazza,  al  quale  non 
pareva  vero  di  potere  intrattenere  il  pubblico  con 
materia  diversa  dalla  cavalleresca,  ormai  trita,  e 
quando  tutta  l'attenzione  era  vòlta  ai  fatti,  di  ch'era 


pubblicato  con  .altre  poesie  contemporanee  da  L.  Fkati,  Bologna.  lìoma- 
gnoli,  1886,  ecc. 

(1)  E  infatti  brani  dei  varj  Poemetti  si  trovano  in  due  più  grandi 
Poemi  sulle  vicende  d'Italia,  che  formano  una  quasi  compiuta  istoria  dei 
fatti  e  delle  guerre  del  tempo.  Essi  sono  i  seguenti  : 

I.  Cronica  delle  guerre  d'Italia  principiaiido  dal  mille  quattrocento  e 
ìiofanfaqnattro  per  fin  al  mille  cinquecento  e  disdotto,  dove  si  dichiara  tutte 
le  (jnerre  del  regno  di  Napoli  e  di  tutta  Lombardia  et  de  He,  Duchi,  Principi 
et  Signori  discacciati  dal  suo  Stato,  con  una  aggiunta  nuova  del  fine  di  tutte 
le  guerre  fatte  in  Toscana  tra  il  Medichino  tnarchese  di  Marignano  et  il 
signor  Pietro  Strozzi,  e  di  nuovo  con  somma  diligenza  corrette  e  ristampate, 
Venezia,  appresso  Domenico  de  Franeesclii,  1565.  —  Il  poema  in  questa 
edizione  contiene  XII  canti  in  8'  rima,  più  la  relazione  della  guena  di  Siena 
in  prosa.  L'edizione  compiuta  è  invece  in  XX  Canti,  Venezia,  Danza,  1534, 
o  Venezia,  Giov.  Ant.  e  Fratelli  di  S.ibio,  1534,  ed  ha  per  titolo:  Guerre  hor- 
rende  de  Italia.  Tutte  le  guerre  de  Italia,  comenzando  da  la  venuta  di  Re 
Carlo  del  mille  quattrocento  novantaquatro,  fin  al  giorno  presente:  novamente 
stampale  in  otlaca  rima  et  con  diligentia  correcte.  Edizioni  compiute  sono 
anche  quelle  di  Milano,  Da  Borgo,  1545,  e  Milano,  Valcriano  et  Ilieronimo 
fr.atelli  da  Meda,  1560.  I  fatti  n.arrati  vanno  dalla  calata  di  Carlo  Vili  al 
sacco  di  Roma:  l'edizione  di  Venezia,  Bindoni,  1524,  è  probabilmente  l'edi- 
zione principe,  continu.ita  e  compiuta  dappoi. 

li.  /  Successi  bellici  seguiti  nell'Italia  dal  fatto  d'arme  Gieradadda  del 
l.'ìOd  fino  al  pitesente  15S1  ;  cosa  bellissima  et  ìiuora,  di  Xircoi.ò  degli  Ago- 
stini; in  Venezia  per  lo  Zoppino,  1521.  Continuata,  o  toltovi  il  nome  del- 
l'autore diventa:  /  sanguinosi  successi  di  tutte  le  guerre  occorse  in  Italia 
principiando  dal  1509  fino  ai  nostri  tempi,  1569.  Opera  dilettevole  e  bella  et 
in  buonissima  forma  ridotta;  In  Venetia  appresso  Domenico  de  Franceschi, 
156!).  In  questa  edizione  sono  XXVI  Canti  in  8-^  rima,  e  i  fatti  vanno  dalla 
lega  di  Cambray  alla  lilicrazione  di  Malta  dall'assedio  di  Solimano. 


LA   POESIA   POPOLARE  ITALIANA.  77 

teatro  l'Italia.  Citeremo  ad  esempio  la  Botta  di  lìa- 
venna,  ond'è  autore  quell'Altissimo  (')  die,  se  fu  in- 
debitamente stimato  degno  della  laurea  poetica,  fu 
però  certamente  dei  più  infaticabili  cantatori  inhaìica 
die  Firenze  avesse  tra  il  secolo  decimoquinto  e  il  de- 
cimosesto. Compose  sui  lieaìl  di  Francia  e  recitò, 
improvvisando,  com'egli  vorrebbe  far  credere,  (^)  in 
S.  Martino  di  Firenze,  un  poema  in  novantaquattro 
canti,  riducendo  in  ottave  il  testo  in  prosa;  e  finita 
l'opera,  intendeva  por  mano 

Al  libro  del  famoso  Fioravante, 
E  cominciar  domenica  seguente. 

Ma  agli  argomenti  antichi  e  romanzeschi  alternando 
egli  i  soggetti  storici  e  moderni,  in  una  di  quelle  se- 
dute domenicali,  venne  fuori  il  citato  Poema  in  due 
parti,  cantato,  come  si  legge  nella  stampa,  in  S.  Mar- 
tino di  Fiorenza  cdV  improvviso  dall'  Altissimo  poeta  'fio- 
rentino, poeta  laureato,  copiato  dedico  viva  voce  da  varie 
persone  mentre  cantava.  Però  alla  cinquantaquattre- 
sinia  ottava  della  seconda  parte,  dopo  detto  che 

....  il  duca  e  gli  altri  francesi  baroni 
Di  partir  di  Ravenna  ognun  agogna, 
Con  tutto  il  campo,  cavagli  e  pedoni, 
E  presono  il  cammin  verso  Bologna, 


(1)  Comuiiemeute  è  chiamato  Cristoforo  dell'Altissimo;  ma  le  aiiticlie 
stampe  e  i  documenti  portano  Altissimo  senz'altro.  Il  Quadrio  (voi.  II. 
p.  216),  sospettò  che  fosse  confuso  da  un  Iato  con  Cristoforo  dell'Altissimo 
pittore  fiorentino,  o  dall'altro  con  Cristoforo  Sordi  detto  il  cieco  da  Fori), 
famoso  improvvisatore  di  quell'età.  Ma  certo  erra  volendo  che  da  una  sua 
ottava  si  rilevi  che  si  chiamasse  Angelo  e  fosse  dottore  e  sacerdote,  dac- 
ché l'ottava  fa  parte  di  una  ih cocfir/oHe,  tutta  contrapposti  al  condizionale, 
che  non  può  avere  valore  biografico.  Vedi  la  prefazione  di  R.  Renier  agli 
Strambotti  e  Sonetti  dell' Altissimo,  Torino,  Società  bibliofila,   1886. 

{-)  Ma  il  buon  Marin  Sanudo  non  si  lasciò  ingannare,  e  avendo  sen- 
tito l'Altissimo  nel  1.518  a  Venezia,  giudicò  che  quelle  improvvisazioni 
erano  "  cosse  fatte  a  man  e  composta  a  Fiorenza,,  e  ne  ebbe  conferma 
dal  fatto,  che,  terminata  la  seduta,  e  raccolti  i   danari,  il  poeta  pi'omise 


78  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

il  poema  resta  in  tronco,  e  si  fa  questa  avvertenza: 
Xota  cìie  qui  vicnìca  alquante  stanze  cioè  la  fine:  perchè 
il  poeta  venne  in  tanto  spi)-ito  in  su  l'ultimo,  che  la  penna 
0  la  memoria  di  chi  raccoglieva  dalla  sua  voce  non  lo 
poferoìi  seguire.  Qui  chi  vuol  creder,  creda:  ma  è  pur 
strano  che  l'Altissimo  stampando  da  sé  il  poema  ed 
avendone  previlegio  dalla  Signoria,  (^)  non  riempisse 
questa  lacuna  finale:  libero,  dunque,  a  ciascuno  di 
vedervi  impotenza  o  artifizio,  verità  o  ciurmerla. 

Un  Poemetto  in  ottava  rima  senza  titolo  al- 
cuno, (^)  narra  come  Marte  mise  in  cuore  a  un  tra- 
ìiìontan  Signore  De  Vuniverso  imperio  aver  l'onore;  e 
con  molta  rozzezza  di  rime  canta  ai  degni  uditori  e 
discrei  e  persone  l'impresa  di  Carlo  YIII.  (^)  Gli  avve- 
nimenti posteriori    alla   prima  spedizione    francese 


che  "un'altra  fiata  dina  aU"  improvviso  ,  :  vefli  V.  Gian,  Un  decennio  della 
vita  di  /'.  Bembo,  Torino,  Loosclier,  18S5,  p.  239. 

(1)  Vedi  Giornale  Storico  deyli  AicJi.  Tose,  in  Ai-ch.  Stor.,  Nuova  Se- 
rie, IX,  09.  L'edizione  è  a  petizione  di  Alessandro  di  Francesco  liossegli,  s.  a., 
ma  il  breve  della  Signoria  è  del  I.M.">. 

(-)  Vedi  Libri,  Catalogne  del  1847,  n.  12G7.  Erroneamente  da  taluno 
se  ne  vuole  autore  Joannes  dictus  Florentinus,  il  cui  nome  trovasi  dopo  il 
Finis:  ma  sembra  piuttosto  esser  costui  lo  stampatore  o  editore  del  li- 
bretto, tanto  più  che  il  suo  nome  trovasi  allo  stesso  luogo  anche  in  altri 
Poemetti  popolari  di  quell'età.  Un  altro  poemetto  scritto  sullo  stesso  ar- 
gomento è  additato,  e  in  parte  riprodotto  da  H.  Harkisse,  Excerpta  Co- 
lonibiniana,  Paris,  Welter,  18S7.  p.  22:ì.  Rispetto  a  questo  grande  avveni- 
mento, vedi  anche  V.  Rossi,  Foesie  storiche  sulla  spedizione  di  Carlo  Vili 
in  Italia,  Venezia...,  1887,  e  A.  Medin,  /  poemetti  sulla  calata  di  C.  f^JII  e 
la  battaglia  di  Fornovo,  in  liass.  hibliogr.  Ictterat.  iial.,y\\,  180.  —  Per  opuscoli 
francesi  sulla  discesa  di  Carlo  e  la  conquista  di  Napoli,  vedi  Hariìisse,  op.  cit., 
p.  V2'A,  e  J.  Blanc,  Bibliographie  italico-fram;,,  Milano,  Menaggi,  1880,  al  capit. 
Les  franrais  en  Italie,  I.  O-Il  e  segg.  :  nonché  l.a  prophecie  dit  rag  Charles  Vili 
par  maitre  Guilloche  Bourdelois,  ed.  dal  march.  Do  l,a  Grange,  Paris,  1809; 
e  pei  tempi  inimcdiatamonte  successivi  E.  I'icot,  C/iants  histoi-iq.  frane, 
da  XVI  s.,  Paris,  Colin,   190:). 

(3)  Giorgio  .Sommaripa  da  Verona,  che  in  un  pnenia  latiiinnionto  in- 
titolato Dioae  Fortunae  Oratio,  descrisse  in  versi  italiani  la  battaglia  di 
Carlo  Vili  al  Taro,  cantò  anche  i  casi  di  Napoli  in  altro  Poemetto  vol- 
gare, che  mal  si  potrebl)e  collocare  fra  i  popolari,  ed  è  la  Cronica  delle 
cose  geste  nel  liegno  napoletano  ... .  incominzando  a  l'anno  de  la  salute  cin- 
quecento trenta  sette  insinn  per  tutto  el  mille  quattrocento  novanta  cinque: 
v.  Rosmini,  Storia  di  Milano,  III,  217.  —  Vedi  poro  un  canto  jxiiiolarc  del 
tempo  in  obbrobrio  di  Carlo,  in  Imbiìiani.  I,  é-j. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  79 

sono  narrati  nella  Discordia  di  tutti  quanti  li  fatti 
che  sono  stati  in  Italia,  e  si  mei  di  quelli  Signori  che 
soìio  distrutti,  (^)  alludendo  con  ciò  alle  imprese  del 
Valentino  contro  i  tirannelli  di  Honiagna.  E  ai  fatti 
dei  Borgia,  padre  e  tiglio,  spettano  la  Istoria  di 
Ceri,  (^)  in  che  si  canta  Sì  coinè  Cesar  Borgia  Valen- 
tino Bestruggere  voleva  el  Stato  Orsino,  e  come  poi 
precipitò  di  sua  grandezza  al  basso  d'ogni  miseria; 
la  Historia  del  Duca  Valentino  come  fugl  tre  volte  di 
2)regione,  scritta  per  mess.  Francesco  Saccliino  da 
Mudiana;  (^)  la.  Historia  de  la  morte  del  Duca  Valen- 
tino, {*)  e  la  Morte  di  Papa  Alixandro  sesto.  (")  Ai 
casi  del  Moro  e  alla  conquista  della  Lombardia  fatta 
da  Luigi  XII  si  riferiscono  la  Istoria  nova  della  rotta 
e  p>YS«  del  Moro  e  Asranio  e  molti  altri  baroni;  (^) 
la  Storia  conte  il  stato  di  Milano  (d  presente  è  stato 
acquistato ....  et  in  die  modo  et  perchè  si  fuggì  il 
sig.  Lodovicìio  ditto  Moro,  (')  e  poi  la  Morte  del  Re- 


(')  Quadrio,  St.  e  Baglone  ecc.,  VI,  137. 

(-)  Opuscolo  rarissimo,  s.  a.  n..  nella  Palatina  di  Firenze. 

(3)  MoLiNi,  Operette  bibliocìr.,  Firenze,  18.58,  p.  113.  Questo  Saccliino 
(la  Mudiana  stampò  nel  1.507  a  Bologna  un  Lamento  <le  la  morte  deUo  il- 
lustre et  exceìso  S.  Duca  Valentino  (v.  Medin-Frati,  Lamenti,  III.  74),  con- 
tenente poesie  di  vario  metro  in  lode  e  rimpianto  del  Borgia.  La  Cantiun- 
citla,  o  Lamento,  comincia  co-si  : 

Ognun  cridi  e  pianga  forte 

Cesar  Borgia  Valentino. 

Ch'era  in  terra  un  Dio  divino  ; 

Non  sperar  più,  Italia,  corte. 
Pianga  tutta  la  milizia  ecc. 

(<)  Libri,  Catal.,  n.  1273.  Aggiungi  il  C'apitulo  dove  si  contene  tutti  li 
facti  dia  facto  el  D.  V.  et  la  sua  destructione.  Opuscolo  rarissimo,  s.  a.  n., 
che  trovasi  in  una  Miscellanea  dell'Ambrosiana  con  altri  Poemetti  storici 
del  tempo.  Per  le  poesie  sui  fatti  del  Valentino,  v.  i  Lamenti  raccolti  dal 
Medin  e  dal  Frati,  III.  9,  65. 

(5)  Ristampato  dal  March.  G.  D'Adda  wìW Arclt.  Storico  Lombardo, 
anno  II,  1875. 

(6)  RoscoE,  Vita  di  Leon  X,  trad.  Bossi,  11,  p.  115  in  nota;  Rosmini, 
op.  cit..  Ili,  273. 

(")  Rosmini,  op.  c-/7.,p.  Ili,  2"2.  Forse  è  una  cosa  stessa  con  la  Storia 
ijiero  Cronica   come  il  Signore    Lodovico  q.  duca  di  Milano  si  partì  di  Mi- 


80  LA   POESIA   POPOLABE   ITALIANA. 

verendissimo  Monsignor  Ascanio,  i^)  e  la  Guerra  dèi 
populo  genovese  e  gentillìoììiini  e  del  re  di  Pranza  e  di 
tutto  suo  exercito  e  triumpho  de  la  intrata  che  fece  in 
Genova.  (^)  Le  imprese  di  Papa  Giulio  sono  narrate 
nel  Concilio  del  re  de  Francia,  (^)  nel  Lamento  e  rotta 
di  Prato,  (*)  nella  Historia  come  Papa  Julia  secondo 
prese  la  città  di  Bologna  {")  e  nella  Historia  della,  bea- 
titudine di  Papa  Julio  e  del  Ducct  di  Ferrara  e  de 
gran  fedii  di  Bologna  e  della  Bastia  e  de  Brescia  e 
deBavenna  e  de  Spagnuoli  e  Taliani  e  de  Francesi  e 
de  Venetiani,  e  de  tutte  le  guerre  e  fatti  d'arme.  (®) 
Gran  numero  di  questi  Poemetti  fu  composto  e  di- 
vulgato al  tempo  della  famosa  lega  di  Cambray,  (') 
ad  illustrare  gli  strepitosi  fatti  di  guerra  che  allora 
accaddero.  Tali  sarebbero  la  Liga  fatta  novamente  a 
morte  et  destrutione  de  tutti  colori  che  scranno  contro 
la  Liga;(^)  la  Historia  di  tutte  le  guerre  fatte,  et  del 


laiio  e  andò  in  terra  tedesca,  e  come  torno  con  exercito,  e  'l  paese  che  con- 
quisto, e  come  al  fine  è  stato  preso,  e  in  che  modo  e  dove  fu  pi'eso  Mons. 
Ascanio  Sito  fratello,  con  motti  altri  Siijnori,  Bologna,  s.  a.:  vedi  Panzer, 
IX,  217. 

(1)  Libri,   Calai.,  n.  1272. 

{-)  Libri,  Calai.,  n.  1271.  L'autore  è  Jacomo  Cortonese  :  g  al  iwe- 
metto  segue  una  Barselletta  che  comincia  :  Non  dormite,  o  Taliani. 

(3)  L'intero  titolo  è  El  cocilio  del  Re  de  Francia  la  presa  del  signore 
Prospero  Colonna  la  rotta  de  Seguieari  a  Milano  e  la  presa  del  castello:  de 
la  presa  de  Orbino  et  de  san  Leo.  E  in  fine  :  l'er  lautore  perosino  de  la 
rotonda:  vedi  Harkisse,  op.  cit.,  p.  198. 

(■»)  Vedi  C.  Guasti,  Il  sacco  di  Prato  e  il  ritorno  dei  Medici  in  Fi- 
reme  nel  MDXII,  nanazioui  in  verso  e  iti  prosa,  Bologna,  Romagnoli, 
ISSO,  I,  1. 

(5)  Libri,  C'atal.,n.  1277.  Aggiungi:  Barzelletta  nova  in  laude  di  Papa 
Giulio  composta  per  frate  M.  Maria  da  Rimino  del  sacro  ordine  de  Serri. 
Bologna,  Justiniano  da  Rubiera,  s.  a. 

(0)  Ediz.  s.  a.  n.  Autore  è  il  ricordato  Jacomo  de  Sorci  ditto  Cor- 
tonese, Che  studiò  in  puerizia  a  Tecognano.  Forse  questo  Poemetto  è  una 
stessa  cosa  coU'altro  AaWLttoria  del  Papa  contro  Ferraresi  e  de  le  terre 
novamente  prese,  su  cui  v.  Libri,  Calai.,  n.  1276.  Vi  è  anche  un  Poemetto 
s.  a.  II.,  in  81  ottave  intitolato  La  Guerra  di  Ferrara. 

(^)  Vedi  in  proposito  A.  Medin,  XIII  Sonetti  per  la  lega  di  Cambra;/, 
Padova,  Gallina,  1901. 

(8)  Libri,  Calai.,  n.  1270. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALLVNA.  81 

fatto  d'arme  fatto  in  Geradadda,  con  il  nome  di  tutti 
gli  conduttieri  delU Illustrissima  Signoria  de  Venetia;  (^) 
la  Miseranda  Botta  de'  Venetiani  a  quelli  data  da  lo 
invictissimo  et  chiarissimo  Ludovico  Be  de  Pranza,  et 
triumphante  Duca  di  Milano  ;{")  la  Bellissima  historia 
del  forzo  fatto  contra  Maximiano  ;  {^)  li  Mali  deporta- 
menti de  Franciosi  fato  in  Italia;  (■*)  i  Tre  Sacchi  fatti 
in  Italia,  primo  de  Genova,  secondo  de  Pavia,  terzo 
de  Boma;{^)  le  Correrie  et  Brusamenti  che  hanno  facto 
li  Todeschi  in  la  patria  del  Priulo;{^)\^  Memoranda 
presa  di  Peschiera  ;  (J)   la  Obsidione  di  Padova;  (^)   e 


fi)  LiBBi,  Calai.,  n.  1283-8. 

(2)  Libri,  Calai.,  u.  1288. 

(3)  Libri,  Catal.,  n.  1285. 

(4)  Libri,  Calai.,  n.  1286. 

(=)  Melzi-Tosi,  Bibliogr.  dei  poemi  cavaliereschi,  Milano,  Daelli,  1865, 
pag.  213. 

(6)  Libri,  Calai.,  n.  1287;  Morbio,  Francia  e  Italia,  pag.  79;  Medin, 
op.  cit.,  p.  513.  Alle  guerre  del  Friuli  si  riferisce  la  Canzone  popolare  col 
ritornello  :  Su  su  su,  Vemon  Venzon,  stampata  da  V.  Joppi  liéWArch.  Stor., 
nuova  serie,  IV,  2,  27. 

n)  Libri,  Calai.,  n.  1293:  Medin,  op.  cit,  p.  513. 

(8)  Libri,  Calai.,  n.  1289.  Xella  Lettera  dedicatoria  che  precede  il 
Poemetto  in  sei  canti  è  detto  l'autore  essere  un  tal  Cordo,  sconosciuto  af- 
fatto al  biografo  degli  illustri  padovani,  il  Vedova,  e  nel  quale  il  Fuliii 
credette  potesse  ravvisarsi  un  Bartolomeo  da  Cori,  veneziano,  che  al  Se- 
nato veneto  chiese  un  privilegio  per  la  stampa  di  un  suo  poema  su  la 
obsidione  appunto  di  Padova.  Però  al  MEDi>r  che  riprodusse  testé  il  poema 
(Bologna,  Romagnoli,  1892)  l'attribuzione  parve  non  sicura,  ma  soltanto 
assai  probabile.  Evidentemente  chi  lo  scrisse  non  è  uno  dei  soliti  canta- 
storie, ma  una  persona  più  colta:  il  poema  potè  tuttavia  diffondersi  fra  il 
popolo,  specialmente  nel  territorio  venei.iano.  Il  Libri,  il  quale  aveva  os- 
servato che  il  poemetto,  se  fosse  ristampato  con  cura,  poteva  leggersi 
anche  adesso  con  piacere  e  con  frutto,  ne  riferì  in  parte,  come  noi  pure 
facciamo,  la  finale  exorlazione  a  tulli  gli  Italiani  che  insieme  se  uniscano 
cantra  barbari  : 

0  miei  Italiani,  su,  ch'el  se  fazi  alto, 
Ne  siate  più  di  voi  stessi  ribelli; 
Levate  via  lo  adamantino  smalto 
Che  vi  cuopre  gli  cuori,  o  poverelli; 
Insieme  uniti  omai  se  fazi  assalto 
Contro  chi  guasta  d'Italia  i  giojelli, 
E  spoglisi  ciascun  d'ira  e  rancore, 
Ch'el  sia  un  solo  ovile  et  un  pastore... 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  6 


82  LA   POESIA   POPOLARE   ITALL4.NA. 

finalmente  la  Botta  e  presa  fatta  a  Bresa  per  li  Fran- 
cesi; O  non  che  varie  descrizioni  della  celebre  Botta 
di  Bavenna.  (^)  Coi  tempi  e  le  gnerre  di  France- 
sco I  e  di  Carlo  V  stanno  in  relazione  II  fatto  d'arme 
del  Cristianissimo  Be  di  Franza  contra  Squizari  fatto 
a  Meregnano  appresso  a  Milano  nel  1515  a  dì  13  di 
Settembre;  (^)  il  Poemetto  drammatico  di  Francesco 
da  Mantova  sopra  le  gesta  di  Laiitrec;{*)  l'Istoria 


Xon  siete  voi  de  la  stirpe  italiana? 

A  che  del  sangue  ver  degenerare? 

Non  siete  voi  quella  gente  soprana 

Che  oltramontani  mai  non  suol  curare  ? 

Or  qual  cosa  vi  fa  la  mente  insana 

Che  per  la  patiia  niun  voglia  pugnare. 

Ma  favorir  chi  cerca  con  ogni  arte 

Guastar  del  mondo  la  più  bella  parte  ?... 
U' son  santi  costumi  e  gesti  umani? 

Dov'è  virtù  ed  ogni  gentilezza  ? 

Dov'è,  se  non  tra  voi,  cari  Italiani  ? 

S"i  che  guardate  ben  vostra  ricchezza 

Ch'e  barbari  vi  cercan  trar  di  mani. 

Et  unitevi  insieme,  che  sciocchezza 

Più  grande  non  conosco,  né  pazzia 

Che  ad  altri,  essendo  suo,  darsi  in  baTia. 

All'assedio  di  Padova  del  1509  si  riferisce  anche  la  Vitloriof:a  Gala  de  Pa- 
dua  (v.  Libri,  Catul.,  n.  1291  ;  non  che  Rosooe,  Leon  X,  III,  p.  90  in  nota,  e 
Fabretti,  op.  cit.,  p.  494),  che  comincia  :  Su  su  su  chi  vuol  la  Gaia  Vengl 
innanti  al  bastione,  Dove  in  cima  d'un  lamone  La  vedeti  star  legata:  ed  è  ri- 
prodotta con  altre  poesie  sullo  stesso  argomento  dal  Medin  nel  cit.  voi. 
p.  311,  con  copiose  notizie  intorno  al  costume  guerresco  della  Gatta:  e  del 
Medin  stesso,  vedi  La  risposta  alla  vittoriosa  Gatta  ecc.,  Padova,  Kandi,  189.'^. 
A.  ToLOMEi  nel  voi.  Dante  e  Padova,  Padova,  186.5,  p.  .348,  riporta  anche  un'al- 
tra Canzone  del  tempo,  dal  ritornello:  Gi  è  pari  ù  qui  Slanzeman,  che  è  puro 
in  E.  Lovarini,  Antichi  testi  di  lett.  pavana,  Bologna,  Romagnoli,  1S94,  p.  G6. 

(1)  Libri,  Catul.,  n.  1294. 

(2)  Libri,  Catal.,  n.  129,5-8.  Abbiamo  già  accennato  al  Poemetto  del- 
I'Altissimo  :  di  un  altro,  secondo  il  Vermiglioi.i,  Opuscoli,  Pei'ugia,  1826. 
III,  .50,  sarebbe  autore  il  già  ricordato  Perosino  della  Rotonda,  e  poiché 
il  componimento  sarebbe  di  sole  GO  ottave,  deve  essere  altra  cosa  dal  Fatto 
d'arme  fato  in  Pomagna  sotto  Pavenna,  con  el  nome  di  tutti  li  Signori  e 
Capitani  morti,  feriti  e  presi  de  l'nna  e  l'altra  parte,  che  ne  ha  ben  piìi. 

(3)  Raro  ojruscolo  s.  a.  n.  che  trovasi  nella  Palatina  di  Firenze.  In 
fondo  ci  è  scritto:   Composta  per  Teodoro  harViere. 

{■'}  Quadrio,  Storia  e  Pag.,  VI,  l.'!7.  Diamo  più  ampia  notizia  di  que- 
sto singolare  componimento  nel  2"  voi.  dello  Origini  del  Teatro  in  Italia, 
2»  ediz.,  II,  22.  Per  la  parto   che  manca   nell'esemplare   da  noi  descritto, 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  83 

della  Rotta  de'  Francesi  e  Gulzari  novamente  fatta  a 
Milano  a  la  Bicocca  con  la  presa  di  Lodi;{^)  la  Guerra 
di  Lombardia  con  la  battaglia  di  Grellasco,  e  parte 
delle  cose  bellice  successe  del  1524  ;{^)  Y  Historia  della 
guerra  fatta  a  Pavia  con  la  presa  del  He  di  Francia  ;  i^) 
V Assedio  di  Pavia  con  la  rotta  et  presa  del  Be  Cri- 
stianissimo, (*)  e  la  Rotta  dell'armata  di  Napoli.  (^) 
Dei  fatti  non  gloriosi  di  papa  Leone  (*')  ragiona  il 
poemetto  De  la  presa  de  Urbino,  O  che  narra  l'in- 
giusto assalto  ai  dominj  rovereschi  ;  e  delle  sven- 
ture di  Roma  durante  il  pontificato  di  Clemente, 
l'altro  intitolato  La  Presa  di  Roma.  (^) 


V.  A.  Medin,  in  Rass.  Bihl.  Ietterai,  ital.,  voi.  I,  214.  Il  poemetto  fu  ripro- 
dotto intero  da  H.  Vaenhagen,  Erlangen,  1896. 

(1)  Raio  opuscolo  s.  a.  n.  che  trovasi  nella  Palatina  di  Firenze.  Alla 
Rotta  e  Pila  Fresa  segue  un  Lumento  del  Lautrec,  che  si  lagna  con  la  For- 
tuna della  disgrazia  delle  sue  imprese,  che  l'ha  fatto  da  poi  la  ritornata 
sua  a  Milano  e  della  hattaylia  perduta  di  presente:  vedi  Bkunet,  Manuel, 
III,  218. 

(2)  Perugia,  Niccolò  Zopino,  1524.  L'autore  è  Hieronymo  Candelphimo 
Aqua  viva  da  calli  :  ved.  Veemicjlioli,  Opuscoli,  TU,  42. 

(3)  Edizione  rarissima  s.  a.  n.  Comincia:  Saci-a  l'olliìinia,  or  prego 
che  m'aiti. 

(4)  Libri,  Catal.,  n.  1299-1.300.  Ristampato  nella  Raccolta  di  Cronisti 
e  Documenti  storici  lombardi  inediti,  lì,  234. 

{■>)  Ristamp.  dal  De  Simoni,  in  Tre  Cantari  dei  secoli  XV  e  XVI,  Ge- 
nova.  Sordo-muti,  187R. 

(6)  Riguardano  i  fatti  di  Leon  X  anche  questi  altri  poemetti  :  El  con- 
siglio del  gran  turcho  et  el  preparamento  della  Armata  per  terra  et  per  mare 
cantra  li  Christiani  et  el  preparamento  della  S.  de  Papa  Leone  X  et  delti 
Principi  Christiani  contra  el  gran  Turcho.  Composta  per  il  Perosino  de  la 
Rotunda,  s.  a.,  ma  Roma  1517,  in  8"  rima.  —  Hiee.  Boedonius  de  Sermoneto, 
La  exortatione  de  la  Crutiata  a  la  Sanctità  de  N.  S.  Papa  Leone  et  a  tucti 
li  Signori  et  Principi  christiani  de  la  impresa  contra  Turchi,  s.  n.,  ma  circa 
il  1517,  in  3»  rima. 

(')  Opuscolo  rarissimo  s.  a.  n.,  che  trovasi  nella  Palatina  di  Firenze. 

(8)  In  questo  rarissimo  libretto,  s.  a.  n.,  trovasi  anche  una  Romae 
Lamentatio  in  3'^  rima,  un  Capitolo  sopra  la  morte  del  signor  Giovanni  de' 
Medici,  e  un  sonetto  alla  misera  Italia.  Autore  del  poemetto  in  8»  rima,  è 
il  Celebeino  da  Udine.  11  poemetto  fu  ristampato  nel  1872  a  Roma  da 
Eneico  Narducci  per  le  nozze  Masi- Amici,  prepostavi  una  diligente  biblio- 
graiìa,  e  con  le  notate  "ggiunte,  a  Bologna,  presso  il  Romagnoli,  1886,  da 
F.  Mango.  Vedi  anche,  per  la  bibliografìa,  la  prefazione  di  C.  Milanesi  al 
volumetto  II  Sacco  di  Roma,  Firenze,  Barbèra,  1867,  p.  xlii  e  pei  testi,  la 
raccolta  Medin-Frati,  III,  347  e  segg.,  e  IV,  181. 


84  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAIS^A. 

Dice  Giuseppe  Tigri  che  "  forse  anche  il  prode 
Ferruccio  ebbe  dal  popolo  il  suo  nobile  inno  „.  (^) 
Non  ci  è  dato  registrare  un  inno,  e  tanto  meno  da 
dirsi  nobile;  ma  possiamo  menzionare  un  Poemetto 
tra  il  popolare  e  l'aulico,  del  quale  l'unica  copia,  pur 
manchevole  di  una  carta,  conservasi  gelosamente 
nella  Biblioteca  di  Lucca.  E  intitolato  la  Botta  di 
Ferruccio  composta  per  Donato  Callophilo  cittadino  luc- 
chese, (^)  ch'è  poi  un  medico  Donati.  Il  poeta  narra 
le  imprese  ultime  di  Ferruccio  da  per  tutto  nominato; 
ma  questi  vi  è  celebrato  piìi  come  ardito  capitano, 
che  come  difensore  della  libertà  della  patria,  e  nel 
fatto  che  canta,  Gallofilo  vede  piìi  ch'altro  una  im- 
presa bellica  degna  di  memoria.  L'autore  loda  anche 
il  signor  Fabrizio  ditto  Marimano,  Buon,  d'alto  inge- 
gno, valoroso  e  forte,  e  piange  la  morte  dell'Orauge: 
di  qneW invitto  Signore  Che  a  tutto  il  mondo  dar  pos- 
sea  terrore,  soggiungendo: 

0  madre  afflitta  sua,  dogliosa  e  mesta, 
Passato  è  che  noi  vedi  il  settim'anno; 
Aspettai  or  che  viene  in  bianca  vesta! 

Poi  racconta  come  Ferruccio,  fatto  prigione  da  un 
capitano  del  Maramaldo,  detto  per  nome  Mezzanotte, 
si  volgesse  a  Dio  sclamando: 

....  0  Signor  del  cielo  alto  e  soprano, 
Ormai  son  giunto  a  l'infelici  rote; 
Se  per  mia  patria  avrò  di  vita  bando 
L'alma,  Signore,  almen  ti  raccomando  ; 

indi  fosse  ucciso  dal  Maramaldo,  del  quale  il  poeta 
scusa  la  ribalda  azione,  allegando  il  noto  fatto  del 


(1)  0.  popò!.  Tose,  Prefaz.  p.  xxvili. 

(2)  Stampata  in  Bologna  per  Justiniano  da  Rubiera  .i'  dì  6  di  Marzo 
dcir.inno  1531.  Vedi  per  maggiori  notizie  su  di  esso,  C.  Sahdi,  I  Capitani 
lucchesi  del  sec.  XVI,  Lucca,  Giusti,  1902. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALL\NA.  85 

tamburino.  Il  Poemetto  finisce  coli' incontrarsi  agli 
Elisi  le  anime  dell'Orange  e  del  Ferruccio,  il  quale 
chiede  e  ottiene  perdono  dal  Principe  dell'averlo 
ucciso  : 

Ma  '1  feci  per  salvar  la  patria  mia.  (') 

E  finalmente  i  fatti  di  Siena,  ultima  a  cadere 
fra  le  libere  città  toscane,  sono  riferiti  in  parecchi 
Poemetti,  de'  quali  citeremo  la  Vittoria  gloriosissima 
degli  Senesi  contro  agli  Fiorentini  nel  piano  di  Ca- 
moUìa  a  dì  25  di  Luglio  l'anno  1526  :  (^)  le  Bevolu- 
zioni  della  città  di  Siena,  con  gli  successi  della  guerra 
di  quella  dal  principio  della  rivolta  sino  al  1554  :  (^) 
la  Botta  della  Chiaìia  e  l'Assedio  di  Siena,  con  la 
presa  di  essa  e  di  tutti  i  castelli,  (*)  e  infine  la  Botta 
che  ebbe  il  signor  Piero  Strozzi  dal  signor  Marchese 
di  Marignano.  (^) 


(1)  Letterarj  e  non  popolari  diremmo  alcuni  altri  Poemi  storici  di 
quell'età;  ad  esempio  La  morte  del  fortissimo  signor  Giovanni  de'  Medici, 
composta  per  messer  Giovanni  Falugio  da  Lancisa,  in  Venetia,  per  Au- 
relio Pincio  venetian,  ne  Tanno  MDXXXH  del  mese  di  Settembre;  i 
Quattro  Canti  de  la  Guerra  di  Siena,  composti  per  Lauea  Pieri  fiorentina, 
in  Fiorenza,  appresso  Bartolomeo  di  Michelangelo  S.  M.,  l'anno  MDLHII, 
con  dedica  al  Marchese  di  Marignano;  lo  Assediò  e  impresa  di  Firenze, 
con  tutte  le  cose  successe  incominciando  dal  laudnliile  accordo  del  Sommo 
Pontefice  e  la  Cesarea  Maestà,  et  tutti  li  ordine  et  battaglie  seguite, diMA.il- 
BEINO  Roseo  da  Fabriano,  Vinegia,  Sindoni  e  Pasini,  1531,  con  dedica  al 
Malatesta,  ristampato  da  A.  D.  Piekrugues,  Firenze,  Pellas,  1894;  la 
Guerra  di  Parma,  Parma,  Seth  Viotto,  1552,  il  cui  autore  secondp  il 
EoNCHiNi,  Piefaz.  alle  Lettere  di  F.  A.  Marcili,  p.  337,  è  un  Giuseppe 
Leggiadei-Gallani  ;  ecc. 

(-,  In  fondo  è  scritto:  Edidit  Joannes  liospitalarius.  Il  MoEENl,  Bi- 
bliografia Tose,  II,  400,  ne  assevera  autore  un  Giovanni  Tondi,  ma  il  Po- 
LiDORi  {Arch.  St.,  Append.  Vili)  vuol  che  sia  un  6.  B.  Gaeghi  cavaliere 
gerosolimitano.  Fu  riprodotto  da  F.  Mango.  La  Guerra  di  Camollia  e  la 
Presa  di  Roma  ecc.  Bologna,  Romagnoli,  1886. 

(3)  Moeeni,  Bihliogr.,  II,  270.  Per  Siena,  vedasi  anche  la  Profezia 
sulla  guerra  di  Siena,  stame  del  Perella,  accademico  rozzo,  edita  da 
L.  Banchi,  Bologna,  Romagnoli,  1868. 

(*)  Libro  assai  raro  colla  data  del  1557.  Trovasi  nella  Palatina  di 
Firenze. 

(S)  Stampata  in  Firenze  appresso  Giovanni  Baleni.  MDLXXXV. 


86  LA  POESIA   POPOLARE   ITALL^NA. 

Tutte  queste  Storie,  delle  quali  sarebbe  utile 
compilare  una  esatta  e  ragionata  bibliografia,  0  con- 
tinuarono ancora  a  stamparsi  e  a  leggersi  dal  popolo 
per  qualche  tempo:  poi,  sopravvenuta  la  tirannide 
indigena  e  forastiera,  ei  dimenticò  fin  le  sventure 
e  gli  eccidj,  clie  in  quelle  rozze  rime  ripetevano  gli 
antichi  fasti  d'Italia.  (")  I  ritornelli  delle  antiche 
canzoni  : 

Mora,  mora  il  re  di  Frauza; 
Via  Spagnoli  et  Alemanni 

non  pili  sonavano  sulle  bocche  del  popolo.  Ogni  ri- 
cordo del  passato  era  distrutto.  )Soltanto,  pochi  anni 
fa  Francesco  Silvio  Orlandini  udiva  cantare  da  un 
contadino  presso  Scannagallo,  ove  peri  la  libertà 
senese,  e  precisamente  al  Poggio  delle  Donne,  questi 
versi,  che  parrebbero  non  in  lode,  ma  in  obbrobrio 
del  difensore  di  Siena  : 

0  Piero  Strozzi,  'ndù  sono  i  tuoi  bravoni  ? 

Al  Poggio  (Ielle  Donne  in  que'  burroni. 
0  Piero  Strozzi,  'ndù  sono  i  tuoi  soldati  ? 

Al  Poggio  delle  Donne  in  quei  fossati. 


(')  Oltre  quelle  da  noi  nicnzion.ito,  altre  ne  ricorda  il  Medin  nella  Bi- 
bliografia della  eit.  opera  la  Storia  ili   Venezia  ecc. 

(-)  Fra  le  Storie  che  fino  alla  metà  del  secolo  scorso  tuttavia  si  ri- 
stampavano ad  uso  del  popolo,  noto  però  le  seguenti:  Canzonetta  alla  corsa 
sopra  le  sette  galere  di  Spagna,  due  delle  quali  si  naufragarono  in  Corsica 
vicino  all'isola  detta  la  Giraglia,  Lucca,  Baroni,  s.  a.,  Lucca,  Bortini,  1844. 
Si  riferisce  a  un  disastro  marittimo  dell'armata  di  Andrea  Doria.  —  Krudi- 
tissinia  istoria  dell'assedio  fatto  dalli  Turrlii  alla  città  di  Malta  (nel  1575), 
Napoli,  Avallone,  1889.  —  Jìelazione  della  gran  vittoria  che  hanno  ottenuta 
le  sei  galere  della  Religione  di  Malta  in  Levante  nella  presa  della  gran  Sal- 
dano di  Turchia  e  di  altri  vascelli  che  portarono  il  figlio  del  Gran  Turco  a 
visitare  il  corpo  di  Maometto  alla  Mecca,  Lucca,  Baroni,  s.  a.,  Napoli,  Aval- 
lone, 1849.  —  Storia  dove  si  contiene  la  liberazione  della  città  di  ì'ienna  e 
presa  della  città  di  Slrigonia,  con  la  morte  che  fece  il  gran  Visir  {r\c\  1083), 
Todi,  s.  a.,  Bologna,  alla  Colomba,  1807,  Bassano,  s.  a.,  Lucca,  Baroni.  1856.  — 
Lodi  e  gloria  fatte  al  Cavalier  Tommaso  Morosini  (nel  1C47),  Treviso,  s.  a. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  87 

0  Piero  Strozzi,  'ndù  son  le  tue  genti? 
Al  Poggio  delle  Donne  a  cor  le  lenti.  (') 

Qiial  differenza  fra  il  Canto  pucciano  del  1340 
alla  Libertà  e  questa  poesia  nella  quale  il  popolo, 
diventato  schiavo,  irride  a  sé  stesso  e  alle  proi)rie 
miserie  ! 


V. 


Non  minore  differenza  corre  dalla  Canzonetta 
amorosa  e  dalla  Ballata  del  secolo  decimoquarto  in- 
cipiente, alla  Canzone  a  ballo  dei  tempi  del  Magni- 


ti) Da  lettera  scrittami  dall' Oilandini  l'anno  1858.  Il  Bulgarini  nel 
suo  Romanzo  stoico  suU'^^Merf/o  di  Siena  riferisce  queste  poesie,  che  dice 
popolari;  ma  la  seconda  almeno  non  ci  sembra  tale: 

0  Piero  Strozzi,  percliè  ti  spogliasti 
Dell'arme  grosse  che  a  Foian  mandasti! 
Almen  se  te  ne  stavi  alla  vedetta 
Sarebbe  costa  allo  Spagnuol  la  fretta. 
Santa  Vittoria  con  nome  più  vero 
Siena  avrìa  fatta  in  fiorentin  sentiero. 
Meglio  dei  vili  eavalli  di  Pranza 
Le  nostre  donne  fecei'o  provanza. 

La  fame  la  sete  —  La  rabbia  tedesca, 

E  del  Marignano  —  Per  Cosimo  l'esca. 

Ci  fer  sparpagliati  —  In  diversi  siti, 

Pel  rombo  storditi.  —  Col  ferro,  co'  piedi, 

Caduti  nel  fosso  —  Ci  vennero  addosso. 

Che  Tacqua  non  corse  —  Se  rossa  non  era. 

O  Piero  di  Strozzi  —  Ferito  nel  fianco 

Di  palla  nemica,  —  Fra  pianti  e  i  singhiozzi 

D'amara  fatica  —  Morire  volevi 

E  non  il  potevi  ecc. 

Biagio  di  Monluc  nei  suoi  Comtnentnrj  racconta  come  le  donne  senesi,  al 
tempo  dell'assedio,  si  unissero  sotto  tre  bandiere  a  difesa  delle  mura,  e 
soggiunge:  Elles  avoient  fait  un  Chant  à  l'/ionneur  de  la  France,  lors  qu'eìles 
tdloyent  à  leur  fortifìcation.  Je  voudrais  aioir  donne  le  meilleur  cheval  (jue 
f  àìje,  et  l'avoir  pouf  le  inettre  ici.  E  noi,  che  non  abbiamo  cavallo,  daremmo 
l'equivalente  per  ritrovar  cotesta  canzone. 


88  LA  POESIA  POPOLARE  ITALL\KA. 

fico.  Fra  la  gentile  e  casta  poesia  di  Dante  alla 
gbirlandetta  e  le  velate  oscenità  dei  Canti  carna- 
scialeschi e  delle  rime  maggiajole  della  fine  del  se- 
colo decimoquinto  sta  di  mezzo  tutta  una  rivolu- 
zione nei  costumi  e  nel  gusto.  Se  la  Firenze  sobria 
e  pudica  viveva  soltanto  per  l'Alighieri  nelle  me- 
morie degli  avi,  che  avrebbe  egli  detto  della  cor- 
ruzione, che  la  grassezza  del  vivere,  l'agiatezza,  i 
commerci,  il  lusso,  la  potenza  politica  avevano  a 
poco  a  poco  introdotto  nel  Comune!  Più  tardi,  gran- 
d'eccitaniento  a  godere  strabocchevolmente  dei  beni 
della  vita  fu  la  morìa  del  1348.  "  Credettesi,  dice 
Matteo  Villani,  che  gli  uomini,  i  quali  Iddio  per 
grazia  aveva  riserbati  in  vita,  avendo  veduto  lo 
sterminio  dei  loro  prossimi,  e  di  tutte  le  nazioni  del 
mondo  udito  il  simigliante,  che  divenissono  di  mi- 
gliore condizione,  umili,  vìrtudiosi  e  cattolici  :  guar- 
dassonsi  dalla  iniquità  e  dai  peccati,  e  fussono  pieni 
d'onore  e  di  carità  l'uno  centra  l'altro.  Ma  di  pre- 
sente, restata  la  mortalità,  apparve  il  contradio:  che 
gli  uomini  trovandosi  pochi  e  abbondanti  per  l'ere- 
dità e  successioni  dei  beni  terreni,  dimenticando  le 
cose  passate,  come  state  non  fessone,  si  dierono  alla 
più  sconcia  e  disonesta  vita,  che  prima  non  aveano 
usata.  Perocché  vacando  in  ozio,  usavano  dissolu- 
tamente il  peccato  della  gola,  i  conviti,  taverne  e 
delizie  con  dilicate  vivande  e  giuochi,  scorrendo 
senza  freno  alla  lussuria,  trovando  nei  vestimenti 
strane  e  disusate  fogge  e  disoneste  maniere,  mutando 
nuove  forme  a  tutti  gli  arredi.  E  il  minuto  popolo, 
uomini  e  femmine,  per  la  soperchia  abbondanza  che 
si  trovarono  delle  cose,  non  voleano  lavorare  agli 
usati  mestieri  :  e  le  più  caro  e  dilicate  vivande  vo- 
leano per  loro   vita,   e   a  libito  si  maritavano,  ve- 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  89 

stendo  le  fanti  e  le  vili  femmine  tutte  le  belle  e 
care  robe  delle  orrevoli  donne  morte.  E  senza  al- 
cuno ritegno  quasi  tutta  la  nostra  città  scorse  alla 
disonesta  vita  ,.  (^) 

Speccbio  di  questa  nuova  società  è  il  Decame- 
rone;  ma  la  lieta  brigata  che  fuggendo  la  peste,  re- 
cavasi sui  colli  fiesolani  a  novellare,  rifiutavasi  a 
ripetere  e  a  sentire  certe  Canzoni,  che  alle  orec- 
chie del  Boccaccio  dovevano  sonare  quando  egli 
scriveva  il  suo  libro.  Noi  però  diremmo,  che,  seb- 
bene l'autore  ponga  in  scena  Dioneo  e  faccia  le  Can- 
zoni coeve  alla  morìa,  forse  queste  nacquero  soltanto 
dalla  corruzione  morale,  che,  a  dir  del  Villani,  suc- 
cesse a  quella  dei  corpi,  e  fu  maggiore  che  Taltra. 
"  A  Dioneo,  scrive  il  Boccaccio  sul  finire  della  quinta 
Giornata,  a  Dioneo  fu  comandato  che  cantasse  una 
Canzone.  Il  quale  prestamente  cominciò  :  Monna  Ai- 
druda  levate  la  coda  Che  buone  novelle  vi  reco.  Di  che 
tutte  le  donne  cominciarono  a  ridere,  e  massima- 
mente la  Reina:  la  quale  gli  comandò  che  quella 
lasciasse  e  dicessene  un'altra.  Disse  Dioneo  :  Ma- 
donna, se  io  avessi  cembalo,  io  direi  :  Alzatevi  i 
panni,  monna  Lupa,  o:  Sotto  l'ulivello  è  l'erba,  o  vo- 
leste voi  ch'io  dicessi:  L'onda  del  mare  mi  fa  gran 
male?(^)  ma  io  non  ho  cembalo,  e  per  ciò  vedete 
voi  qual  voi  volete  di  queste  altre.  Piacerebbevi  : 
Escici  fuor,  che  sia  tagliato,  Com'un  maio  in  su  la 
campagna  ?  Disse  la  Reina  :  No,  dinne  un'  altra. 
Dunque,  disse  Dioneo,  dirò  io  :  Monna  Simona,  im- 


(1)  Cronica,  I,  4. 

(2)  Si  credette,  prima  dal  Lami,  Novelle  letter.,  VIII,  3,  poi  dal  Pertz 
e  dall' Hartwio  di  aver  ritrovato  in  iiii  antico  cronista  un  ricordo  latino 
di  questa  canzone:  ma  si  tratta  invece  di  uno  scongiuro:  vedi  Giorn.  stor. 
leu.  Hai.,  IV,  324,  440. 


90  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAJfA. 

lotta,  iììibotta  ?  E'  non  è  del  mese  iV ottobre.  La  Reina 
ridendo  disse  :  Deli  in  malora,  dinne  una  bella,  se 
tu  vuogli  :  oliò  noi  non  vogliam  cotesta.  Disse  Dio- 
neo :  No,  madonna,  non  ve  ne  fate  male.  Pur  qual 
più  vi  piace?  io  ne  so  più  di  mille.  0  volete:  Questo 
mio  nicchio  sio  no  'l  picchio  ?  o  :  Deh,  fa'  pian,  ma- 
rito mio  ?  0  :  lo  mi  comperai  un.  gallo  delle  lire  cento? 
La  Keina  allora  un  poco  turbata,  quantunque  tutte 
l'altre  ridessero,  disse:  Dioneo  lascia  stare  il  mot- 
teggiare, e  dinne  una  bella  :  e  se  non,  tu  potresti 
provare  com'io  mi  so  adirare  „.  Ov'è  degno  di  nota, 
che  la  Keina  rifiutasse  siffatte  canzoni  soltanto  per- 
chè non  belle,  e  non  mica  perchè  più  o  meno  aper- 
tamente oscene;  che  del  resto  questo  difetto  non 
poteva  scandalizzare  la  poco  schifiltosa  brigata.  Ma 
volevasi  che  l'osceno  non  fosse  sfacciato  e  triviale, 
e  il  Boccaccio  fu  gran  maestro  nell'arte  di  arruffia- 
nare (e  ci  si  passi  il  vocabolo  che  alla  materia  non 
disdice)  r immoralità  cogli  ornamenti  che  solamente 
al  buono  convengono.  Le  Canzonette,  delle  quali  ba- 
stava ai  contemporanei  dell'autore,  forse  più  che  ai 
componenti  la  brigata  fiesolana,  rammentare  sol- 
tanto il  primo  verso,  sono  andate  perdute  ;  e,  di- 
cono i  Deputati  alla  correzione  del  Decamerone,  se 
ne  ritroverebbe  forse  qualcuna  ;  ma  noìi  porta  il  pregio 
ridurle  in  vita.  Certo,  nessuno  le  desidererebbe  come 
esempj  di  poesia  o  come  documenti  di  morale  ;  ma 
come  prove  del  costume  de'  tempi  sarebbe  gran 
ventura  conoscerne  più  che  qucll'una  soltanto,  che 
i  codici  ci  hanno  trasmessa.  E  questa  la  Canzone 
dei  Nicchio,  della  quale  ci  restano  piìi  versioni: 
l'una  in  un  codice  parmense,  l'altra  in  uno  riccar- 
diano,  alla  quale  ultima  si  accosta,  pur  con  qualche 
notevole  differenza,  un  altro  testo  di  mano  del  Ma- 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALI A\A.  91 

gliabeclii.  "  Ben  diverse,  dice  il  Carducci,  e  nella 
dizione  e  nel  numero  delle  stanze  e  nel  metro  sono 
le  due  lezioni,  fiorentina  e  parmense  :  la  fiorentina 
più  semplice,  più  breve  ha  l'apparenza  della  mag- 
giore antichità,  ma  la  parineilse  contenuta  in  un 
codice  del  sec.  XV  ineunt.,  ci  mostra  che  la  canzo- 
netta durò  in  essere  ben  oltre  il  tempo  di  Dioneo. 
E  il  crescere  questa  il  numero  delle  strofe  e  colle 
strofe  il  numero  delle  sillabe,  sino  a  protendere  tal- 
volta alTendecasillabo,  sono  di  c(ue'  vestigi  che  il 
passaggio  di  paese  in  paese  non  che  di  bocca  in 
bocca,  e  lo  scorrer  del  tempo  lasciano  nella  poesia 
veramente  popolare  „.  (')  E  di  questo  basti:  che 
chi  vuol  più  saperne,  può  cercare  le  raccolte  del 
Carducci  e  dell'Alvisi,  (")  ove  le  varie  versioni  del 
Nicchio  sono  riferite. 

Di  queste  Canzonette,  per  lo  più  a  doppio  senso, 
e  quasi  sempre  esprimenti  amori  sensuali  con  vena 
gioconda  di  poesia,  o,  mezzo  tra  il  lirico  e  il  narra- 
tivo, riferenti  galanti  avventure,  e,  pur  com'è  della 
musa  popolare,  con  qualche  sprazzo  di  malinconia 
e  soavità  dolce  di  affetti,  (^)  si  compongono  le  Rac- 
colte che  ne  furono  date  a  stampa  nel  1562  dal 
Sermartelli,  e,  senza  nome  di  stampatore,  nel  1568. 
Alle  quali  per  la  massima  parte  hanno  contribuito 
coi  loro  componimenti  il  Magnifico  Lorenzo,  il  Po- 
liziano e  Bernardo  Giambullari  ;  ma  non  poche  vi 
se  ne  trovano  framezzo  anonime,  e  che  forse  sono 
state  colte  dalle  labbra  stesse  dei  cantori,  anzi  che 
trascritte  dalle  dotte  carte  dei  clienti  di  Lorenzo: 


(1)  Canta,  e  Ball.,  p.  G2. 

(2)  Canzonette  antiche,  Firenze,  Libreria  Dante,  1884,  p.  15. 

(3)  Vedi,  ad  es.,  nell'ediz.  del  1568  le  Canzoni  XXXV,  LXXIII,  LXXVII, 
LXXVni  ecc. 


92  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAJsA. 

e  queste,  meglio  die  le  felici  imitazioni  dei  poeti 
cortigiani,  ci  possono  dare  una  fedele  immagine  della 
forma  schiettamente  popolare.  Aggiungi,  che  le  piìi 
non  solo  sono  evidentemente  anteriori  ai  tempi  della 
stampa  delle  Raccolte,  ma  all'età  stessa  del  Magni- 
fico; (^)  sicché,  sehbene  la  data  delle  edizioni  sia  della 
metà  del  secolo  decimosesto,  le  si  devono  conside- 
rare per  la  massima  parte  della  fine  dell'anteriore, 
e  alcune  anche  più  antiche.  (")  Anzi,  un  chiaro  indizio 
dell'antichità  di  queste  Canzoni  e  di  altre  consimili 
dello  stesso  genere  in  questo  lo  abbiamo  :  che  le 
poesie  devote,  le  quali  si  composero  in  Firenze  dai 
tempi  di  Feo  Belcari  e  di  madonna  Lucrezia  Tor- 
nabuoni  fino  a  quelli  del  Savonarola,  hanno  così  nei 
codici  come  nelle  stampe  l'indicazione  dell'aria  sulla 
quale  vanno  cantate,  che  è  il  più  spesso  la  musica 
di  una  Canzone  profana,  già  tanto  universalmente 
nota,  che  bastava  menzionarne  senz'altro  il  primo 
verso  soltanto.  {^) 

Non  è  difficile  fra  tutte  riconoscere  quelle  Can- 
zoni che  veramente  hanno  a  dirsi  popolari  ;  non 
perchè  dal  popolo  fatte  proprie  cantandole,  ma 
perchè  veramente  composte  da  poeti  ignari  di  studj. 
Squisite  cose  sono  le  ballate  e  canzonette  del  Poli- 
ziano ;  (*)  ma  si  vede  in  esse  la  mano  maestra  e  il 
senso  squisito  del  poeta,  che  imitando  la  natura,  sa 


0)  Esempio  sicuro  ne  porge  una  ballata  del  Boccaccio:  lì  fior  che  7 
valor  perde,  rimasta  fra  il  popolo,  che  la  rimutò  a  suo  Jnodo:  vedi  Car- 
DUCCT,  Canili,  e  Ball.,  p.  171. 

(2)  Vedi  per  queste  le  raccolte  dell'ALVisr  e  del  FERnARi. 

(')  Vedi  in  Appendice  la  menzionata  Tavola  dei  jìrincipj  di  Canzoni, 
la  musica  defilo  quali  è  stata  usurpata  dalle  Canzoni  sacre,  e  che  può  ser- 
vire a  farne  incetta  noi  codici,  in  che  fossero  ancora  nascoste. 

(*)  Finora  gli  si  davano  le  Montanine  e  la  Brunettina:  ma  la  prima  è 
ora  restituita  al  Sacchetti  (v.  Carducci,  Cantilene  e  Ballate,  p.  214)  e  la 
seconda  a  Baldassare  Olimpo  (v.  S.  Ferrari,  Strambotti  e  Frottole  com- 
poste per  B.  O.  ecc.  Bologna,  Zanichelli,  1879). 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  93 

rivestire  l'immagine  che  ritrae  dal  vivo  con  le 
grazie  dell'arte.  Altre,  invece,  sono  tali,  che  ninno 
direbbe  poterle  aver  composte  un  poeta  colto;  e  re- 
candone qualche  saggio,  lasciamo  pensatamente  da 
banda  quelle  più  o  meno  sfacciatamente  disoneste. 
Odasi  questa,  ad  esempio,  in  che  par  di  sentire  il 
ritornello  coli' invocazione  del  fiore,  come  nei  Canti 

odierni  : 

Angiola,  tu  mi  fai 

Cantando  a  te  venire  : 
Le  bellezze  che  hai 
Non  te  le  posso  dire  : 

Fior  di  bontà, 

E  d'onestà, 

Tu  se'  più  bella  donna 

Che  sia  in  questa  città. 
0  labbra  di  corallo, 
Zucchero  da  mangiare, 
E  d'oro  e  di  cristallo. 
Ch'io  le  vorrei  baciare: 

Fior  di  bontà, 

E  d'onestà, 

Ama  chi  t'ama 

E  chi  non  t'ama,  lassa. 
0  volto  di  corallo. 

Con  quello  guance  belle, 

E  d'oro  e  di  cristallo. 

Che  vi  vien  due  mammelle  : 

Fior  di  bontà, 

E  d'onestà, 

Tu  se'  più  bella  donna 

Che  io  vedessi  ma'. 
Tu  vuoi  pur  ch'io  t'aspetti, 
r  non  posso  aspettare  : 
Ma  innanzi  eh'  io  mi  parti 
Io  ti  vorrei  parlare; 

Fior  di  bontà, 

E  d'onestà, 

Ama  chi  t'ama 

E  chi  non  t'ama,  lassa. 


94:  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Donna,  tu  l'hai  pensata. 
Ed  io  SI  r  ho  a  pensare  : 
Tu  mi  vuoi  far  morire, 
0  farmi  disperare  : 

Fior  di  bontà, 

E  d'onestà. 

Tu  se'  piti  bella  donna 

Che  sia  in  questa  città. 
Ma  innanzi  ch'io  mi  parta 
Io  te  lo  vo'  pur  dire  : 
Tuo  schiavo  io  son  per  carta. 
Infine  al  mio  morire  : 

Fior  di  bontà, 

E  d'onestà, 

Tu  se'  pili  bella  donna 

Che  io  vedessi  ma'.  (') 

Anche  quest'altra  è  cosa  tutta  di  popolo,  e  ri- 
corda una  Canzone  moderna,  salvo  che  l'amatore, 
in  luogo  di  farsi  frate,  che  non  ò  più  professione 
de'  nostri  tempi,  ora  si  è  fatto  soldato  :  (") 

Che  faralla  —  che  diralla  (^) 

Quando  la  saperrà  —  ch'io  sia  Fià!   (■*) 
0  quante  volte  di  farnie  Fra 

In  sua  presenzia  gli  ho  giura; 

Ma  lei  rideva  —  e  non  credeva 

Che  mai  dovesse  tarme  Fra, 


(1)  Canzone  a  hallo  ecc.  Firenze,  1568,  n.  93. 

(2)  Alludiamo  alla  Canzonetta    cosi   riferita   dal  Bolza,  C.  popol.  co- 
masche, n.  41  : 

Cosa  dii'à  la  mia  morosa, 
Povera  tosa,  povera  tosa! 
No  gli'ò  né  pianger  né  sospira, 
.Son  requisito,  bisogna  andà. 

(^)  Tu  musicata  da  Andrea  Antico:  v.  A.  Zf.natti,  Andrea  Antico  da 
Montana,  ncWArch.  star,  per   Trieste  ecc.,  n.  1,  fase.  2. 

(■•)  Cfr.  con  la  Canzonetta  riportata  da  Widter-Woi.f,  n.  52: 

Vojo  andar  fra  boschi  e  fratto 
Per  finir  questa  mia  vita, 
Vói  vestirmi  da  eremita, 
Che  non  voj  più  far  l'amor  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  95 

Anzi  ogiior  si  lamentava 

Con  dir  che  la  beffava  : 

E  pur  son  fatto  Fra. 
Quando  ho  visto  —  che  far  acquisto 
Di  lei  non  posso,  son  fatto  Fra, 
E  fraticello  —  discalzarello, 
Che  COSI  aveva  deliberà  : 

Dove  in  piccioliiia  cella 

Faccio    vita  poverella 

Osservando  castità. 
So  chi  è  colui  —  qual  ambidui 
Del  nostro   amore  privato  n'ha: 
Con  sue  ciance  e  lusinghette, 
Ch'io  venga  fuori  lei  crederà; 

Ma  s'ella  mai  m'acchiappa. 

Che  mi  stracci  questa  cappa, 

Che  di  vita  sia  priva. 
La  poverella  —  senza  favella 
La  notte  e  '1  giorno  se  ne  starà, 
E  scapigliata  —  tutta  affannata 
Sì  strano  caso  lei  piangerà: 

Forse  poi  che  il  suo  pensiero 

In  un  qualche  monastero 

Alla  fin  la  condurrà.  (') 

Nella  seguente  ci  sembrano  accozzati,  e  mal  sal- 
dati insieme,  più  frammenti  di  diverse  canzoni:  l'uno 
dei  quali  va  a  tutto  il  decimo  verso:  poi  un  altro 
da  questo  al  diciassettesimo,  e  dal  diciassettesimo 
fino  alla  fine,  l'ultimo.  Cosi,  come  vedremo  accadere 
assai  spesso  nella  poesia  cantata  e  raccomandata 


(1)  Ibid.,  n.  139.  Una  antica  canzone  francese  pone  in  bocca  alla  donna 
il  proposito  di  farsi  cappuccina: 

Puis  que  Ton  ne  m'a  donnée 
A  celuy  que  j'amois  tant, 
Avant  la  fin  de  l'année, 
Quoy  que  disent  mas  parens, 
Je  me  rendray  capuchine, 
Capuchine  en  un  couvent  ecc. 

Vedi  J.  B.  Weckeklin,  L'ancienne  chanson  pn^'itl.  en  Frutice  (XVI,  XVII  s.ì, 
Paris,  Garnier,  1887,  pag.  405. 


96  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

soltanto   alla  memoria,  si  sarebbero  fusi  e  confusi 
insieme  pezzi  appartenenti  a  diversi  componimenti  : 

0  morte  dispietata 

Tu  m'hai  fatto  gran  torto; 
Tu  m'hai  tolto  mia  donna, 

Ch'era  lo  mio  conforto, 
La  notte  con  lo  die, 

Fino  all'alba  del  giorno. 
Giamniiii  non  vidi  donna 

Di  cotanto  valore, 
Quanto  era  la  Caterina 

Che  mi  donò  il  suo  amore. 
La  mi  tenne  la  staffa, 

Ed  io  montai  in  arcione; 
La  mi  pòrse  la  lancia. 

Ed  io  imbracciai  la  targa; 
La  mi  pòrse  la  spada, 

La  mi   calzò  lo  sprone; 
La  mi  Ulisse  l'elmetto; 

Io  gli  parlai  d'amore. 
Addio,  bella  sora, 

Ch'io  me  ne  vo  a  'Vignone, 
Et  da  Vignone  in  Francia 

Per  acquistare  onore. 
S'io  fo  colpo  di  lancia, 

Farò  per  vostro  amore; 
S'io  moro  alla  battaglia 

Morrò  per  vostro  amore. 
Diran  le  maritate: 

Morto  è  il  nostro  amadore; 
Diran  le  pulzellette: 

Morto  è  per  nostro  amore; 
Diran  le  vedovelle: 

Vuolsegli  fare  onore. 
Dove  il  sotterremo? 

'N  Santa  Maria  del  Fiore. 
Di  che  lo  copriremo? 

Di  rose  e  di  viole.  (  ') 


")  Ibid,  n.  ll.l.  Il  sig.  G.  DoNciEus,  parlando  di  questa  canzone  nel 
giornale  M''liii>ine,\l,  241,  vede  nella  seconda  parte  di  essa,  da  Addio,  bella 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALLV.XA.  97 

Tutta  la  Canzone  è  schiettamente  popolare  :  e  tutto 
proprio  alla  poesia  del  popolo  è  anche  quel  proce- 
dere della  narrazione  per  via  di  dimande  e  risposte, 
che  si  nota  negli  ultimi  versi;  il  che  è  comune  non 
solo  alla  poesia  popolare  italiana,  ma  anche  a  quella 
di  altri  popoli.  Cos'i,  ad  esempio,  in  Ispagna: 

La  Marieta  es  motta, 

Deu  la  perdo. 
Ahout  li  faran  l'ensolta? 

Sota  '1  balco.  (M 


In  Normandia: 


—  Quel  métiei"  faisait-elle?  — 

—  Elle  était  coutmière.  — 

—  Et  en  quoi  cousait-elle?  — 

—  Elle  coiLsait  en  soievie.  — 

—  De  quoi  était  l'aiguille?  — 

—  Elle  était  d'argentine.  — 

—  De  quoi  était  sa  pointe?  — 

—  Elle  était  dianiantine.  — 

—  Dans  quoi  la  serrait-elle?  ^ 

—  Dan.s  un  coffret  d'ivoire.  —  (') 


E  in  una  Canzone  veneta: 


In  cao  de  nove  mesi 

Marieta  fa  un  bambin. 
Andove  lo  batiseo? 

—  In  chiesa  a  San  Belin.  — 

—  Cessa  ghe  metiu  il  nome?  — 

—  Lorenzo  e  Batistin.  — 

—  De  cossa  lo  vestiu?  — 

—  De  verde  e  verdolin.  —  f^) 


sorti,  una  variante  della  canzone  francese  della  Fernette,  da  lui  studiata  in 
lioinania,  XX,  86,  e  dal  Nigra,  C.  p.  del  Piemonte,  n.  19. 

(1)  Mila  y  Fontanals,  Romancerillo  catalan,  p.   100. 

(2)  De  Beaurepaire,  Elude  sur  la  Foés.  popul.  en  Xoriiiandie,  Paris. 
Diimoulin,  18.56,  p.  68. 

(3)  WiDTER-WoLF,  n,  27.  Una  versione  veronese  dice  cosn 

—  Che  glie  raetenti  nome  ?  — 
—  Francesco,  Francescbin.  — 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  7 


98  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Quest'altra,  e  sarà  l'ultimo  esempio  che  reche- 
remo, parmi  congiunga  insieme  le  ragioni  della  po- 
polarità e  dell'antichità,  sebbene  pel  suo  stato  fram- 
mentario mal  possa  intendersene  intero  il  senso,  e 
forse  altro  non  sia  se  non  traduzione  od  imitazione 
dal  francese: 

E  per  un  bel  cantar  d'un  merlo 

La  bella  non  può  dormire; 
E  quando  dorme  e  quando  veggliia, 

E  quando  trae  di  gran  sospiri. 
E  la  si  leva  nuda  nudella 

Fuor  del  suo  letto  pulito; 
E  poi  ne  già  nel  suo  giardino, 

Sotto  il  suo  mandorlo  fiorito. 
E  lì  si  calza,  e  lì  si  veste,  (') 


—  De  cossa  l'ai  vestito?  — 

—  De  verde,  verdesin.  — 

—  Cossa  girili  insegna  a  fare?  — 

—  Sonar  el  violin:  — 

KlGUl,  Saggio  di  C.  pojìol.  veronesi,  pag.  29.  Una  versione  veneziana: 

—  Indove  '1  batizenio?  — 

—  In  ciesa  a  San  Martin.  — 

—  Che  nome  glie  metemo  ?  — 

—  Costante,  Cosfcantin.  — 

—  E  ehi  sarà  el  compare  ?  — 

—  Bernardo  Bernardin.  — 

Bernoni,  Canti  popol.  veneziani,  puntata  V,   pag.  0.  E  una  del  Montale  di 
Pistoia:  (in  Aixh.  tradiz.  popol.,  II,  5101: 

—  Come  ghi  s'hae  a  po'  nomo?  — 

—  Giovanni,  Giovanni.  — 

—  Meschie'  ghi  s'ha  a  fa'  i'are? 

—  Mugnaio,  mugnai.  — 

Cfr.  anche  Mazzatinti,  C  popol.  umbri,  n.  452,  o  Fereako,  C.  p.  di  Ponie- 
lagoscuro,  n.  27. 

(!)  La  moglie  fedele  in   una   canzono  istriana,  fa  altrettanto  ma  ad 
altro  fine: 

La  mitoìna  cu'  '1  sul  livà, 

La  se  calza,  la  se  vesto, 

La  se  lava  lo  biande  man 

E  la  va  ne  li  su'  stalo 

Visitare  li  su'  cavai  : 

IvE,  C.  pop.  ìstr.,  p.  3,34. 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  99 

E  lì  aspetta  el  suo  dolze  amor  fino. 
Venne  l'uccello  dello  buon  selvaggio, 

E  'n  sulla  spalla  se  gli  posò. 
Méssegli  el  becco  dentro  all'orecchio, 

Sotto  li  suoi  biondi  capelli, 
Che  gli  parlava  del  suo  linguaggio, 

E  la  bella  non  lo  'ntendeva.  (') 

Qui,  chi  abbia  conoscenza  dell'antica  lirica  popolare 
di  Francia,  non  può  a  meno  di  ricordare  la  Canzone 
della  Bella  Alice,  della  quale  si  hanno  tante  varie 
lezioni  del  principio,  mancando  a  tutte  la  continua- 
zione, sicché  anch'essa  sia,  come  la  nostra,  un  sem- 
plice frammento.  Una  lezione  così  suona: 

Main  se  leva  la  bien  faite  Aelis, 
Bel  se  para  et  plus  bel  se  vesti; 
Si  prist  de  l'aigue  en  un  dorè  bacin, 
Lava  sa  bouche  et  ses  jex  el  son  vis, 
Si  s'en  entra  la  bele  en  un  jardiu. 


(1)  rbicl.,  n.  98.  Propenderei  col  Carducci,  p.  70,  a  leggere  dor- 
mir =  sospir;  pulì  =  fiorì  =  amor  fi;  cape'  =  'ntende'.  —  Che  avrà  detto 
ruccellino  selvaggio  alla  bella?  Forse  quello  che  è  riferito  nel  noto  Ri- 
spetto : 

Il  primo  giorno  di  Calen  di  Maggio 
Andai  nell'orto  per  cogliere  un  flore; 
E  vi  trovai  un  uecellin  selvaggio 
Che  discorreva  Ji  cose  d'amore. 

O  uecellin  che  vieni  di  Fiorenza, 
Insegnami  l'amor  come  comincia. 

L'amor  comincia  con  canti  e  con  suoni, 
E  poi  finisce  con  pianti  e  dolori. 

L'amor  comincia  con  suoni  e  con  canti, 
E  poi  finisce  con  dolori  e  pianti  : 

Tigri,  n.  322.  Invece,  in  una  antica  Canzonetta  francese:  Me  levay  par  un 
matinet,  Men  entrai/  dans  mon  jardinet,  Oh  je  troitvaij  rossignolet;  Qui  en 
sonjoli  chant  disoit:  Belle  fille,  marie  toij:  Haupt,  FranziJs.  Volhslied.,  pag.  103. 
Una  moderna  canzone  popolare  nel  Bujeacd,  Chants popid.  de  l'Ouest,  I,  70; 
Je  'm  sui  leve  de  hon  matin  Pour  cueillir  rose  et  roinarin:  Un  rossignol  vini 
sur  ma  main;  Puis  il  me  dist  en  son  latin:  Qice  les  femmes  ne  valent  rien, 
Et  les  filles  encore  bien  moins  ecc.  Un'altra  :  De  hon  matin  me  lève,  J'entends 
le  rossignol  chantant  Qui  dit  en  son  langage:  Malheureux  soni  tout  les  amants 
De  se  mettre  en  menage.  O  anche:  Me  suis  levée  un  beau  matin  Suis  des- 
cendue  en  mon  jardin,   Un  oiseau   rola    sur   ma  main  Qui  me  disait  en  son 


100  LA  POESIA   POPOLARE   IT  ALLENA. 

Una  seconda  lezione  di  due  soli  versi,  menziona  al- 
meno l'usignoletto: 

Mail!  se  leva  la  bien  faite  Aelis: 
Vons  ne  savez  qiie  li  louseigiiols  dist.  (') 

E  una  terza,  clie  trovasi  in  un  sermone  sacro  : 

Bele  Aliz  iiiatin  leva, 
Siin  coiz  vesti  et  para, 
Enz  un  verger  s'en  entra, 
Cink  flnrettes  i  truva: 
Un  cliapelet  fet  ea  a 

De  rose  flurie.  (-) 

Altra  comparazione  potrebbesi  fare  con  questa  Can- 
zonetta del  quindicesimo  secolo: 

Qua  faire  s'Amour  me  laisse? 

Nuit  et  jour  ne  puis  dormir. 
Quant  je  siiis  la  nuyt  coucliée, 

Me  souvient  de  mou  amy. 
Je  m'y  levay  tonte  nne, 

Et  prins  ma  robbe  de  gris; 
Passe  par  la  faulce  porte, 

M'en  entray  en  noz  jardrins; 
J'ouy  clianter  l'alonecte, 

Et  le  rousignol  jolis, 
Qui  disoit  en  son  langaige: 

Veez  cy  mes  amours  venir.  (^) 

Nò  fan  difetto  raifronti  colla  poesia  popolare  di  varie 
Provincie  di  Francia.  Così,  in  Provenza  cantasi: 

La  bello  Margarido  se  lev'avant  lou  jour, 

Nen  prend  sa  ceulougneto  et  son  fnset  d'amour; 


latin:  Tous  ìes  gar^ons  ne  riitent  rien,  Toiiles  les  femmes  je  n'en  flit  rien,  Mais 
les  fìlles  j'en  dis  dit  bien:  Bi.adk,  I^oés.  de  l'Arniagnac  et  de  ì'Angenais-, 
Paris,  Champion,  1883,1,  45.  Per  coiLsimil  motivo,  vedi  Jtev.  d.  tradii,  popul., 
IV,  204;  Arc/i.  Tradiz.  popol.,  IX,  194  n.,  e  Weckeulin,  L'ancien.  chans. 
popul.  en  France,  197,  208,  307,  485  eci-. 

(1)  Jlist.  JMtéi:  de  la  France,  XXIII,  p.  531. 

(2)  Hist.  Littér.  ecc.  XXIV,  36tì. 

(3)  G.  Paris,  Chans.  du  XV  s.,  p.  95. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  101 

Au  jardin  de  soun  pero  l'y  a  'n  aubre  tout  en  flour, 
La  bello  Margavido  l'y  vai  ploumar  dessous.  (^; 

E  meglio  ancora: 

Par  1111   dimeiiche  de   r.iatin 

Ai  pres  les  claus  de  moun  jardin 
Pour  n'en  cuihir  la  vioiileto.... 
Qiiand  lou  bouquet  es  istat  facli 
•Sabiou  pas  par  qu  lou  mandar. 
L'y  agut  lou  roussignoou  sauvagi, 
Lou  messagier  des  aniourous.  (^) 

E  in  un  canto  guascone: 

De  boun  maytin  s'iiabillo 
La  hillo  de  Coustaou, 
Dab  soun  coutilloun  naou 
S'en  caousso,  s'en  liabillo.  (^) 

Ovvero  : 

A  miey  noueyt  s'en  era  lebade, 
Tento  nudete  descaoussade, 
Sen  anabe   dare  u  laourè, 
En  t'aiia  attende  l'aouillé.  (*) 

E  la  mossa  almeno  del  frammento  italiano  si  è 
conservata  in  questa  Canzonetta.  prol3abilmente  del 
secolo  decimosesto: 

E  mi  levai  d'ima  bella  mattina, 
E  mi  levai  d'una  bella  mattina. 

Sol  per  andar  allo  bello  giardin, 
Sol  per  andar  allo  bello  giardin; 

E  mi  scontrai  d'una  bella  fantina, 
E  li  basciai  il  suo  dolce  bocchin; 


O  D.  Aebaud,  Ch.  popul.  (le  la  Proi:,  I,  114. 

{-)  Ib.  II,  13G.  Cfr.  una  Canzone  del  sec.  XV:  M'i/  levaij  par  iiny  matin, 
Plus  matin  qite  ne  soitloye,  M'en  entrai/  en  no  Jardin,  Pour  cuillir  la  giroii- 
flade:  Pencontrai  le  rousiynou,  Qui  estoit  dessoiihz  l'ombrade:  Eoiisiynou, 
beate  rousignou,  Va  moij  faire  ung  inessaige  ecc.:  Ihid.  p.  102. 

(3)  Cenac-Moncaut,  Littérat.  popul.  de  la  Gasc,  p.  286.  Cfr.  Pfvu-^ 
des  lang.  roma».  VI,  252. 

(4)  Id.,  ibid.,  p.  43.3. 


102  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Che  la  mi  prese  a  dire: 
0  dolce  amore,  caro  mio  fin, 
Quando  ritornerai  da  mi? 
Ed  io  risposi:  Doman  da  mattili. 
Ella  mi  prese  a  dire; 

Caro  mio  amore,  dolce  mio  fin, 
0  dolce  amor  mio  fin, 
0  dolce  amor  mio  fin, 
Amor  mio  fin,  Amor  mio  fin. 
L'altra  mattina,  e  do'  che  mi  levai, 

L'altra  mattina,  e  do'  che  mi  levai, 
Sol  per  tornare  allo  bello  giardin. 

Sol  per  tornare  allo  bello  giardin. 
E  la  bella  fantin  che  jeri  lassai 
La  m'aspettava  allo  bello  giardin, 
Che  la  mi  prese  a  dire: 
Sei  sta'  tardi,  amor  mio  fin. 
Quando  ritornerai  da  mi? 
Io  te  ne  prego,   torna  due  volte  al  di. 
E  lei  mi  prese  a  dire: 

Ch'a'  li  miei  preghi  sia  di  sì, 
Ch'a  li  miei  preghi  sia  di  si: 
Torna  due  volte  al  di. 
Torna  due  volte  al  di.  (') 

Mal  si  apporrebbe  colui  che  credesse  trovarsi 
nelle  due  Raccolte  citate  tutto  il  tesoro  di  Canzoni 
popolari  dei  secoli  decimoquinto  e  decimosesto.  Fru- 
gando ne'  codici  si  rinverrebbe  messe  abbondantis- 
sima, propria  talora  a  curiosi  ragguagli  con  Canzoni 
vive  pur  al  dì  d'oggi.  Citerò  un  esempio.  Comunissima 
è  anche  al  presente  una  Canzonetta  proverbiale,  che 


(')  Opera  nova  nella  quale  ^  bellissime  Canzoni  sopra  rarii  sogijetti 
per  intrare  in  gratta  et  amore  alle  vaghe  e  giovani  donne,  alla  Napoletaiut. 
Karo  opuscolo  s.  a.  n.,  che  conservasi  nella  Marciana,  misceli.  2213.  Vedi 
anche  in  E.  Lovarini,  Le  Cam.  popol.  in  liuzzante,  Bologna,  Fava  e  Gara- 
gnani,  1888  (estr.  dal  J'ropugnatore)  p.  19.  lì.  Renier,  in  Giorn,  star.  leti. 
ital.,  XXn,  :J88,  no  reca  una  lezione  di  poco  diversa,  tratta  dalle  Yillanotte 
alla  padoana,  Venezia,  Rampazzetto,  1506.  Altra  simile,  si  trova  in  una 
stampa  di  Venezia,  1.520:  vedi  A.  Zenatti,  Andrea  Antico  da  Montana,  in 
Ardi.  stor.  per  Trieste  ecc.,  I,  194. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  103 

nella  sua  forma  più  breve,  dice: 

Uno,  due  e  tre: 

E  lo  Papa  non  è  Re, 
E  lo  Re  non  è  Papa 
E  la  pecora  non  è  capra  ecc.  (') 

Eccone,  col  titolo  di  Contrarj,  (")  un  esempio  più  a 
lungo  svolto,  tratto  da  un  codice  del  Quattrocento  :  {^) 

La  salsiccia  non  è  carne. 

Né  la  carne  non  è  salsiccia; 
Né  bii  non  è  torriccia. 

Né  la  torriccia  non  é  bìi; 
Né  le  tre  non  son  dù, 

Né  le  dù  non  son  tre  ; 
Né  '1  Papa  non  è  Re, 

Né  il  Re  non  è  Papa; 
Né  la  chiocciola  non  è  lumaca, 

Né  la  lumaca  non  è  chiocciola; 
Né  il  palèo  non  é  trottola, 

Né  la  trottola  non  è  paleo; 
Né  lo  scherano  non  é  romeo. 

Né  il  romeo  non  è  scherano  ; 


(1)  Vedi  in  Lmbkiani,  II,  189,  una  più  lunga  filatessa;  e  varie  forme 
in  Bernoni,  punt.  XII,  pag.  7,  in  Ive,  pag.  279,  in  De-Nino,  Usi  e  costumi 
abruzzesi,  Firenze,  Barbèra,  III,  189,  in  Pigoeini-Beri,  Le  cantafavole  del- 
l'Appetì. Marchig.  (JV.  Antoì.,  1  Luglio  1880,  p.  45),  in  Giannini,  C  popol. 
montagli,  lucchese,  p.  307,  e  C.  pop.  tose,  p.  54,  in  A.  Giannini,  C. pop.  pisani, 
n.  158,  in  Percoli,  C.  pop.  romagnoli,  n.  144,  in  Rondini,  p.  177,  in  Nigea, 
p.  561,  in  Molinaei  del  Chiaro,  p.  91,  in  N.  Bolognini,  Usi  e  costumi  del 
Trentino,  Rovereto,  1886,  p.  9,  e  1889,  p.  3,  in  Dal  Medico,  Ninne-nanne  e 
giuochi  infant.  venez.,  Venezia,  Antonelli,  1871,  p.  48-49,  in  Luciani,  Tradiz. 
/jopol.  albanesi,  Capodistiia,  1892,  p.  90  ecc.  Ommessa  la  menzione  preliminare 
del  Re  e  del  Papa,  vedi  esempj  italiani  di  questo  Contrario,  in  Gianandrea. 
Giuochi  e  canti  fanriuU.  delle  Marche,  Roma,  tip.  Tiberina,  1878,  p.  27,  in 
Corazzini,  Componim.  minori,  ecc.  p.  14.3  e  351,  e  in  Ferraro,  C.  popol.  di 
Ferrara  ecc.,  Ferrara,  Taddei.  1877,  p.  25.  A  Modica  diventa  un  curioso  e 
lungo  canto  della  messe:  Guastella,  Kinne-nanne  del  circondario  di  Modica, 
Ragusa,  Piccitto,  1887,  p.  87. 

("}  Anche  in  Provenza  queste  catene  di  versi  e  motti  si  cliiam.ano 
Lous  contradicJis :  vedine  es.  in  Eev.  des  lang.  roman.  Ili,  214;  Faradis 
n'es  jìcis  pergatori,  Pergatori  es  pas  Paradis;  Uno  lebre  es  pas  uno  perdris, 
Uno  pierdris  es  pas  tino  lebre;  Uno  coumbo  es  pas  un  serre  ecc.;  e  in  Montel 
et  Lambert,  Contes  pnpul.,  Montpellier,  1874,  p.  32. 

(3)  Laurenz.  della  SS.  Annunz.,  122,  pag.  25. 


104  LA  POESIA  POPOLARE  ITALL\NA. 

Né  il  pan  di  miglio  non  è  di  grano, 

Ne  il  pan  di  grano  non  è  di  miglio  ; 
Né  il  vin  bianco  non  è  vermiglio, 

Né  il  vin  vermiglio  non  è  bianco; 
Né  il  petto  non  è  fianco, 

Né  il  fianco  non  è  petto  ; 
Né  il  solajo  non  è  tetto. 

Né  il  tetto  non  è  solajo; 
La  farina  non  é  vajo, 

Né  la  rena  non  é  farina. 
Io  voglio  andare  a  cena, 

Che  troppo  arei  che  dire, 
S'io  volessi  seguire 

Quel  eh' è  incominciato. 

Vive  tuttora  una  Canzone  fanciullesca  che  Se- 
verino Ferrari  trovò  in  un  codice  laurenziano-recliano 
col  titolo  Arietta  veneziana,  e  mise  a  stampa,  (^)  nella 
quale  un  bambino  chiede  alla  madre  che  va  al  mer- 
cato, animali  e  oggetti,  imitando  di  essi  il  grido  o 
il  suono  : 

Madre  mia,  se  ande'  al   mercà 
Conipranien'una 
Conipramen'una 

Compreme  nn  polesin  la  mia  speranza 
Polesin,  pi,  pi   ecc. 

Questa  canzonetta  dura  ancora  nella  montagna  luc- 
chese, come  attesta  la  lezione  lucchese  che  me  ne 
comunica  il  prof.  Giovanni  Giannini  : 

Bella  che  vai  al  mercà',  compramen'uno 

Comprami  nn  galleitin,  la  mia  speranza! 

C allettin,  chicchiriclù ; 

Sta  su  bella,  sta  su  bella,  che  l'è  d'i. 
Bella  che  vai  al  mercà',  compramen'una. 

Comprami  una  gallina,  la  mia  speranza! 

La  gallina,  coccodè, 


(1)  Bihliot.  Letto:  popol.,  \,  202. 


LA   POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  105 

Galletti  II,  chicchirichì; 

Sta  su  bella,  sta  su  bella,  elio  l'è  dì. 
Bella  che  vai  al   nieicà',  comprameii'uiio, 

Comprami  un  cagiiolin,  la  mia  speranza! 

Cagnolino,  hn  hii  hu 

La  gallina,  coccodè 

G alletti n,  rhicchiriccìù  ; 

Sta  su  bella,  sta  su  bella,  che  l'è  dì. 
Bella  che  vai  al  mercà',  compramen'uno, 

Comprami  un  gattino,  la  mia  speranza! 

11  gattino,  gnao  gnao, 

Il  canino,  ha  bn  bu, 

La  gallina,  coccodè, 

Gal  1  etti  n ,  eh  icch  iricch)  ; 

Sta  su  bella,  sta  su  bella,  che  l'è  dì. 
Bella  che  vai  al  mercà',  compramen'uno, 

Comprami  un  miccino,  la  mia  speranza! 

Il  miccino,   ahi  ahi, 

Il  gattino,  giiao   gnao, 

Il  canino,   bu  bn  hu, 

La  gallina,  coccodè, 

G  ali  etti  n,  chicchiriceli); 

Sta  su  bella,  sta  su  bella,  che  l'è  dì. 

Come  dal  Boccaccio  si  sono  tratte  notizie  di 
Canzoni  del  secolo  decimoquarto,  così  può  farsi  da 
novellieri  e  comici  e  altri  scrittori  pel  secolo  decimo- 
sesto. Menziona  G.  B.  Gelli  ueìV Errore  (att.  I,  se.  Il)  la 
Canzonetta,  della  quale  panni  resti  tuttavia  qualche 
vestigio,  (^)  che  dice: 

Non  è  pili  bell'amar  che  la  vicina, 
Perchè  veder  si  può  sera  e  mattina, 

che  il  Cecchi  rxeW Assiuolo  (att.  I,  se.  I)   muta  leg- 
germente così  : 

Non  ha  il  più  bello  amar  che  in  vicinanza, 


(1)  Vedi  più  oltre,  al  v.  108  della  Serenata  del  Bronzino.  Il  Giusti 
nei  Proverbi  la  dà  in  questa  forma  :  Non  è  più  hello  amor  che  la  vicina,  La 
si  vede  da  sera  e  da  mattina:  pag.  44. 


106  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

E  nella  stessa  commedia  si  trovano  questi  due  versi: 

Amor,  amor,  tu  sei  la  mia  rovina 
E  la  mia  doglia  e  la  mia  passione  (') 

Nella  Zaffetta  del  Veniero  (")  troviamo  questi  due 
primi  versi  di  una  Canzone  popolare,  ricordata  anche 
dall'Aretino  nel  Mcmesccdco  (att.  II,  se.  YIII)  : 

La  vedovella  quando  dorme  sola 
Lamentarsi  con  me  non  ha  ragione. 

Dove,  se  non  fosse  il  secondo  verso,  ci  parrebbe  ritro- 
vare quel  che  adesso  cantasi  tuttavia  in  Venezia: 

La  vedovela  co'  la  dorme  sola 

La  pianze  '1  morto  e  '1  vivo  la  consola: 
La  pianze  '1  morto,  percli'el  glie  riiicresse, 
E  la  ga  '1  vivo  che  ghe  fa  carezze;  (^) 

0  la  primitiva  forma  di  quest'altra  poesia  diffusa  in 
tutta  Italia,  e  che  così  suona  nei  dialetti  meridionali: 

La  vedovella  quanno  'u  ffa  hi  lietto, 
Co'  gran  sospiro  vota  le  lenzola  : 
Po'  sse  mena  la  mane  pe'  hi  pietto  : 
—  So'  carni  cheste  de  dormire  sola?  {*) 

Nella  Santa  Agnese  del  Cocchi  Q  si  cita  un  fram- 
mento della  Canzone  àoìV Anitra: 


( ')  Anche  per  questa  canzone,  verli  pin  oltre  il  v.  12  della  Serenata. 

("-)  Parigi,  MDCCCLXI,  pag.  32. 

(s)  Dal  Medico,  pag.  159  ;  Bernoni,  iJimt.  X,  n.  SO  ;  Gaklato,  pag.  -iO-l  ; 
Marsiliani,  121. 

(■1)  Imbiìiani,  II,  211  ;  cfr.  Ticri,  n.  550-551;  Gianandeea,  pag.  192; 
Tommaseo,  pag.  383;  Vigo,  n.  549;  Ai.veeX,  n.  37;  Dal  Medico,  pag.  161; 
Alburno,  Villotte  l'eHfs.,  Venezia.  Orlanrlini,  1902,  p.  35;  Ive,  pag.  114; 
KoNDiNi,  in  Arch.  tradiz.  popol.,  VII,  173;  Finamore,  n.  621;  Mabsiliani, 
108;  Marcoaldi,  Guida  ecc.,  60;  Nigra.  pag.  579,  ii.  112.  E  diretto  non  a 
vedova:  'l'ulti  m'han  detto  che  dontiite  sola  ecc.  vedi  in  Gianandrea,  1G7-171  ; 
in  Arhoit,  pag.  156,  nota  al  n.  158.  Nella  l'iovana  del  Kuzzante  suona: 
Stalo  m'è  ditto  che  ti  dniomi  sola  ecc.:  vedi  E.  Lovarini,  Le  Canz.  popol. 
in  liuzzante,  Bologna,  Fava  e  Garagnani,  1888  (estr.  dal  Fropitgnatore), 
pagg.  8,  29. 

{j>)  Drammi  spirituali  inediti,  Firenze,  Le  Mounier,  1895,  I,  194. 


LA  POESIA  rOPOLAEE   ITALIANA.  107 

Chi  mangerà,  clii  mangerà  lo  piede 
Dell'anitroccolo? 

che  per  intero,  come  mi  attesta  il  prof.  Gio.  Giannini, 
si  conserva  e  si  ripete  nella  montagna  lucchese,  enu- 
merando, come  per  giuoco  mnemonico,  tutte  le  parti 
dell'animale,  cominciando  dal  capo: 

Chi  l'ha  mangiata  la  testa 
La  testa  dell'anitra  mia?  — 

—  E  l'ho  mangiata  io  — 

—  Testa  con  testa, 
Facciamo  la  festa. 

Oh  bene  mio,  tirati  in  qua! 

E  aìi! 

E  dell'anitra'  un  ce  n'è  più  ecc. 

Vivente  tuttavia  è  la   Canzonetta  del   soldato, 
rammentata  dal  Lasca  nella  Strega  (att.  IV,  se.  Ili): 

Il  soldato  va  alla  guerra, 
Mangia  male  e  dorme  in  terra.  (') 

Lo  stesso  autore  neW Arzigogolo  (att.  I,  se.  I)  cita, 
come  fa  pure  Andrea  Calmo,  il  principio  della  Can- 
zone: 

Tornando  da  Bologna 
La  scarpa  mi  fa  male.  (^) 

Certamente  popolare  è  pure  anche  ciò  che  canta 


(ij  I.  NiEKi,   ì'ita  infantile  e  puerile  lucchese,  Lucca,  Giusti,  189S,  p.  61. 

(2)  Vedi  V.  Rossi,  Le  lettere  di  A.  Calmo,  Torino,  Loescher,  1888,  pa- 
gina 437.  Il  Ricchi  nei  Tre  Tiranni  cita  con  qualclie  diversità  questa  Can- 
zone, ed  altre  due  per  giunta  :  "  Anzi  vo'  dir:...  0  pecorar  quando  anderastù 
al  monte,  o  vero  il:  Ritornando  da  Bologna  La  scarpa  mi  fa  male  in  punta. 
0  pure:  La  vedovella  quando  dorme  sola.  Mi  vien  voglia  di  dire  ad  alta 
voce  II  mal  francioso  di  Stracin  da  Siena  ecc.  „  La  canzone  del  Pecoraro. 
ricordata  ancbe,  come  piìi  oltre  notiamo,  dall'ARETiNO,  Ipocrita,  III,  10 
vedila  in  N.  Boloonini,  Usi  e  costumi  del  Trentino,  Rovereto,  Sottocbiesa. 
1888,  pag.  41;  in  Giannini,  C.  moni,  lucch.,  pag.  203,  in  NEKrcci,  in  Ardi, 
tradiz.  popol., 11,  527,  in  Percoli.  C.  popol.  roniayn.,  n.  13,  in  Xieri.  C.  popol. 
lucch.,  n.  750.  E  vedi  anche  L.  Frati  in  Giorn.  Star.  Lett.  Ital.,  XX,  187, 
11.  7  ;  e  LovAEiNl,  Suzzante,  pag.  31,  e  Aggiunta,  pag.  14.! 


108  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Giaiiiiicco  nel  Manescaìco  (att.  II,  se.  YIII)  dell'Are- 
tino: 

—  Deh,  averzi,  Marcolina.  ~ 

—  Va'  con  dio,  scarpe  puntie.  — 

—  Dell,  aveizi,  Marcolina.  —  (') 

E  poi  segue  con  quest'altra: 

Cara  madre,  maridemi. 

Che  non  posso  più  durar  ; 
Caro  pare,  maridemi, 
Ch'  io  la  sento  ....;(-) 

che  è  una  delle  comunissime  Canzoni  di  ragazze  im- 
pazienti della  verginità  loro.  (^) 

ìseW'lpocrito  (att.  Ili,  se.  X)  entra  cantando 
Guardabasso  ; 

Tempo  fu  che  bene  andò, 
Vissi  lieto  senza  pene  ; 
Bene  andò,  che  l'andò  bene  : 
Or  va  mal  quanto  la  può  : 

e  Toltosi  a  Malanotte  :  Spiccane  tu  nndltra,  Mala- 
notte.  E  costui:  Fara  rirunfera,  farà  rirunfà.  E  Guar- 
dabasso di  nuovo  :  E  quando  e  quando  andrasiù  al 
monte,  eli' è  la  citata  Canzone  del  Pecoraro. 

Negli  Ingannati,  commedia  degli  Accademici  In- 
tronati di  Siena,  la  fante  Pasquella  canta  (IV,  6)  allo 
Spagnuolo  elie  le  vorrebbe  entrare  in  casa,  una  Gan- 


ci) Fu  stampata  nel  sec.  XVI  ila  Giovanpiero  stampatore  (v.  H.  Har- 
RISSK,  Excerpta  Colombiniana ,  pag.  194).  È  riprodotta  da  V.  Rossi,  Lettere 
cit.  del  Calmo,  pag.  441. 

(-)  La  Canzona  si  trova  in  una  st.ampa  del  Vavassore  di  Venezia  (mi- 
sceli. Palatina  E,  6,  5,  3,  voi.  II).  Vedine  mia  antica  versione  in  S.  Ferkaki. 
Documenti  ecc.  (in  Propugnatore,  XIII,  4.53)  e  altre  pareccliie  in  Jiibliot.  Leti. 
popol.,  I,  333  e  seg.  e  371,  nonché  in  Lovakini.  Buzzante  ecc.,  pag.  30. 
e  in  Casini,  Vn  ì'eiìertorio  giullaresco  del  sec.  XIV,  Ancona.  1881,  p.  19.  Per 
versioni  viventi,  vedi  Ferkako,  C.  ìuonferriniipag.  38  e  C.  di  Ferrara  ecc., 
pag.  100;  Gianandrea,  pag.  26G  ecc. 

(3)  Per  i  consimili  canti  stranieri,  vedi  le  indicazioni  in  Ferraro,  C. 
monferrini,  p.  38.  Altro  indicazioni  su  questo  tema  abbiam  dato  a  p.  19,  n.  1. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  109 

zone,  la  cui  prima  metà  trovasi,   com'è   noto,   nel 
Docamerone  : 

Fantasima,  fantasima 
Che  dì  e  notte  vai 
Se  a  coda  ritta  ci  venisti 
A  coda  ritta  te  n'andrai. 
Tristi  con  tristi, 
In  mal'ora  ci  venisti 
E  me  coglier  ci  credesti 
E  'ngannato  remanesti; 

e  prosegue: 

Che  fa  lo  mio  amor  ch'egli  non  viene  ? 
L'amor  d' un'altra  donna  me  lo  tiene. 

Le  Canzonette  del  tempo  sono  ricordate  anche 
nelle  sacre  Rappresentazioni.  Una  Canzone  a  ballo:  0 
cacciator  che  tanto  cacciato  hai,  e  che  è  pure  nelle  rac- 
colte a  stampa,  (^)  trovasi  wqW Àbramo  ed  Agar,  ed 
altra  consimile  nella  Santa  Uliva:  Su  su  alla  caccia; 
e  Rispetti  e  Strambotti  sono  inframessi  o  richiamati, 
come  nel  Miracolo  del  monaco.  Un  canto  evidente- 
mente poj)olare  in  lode  di  Zanella  dal  viso  rosato  è 
introdotto  nella  Passione  di  Revello.  (") 

Copiosi  richiami  a  Canzoni  comunemente  can- 
tate si  hanno  nelle  Commedie  pavane  del  Ruz- 
zante, e  tutte  sono  state  rilevate  e  illustrate  dal 
signor  Emilio  Lovarini,  C)  al  cui  diligente  lavoro  ri- 
mandiamo il  lettore.  Ma  se  in  queste  commedie 
destinate  al  popolo  frequentemente  sono  citate  Can- 
zoni ch'esso  conosceva  e  ripeteva,  e  così,  come  ve- 


ci) Ediz.  cit.,  20. 

(2)  Origini  del  Teatro^,  I,  319. 

(3)  Le  Cam.  popol.  in  Ruzzante  e  in  altri  scrittori  alla.  Pavana  del  se- 
colo XV'I:  estr.  dal  Propugnatore,  N.  S.  I,  1  (1888  ,  e  Aggiunte,  ih.,  l,  2.  Vedi 
anche  per  altre  citazioni  in  commedie,  L.  Stoppato,  La  commedia  popol.  in 
Italia,  Padova,  Draghi,  1887,  pag.  172. 


110  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

demmo,  anche  in  quelle  dell'Aretino,  weìBagionamenti 
di  questo  bel  soggetto,  mescolati  ai  canti  popolari, 
troviamo  in  bocca  di  quelle  etère,  che  sfoggiavano 
conoscenze  letterarie  e  si  accompagnavano  col  liuto, 
Strambotti  anche  e  Ariette  della  società  colta  del 
tempo.  Popolare  è  la  canzone,  già  sopra  ricordata: 

Che  fa  lo  mio  amore  che  non  viene, 

ma  ad  altro  genere  appartengono  : 

Divini  occhi  sereni 

e  così  anche  i  canti  figurati  e  i  madrigali.  O  Altre 
spigolature  di  tal  fatta  potremmo  mettere  innanzi:  (') 
ma  basti  il  già  posto  in  mostra.  (^) 


(1)  I  lìagionamenti,  Firenze,  libreria  Dante,  1892,  pagg.  15,  69;  vedi  i 
madrigali  a  pag.  284-7,  SO-t-T,  312  ;  e  perfino  rime  del  Petrarca,  pag.  141. 
La  canzone  Che  fa  lo  mio  amore  che  non  viene  è  ricordata  anclie  nella  Xo- 
veìle  di  P.  Fortini.  II,  13. 

|2)  Debbo  al  prof.  V.  Cortese  l' indicazione  di  questo  passo  della 
Maccaronea  XV  del  Folengo  (ediz.  mantov.  del  1882,  II,  29): 

Cingar  cantabat  lingua  frifolante  vilottas, 
Quas  toties  nostros  sensi  cantare  bretaros  : 
Gamhettam,  Brorcam,  rassandoque  per  'na  rigiolam. 

Ma  non  ci  riesce  trovare  le  canzoni  qui  ricordate,  e  che  almeno  nel  man- 
tovano, dovevano  esser  notissime. 

(3)  Relegliiamo  qui  in  nota  qu.alche  altra  notizia.  Il  Sanudo  nota  nei 
suoi  DiarJ  (III,  392)  l'apparizione  di  un  giovane  che  ne!  1501  andava  per 
Venezia  cantando  una  canzone  bela  da  udir,  e  ne  reca  il  principio:  Torela 
nio,  villan  La  pitta  dil  guarnel.  Tu  la  farà  stentar  Con  la  zapa  col  restel.  — 
Dalla  lettera  di  G.  Vittorio  Sodehini  sulla  morte  del  Duca  Francesco  I 
(vedi  GuEnRAZxi,  Isabella  Orsini,  Firenze,  Le  Mounier,  1805,  pagg.  185-191) 
si  apprende  che  verso  la  fine  del  sec.  XVI  v'era  una  forma  particolare  di 
poesie  popolari  che  si  chiamavano  Caterine,  dall'invocazione  fatta  a  una 
Caterina,  le  quali  dai  due  esempj  arrecati  sembrerebbero  essere  state  di 
genere  satirico.  —  Il  Manni  nella  Fi7a  del  l'accetti  (Veglie  Piacevoli,  Firenze, 
iliaci,  1815,  III,  92)  ricorda  una  Canzone,  che  verso  lo  stesso  tempo  correva 
in  Firenze  per  le  bocche  dei  fanciulli  sopra  Sajone,  oste  dell'Inferno,  e  che 
principiava:  Sajone  i  sul  tetto  Che  tira  ai  rondoni  ;  Gli  casca  i  calzoni.  Gli 
casca  i  calzoni:  il  Ferrari  nel  giornale  il  Preludio  (ann.  V,  n.  7)  ne  pub- 
blicò due  versioni  antiche,  e  la  canzona  di  .S.njone  è  a  brani  ancor  viva  nel 
lucchese,  o  almeno  ve  n'è  come  un  ricordo:  Don,  don  È  morto  Saglion  ecc.  : 
NiERi,  Vita  infantile  e  imerile  lucchese,  Lucca,  Giusti,  1898,  pag.  59;  e  vedi 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  IH 

Non  vogliamo  tuttavia  ommettere  il  ricordo  che 
in  un  libro  del  Cinquecento  si  trova  di  una  specie  di 
lamento,  che  trasformandosi  sempre  piìi,  fino  a  per- 
dere il  nome  dell'eroina,  e  fin  dal  secolo  XV  lar- 
gamente spargendosi  in  tutta  Italia,  offre  prova 
indiscutibile  dell'antichità  sua  e  della  sua  nobiltà. 
Nel  libro  di  Giovanni  Sabadino  degli  Arienti  inti- 
tolato Ginevra  de  le  dare  donne,  parlandosi  di  Isa- 
bella di  Lorena  moglie  di  Renato  d'Angiò,  che  mentre 
il  marito  era  prigioniero  in  Borgogna,  nel  1435  fece 


qualche  cosa  di  simile,  in  Rondini,  pag.  19-3.  —  II  Redi  nelle  Annotazioni 
al  V.  417  del  Ditirambo  ricorda  la  Canzone  dei  bevitori  fiorentini,  detta 
il  Bombahahà,  che  comincia:  Con  questo  calicione  Si  cavea  la  balestra:  Chi 
ha  'l  bicchiere  in  mano  Al  suo  compagno  il  presta,  E  mentre  ch'ei  dirà,  Xoi 
direm:  Bombababà.  Su  questa  canzona  bacchica,  vedi  A.  Zenatti,  in  Arch. 
Stor.  Trieste  e  Tr.,\,  p.  67,  F.  Novati,  ivi,  I,  p.  206,  e  Villanis,  Sa^firéo  ecc.. 
pag.  .32.  Una  lezione  moderna  vivente  nel  lucchese,  è  in  Giannini,  p.  248. 
\In  Bombabà  del  Lasca  è  nelle  sue  Rime,  ediz.  Verzone,  Firenze.  Sansoni. 
1882,  pag.  1.39.  —  Nella  annotazione  al  v.  720  lo  stesso  Redi  ricorda  que- 
st'altra Canzone  dei  bevoni:  Il  buon  vin  non  fa  mai  male  A  chi  7  beve  allo 
boccale.  —  Il  Vai  nel  Lamento  di  Cecco  da  Montui  fa  menzione  della  Cuccn- 
rucìt  (ricordata  anche  dal  Redi  nell'annotazione  al  v.  855  del  Ditirambo,  e 
riferita  frammentaria  dal  Ferrari,  Bibliot.  ecc.,  I,  2.53)  e  della  Bemaccalà, 
Canzoni  del  tempo.  —  E  pur  sempre  il  Redi  nel  Dialogo  con  Apollo  (pubbl. 
da  G.  Imbert,  Bacco  in  Toscana,  Città  di  Castello,  1890,  p.  194)  menziona 
oltre  la  Cuccurucù,  anche  altre  due  Canzoni:  YAnturutìi  e  il  Maestro  Ber- 
nabò. —  Kon  so  se  veramente  sieno  Canzoni  popolari  o  inventate  dall'autore, 
queste  di  che  si  parla  nell'att.  2»  se.  2»  della  Tancia: 

Cantiamo  in  questo  mentre  uno  Strambotto. 
Di  que'  che  no'  cantammo  all'Impruneta.  — 

—  Deh  diciam  quel  che  dice  :  Non  far  motto. 
Bercili  tu  se'  fanciulla,  e  statti  cheta.  — 
Mainò,  quel  che  comincia  :  /'  ho  diciotto 
Bacili  alla  frasca,  e  vo'  far  della  seta.  — 

—  Ko,  no.  questa  canzona  sì,  ch'è  nova. 
Che  principia  cosi:  Chi  Amor  non  trova. — 

Il  Doni  nei  Marmi,  p.  Ili,  Sagionam.  dei  Sogni,  riferisce  questa  Canzone 
che  "  si  dice  in  Firenze  „  : 

Rosso  mal  pelo 

Che  schizza  il  veleno, 

Di  di  e  di  notte. 

Che  schizza  la  botte.  — 

Il  Berni,  Capit.  sul  Diluv.  di  Muggello  rammenta  "  quella  Canzona  che  dice: 


112  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

vela  per  Napoli,  combattè  contro  Alfonso  d'Aragona, 
e  solo  nel  "41  tornò  oltr'Alpi,  così  è  detto  :  "  Guere- 
zando  dnncba  la  regina  Isabella  come  fusse  stata  usa 
e  perita  ne  l'arme,  et  in  molti  locbi  prospeciendo, 
in  fine,  come  Fortuna  volle,  cbe  a'  belli  principii  vo- 
luntier  contrasta,  il  re  Alfonso  prese  la  Puglia  cum 
Basilicata;  per  il  cbe  allora  si  cominciò  a  cantare 
quella  cantilena  : 

Per  Dio,  non  mi  cliianiate  più  Regina, 
Chiamateme  Isabella  sventurata  ; 


O  ve'  haja  !  „  E  nel  Capii,  della  Piva  dìi  il  principio  di  due  brillate:  Cavalra 
SII,  cfiral  B((Jardo,  e  II  Marchese.  E  nel  Mogliazzo:  Chi  seiniita  il  basilico.  — 
Nel  Lasca,  Mime,  pag.  649,  è  ricoi'data  la  Canzone  AeWa.  Bella  Franceschina, 
riportata  per  intero  da  V.  Eossi,  Lctt.  di  A.  Calmo,  pag.  415;  vedi  anche 
LovAEiNi,  Russante,  pag.  35  e  Aggiunte,  pag.  17.  —  Copiosa  mèsse  di  canti 
napoletani  del  secolo  XVI  ci  dìi  G.  B.  del  Tufo  in  qnel  suo  Ritrailo  o  mo- 
dello delle  grandezze,  delizie  e  maraviglie  della  nol/ilissinia  città  di  Xapoli, 
del  quale  un  largo  sunto  lia  dato  G.  Voi.picella  (G.  B.  del  Tufo  illustra- 
tore di  Nai>oli  del  sec.  XVI,  Napoli,  St.  Università,  1886).  A  pag.  41  tro- 
viamo una  Ninna-nanna:  O  suonno,  o  suonno,  igieni  da  lo  monte,  tuttora 
vivente  (v.  Molinabi-Del  Chiaro,  p.  13),  ed  altre  ora  sparite.  A  pag.  68 
si  riferiscono  Canzoni  di  Natale  e  Capo  d'anno;  e  fra  queste,  quella  Che  possi 
fa  no  figlio  imperatore,  ricorda  l'altra  die  riferimmo  qui  addietro.  A  p.  171 
e  sgg.  si  menzionano  varie  canzoni  del  tempo,  come  Garzonarella  mia,  gar- 
zonarella,  ricordata  anche  dal  Galiani:  Non  ti  ricordi  quando  con  gli  sguardi; 
Xon  so,  faccia  mia  bella,  la  cagione:  Se  vai  all'acqua,  chiammame,  commare; 
Ora  che  ogni  animai  riposa  e  dorme;  Xon  veggio  al  mondo  cosa;  Ombrosa 
ralle;  Ha  preso  moglie,  fate  ben  per  voi  ;  Poco  promette  chi  n'attende  mai; 
Xon  per  viver  da  lunge ;  Mentre  l'aquila  sta  mirando  il  sole;  Fuggendo  il 
mio  dolore;  Tosto  che  il  sol  si  se  uopi  ra  in  oriente;  Datemi  pace  o  duri  miei 
pensieri:  Amor,  deh  dimmi  come;  Mentre  campai  contento;  Tu  si'  di  Xola 
e.  io  di  Marigliano;  Guarda  di  chi  m'iette  a  'nnammorare ;  Sciosame'ncanna 
lo  napolitano;  Donna  solo  mio  core;  Chi  mira  li  occhi  tuoi  ;  Occhi  dell'alma 
mia  vivaci  soli  ;  L'inverno  quando  fiocca;  Donna  mi  fuggi  ognora;  Tu  se' 
la  calamita;  Quella  catena  ond'io  legato  fui;  Porsi  morir  volea  ;  Empio  cor, 
rruda  voglia  e  fera  mano;  ^'estiva  i  colli  e  le  campagne  intorno;  Che  fai, 
alma,  che  pensi?;  Aura  soave  più  d'ogni  altro  vento;  O  bella, bella,  menarne 
no  milo.  Ma  sebbene  il  Del  Tufo  le  dica  cantate  da  cositori  e  artigiani,  le 
più  sono  senza  dubbio  di  carattere  letterario;  veramente  popolari  saranno 
soltanto  quelle  vernacole.  Vedi  sulla  i^oesia  popolare  napoletana  dei  tempi  an- 
dati, S.  Ferrari,  Antiche  canzoni  napoletane,  nei  Xuovi  Goliardi,  agosto  1RS4; 
B.  CapaSSo,  Sulla  p.  p.  napolel,,  in  Arch.  stor.  prov.  meridion.,  Vili,  316; 
>I.  ScHERli,LO,  /  C.  pop.  nelV  Opera  buffa,  in  G.  B.  Basile,  I,  passim,  e  in 
Appendice  alla  Stor.  letter.  dell'Opera  buffa,  Napoli,  tip.  Università,  1883, 
e  B.  Croce,  Appunti  di  Ietterai,  popol.,  in  Arch.  tradiz.  pop.,  XIII,  103  ecc. 


LA   rOESIA   POPOLARE   ITALIANA.  113 

Hajn  perduta  Capua  gentile, 

La  Puglia  piana  cum  Basilicata.  (') 

Nei  canti  napoletani  restò  donna  'Sabella  : 

Nu  'nime  chiamati  ccliiui  donna  'Sabella 
Chiamatemi  'Sabella  spentuiata  : 
Foi  patruna  de  trentatrè  ca.stella 
De  Puglia  chiana  e  de  Basilicata;  ('^J 

e  furono  fatte  molte  congetture  per  sapere  di  chi 
si  trattasse:  se  d'Isabella  d'Aragona,  come  proposo 
rimbriani,  o  d'Isabella  Villamarina,  come  pensò  il 
Minieri-Riccio,  o  d'Isabella  di  Cliiaromonte;  ma  l'at- 
testazione dello  scrittore  bolognese  determina  la 
persona.  Se  non  che  anche  a  Napoli  si  era  andata 
obliterando  la  memoria  della  lorenese:  e  in  un  li- 
bretto  di  opera  buffa  del  Lorenzi,  musicato  dal  Pic- 
cinni,  essa  cantava  : 

Non  songo  Aurora  chiù,  non  so'  più  chella 
Songo  na  pellegrina  sfortunata  ; 
Non  me  chiammate  chiù  donna  Sabella, 

Ah  menicò,  menicò,  nienicò, 
Chiammateme  Sabella  sbenturata. 

E  in  Toscana,  perduto  ormai  ogni  vestigio  di  dignità- 
regale,  non  fu  pili  che  la  biondina  bella: 

Non  mi  chiamate  più  biondina  bella 
Chiamatemi  biondina  sfortunata.  (") 

Anche  pel  secolo  decimosettimo  abbiamo  qual- 
che notizia  da  raccogliere  negli  scrittori.  Così  Ales- 


(1)  Pag.  98  della  Ginevra  pubbl.  da  C.  Ricci  e  A.  Bacchi  della  Lega 
Bologna,  Romagnoli,  1888. 

(-)  Imbriani,  11,428-429;  Molinari  Del  Chiaro,  p.  2;3();  Congedo,  p. -SI. 

(^)  Vedi  il  G.  B.  Basile,  Ai-ch.  di  leltei:  popò!.,  VI,  (34;  S.  Di  Giacomo, 
Cronaca  del  Teatro  di  S.  Carlino,  Napoli,  Bideri,  1891,  pag.  129.  Ho  trat- 
tato più  ampiamente  di  questa  Canzone  di  Donna  Isabella  nel  FanfnUa 
della  Domenica  del  29  gennaio  1888,  e  nella  Strfnna  genovese  }ìei  Baclii- 
tici,  anno  VI  (1889),  pag.  33. 

D'Ancona,  La  poesia  j^op.  ita!.  —  8 


lU  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

sancirò  Tassoni  nel  canto  IV  della  Secchia  rapita  pone 
in  scena  la  squadra  del  Fontanella,  che  si  udiva  (ma 
la  Canzone,  ricordata  anche  dal  Folengo  e  dal  Doni, 
era  ormai  vecchia): 

Cantar  non  lungi  la  Rossina  bella.  (') 

Ove  il  Salviani  annota  :  "  La  Piossina  è  una  Canzone 
triviale  che  si  canta  in  Lombardia,  e  cominciando 
dalle  chiome  dice:  Che  beile  chiome  ch'à  la  mia  lios- 
sina  !  Bossina  bella,  fa  lì  là  là  là:  Viva  l'amor  echi 
morir  mi  fa,  e  cosi  va  seguendo  „.  E  si  canta  anche 
adesso;  salvo  che  il  nome  dell'eroina  è  mutato,  e  il 
primo  verso  oggi  suona:  Cìie  bei  capelli  ch'à  la  mia 
Marianna.  (") 

Ma  una  maggior  copia  di  Canzoni  popolari  can- 
tate nel  Seicento  ce  l'indica  l'Opera  nova  nella  quale 
^i  contiene  una  incatenatura  i^)  di  pili  Villanelle  ed  altre 
cose  assai  ridiculose,  data  in  luce  il  1G29  a  Verona 
per  me  Cammillo  detto  il  Bianchino,  cieco  fiorentino.  È 
dunque  questo  il  repertorio  di  un  giullare  da  piazza, 
di  un  cantastorie,  di  uno  di  quei  poveri  ciechi,  che  al 
suono  del  violino  attraevano,  e  ancora  attraggono  la 
plebe  intorno  a  se  nelle  piazze.  Se  tanto  caso,  e  giu- 
stamente, si  fa  dagli  eruditi  delle  Canzoni  provenzali 
di  Guiralt  de  Calenson  e  di  Girauz  de  Cabrena  e  del 
favolello  francese  des  deux  Troveors  ribauz,  dove  si 
enumera  il  patrimonio  poetico  di  un  giullare  del  se- 
colo decimoterzo,  vorrà  farsi  certamente  buon  viso  a 


(1)  Vedi  V.  Rossi,  Lett.  del  Calmo,  pag.  413. 

{-)  Vedi  una  versione  romagnola  in  Fekuoli,  n.  29.  Cfr.  colla  enume- 
razione delle  bellezze  AeUa.  Margariciou,  in  Jieviie  rles  lang.  roman.,\y ,  llii. 
o  11^  Sèrie,  II,  289. 

(3)  In  Francia  lo  pelitea  pifces  componeés  des  2»'ein%cr.i  vers  oii  de  re- 
frain des  chaitson  en  vogue  furono  dette:  fricassde:  vedi  E.  Picot,  La  sottie 
en  Trance,  extr.  da  la  Jiomania,  pag.  7. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  115 

questo  componimento  del  cieco  italiano,  C)  che  ci  fa 
sapere  quanta  ricchezza  di  Canzoni  popolari  potesse 
egli  spacciare  agli  amatori  del  genere.  Delle  quali 
molte  risalgono  al  secolo  anteriore  o  più  oltre:  salvo 
che,  laddove  già  erano  insieme  sonate,  cantate  e  bal- 
late, O  adesso,  mutati  i  tempi  e  i  costumi,  andavano 
soltanto  sul  suono  e  sul  canto.  Ecco  intanto  la  Can- 
zone del  cieco  :  C) 

Molte  Canzone,  burle  e  bagattelle 

Io  vi  voglio  cantare, 

Di  vecchie  e  nuove,  delle  brutte  e  belle. 

Se  mi  state  ascoltare. 

Or  io  vi  vo'  pregare. 

Tutti,  per  cortesia. 

Vi  prego  udire  questa  bizzarria, 

Per  vita  mia, 

Che  si  canta  per  Milan 


(1)  Riprodotto  auclie  uel  Muellek-Wolf,  Egeria,  pag.  53. 

(-)  Ciò  si  rileva  da  parecchie  Canzoni  a  ballo:  Ciascuna  halli  e  canti 
Di  questa  schiera  nostra  (Canz.  72)—  Ballerò  con  voi  cantando  Poi  cJie  cos'i 
vuole  Amore  (Canz.  83)  —  Lasciam  ir  maninconia  Da  poi  che  di  Maggio 
siamo:  Canti  e  halli  noi  facciamo;  Quel  ch'à  esser  convien  sia  (Canz.  134i  — 
Chi  non  è  innamorato  Esca  di  questo  ballo,  Che  sarta  fallo  —  a  stare  in  s'i 
bel  lato  fCanz.  109),  che  ricorda  una  Canzone  maggiajola  provenzale  :  Tuit  cil 
qui  sunf  enamourat  Viegnent  dancar,  li  autre  non  (Romania,  I,  405).  Le  an- 
tiche stampe  delle  Canzoni  hanno  sul  frontispizio.  1"  una  un  ballo  di  do- 
dici donne  davanti  al  palazzo  Mediceo,  e  in  faccia  Lorenzo  e  un  po'  dietro 
il  Poliziano  :  due  donne  sono  inginocchiate  davanti  al  Magnifico,  e  una  di 
esse  togliesi  di  testa  la  ghirlanda  porgendola  al  Signore,  che  mostra  di 
ricusarla;  e  questa  è  riprodotta  nel  frontespizio  delle  Canzonette  antiche 
dell'ALVisi.  L'altra  stampa  rappresenta  il  Magnifico,  sempre  davanti  al  suo 
palazzo;  e  gli  occhi  delle  donne  danzanti  sono  fìssi  su  di  lui,  che  il  po- 
polo mascherato  da  carnevale  attornia,  presentandolo  di  qua' bericuocoli  e 
confortini  da  lui  cantati  ;  e  questa  è  riprodotta  in  alcune  copie  delle  Can- 
tilene e  Ballate  del  Caeducci.  Altra  bella  silografia  antica,  tolta  dalle  Can- 
zone 2)er  andare  in  maschera  lìer  carnesciale,  rappresenta  personaggi  ma- 
scherati, uomini  e  donne,  che  cantano  e  suonano  davanti  al  palazzo  Mediceo: 
alle  finestre  molte  donne,  Lorenzo  per  la  via;  e  fu  riprodotta  da  E.  Levi, 
Lirica  ital.  antica  ecc.  Firenze,  Olschki,  1905,  pag.  201. 

(3)  Per  identificare  le  Canzoni  dell"  incatenatura  mi  sono  giovato  spe- 
cialmente di  due  scritti  di  S.  Fere  ahi.  Canzoni  ricordate  nelV  incatenatura 
del  Bianchina  (in  Giorn.  Filol.,  Romanza,  III,  51)  e  L'incatenatura  del  B.. 
Xuoae  ricerche,  in  Giorn.  Ligustico,  XV,  1888.  Altre  incatenature  sono  ad- 
ditate dal  Fereaki  in  Propugnatore,  XIII,  432  e  in  Bibliot.  Lett.  popol.,  I,  115. 


116  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

D'un  certo  gobbo  Nan  : 

Qìian,  quan, 

Asta  visto  lo  gobbo  Nan?  (^) 
Perchè  questa  Canzona  è  un  poco  antica 

Io  la  vo'  qui  lassare  : 

Io  non  ci  starò  a  fare  altra  replica, 

Altra  ne  vo'  trovare  ; 

Se  mi  state  ascoltare, 

Dirò  ben  volentieri: 

Vola,  vola,  pensier,  fuor  del  mio  petto, 

Valine  veloce  a  quella  faccia  bella 

Della  mia  chiara  stella. 

Dille  cortesemente  con  amore: 

Eccoti  lo  mio  core.  {-) 
Se  la  prima  fu  antica,  questa  è  passa: 

Or  sì  ch'è  graziosa  ! 

Bisogna  andar  nel  fondo  della  cassa 

Per  trovar  qualche  cosa. 

Oh  quest'è  dilettosa, 

Ch'io  vi  vo'  far  sentire  : 

E  di  qual  volem  dire? 

Eh  direm  della  Violina, 

Re,  mi,  fa,  sol,  la.  (^) 


(1)  A  questa  canzone  si  riferiscono  Le  tremende  hrarafe  fatte  dal  Gobba 
Xeni  contro  coloro  che  van  gridando  per  Milan  Quan,  Quan  astu  vesto  lo 
Gobbo  Kan,  di  G.  C.  Croce;  vedi  Guerrini,  La  vita  e  le  opere  di  G.  C.  Croce, 
Bologna,  Zaniclielli,  1879,  pag.  434,  ed  il  Ferrari  (Giom.  Filol.  lioin., 
pag.  54)  e  Bibliot.  ecc.,  p.  211,  che  la  riferisce  per  intero. 

(2)  Vedi  in  Ferrari,  <?.  FU.,  56,  e  G.  Lig.,  Nuove  ricerche,  pag.  2.  Ebbe 
parecchie  tramuta/.ioni,  additate  dal  Ferrari  e  si  riproduce  ancora  nella 
raccolta  popolare:  Ardor  d'Amore.  Fu  attribuita  al  Tasso,  e  non  è  impos- 
sibile che  sia  di  lui,  secondo  A.  Solerti,  Giom.  Stor.,  XII,  30S,  XIII,  458.  Si 
trova  con  .altri  canti  musicali  del  tempo  in  un  nis.  della  biblioteca  di  Vienna,. 
Vedi  HuRCH,  Italien.  Volkslied.  d.  XVI,  J.,  in  Herrig'S,  Archiv,  LXXXVII,  446. 

(3)  Il  Ferrari  ((?.  FU.,  58)  ne  conosce  due  rimaneggiamenti  ed  una 
tramutazione:  dei  primi  l'uno  è  eertamente  del  Croce  (vedi  Guerrim,  pa- 
gina 376),  l'altro,  forse  anche:  della  seconda,  l'autore  è  il  Sivello  :  e  sono 
tutti  comparsi  a  luce  dal  I.'jSO  al  1620.  Violina  divenne  nomo  di  un  genere 
(li  contrasto  fra  padre  e  figlia  per  la  scolta  del  marito.  Un'ultima  eco  ve 
n'è  nella  canzona  popolare  toscana: 

0    Violina  tu  hai  le  gote  rosse; 
O  babbo  mio,  me  l'han  tinte  le  more  ecc.  : 

della  quale  una  varia  lezione  è  da  vedere  in  Nieri,  p.  64.  Un  canto  antico 
della  Viola  è  in  Casini,  Due  antichi  repertorj  poetici  {Propugnatore,  N.  S., 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  117 

Questa  la  san  per  infino  alle  putte, 

Ma  è  bella  da  cantare  : 

Che  la  piace  alle  donne  belle  e  brutte, 

Che  si  von  maritare. 

Una  ne  vo'  trovare, 

Ma  questa  va  in  sull'arpe  : 

Chi  t'ha  fatto  le  belle  scarpe, 

Che  ti  Stein  sì  ben, 

Che  ti  stan  sì  ben,  Giroìuetta. 

Che  ti  stan  sì  ben  ?  (  ') 
Mi  risponde  il  meschino  innamorato 

Che  amore  è  in  lui  possente  : 

—  Vorrei  qualche  versetto  appassionato, 

Che  mi  allegri  la  mente.  — 


II,  259).  Nelle  Xuot^e  ricerche,  pag.  4.  il  Feeraei  riferisce  il  modo  ii-sato 
anche  dal  Lippi  {Malm.,  IV,  69)  Dir  della  Violina,  che  il  Vocabolario  spiega  : 
Dire  2'cirole  d'impi-ecazione.  T.  Cannizzaeo  nel  Glorn.  FU.  Hom.,  IV,  184 
reca  una  lezione  .siciliana  della  Violina,  con.simile  alla  toscana  citata. 

(1)  Della  Girometta  (o  delle  Giromette,  perchè  fin'i  coll'esser  designa- 
zione di  un  genere)  parlò  S.  Feriìaei  in  Un  cenUme  (Propugnat.,  XIII,  1. 
pag.  438)  e  poi  nel  Giorn.  FU.  Boni.,  IV,  85,  e  nel  Giorn.  Ligust.,  XV,  estr. 
pag.  8,  addiicendo  di  essa  parecchi  testi,  e  parecchie  testimonianze  della  sua 
notorietà.  A  queste  ultime  si  aggiunga  un  passo  di  S.  Amjiieato  (NorelU, 
Bologna,  Volpe,  1856,  pag.  10):  E  che  direte  voi  del  mio  cane,  il  quale  canta 
la  Ghirometta?;  e  uno  di  un  sonetto  del  secolo  XVIII  (v.V.  Rossi,  Calino, 
pag.  410).  E  lo  stesso  Ammieato  ne  fa  sapere  il  luogo  d'origine,  scrivendo 
che  ai  tempi  di  re  Francesco  di  Francia  era  uscita  allor  per  Venezia  questa 
Canzone  in  campagna  e  cantavasi  da  jiiccoli  e  da  grandi,  di  giorno  e  di  notte, 
per  le  piazze  e  per  le  ine,  sì  fattamente  che  ciascuno  aveva  di  continuo  gli 
orecchi  intronati  dal  tuono  di  questa  Canzone (Ojniscoli,  Firenze,  1637,  II,  176). 
Altre  testimonianze  sono  raccolte  dal  Lovaeini,  Buzzante,  pag.  33  e  Ag- 
giunte, pag.  12,  nonché  in  nota  ai  Trionfi  nel  dottorato  di  Marcìiion  Settnla 
del  Croce,  ristamp.  per  laurea  Battistella  (Padova,  Gallina,  1898,  pag.  22); 
e  fra  queste  è  notevole  quella  di  C.  Spontone  nel  dialogo  il  Botrigaro,  dove 
ricorda  come  comunemente  cantata  in  Bologna  da  fanciulli  quando  su  V 
lauto  e  su  la  viola  e  quando  su  l'arpicordo,  or  con  le  pive  a  hallo  e  final- 
mente ridotta  a  ragion  di  musica...  con  tromboni,  cornette  e  cornamuse  du 
sonatori  eccellentissimi  alla  ringhiera  di  Palazzo  maggiore  e  con  soddisfa- 
zione grandissima  del  popolo  ascoltante,  sonata  in  alcuni  tempi  festevoli,  la 
Canzone  :  Chi  t'ha  fatto  quelle  scarpette  che  ti  stan  si  ben,  Girometta  ?  La 
ricordano  più  tardi  il  Malispini  (v.  Rqa,  in  Arch.  trad.  xiopol.,  IX,  490}  o 
il  Fagiuoli,  dicendo:  Alla  cetra  talora  il  capo  gratta  E  poi  vi  canta  su  la 
Girometta  (Biine  piacevoli,  VI,  226}.  In  Piemonte  re.sta  un  probabile  fram- 
mento dell'antica  canzone  (v.  Nigra,  123);  ma  di  essa  in  altri  canti  (ibid.  lor. 
e  Fekeaeo,  C.  pop.  del  basso  Monferrato,  27)  non  rimane  che  il  solo  nome  di 
Girumetta.  Sembra  vivente  ancora  nel  Vicentino:  vedi  F.  Lampeetico,  Scritt. 
star,  e  letter.,  Firenze,  Le  Mounier,  1882,  pag.  400. 


118  LA  POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

Se  Amor  ti  fa  dolente 

Comincia  meco  a  dire: 

Qnal  più  cvudel  martire 

Dar  mi  potevi,  Amore, 

Che  farmi  schiavo  d'un  ingrato  core! 

Di  te,  Amore,  mi  son  lamentato 

Cieco  e  f anelili  coti  l'ale; 

Perchè  chi  è  innamorato 

Lo  strtiggi  e  lo  fai  tale?  (^) 
Or  questa  pasturale 

Volete  eh'  io  vi  scriva  ? 

Lnngo  està  verde  riva 

Viviam  lieti  e  contenti, 

Vagheggiando  la  Diva 

E  pascendo  gli  armenti. 

Ognun  canta  l'ardore 

La  pena  ed  il  dolore  —  ch'Amor  dà, 

E  i  sollazzi  che  porge 

A  chi  seco  si  sta.  (") 
Or  queste  pastoral  piacciono  assai, 

Che  sono  arie  galante: 

Dissi  la  prima  parte,  e  poi  restai, 

Perchè  su  questo  stante 

Mi  soYvien  d'un  amante, 

Che  cantò  in  sulla  lira: 

0  trecce,  die  intrecciate  a  chi  vi  mira 

Con  un  legame  che  mai  non  s'astoglie. 

S'io  v'amo  e  se  v'adoro,  a  voi  che  toglie  ? 
Oh  vo  passando  il  tempo  allegramente 

Con  queste  canzoncine. 

Per  dare  spasso  a  tutta  questa  gente  ! 

Le  fo  corte  o  piccine  : 

'Naiizi  ch'io  venga  al  fine. 

Dell'altre  io  te  n'arrivo: 

Perchè  in  tìdto  mi  hai  privo 

Di  que' begli  occhi  ond'io  giojoso  vivo? 


(1)  Il  Ferrari,  Giorn.  FU.,  pag.  79,  ne  addita  una  lezione  un  po' di- 
versa nel  cod.  ricc.  del  sec    XVII,  28-19. 

{-)  L'intera  pcistoraìe  è  in  FnitRAUi.  Giorn.  Fiì.,\ìng.  80,  dal  cod.  28C8 
liccard. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  119 

Lasso,  che  farò  io  ? 

Morrò,  morrò,  cor  mio.  (^) 
Una  me  ii'è  venuta  in  fantasia 

di' io  non  la  vo' lasciare  : 

Al  mio  giudizio  par  che  bella  sia, 

Io  ve  la  vo'  sonare. 

Questa  si  può  cantare 

Innanzi  e  dopo  cena: 

Ora  che  a  noi  rimeiia 

L'alma  Primavera 

E  con  Sila  bella  schiera 

La  stagione  serena, 

Oh  giovanetti  amanti 

Intrecciate  gli  onori, 

E  con  soavi  canti 

Raddolcite  i  cuori. 
Adesso  m'è  venuto  un  certo  umore 

Da  far  tutti  stupire  ; 

Ma  per  mostrar  eh'  io  vi  son  servitore 

Ve  la  vo'  far  sentire. 

Mi  vien  voglia  di  dire 

Questa,  che  ognun  la  chiede: 

Se  mia  sincera  fede 

È  degna  di  mercede. 

Perchè  siete.  Signora,  sì  crudele 

A  un  amante  che  v'è  s)  fedele?  (^) 
Una  Canzona  beila  e  capricciosa 

Or  mi  vien  per  la  testa  ; 

Chi  vuol  sentire  una  vita  giojosa 

Di  grazia  senta  questa; 

Poi  che  m'è  stata  chiesta. 

Di  cantarla  fo  patto  : 

Esser  giovan,  ricco  e  inatto, 

Fa  là  là,  lì  là,  lì  là  ; 

Non  è  piti  bel  mestiero 

Che  non  aver  pensiero: 

Fa  là  là,  lì  là,  lì  là. 


(1)  Una  consimile  villanella  ytapolitann  è  riferita  dal  Fekeaei,  Gion>. 
FU.,  81,  dal  cod.  riccard.  2868. 

(2)  Riferita  per  intero  dal  Ferrari,  Giorn.  Lìg.,  22.  da  un  cod.  uia- 
gli.ib.  Vn,  7,  218. 


120  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Già  una  volta  Amor  mi  fé'  infelice 

Ox"  più  non  mi  tormenta  ; 

Non  canterò  d'Orfeo  o  Doralice, 

Che  piìi  non  mi  talenta: 

D'  una  sposa  contenta 

Io  vo'  cantarvi  or  ora  : 

Tir  idolo,  vieni  a  letto. 

Sentirai  sonar  l'archetto, 

Dolcemente  la  viola: 

Vieni  a  letto,   Tiridola.  {') 
Passando  a  caso  da  una  certa  strada 

Dov'io  sentii  sonare, 

Io  mi  fermai  alquanto  e  stetti  a  bada. 

Cominciorno  a  cantare 

Un  certo  lamentare 

D'  nn,  che  così  diceva  ; 

AiìiariUi  piangeva 

La  morte  d'tin  pastor,  che  le  preì>ieva  ; 

Essa  V  chiama  con  viso  malinconico. 

Jonico,  jonico,  jonico.  (^) 
L'altr'ieri  io  mi  venni  a  dimandare  : 

Che  volontà  è  la  tua? 

Per  cortesia  state  ad  ascoltare, 

Ch'è  ben  cantar  la  sua. 

Questa  va  bene  in  dna, 

Ma  che  sien  voci  tremole  : 

E  quando  Cahalao  vendeva  menole, 

Adesso  va  gridando:  aghi  da  poniole. 

Agucchie  da  Lanzan  per  le  pettegole.  (^ 
Chi  va  sentendo  questo  mio  umore 

Par  che  sia  cosa  strana; 

Ma  per  mostrar  ch'io  vi  son  servitore, 

Cantar  vo'  alla  A^eneziana. 

Oh,  questa  è  a  la  romana, 

Va  ben  col  violino  : 


(1)  Fu  musicata  da  Orazio  Vecclii  (Selva  eli  ravia  ìicreazione,  Venezia, 
Cardano,  1.590)  ed  è  riferita  per  intero  dal  Fickiìaiìi,  Giorii.  Ligust.,  p.  2'!. 

(-1  Tratta  dalla  raccolta  di  bellissime  canzonette  musicali  modevne,\ì- 
cenza,  Salvadori,  1G22,  è  riprodotta  dal  Fekrari.  Giorn.  Lig.,  2.5. 

(3)  La  canzone  di  Gabalao,  forse  originariamente  veneziana,  fu  rifatta 
dal  Croce  :  vedi  Febeari,  Giorn.  FU.,  83. 


LA  POESLl  POPOLARE   ITALIANA.  121 

Fra  Giacopìno,  fra  Giacopino 

Da  Roma  si  partita.  (') 
Noti  posso  più  cantar,  ch'lio  detto  assai, 

Io  ri  bacio  la  mano  : 

Così  cantando  d'Amor  mi  biulai, 

Per  eh'  io  ne  son  lontano. 

E  questa  ancor  pian  piano 

So  che  l'avrete  a  caro  : 

E  tre  donne  mi  riscontraro 

Per  la  via  dello  casteìlu, 

L'una  e  l'altra  mi  domandaro 

S'io  portavo  moscatellu  : 

L'ita  mi  fece  :  eh  ! 

L'altra  mi  fece:  ah! 

L'altra  mi  fece:  iih  ! 

Ed  erano  assai  galanti, 

Tutte  e  tre  hallacano. 
E  per  usare  termin  di  creanza, 

10  vi  voglio  pregare 

Se  nel  mio  dire  ho  fatto  fallanza 
Mi  abbiate  a  perdonare. 
Questa  io  vi  vo'  insegnare 
Per  quando  andate  al  ballo  : 
Caterina  dal  corallo, 
Lievu  su,  che  canta  il  gallo, 

11  gallo  e  la  gallina,  là  là  dirndon.  (-) 
Innanzi  che  di  qui  faccia  partenza, 

Ne  vo'  dire  una  ancora  : 

Per  cortesia  abbiate  pazienza, 

Che  mi  ricordo  or  ora 

Che  una  bella  signora 

Me  la  insegnò  in  Livorno: 

TJna  gatta  e  una  cornacchia  l'cdtro  giorno 

Facendo  a  una  gallina  un  malo  scherzo 

TJna  co'  graffi  e  l'altra  con  lo  becco, 


(1,  Vedi  questa  canzone,  tratta  dal  cod.  ricc.  2849,  in  Feekaei,  Giorn. 
Filoh,  84.^ 

^•-)  È  nella  Selea  del  Vecchi  come  Margarita  dai  corai,  e  di  là  l.i 
trasse  il  Fekkaei,  Giorn.  Lig.,  20.  Si  canta  ancora  nel  veronese  e  nel  tren- 
tino :  vedi  Ferrari,  Giorn.  FU.,  8.5,  e  X.  Bolognini,  Fiabe  e  legg.  del!" 
Valle  di  Se.idena,  Eovereto,  Sottochiesa,  1881,  pag.  8;  e  nel  trevisano:  vedi 
I.  XiNNi.  Feste  tradizionali  nella  Trevisana,  Venezia,  Longhi,  189-3,  pag.  10. 


12'2  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

Cro,  ero,  ero, 

Gnau,  gnau,  gnau, 

Cornacchia  e  gatta 

E  lo  Spagiinol  gridava:  maranìatta,  malta.  (^) 
Statemi  ad  ascoltar  per  cortesia 

Se  vi  pare  il  dovere  : 

Ne  ho  dette  tante  per  la  compagnia, 

La  mia  non  vo'  tacere. 

Voletela  sapere 

Quale  Canzon  la  sia  ? 

La  hnmettina  ìiiia 

Con  l'acqua  della  fonte 

La  si  lavò  la  fronte, 

E  'l  viso  e  'l  petto.  (^) 
Ormai,  Signori,  dette  tante  e  tante. 

La  mia  voce  è  straccata  : 

Io  vo'  finir  con  questa  d'  un  amante 

Tradito  dall'amata. 

Oh  che  l'è  SI  garbata 

A  cantarla  in  ischiera  : 

Dov'andastii,  jersera, 

Figliuol  mio  ricco,  savio  e  gentil  ? 

Dov'andastii  jersera  ? 
Quant'  io  m'avveggo,  questa  è  troppo  lunga, 

Doveva  esser  la  prima: 

Non  aspettate  che  piti  ce  ne  aggiunga, 

Che  mi  manca  la  rima  ; 

Con  questa  che  si  stima, 

Adesso  io  vo'  iinire  ; 

"Noi  ci  vogìiam  juirtire 

Da  voi,  lieti  e  contenti. 


(^1;  È  evidentemente  ima  Canzone  fanciullesca,  come  quello  recate 
iieiriMBRiANi,  II,  199,  segg. 

(■-)  Fu  già  attribuita  al  Poliziano  e  voramcnto  dice:  Sì  tara  il  d'i  la 
fronte  E  'l  seren  petto.  Ora,  come  piìi  addietro  dicemmo,  è  stata  rivendicata 
a  Baldassar  Olimpo  da  Sassoferrato,  da  S.  Fkriìaki,  A  proposito  di  0.  da  S., 
(Bologna,  Zanicliclli,  1880)  contro  A.  Luzio,  La  brunettinn  del  Polis,  e  0. 
da  S.,  in  X.  Anlol.,  30  sett.  1880.  Anche  il  Cecchi  ne  fa  menzione  negli 
.Sciamiti  (Att.  Ili,  se.  2"),  non  che  il  Bkacciolini  nel  liavanello  alla  Nen- 
ciotla:  "  JN'è  cantar  Cor  mio  las.so,  o  la  Brunetta  „  ;  o  continuò  a  ripetersi 
sino  ai  nostri  giorni;  anzi  si  ripeto  ancora,  ballando,  l'ultimo  giorno  del 
Carnevale  in  Casentino:  v.  Jetta-Giannini,  in  Arc/t.  trad.  popol.,  XX,  20'J. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.    "  123 

Perchè  il  nostro  desire 
È  di  seguir  gli  armenii, 
E  voi  con  passi  lenti 
Seguite  Amor  cantando.  (') 

Di  queste  Canzoni  la  maggior  parte  è  caduta 
dalla  memoria  dei  volghi:  (')  diciamo  la  maggior 
parte,  perchè,  oltre  quelle  via  via  notate  come  ancora 


(1)  Riportata  dal  Fekkaki,  Giovn.  Lig.,  26,  dal  coil.  riccard.  2398. 

(-)  Molte  di  queste  vecchie  Canzonette  narrative  e  descrittive  sono 
state  riprodotte  negli  nltimi  tempi,  spesso  con  accurate  illusti'azioni  ;  e  ri- 
cordiamo, fra  le  altre,  le  seguenti  stampe  : 

T.  Casini,  Vn  Canzoniere  popolare,  in  Hass.  Setti)ìì.,Yll,  313,  15  mag- 
gio 1885,  e  Un  repertorio  giullaresco  del  secolo  XIV,  Ancona,  Sarzani,  1881 
(estx*.  dal  Preludio). 

B.  WiESE,  Poesie  edite  ed  inedite  di  L.  Giustiniani,  Bologna,  Roma- 
gnoli, 1883. 

E.  Alvisi,  Canzonette  antiche,  Firenze,  libr.  Dante,  1884.  Contiene  le 
Canzonette  menzionate  dal  Boccaccio,  la  Canzone  di  Lisabetta  di  Messina, 
e  Canzonette  popolari  diverse,  più  un  Indice  di  capoversi  di  canzoni  po- 
polari profane,  citati  per  la  musica  in  capo  alle  Laudi. 

F.  NovATi  e  F.  C,  Pellegrini,  Quattro  Canzoni  popol.  del  sec.  XV, 
Ancona,  Morelli,  1884  (per  nozze  Ventuii-Fanzago), 

B.  WiESE,  Keunzehn  Lieder  L.  Giustiniani's  nach  den  altern  drucken, 
Luddwiglust,  1885,  e  in  Miscellanea  Caix-Canello:  Einige  Dichtungen  L.  G., 
pag.  191. 

F.  NovATi,  Malmaritata,  Canzono  a  ballo  lombarda  del  secolo  XV, 
Genova,  Sordo-muti,  1890. 

M.  Menghini,  Canzoni  antiche  del  popolo  italiano,  riprodotte  secondo  le 
cecchie  stampe,  Roma,  Forzani,  1890.  La  raccolta  rimase  interrotta  a  pag.  15(5. 
Contiene:  Tre  Canzone  di  Fortunato  (la  figliuola  die  chiede  marito  alla 
madre,  la  risposta  della  madre,  il  lamento  della  mal  maritata),  una  Esorta- 
zione ai  padri  di  famiglia:  la  Canzone  della  congiura  delle  Massaie,  e  la 
Risposta,  la  Canzone  sopra  le  malizie  e  pompe  delle  donne,  la  Canzone  di 
Giambrunaccio  col  Maciulla,  la  Barzelletta  contro  le  Massarette,  la  Canzone 
del  sig.  Hieronimo,  il  lamento  del  Moro  appiccato  a  Ferrara,  il  lamento  di 
Bastiano  detto  il  Garrotta,  il  lamento  dell'ebreo  battezzato,  le  Frottole  e  le 
ottave  per  la  questua  di  San  Martino,  la  Canzone  alla  schiavonesca  di 
S.  Martino,  l'Omo  pizinin,  la  Frottola  sull'abolizione  della  tassa  sul  maci- 
nato, due  zingaresche,  il  Contrasto  di  un  massaro,  ecc. 

L.  F.  Valdeighi,  Il  Lihio  di  Canto  e  di  Liuto  di  C.  Bottegari,  Fi- 
renze, Orlando,  1891. 

C.  Volpi,  Poesie  p>opol.  ital.  del  seeolo  XV,  Verona,  Tedeschi,  1891. 
V.  CiAN,  Le  Hiine  di  Bartol.   Cavassico  notaio   bellunese   della  prima 

metà  del  secolo  XVI,  ecc.  Bologna,  Romagnoli  Dall'Acqua,  1894  (2  voi.). 

M.  Menghini,  Cantilene  e  Canzoni  antiche  (per  nozze  Gnoli-Parisani). 
Roma,  tip.  Sallnstiana,  1894. 

V.  CiAN,  Ballate  e  Strambotti  del  secolo  XV,  in  Giorn.  Stor.  Letterat. 
Ital.,  IV,  I. 


124  LA   POESIA   POPOLARE   ITALL^XA. 

superstiti,  di  una  intanto  jiossiamo  dire  che  è  tut- 
tavia fresca  e  viva,  ed  è  la  penultima  menzionata. 
Sappiamo  infatti  dal  nostro  cieco  che  essa  cantavasi 
nel  1629  :  da  nn  accademico  fiorentino,  il  canonico 
Lorenzo  Panciatichi  nella  sua  Cicalata  in  lode  della 
Padella  e  della  Frittura,  recitata  alla  Crusca  il  24  Set- 
tembre del  1656,  ne  abbiamo  conferma  in  questo 
passo  :  "  Ricordatevi  a  questo  proposito  di  cpel  no- 
stro accademico  che  fece  quella  bella  osservazione, 
che  è  tanto  piaciuta,  sopra  quella  Canzone: 

Dove  aiulastù  a  cena,  fìgliuol  mio, 
Ricco,  savio  e  gentile  ? 

dove  dicendo  il  figlio  alla  madre,  ch'egli  era  stato 
avvelenato  con  un'anguilla  arrosto,  e  domandandogli 
la  madre  dove  la  dama  glie  ne  aveva  cotta,  rispose: 
nel  pentolin  dell'olio.  Ora  avvedendosi  questo  gran 
critico  dell'errore  preso  in  dire  anguilla  arrosto  e 
cotta  nel  pentolin  dell'olio^  mutò  quella  parola  arrosto, 
e  disse  in  guazzetto  : 

Madonna  madre. 

Il  cuore  sta  male 

Per   un'anguilla  in  guazzetto  „.  (') 

Ma  se  alcuno  avesse  vaghezza  di  conoscere  questa 
Canzone,  che  anche  adesso  si  ripete,  e  che  ha  indu- 
bitatamente due  secoli  e  mezzo,  se  non  più,  sulle 
spalle,  e  che  si  è  perpetuata  per  sola  tradizione  orale, 
eccola  qua,  come  l'abbiamo  raccolta  dalla  viva  voce 
di  un  cantore  giovanetto  del  contado  pisano: 

—  Dov'eri  'ersera  a  cena. 

Caro  mio  figlio,  savio  e  gentil? 
Mi  fai  morire 
Ohimè  ! 


(1)  Scritti  varj,  Firenze,  Le  Momiier,  1856,  pag.  32. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  125 

Dov'eri  'ersera  a  cena, 
Gentile  mio  cavalierV  — 

—  Ero  dalla  mi'  dama  ; 

Mio  core  sta  male, 

Che  ]nale  mi  sta  ! 
Ero  dalla  mi'  dama  : 
'L  mio  core  che  se  ne  va  — 

—  Che  ti  diènno  da  cena, 

Caro  mio  figlio,  savio  e  gentil  ? 
Mi  fai  morire, 
Ohimè  ! 
Che  ti  diènno  da  cena, 
Gentile  mio  cavalier?  — 

—  Un'angailletta  arrosto. 

Cara  mia  madre  ; 

Mio  core  sta  male, 

Che  male  mi  sta  ! 
Un'angailletta  arrosto, 
'L  mio  core  se  che  ne  va.  — 

Se  non  che  a  questo  punto  v'è  una  lacuna,  e  si 
viene  quasi  subito  al  testamento;  cosicché  sarà  piìi 
opportuno  dare  una  lezione  non  toscana,  (')  ma  piìi 
compiuta:  quella  comasca,  raccolta  dal  Bolza:  anche 
perchè  il  paragone  fra  tutte  le  versioni,  del   cieco, 


(1)  Vi  è  ora  la  lezione  pistoiese  del  Montale  pubbl.  dal  Nertjcci,  ia 
Avch.  tradiz.  popol.,  II,  526,  e  la  lucchese  in  Giannini,  p.  199.  Nel  Leccese 
questa  Canzone,  che  va  col  nome  de  Ih  cavalieri  e  fiylìii  de  re,  comincia 
a  questo  modo  : 

—  Ca  te  mangiasti  iersira, 
Cavalieri  e  figliolo  de  rre  ? 

—  Me  mangiai  'na  nguilla  .nll'oglio; 
Signnra  mia  madre,  mi  seiitu  muTi.    - 

—  A  dhu  la  cuceuasti, 
Cavalieri  e  figliuolo  de  ne  ?  — 

—  Intru  a  nu  stami  d'oru. 

Signura  mia  madre,  mi  sentu  muiì  ecc. 

Vedi  A.  Trifone  Nutricati  Briganti,  Intorno  ai  Canti  e  Baccanti  popol. 
del  Leccexe,  Victor  Thaler  und  Geselshaft-Wien  (sic!;,  1873,  pag.  17.  Due 
diverse  lezioni  del  giovane  tradito  dalla  dama,  e  di  una  giovane  avvelenata 
dal  cognato,  riferisce  V.  Labate  Caridi  nel  voi.  XVI,  l-_'9,  iìcW'Arcli.  per  le 
tradii,  popol.,  e  una  lezione  di  Acri  è  riferita  nel  giornale  La  Calabria,  I, 


126  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

del  canonico,  del  contadino  toscano  e  del  lombardo, 
faccia  vedere  come  una  stessa  Canzone  attraversi 
i  secoli,  modificando  talvolta  linguaggio,  parole  e 
metro,  e  fors'anco  musica,  ma  pur  rimanendo  sempre 
sostanzialmente  la  stessa.  Ecco  la  versione  comasca, 
forse  originariamente  toscana,  lunga  ma  bella  : 

—  Dóve  si  sta  jersira. 

Figliuol  mio  caro,  fiorito  e  gentil  ? 
Dóve  sì  sta  jersira?  — 

—  Sòn  sta  dalla  mia  dama: 
Signóra  mama,  mio  core  sta  mal  ! 
Són  sta  dalla  mia  dama: 

Ohimè,  eli'  io  moro,  ohimè  ! 

—  Cossa  v'  halla  dà  de  cena, 
Figliuol  mio  caro,  fiorito  e  gentil? 
Cossa  v' halla  dà  de  cena? 

—  On  inguilletta  arrosto: 
Signóra  mama,  mio  core  sta  mal  ! 
On  inguilletta  arrosto; 

Ohimè,  ch'io  moro,  ohimè!  — 

—  L'avi  mangiada  tiitta, 

Figliuol  mio  caro,  fiorito  e  gentil? 
L'avi  mangiada  tiitta? 

—  Non  n'ho  mangia  che  mezza: 
Signóra  mama,  mio  core  sta  mal  ! 
Non  n'  ho  mangia  che  mezza  : 

Ohimè,  ch'io  moro,  ohimè!  — 

—  Coss'avì  fa  dell'altra  mezza, 
Figliuol  mio  caro,  fiorito  e  gentil? 
Cossa  avi  fa  dell'altra  mezza? 


11.  del  1.5  ottobre  188C.  Duo  lezioni  veneziane  sono  recate  dal  Bernoni,  Xiwvi 
Canti  lìopol.  venes.,  li.  1,2;  e  la  seconda  comincia  così: 

—  E  (love  xestu  sta  gieri  sera, 
Figlio  mio  rico,  sapio  e  gentil  ? 
E  dove  xestu  sta  gieri  sera, 
Gentil  mio  cavalier? 

—  E  mi  so'  stato  da  la  mia  bela  : 
Signora  madre,  el  mio  cuor  sta  mal  ! 
E  mi  so'  stato  da  la  mia  bela  : 

Oh  Dio,  che  moro,  oliimò  !  — 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAXA.  127 

—  L'ho  dada  alla  cagnòla  : 
Signóra  mania,  mio  core  sta  mali 
L'Iió  dada  alla  cagnòla; 

Ohimè,  eh'  io  moro,  ohimè  '■   — 

-  Cossa  avi  fa  della  cagnòla, 
Figliuol  mio  caro,  fiorito  e   gentil  ? 
Cossa  avi  fa  della  cagnòla? 

—  L'è  morta  drè  la  strada; 
Signora  maina,  mio  core  sta  mal  ! 
L'è  morta  drè  la  strada: 

Ohimè,  eh'  io  moro,  ohimè  !  — 

-  L'ha  va  gilist  dà  '1  veleno, 
Figliuol  mio  caro,  fiorito  e  gentil  : 
L'ha  v'ha  giiist  dà  '1  veleno.  — 

—  Mandò  a  eianià  'I  dottóre. 
Signóra  mania  mio  core  sta  mal  ! 
Mandè  a  ciamà  '1  dottóre  : 

Ohimè,  ch'io  moro,  ohimè!  — 

-  Perchè  vorì  ciamà  '1  dottóre, 
Figliuol  mio  caro,  fiorito  e  gentil. 
Perchè  vorì  ciamà  '1  dottóre  ?  — 

—  Per  farmi  visitare; 

Signóra  mania,  mio  core  sta  mali 
Per  farmi  visitare: 

Ohimè,  ch'io  moro,  ohimè  I  — 


-  Mandè  a  ciamà  '1   ciUato  ; 
Signóra  mania,  mio  core  sta  mal! 
Mandè  a  ciamà  'I  curato. 

Ohimè,  ch'io  moro,  ohimè!  — 

-  Perchè  vorì  ciamà  '1  eiirato  : 
Figliuol  mio  caro,  fiorito  e  gentil, 
Perchè  vorì  ciamà  '1  eiirato?  — 
—  Per  farmi    confessare  : 
Signóra  mamma,  mio  core  sta  mal  ! 
Per  farmi  confessare  : 

Ohimè,  eh'  io   moro,  ohimè  ! 


128  LA   POESIA   POPOLAKE   ITALIANA. 

—  Mandò  a  cianià  '1  notavo  : 
Signora  mania,  mio  core  sta  mal! 
Mandò  a  ciamà  '1  notavo  : 

Ohimè,  ch'io  movo,  ohimò!  — 

—  Perchè  veri  ciamà  '1  notavo, 
Figliuol  mio  cavo,  fiorito  e  gentil, 
Pevchò  vovì  ciamà  '1  notavo  ? 

—  Pev  fave  testamento  : 

Ohimè,  eh'  io  movo,  ohimè!  — 

—  Cessa  lasse  alla  vostva  marna, 
Kigliiiol  mio  cavo,  fiovito  e  gentil? 
Oossa  lassò  alla  vostva  mania?  — 

—  Ghe  lasso  '1  mio  palazzo: 
Siguòva  marna,  mio  cove  sta  mal  ! 
Ghe  lasso  '1  mio  palazzo  : 

Ohimè,  eh'  io  movo,  ohimè  !  — 

—  Cossa  lasse  alli  vostvi  fvatelli, 
Figliuol  mio  cavo,  fiovito  e   gentil, 
Cossa  lassò  alli  vostvi  fvatelli?  — 

—  La  carrozza  coi  cavalli  : 
Signora  marna,  mio  cove  sta  mal! 
Lt,  cavvozza  coi  cavalli, 

Ohimè,  ch'io  movo,  ohimè!  — 

—  Cossa  lassò  alle  vostve  sovelle, 
Figliuol  mio  cavo,  fiovito  e  gentil, 
Cossa  lassò  alle  vostvo  sovelle  ?  — • 

—  La  dote  pev  mavitavle  : 
Signuva  mania,  mio  cove  sta  mal  ! 
La  dote  per  mavitavle  : 

Ohimò,  eh'  io  movo,  ohimò  !  — 

—  Cossa  lassò  alli  vostvi  sevvi, 
Figliuol  mio  cavo,  fiovito  e  gentil, 
Cossa  lassò  alli  vostvi  sevvi?  — 

—  La  stvada  d'andà  a  messa  : 
Signóra  mania,  mio  cove  sta  mal  ! 
La  strada  d'andà  a  messa  : 

Ohimè,  ch'io  moro,  ohimè!  — 

—  Cossa  lassò  pev  la  vostra  tomba, 
Figliuol  mio  cavo,  fiorito  e  gentil, 
Cossa  lassò  pev  la  vostva  tomba?  ■ 

—  Cento  cinquanta  messe: 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  129 

Signóra  maina,  mio  core  sta  mal  ! 
Cento  cinquanta  messe  ; 

Ohimè,  ch'io  moro,  ohimè!  — 
—  Cossa  lasse  alla  vostra  dama, 
Figliuol  mie  caro,  fiorito  e  gentil, 
Cossa  lasse  alla  vostra  dama?  — 
—  La  fórca  da  impiccarla. 
Signora  maina,  mio  core  sta  mal  ! 
La  fórca  da  impiccarla: 

Ohimè,  ch'io  moro,  ohimè!  —  (^) 

Per  molte  altre  Canzoni  eli  soggetto  narrativo 
od  elegiaco  il  caso  potrà  far  scoprire  qualche  men- 


(1)  BoLZA,  n.  49.  —  Una  versione  romana,  in  Sabatini,  Il  volgo  di 
Roma,  Roma.  Lux,  1901,  pag.  180.  Vedi  La  lezione  romagnola  iu  Rondini, 
p.  138,  e  in  Percoli,  p.  i7,  la  piemontese  in  Nigea,  n.  26,  e  tre  sarde  in 
Ferbaeo,  C. pop.  logoduresi,  I.  11  rimpianto  letterato  J.  Addington  Symonds 
quando  il  mio  libro  fu  pubblicato  la  piima  volta,  mi  comunicò  gentilmente 
una  ballata  inglese  da  lui  tradotta  per  me,  cbe  dice  cos'i  : 

—   "  Dove  sei  stato,  Lord  Renald,  figliuolo   mio  ? 
Dove  sei  stato,  bel  giovinetto  mio?  — 

—  Sono  stato  al  bosco;  madre,  fammi  presto  il  letto. 
Sono  stanco  della  caccia,  vorrei  liposarmi  — 

—  Dov'eri  a  cena.  Lord  Renald,  figliuolo  mio  ?  — 

—  Ero  dalla  mia  dama;  madre  fammi  il  letto  — 

—  Cosa  avesti  da  cena  ecc.  — 

—  Ebbi  un'anguilla  all'olio  ecc.  — 

—  Temo  che  tu  sia  avvelenato  ecc.  — 

—  Sì,  sono  avvelenato  ecc.  — 

In  una  lezione  di  questa  ballata  segue  il  testamento  : 

—  Cosa  lasci  a  tuo  padre  ecc.  ?  — 

—  La  casa  e  i  miei  poderi;  madre,  fammi  il  letto, 
Perchè  sto  male  al  cuore,  e  vorrei  coricarmi  — 

—  Cosa  lasci  a  tuo  fratello  ecc.  ?  — 

—  Il  mio  cavallo  colla  sella  ecc.  — 

—  Cosa  lasci  a  tua  sorella  ecc.  ?   — 

—  Il  mio  cassone  cogli  anelli  d'oro  ecc.  — 

—  Cosa  lasci  alla  tua  dama  ecc.?   — 

—  La  forca  e  la  eorda  per  impiccarla.  — 

11  signor  Symonds  mi  dimandava  s' io  credessi  che  nella  Canzone  dell'an- 
guilla si  trovasse  "l'ultimo  resto  di  un  mito  ario-germanico  „.  Questo  non 
credo;  ma  l'identità  dei  due  componimenti  è  strana.  Mancano  però  gli 
anelli  intermedj  per  ricongiungere  la  ballata  inglese  colla  canzone  italiana. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ita!.  —  9 


130  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

zione,  che  ci  assicuri  dell'antichità  loro  ;  ma  in  ge- 
nerale potrebbe  dirsi  che  tutta  la  massa  delle  poe- 
sie cantate  dal  popolo  italiano  è  un  patrimonio 
avito,  posseduto  da  cinque  secoli  almeno,  e  via  via 
trasmesso  di  padre  in  figlio.  Certo  qualche  più  o  men 
lieve  aggiunzione  vi  si  è  venuta  facendo  di  tempo 
in  tempo,  più  spesso  col  rimescolare  e  variamente 
combinare  ciò  che  già  si  possedeva;  ma  come  è  per 
noi  chiaro  che  ninna  delle  Canzoni  secolari  si  è 
mantenuta  integralmente  nella  primitiva  sua  forma, 
così  è  anche  indubitato  che  non  molto  si  è  prodotto 
di  nuovo.  La  facoltà  poetica  del  popolo  nella  forma 
epico-narrativa  soprattutto,  non  che  pur  anche  nella 
drammatica  e  nella  lirica,  sebbene  in  minor  misura, 
si  è  venuta  esaurendo:  sicché  anche  quando  e'  crede 
di  far  di  suo  e  creare  qualche  cosa  di  nuovo,  non 
fa  altro,  se  non  rimaneggiare,  rimpastare,  contami- 
nare variamente  elementi  vecchi,  custoditi  quasi 
senza  avvedersene  entro  i  recessi  della  memoria. 

Né  mancano,  a  buon  conto,  altri  modi  indiretti  di 
affermare  la  lontana  origine  delle  Canzoni  popolari, 
specialmente  narrative.  Nelle  quali  tutte  del  resto  si 
scorge,  chi  ben  vi  guardi,  il  segno  evidente  di  altri 
tempi  e  di  altri  costumi,  di  un  viver  sociale  e  pri- 
vato, di  sentimenti  e  di  opinioni,  che  nulla  han  che 
fare  col  mondo  moderno.  Ma,  senza  ciò,  parecchie 
Canzoni  hanno  in  sé  qualche  cosa  di  più  particolare, 
che  permette  di  determinarne  con  fondamento  l'an- 
tica origine.  Certo,  per  rispetto  all'origine  di  alcuni 
Canti  si  è  caduti  in  esagerazioni  non  accettabili, 
specialmente  dai  collettori  e  critici  siciliani,  pe'  quali 
la  più  fuggevole  menzione  od  allusione  ad  un  fatto 
o  ad  un  personaggio  storico  sembra  sufficiente  a 
fissare  il  nascimento  del  Canto  al  tempo  stesso,  cui 


LA   POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  131 

appartiene  ravvenimento  o  l' individuo  menzionato. 
Noi  non  possiamo  a  cliins'  occhi  accettare  la  sen- 
tenza così  formulata  dall'egregio  amico  nostro  Giu- 
seppe Pitrè,  che  "  il  poeta  letterato  scrive  di  un 
fatto  quanto  gli  pare  e  piace,  ma  il  poeta  rustico, 
se  non  lo  canta  subito,  non  lo  canterà  più  „.  (^) 
Qui  intanto  si  darebbe  per  già  risoluto  un  fatto,  sul 
quale  fra  poco  dovremo  intrattenerci  a  lungo,  par- 
lando delle  relazioni  fra  la  poesia  eulta  e  la  plebea: 
si  escluderebbe,  cioè,  il  caso,  che  poesie  letterarie 
0  semi-letterarie  fossero  mai  divenute  popolari. 
Prima,  adunque,  di  accettare  la  teorica  del  Pitrè, 
converrebbe  sapere  se  il  popolo  non  abbia  fatto  sue 
molte  composizioni  di  poeti  non  nati  in  mezzo  ad 
esso,  e  fra  queste  talune  di  contenenza  storica. 
Ad  ogni  modo,  anche  negando  o  attenuando  queste 
relazioni  fra  la  poesia  dotta  e  la  plebea,  che  pur 
nel  corso  del  nostro  lavoro  metteremo  in  chiara 
luce,  dovrebbesi,  seguendo  la  dottrina  del  Pitrè,  ri- 
nunziare al  valore  della  tradizione,  e  all'efficacia 
della  memoria.  Vi  sono  invero  certi  fatti  e  certi 
personaggi,  de'  quali  il  ricordo  resta  indelebile  nelle 
menti  delle  successive  generazioni,  sicché  la  com- 
memorazione poetica  ne  avvenga  soltanto  dopo  anni 
e  secoli  di  orale  tradizione:  (")  anzi  appunto  col  pas- 
sare degli  anni  e  dei  secoli,  la  materia  si  cangia  di 


(1)  Studj  di  poes.  popoL,  Palermo,  Pedone,  1872.  p.  28. 
-)  Nel  Vigo,   n.  2<)4,  v'  ha  un'ottava  che  finisce  : 

Pri  tia  foni  chiamati  li  pitturi 
Nun  pottinu  sta  bedda  arritrattari  : 
Lu  dissi  Fidiricu  imperatori. 
Si  piccati  luui  lia  'n'ancilla  pari  ! 

Non  veggo  che  anche  questa  poesia  sia  fatta  risalire  ai  tempi  svevi;  ma 
vi  sarebbe  la  stessa  ragione  che  per   le    altre,   ove   è   ricordato   qualche 


132  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

storica  in  poetica,  e  il  più  naturale  ricordo  diventa 
quello  che  n'è  fatto_  col  verso. 

Citerò  a  conforto  di  quanto  dico,  un  fatto  ap- 
partenente alla  storia  dell'isola:  il  famoso  Vespro. 
Havvi,  adunque,  nelle  raccolte  siciliane  di  poesia 
popolare  una  ottava  che  dice: 

Nun  v'azzardati  a  vèniri  'n  Sicilia, 
Ch'iiannu  jinatu  salarvi  li   coria: 
E  senipri  ca  viniti  'ntra  Sicilia, 
La  Francia  sunirà  sempre  martoria. 
Oggi  a  cu'  diclii  chichiri  'n  Sicilia 
Si  cci  tagghia  lu  coddu  pri  so'  gloria: 
E  quannu  si  dirà  :  Qui  fu  Sicilia, 
Finirà  di  la  Francia  la  memoria.  (^) 

Or  qui  io  sento  veramente  un  che  di  letterario,  che 
mi  vieta  scorgervi  col  Pitrè  un  frammento  "  di 
qualche  poemetto  nato  immediatamente  dopo  il  Ve- 


personaggio  o  fatto  di  quo"  tempi,  o  degli  anteriori.  Ma  al  Canto  n.  37-, 
che  dice  : 

Lu  Papa  fu  ppi  tia  di  l'oggliiu  santu. 

Vinni  lu  iniperaturi  Custantinu. 

Ti  vasau  'n  frunti,  e  ti  sparmau  lu  niantu; 

il  Vigo  annota:  "  L' Imperator  Costantino?  e  di  qual  epoca  è  questo 
Canto?  „  E  noi  dimanderemo:  Chi  avrebbe  proprio  il  coraggio  di  farlo 
risalire  al  quarto  secolo?  Sarebbe  invece  più  nel  vero  chi  a  questi  nomi 
che  si  trovano  qua  e  là  addotti  nelle  Canzoni,  a  cagione  di  lode  o  di 
vanto,  desse  il  medesimo  valore  che  alle  feste  fatte  da  Palermo  e  Mes- 
sina per  il  nascimento  della  bella  (Vigo,  n.  .353),  alla  dote  di  Napiili, 
Spagna,  Falerinu  e  la  Vana  (In.  not.  al  n.  353).  al  comparatico  battesimale 
del  re  e  della  regina  (Il>.  ibid.),  al  battesimo  noi  sriumi  Giordanii  (In. 
n.  377),  e  simili.  Leggendo  che  lu  pafrinedtUi  fudi  Munsi gnuri,  Lu  sagri- 
stami  fudi  Cardinali  (n.  378),  chi  vorrebbe  fare  una  ricerca  storica  per 
trovare  quando  un  porporato  fu  sagrestano?  E  finalmente  quando  è  detto  : 
Tridici  Cunti  'n  chiesa  ti  porlaru,  Quaturdici  Bariina  cu  tia  foru,  Quinnici 
Cardinala  ti  spusaru  (n.  2171),  ovvero,  lu  lire  di  Francia  vi  voli  ppi  nova 
'n.  2566),  chi  non  vedo  una  forma  meramonte  epifonemica.  nella  quale  )e 
designazioni  di  nomi  o  dignità  celebri  nella  storia  o  nella  tradizione  non 
significano  nulla  di  storico? 

(1)  Pitrè,  Canti  popol.  sicil.,  I,  102.  Ma  chi  ammetterà  che  la  voce  os- 
zardare  ch'ivi  si  trova  sia  del  sec.  XIII? 


LA   POESIA   POPOLxiRE   ITALIANA.  133 

spro  „.  Ma  concedasi  anche  che  l'ottava  sia  schiet- 
tamente popolare,  cioè  non  solo  cantata  e  diffusa 
fra  il  popolo,  ma  di  sua  propria  fattura:  dovrà  però 
dirsi  che  la  memoria  del  Vespro  così  presto  illan- 
guidisse nelle  fantasie  popolari,  ch'e'  si  debba  opi- 
nare non  essersi  potuto  comporne  questo  breve  ri- 
cordo in  altro  tempo,  salvo  sulla  tìne  del  secolo 
decimoterzo  ?  E  chi  credesse  che  fosse  di  tempi  non 
tanto  remoti,  quando  la  Francia,  immemore  del  Ve- 
spro, novamente  agognava  il  possesso  dell'isola, 
direbbe  davvero  una  cosa  degna  di  esser  accolta  col 
riso? 

Medesimamente,  del  re  Guglielmo  detto  il  buono, 
restò  memoria  affettuosa  fra  il  popolo  :  or  perchè 
dovremo  dire  che  un  Canto  in  ch'egli  è  ricordato,  (^) 
debba  esser  appunto  del  tempo  suo,  e  non  poste- 
riore? C) 


(1)  Id.,  ihid.,  p.   99. 

i")  Così,  ognun  sa  quanto  in  tutti  gli  ordini  della  popolazione  insu- 
lare sia  rimasta  tenace  la  memoria  dell'antica  Costituzione.  Perciò  non 
è  necessario  riferire  a  tempi  antichissimi  la  seguente  ottava  (Vigo,  n.  5381) 
che  forse  altro  non  è,  al  più,  se  non  un  frammento  di  narrazione  perduta, 
a  cui  da  mano  letteraria  sia  poi  stato  artificiosamente  accodato  il  secondo 
tetrastico  : 

Di  la  ran  turri  sona  la  campana, 

Prestu  a  Palerniu,  Sinniclii  e  Baruna  ; 

Terri  e  cittadi,  vicini  e  luntana 

Eispunninu:  Ubbidemu,  Sacra  Cruna. 

Accussi,  figghia,  chistu  cori  chiama 

Ccu  sti  canzuni  la  vostra  pirsuna  ; 

La  donna  ca  daveru  a  l'omo  l'ama 

La  servi  cumu  fussi  Sacra  Cruna. 

Qui  è  curiosa  la  nota  dell'editore:  "  Il  comento  di  questo  Canto  riusci- 
rebbe lungo.  Così  scrissi  nel  1857.  Ma  oggi  ?  La  libertà  della  parola  l'ab- 
biamo, quantunque  a  patto  di  succliiarci  il  sangue,  e  mangiarci  vivi  una 
consorteria  d' insaziabili  volponi  „.  Il  lettore  badi  bene  che  la  consorteria 
ecc.  è,  con  reggimento  grammaticale  alla  sicula,  il  soggetto  :  chi  succìiia 
e  mangia,  Dio  ce  ne  liberi  tutti,  è  la  consorteria;  e  né  il  Vigo  ne  i  suoi 
compaesani  sono  obbligati  dall'iniqua  consorteria  a  cangiarsi  in  vampiri  ed 
antropofagi  1  Del  resto,  oltre  la  "libertà  della  parola  „  è  chiaro  che  l'Italia 


134  LA   POESIA   POPOLAKE   ITALIAXA. 

Ognuno  vede  come  attenendosi  a  siffatti  criterj 
sia  facile  cadere  in  anacronismi  (')  ed  in  errori  non 
lievi.  Vi  ha  in  Sicilia  un  Canto  C)  —  niente  più  che 
una  ottava  —  in  che  trovasi  allusione  ad  un  fatto 
religioso  della  metà  del  secolo  IX:  la  ripristinazione 
del  culto  delle  immagini.  A  noi  sembra  che  —  delle 
due  cose  l'una  —  o  del  fatto  restò  durevole  ricor- 
danza nella  religiosa  fantasia  del  popolo  siciliano, 
ovvero  il  popolo  si  piacque  di  far  suo  un  componi- 
mento di  poeta  culto  ;  ma  ad  ogni  modo,  l'una  cosa 
e  l'altra  dovettero  avvenire  in  età  ben  lontana  dal 
nono  secolo.  Impossibile  assolutamente  stimiamo 
un'ottava  dell'ottocento,  quando  e  siffatta  forma  di 
versificazione  e  l'uso  stesso  letterario  del  volgare, 
appena  uscente  dall'involucro  del  basso  latino,  erano 
cose  di  là  da  venire.  (^) 

Cosi'  anche,  secondo  i  dotti  siciliani,  sarebbe 
dell'età  saracena  un  altro  Canto,  ove  è  ricordato  il 
Gaito  0  Kaid^  che  ognun  sa  essere  il  giudice  crimi- 
nale dei  musulmani: 


tutt.a.  e  la  Sicilia  in  particolare,  possiedono  anche,  ad  onta  degli  sforzi 
del  Manzoni,  la  libertà,  anzi  l'autonomia  locale  e  regionale  della  sintassi. 

(1)  E  vi  è  pur  caduto  il  mio  bravo  Pitkè,  Canti  pojMl.  sicil.,  Pref. 
p.  11.3,  riferendo  al  1678  un  Canto  nel  quale  dei  messinesi  dicesi: 

Ca  Giaciibina  su'  li  Missinisi. 

Chi  avrebbe  creduto  che  la  denominazione  di  Giacobino  risalisse  cos'i  ad- 
dietro e  fosse  siciliana  !  Nella  2"  ediz.  dei  Cauli  il  verso  è  almeno  dato 
come  variante  di  Capi  ribbelli  su'  ecc. 

(2)  Vigo,  n.  3289. 

(3)  Il  PiTEÈ,  StitdJ  ecc.,  p.  45,  conclude  col  diro  che  "i  Canti  storici 
siciliani,  salvo  le  modificazioni  fonetiche  apportate  dal  tempo  e  dai  luo- 
ghi, si  ripetono  adesso  nella  medesima  forma  idiomatica,  che  dovettero 
avere  ne"  tempi  a'  quali  si  attribuiscono.  Ho  bene  che  il  Prof.  D'Ancona 
non  farìi  plauso  a  questo  criterio  „.  L'egregio  amico  mio  vedrà  che  ap- 
punto, com'egli  sospettava,  rimango  nella  mia  opinione,  rispettando  sem- 
pre le  altrui.  Anche  il  Nigiìa,  C.  p.  pieni.,  XXVI,  in  nota,  parlando  di 
queste  poesie  storiche  siciliane,  dico  che  "  presentano  i  caratteri  di  com- 
pilazioni posteriori,  più  o  meno  recenti,  e  letterarie  o  semi-letterarie  „. 


LA  POESIA  POPOLAKE  ITALIANA.  135 

C'è  lu  Gaitu  e  gran  pena  mi  duna 
Voli  arinunziu  la  fidi  cristiana; 
Non  vi  pigghiati  dubbia,  patruna, 
L'amanti  chi  v'amau  v'assisti  e  v'ama.  (') 

Quest'amante,  dice  il  Pitrè,  è  "  dell'epoca  dell'  in- 
vasione araba  „  ;  ma  si  potrebbe  osservare  clie  dei 
Gaiti  durò  il  nome  e  l'ufficio  anche  nel  secolo  deci- 
moterzo, ai  tempi  della  denominazione  normanna,  O 
cosicché,  almeno,  non  sarebbe  inevitabile  risalire 
tanto  addietro. 

Ma  per  conchiudere  queste  osservazioni,  citerò 
un  fatto  assai  notevole.  Come  prima  e  più  antica 
nella  serie  delle  Canzoni  storiche,  il  Vigo  stampò 
nella  sua  raccolta  una  ottava  menzionante  il  Conte 
Ruggero,  (^)  la  quale  avrebbe  fatto  parte  di  un  poema 
sul  fondatore  della  monarchia  sicula:  poema,  s'in- 
tende, coetaneo  ai  fatti.  Quand'ecco  che  il  Vigo  stesso 
si  accorse  di  aver  alle  mani  non  già  un  frammento  di 
remota  antichità,  ma  la  composizione  di  un  Mira- 
bella tuttora  vivente.  Nella  Licenza  del  volume,  il 
Vigo  onestamente  confessa  l'errore  in  che  era  ca- 
duto, aggiungendo  però  che  la  memoria  del  Conte  è 
tenuta  viva  fra  il  popolo  da  certe  Rappresentazioni 
mimiche  e  drammatiche  che  si  fanno  a  Mazara, 
donde  gli  era  venuta  la  poesia.  "  Quando,  ei  pro- 
segue, la  memoria  di  un  antico  avvenimento  si 
rinfresca  nell'attiva  ricordanza  popolare  con  monu- 
menti, pitture,  feste  e  sceniche  rappresentazioni, 
l'estro  dei  poeti  si  accende  e  idealmente  si  fa  ad 


(1)  Amabi,  St.  dei  Miaidmani  di  Sicilia,  Firenze,  Le  Mounier,  III. 
pagg.  27.3-66  e  586. 

(2)  Pitrè,  Canti  popol.  sicil.,  I,  p.  104.  Il  Gciito  e  menzionato  anche 
nel  Canto  n.  2640  del  Vigo,  che  probabilmente,  come  il  n.  2686  ed  altri 
assai,  è  frammento  di  narrazione  storica  di  origine  più  o  men  letteraria. 

(3)  N.  5150. 


136  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

essi  coevo  „.  (^)  Più  e  meglio  non  sapremmo  dire 
noi,  scettici  ed  eterodossi. 

Fra  le  Canzoni  narrative,  generalmente,  secondo 
è  provato  dal  Nigra,  diramatesi  dall'Italia  superiore 
nelle  altre  provincie  della  Penisola,  antichità  mas- 
sima avrebbe  quella  della  Donud  Loìiiharda.  L'iden- 
tità di  costei  che,  d'accordo  con  un  seduttore  pro- 
pina il  tossico  al  marito,  il  quale  però  la  costringe 
a  bere  anch'essa  al  nappo  funesto,  con  Rosmunda 
già  moglie  di  Alboino,  che  per  suggestione  dell'E- 
sarca ravennate,  avvelena  l'adultero  compagno,  uc- 
cisore del  re  Longobardo,  ma  muore  trafitta  da 
Elmichi  avvistosi  del  tradimento;  l'identità,  diciamo, 
fra  i  due  personaggi  sembra  sicura:  ed  è  gran  merito 
del  Nigra  l'averla  provata  ampiamente.  (") 

La  Canzone  di  Donna  Lombarda  è  una  tragedia 
illustre  compendiata  e  come  compressa  in  pochi 
versi,  cantati  in  quasi  ogni  parte  della  Penisola.  (^) 
Essa  è  evidentemente  nata  in  suolo  italiano,  e  la 
sola  versione  d'oltralpe  che  finora  se  ne  sia  rinve- 
nuta mostra  a  chiari  indizj  l'aliena  derivazione.  Li 
essa  il  delitto  della  donna  non  è  piìi  che  un  fatta- 
rello di  cronaca  :  essa  è  una  charmante  brunetta,  e 
l'uomo,  san  amant  Pierre;  nelle  lezioni  italiane  è 
doìina,  domina,  senz'altro,  e  in  qualche  variante  le 


(1)  Pag.  750. 

(2)  La  Donna  Lomhai-dct  fu  stampata  per  la  iiiinia  vulta,  con  ricco 
coiTedo  d'osservazioni  storiche  e  di  varianti,  dal  >>UiiJA,nel  fascicolo  della 
liivista  Conle»ij3oranea  di  Torino  del  Gennaio  1858,  ed  ora,  con  altre  giunte, 
è  nei  C  jiop.  del  l'ieni.,  p.  1-."}U.  Kel  Ni^iote  del  Vestaverde,  strenna  popo- 
lare del  1850,  Milano.  Vallardi,  il  Correnti  aveva  dato  indizio  del  fatto 
dimostr.ato  dal  Nigra,  dicendo:  "Come  non  fremere  alla  funerea  melodia 
della  romanza  di  Donna  Lombarda,  elio  è  quasi  un  languido  ricordo  della 
terribile  Kosmunda?  , 

(^)  Alle  molte  versioni  di  varie  parti  d'Italia  recate  dal  Nioka,  ag- 
giungansi  ora  Kondini,  p.  122,  Giannini,  C.  p.  Incch.,  p.  135.  e  C.  p.  /osc.p.  393, 
Percoli,  n.  1,  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  137 

menzioni  di  saci-a  corona,  di  re  di  Francia  o  di  Spa- 
gna conservano  qualche  traccia,  ancbe  se  alterata, 
del  primitivo  carattere  dei  personaggi.  I  veri  nomi 
si  logorarono  a  un  po'  per  volta  nella  secolare  tra- 
smissione di  bocca  in  bocca,  ma  il  canto  ritenne  certa 
solennità  di  forma,  come  a  dimostrare  che  non  ricor- 
dava un  dramma  domestico  e  privato,  ma  una  gran 
catastrofe  regale. 

Che  il  delitto  di  Rosmonda,  "  dalla  rea  progenie 
degli  oppressor  discesa  „,  potesse,  poeticamente  fog- 
giato, rimanere  nella  memoria  delle  genti,  e  via  via 
trasformarsi,  non  deve  sembrare  improbabile;  e  né 
pur  anche,  che  Agnello  ravennate,  scrittore  del  IX 
secolo,  attingesse  a  tal  fonte  nel  narrare  la  morte 
di  Alboino  e  di  Elmichi.  Contrariamente  a  ciò  che  si 
riscontra  nel  resto  della  sua  narrazione  storica,  egli 
ha  dato  a  questa  parte  un  movimento  e  un  colorito 
drammatico,  che  non  poteva  trovare  altrove  che  nella 
costante  tradizione  popolare.  Egli  atteggia  e  fa  par- 
lare i  personaggi  come  se  li  avesse  visti  e  sentiti: 
riporta  puntualmente  i  dialoghi  che  occorsero  nel 
concubito  fra  la  regina  ed  Elmichi,  e  le  parole  colle 
quali  ella  ne  sostenne  il  vacillante  coraggio.  Agnello 
infatti  così  racconta:  "  Dopo  alquanti  giorni  dall'ar- 
rivo di  Rosmunda  in  Ravenna,  Longino  prefetto 
mandò  a  lei  dicendo:  —  Se  a  me  ti  congiungerai,  se 
vorrai  essermi  sposa  (Amei-me  mi,  aime-me  mi:  Spusè- 
me  mi,  spusè-ine  mi,  dice  la  canzone),  sarai  piti  che 
regina. —  Ed  essa  gli  fece  rispondere:  —  Se  vuole, 
fra  pochi  giorni  può  farsi.  —  (Una  lezione  veneta  fa 
che  la  donna,  alla  proposta  di  infondere  veleno  nel 
vino,  risponda  :  lo  metarò,  lo  metarò).  Un  giorno  che 
Elmichi  usciva  dal  bagno,  Rosmunda  come  per  refri- 
gerarlo (Dai-ììie  del  vin...j'ò  tanta  sei)  portò  a  lui  un 


138  LA   POESIA   POPOLAEE   ITALIANA. 

calice,  ove  alla  bevanda  era  misto  veleno.  Ed  egli 
prendendolo  dalle  mani  di  lei,  cominciò  a  bere,  ma 
quando  si  accorse  ch'era  bevanda  mortale  i^coz'  j'éi  ve 
fait...  l'è  antìiì-hid)),  allontanandolo  dalle  labbra  lo 
porse  alla  regina  dicendole  :  —  Bevilo  tu  pure  :  hibe 
et  tu  mecum  (béivi-lo  te,  béivi-lo  te).  —  Essa  ripugnava 
(0  dime  mai  voli  che  fossa,  che  Jò  nin  sei,  che  jònin 
sei),  ed  egli,  levata  dalla  guaina  la  spada,  le  fu  sopra 
e  le  disse  :  —  Se  non  ne  bevi,  ti  ucciderò  (U  è  per  la 
punta  de  la  mia  speja,  f  lo  leverei,  f  lo  heverei).  —  Vo- 
lere 0  no  (mi'l  heverò,  mi  'l  beverò)  ella  bevve,  e  am- 
bedue nello  stesso  tempo  morirono  :  0  conclusione 
che  manca  alla  maggior  parte  delle  versioni  del  canto, 
non  procedenti  oltre  la  morte  di  donna  Lombarda, 
ma  che,  come  giustamente  osserva  il  Nigra,  si  può 
facilmente  presumere  come  conseguenza  di  ciò  che 
precede. 

Alla  viva  tradizione  attinse  pertanto  il  cronista, 
come  più  tardi,  molto  più  tardi,  e  quando  del  fatto 
soltanto  e  della  regal  dignità  dei  protagonisti,  ma 
non  più  dei  nomi,  restava  la  memoria,  vi  attinse  il 
primo  autore  di  questa  poesia,  che  doveva  sì  larga- 
mente espandersi  e  sì  variamente  modificarsi. 

Se  non  che  quando  sarà  stato  composto  il  canto? 
Il  fatto  risale  al  572:  dovrà  dunque  dirsi  che  esso 
allora  sia  nato,  o  sol  poco  dipoi?  Se  si  volesse  ap- 
plicare rigorosamente  al  caso  nostro  la  dottrina  che 
le  Canzoni  storiche  sieno  sempre  coeve  all'evento  che 
celebrano,  avremmo  qui  un  Canto  volgare,  anteriore 
d'assai  allo  svolgimento  delle  lingue  volgari.  Biso- 
gnerebbe per  lo  meno  supporre,  che  il  Canto  durasse 
lungo  tempo  nella  forma  di  barbara  latinità,  e  più 


(')  Liher  pontif.,  in  li.  1.  S.,  II,  125. 


LA   POESIA   POPOLAKE   ITALIAXA.  139 

tardi,  dopo  parecchi  secoli,  venisse  trasportato  ne' 
varj  dialetti  d'Italia,  o  in  quell'uno,  donde  poi  passò 
agli  altri.  Ma  noi  stentiamo  ad  ammettere  ciò  per 
piìi  ragioni:  e  d'altra  parte,  se  l'identità  sostanziale 
di  Rosmonda  e  della  Donna  Lombarda  è  molto  pro- 
babile, vi  sono  però  alcune  differenze  fra  la  storia  e 
il  canto,  che  non  si  spiegano  se  non  per  quel  lento 
lavorìo  di  trasformazione,  che  è  operato  dallo  scorrer 
del  tempo  nell'immaginazione  popolare.  "  La  coevità, 
dice  a  ragione  il  Nigra,  non  vuol  essere  intesa  in  un 
senso  assoluto,  né  si  deve  pensare  che  il  Canto  storico 
esca,  subito  dopo  l'evento  a  cui  si  riferisce,  perfetto 
e  finito.  Per  le  Canzoni  storiche,  non  meno  che  per  le 
altre,  esiste  sempre  un  periodo,  piìi  o  men  lungo, 
d'incubazione,  al  quale  succede  una  continua  elabo- 
razione, che  si  va  perpetuando  con  fasi  diverse  „.  (^) 
Noi  perciò  crediamo,  che  ^nche  per  la  Donna  Lom- 
barda, certamente  delle  piìi  antiche  fra  le  nostre  Can- 
zoni popolari,  debba  ammettersi  cotesto  tempo  di  se- 
greta maturazione,  e  che  la  sua  data  di  origine,  abbia 
da  porsi  non  prima  del  generale  e  contemporaneo 
ridestarsi  dell'intelletto,  della  lingua  e  della  persona 
civile  del  popolo  italiano.  In  quell'età  eroica  della 
nostra  storia,  in  quella  gioventìi  vigorosa  delle  no- 
stre plebi,  le  tradizioni  nntiche  conservate  nella 
memoria  e  via  via  tramutate,  presero  forma  poetica 
ed  espressione  nel  novello  linguaggio;  ed  allora,  o 
poco  appresso,  dovette  nascere,  come  frutto  maturo, 
anche  il  Canto  di  Donna  Lombarda,  che  si  direbbe 
quasi  postuma  vendetta  della  discendenza  latina 
contro  una  malvagia  eroina  della  stirpe  straniera.  (") 


(-)  e.  pop.  del  P.,  p.  XXVII. 

(-)  Questa  opinione  del  Nigi'a  sull'  identità  sostanziale  di  Eosmiinda 
con  Donna  Lombarda  sostenni  anche,  pur  con  qualclie  riserva  suH'anticliità 


140  LA   POESL\   POPOLARE   ITALLIXA. 

Minor  vetustà,  ma  pur  non  mediocre,  potrebbe 
attribuirsi  anche  ad  altra  Canzone  modernamente 
raccolta,  e  della  quale  non  ci  occorre  menzione  in 
nessuna  scrittura  antica.  Pur  tuttavia  teniamo  per 
fermo  che  dovesse  nascere  almeno  tre  secoli  addietro. 
E  la  canzone  della  Bella  Cecilia,  della  quale  riferi- 
remo la  lezione  monferrina: 

Sisilia,  bella  Sisilia 
Pjiua  la  noce  e  u  dì, 
R'  ha  so  maiì  an  parzun, 
E  i  r  vero  fèe  imuì. 

—  Sisilia,  bela  Sisilia, 
Si  t'  m'  aureise  ben, 
T'andreise  da  ir  caiiitan-nlie 
A  dmandèe  grasia  pir  me.  — 

—  Sun  qui,  siur  capitau-nhe, 
Ina  grasia  s'  u  m'  ra  vò  fèe.  — 
—  Basta  che  ina  nottin-nha 
Vene  a  drumì  *un  me.  — 

—  L'andrò  dì  a  lo  mioi  mano, 
A  dire  a  lo  niioi  mari  ; 

Se  chille  sarà  cuntent, 
Cuntenta  sarò  mi,  — 

—  Vaje,  vaje,  bela  Sisilia, 
A^aje  ina  vota  sul, 

A  mi  ti  m'  sarve  ra  vitta 
E  mi  at'  farò  l'unur. 
Vaje,  vaje,  bela  Sisilia, 
Vaje  ben  vistija  ; 
S'  u  ti  vigrà  CSI  bela, 
L'avrà  l>jità  di  mi. 


(Iella  Canzone,  in  \m  articolo  sulla  raccolta  dei  Canti  popolari  del  l'iemonte 
nella  Nuova  Antologia  del  10  marzo  1889.  Nello  stesso  tempo  il  valente 
e  rimpianto  amico  Gaston  Paris,  discorrendo  della  pubblicazione  del  Nigra 
nel  Journal  des  Savants  del  sett.-nov.  1889,  combatte  con  argomenti,  dei 
quali  apprezziamo  tutto  il  pregio,  le  opinioni  di  lui,  specialmente  per 
quello  elio  riguarda  l'anticliit.à.  pur  ammettendo  che  l"eroina  possa  esser 
Kosmonda:  "ce  que  le  nom  de  Donna  Lombarda  peut  faire  paraitre  vrai- 
seniblable  „,  ma  sostiene  che  la  Canzone  come  altre  consimili,  non  risalga 
oltre  il  XV  o  XVI  secolo  e  possa  aver  origine  letteraria. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALL\KA.  141 

Bett'  te  ra  veste  russa, 

U  scussa  ca  t'  ho  crunipà: 

S'  u  ti  vigrà  CSI  bela, 

L'avi'à  pjità  di  mi.  — 
Su  ni  ven  ra  mesa  noce, 

Sisilia  tlira  in  suspir  ; 

—  Csa  suspirèv,  Sisilia, 

Csa  suspirèv  mai  vui  ?  — 

—  Suspir  lo  mici  marìu, 
Ch'  r  è  là  aiit  ra  parzuii, 
E  i  l'voru  fèe  muri.  — 

—  Nun  pianse  nent,  Sisilia, 
Nun  pianse  nent  soli  : 

I  n'  ij  poru  feje  nent 
Se  la  n'j  sun  mi.   — 
Su  ni  ven  r'  arbretta  ciera, 
Sisilia  s'  fa  a  lu  barcuu, 
E  r'  ha  vist  u  so  mari 
Chi  l'era  panduriun. 

—  Traditur  d' in  capitan-nhe, 
Traditur  chi  sei  mai  vui  ! 

Ar  me  mari  i  hei  pijà  ra  vitta, 
A  mi  m'  hei  pijà  l'unur  !  — 

—  Nun  piaus  nent,  Sisilia, 
Nun  pianse  nent  soli; 
Sumnia  qui  trei  capitan-nhe, 
Spusèe  culi   chi  volèe.  — 

—  N'  vói  mai  pi  eh'  ra  nova  vaga 
Da  Milan  fin-nha  a  Paris  : 
Spusèe  in  capitan-nhe 
Traditur  di  lo  mioi  mari  —  (') 


(1)  Fekearo,  n.  21;  e  cfr.  Nigra,  n.  3.  Vedi  Finamore,  in  Arch.  Tradiz. 
popol.,  I,  85;  varie  lezioni  venete  e  padovane  nel  Widter-Wolf,  p.  64,  net 
Bernoni,  punt.  V,  n.  11,  nonché  nna  lezione  istriana  nell'IvE,  p.  326;  una 
dalmata  in  Villanis,  p.  14;  una  romagnola  in  Ferrari  (Arch.  Trad.  popò/., 
VII,  390)  e  in  Pergoli,  n.  11.  Nella  versione  romana  Sabatini,  in  Bir. 
Leu.  pop.,  I,  21)  il  cantore  affermo  che  il  caso  non  era  occorso  a  Roma, 
ma  vvie'  da  Milano:  certo  la  Canzone  scese  dall'Italia  superiore.  Vedi  pure 
nna  lezione  comasca  nel  Bolza,  n.  50;  una  emiliana  nel  Ferraro,  C.  pop. 
di  Pontelagnscuro,  n.  22;  una  marchigiana  in  Gianandrea,  p.  264;  e  altra 
in  Rondini,  p.  123;  una  toscana  in  Giannini,  166;  una  calabi-ese  in  Arch. 
tradiz.  popol.,  XI,  243;   un   sicilianizzamento  nel  Pitrè,  Studj  ecc.,  p.  294> 


142  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAXA. 

Or  qui,  a  volerne  trovar  l'origine,  non  bisogna 
lasciarsi  fuorviare  da  qualche  rassomiglianza  di  al- 
cuni racconti  col  fatto  che  dà  argomento  al  nostro 
Canto.  Eassomiglianze  insieme  e  divergenze  notevoli 
ci  presenta  una  novella  degli  Ecatommiti  di  G.  B. 
Giraldi  Cintio,  (^)  della  quale  tal  è  l'argomento  :  Ju- 
riste  è  mandato  da  Massimiano  imperadore  in  Isprnchi, 
ove  fa  prendere  un  giovane  violatore  di  una  vergine 
e  condannalo  a  morte.  La  sorella  cerca  di  liberarlo  ; 
Juriste  dà  speranza  alla  donna  di  pigliarla  per  moglie 
e  di  darle  Ubero  il  fratello.  Ella  con  lui  si  giace,  e  la 
notte  istessa  Juriste  fa  tagliare  al  giovane  la  testa,  e 
la  manda  alla  sorella.  Ella  ne  fa  querela  all'  Impera- 
dore, il  quale  fa  sposare  a  Juriste  la  donna,  poscia  lo 
fa  dare  ad  essere  ucciso.  La  donna  lo  libera,  e  con  lui  si 
vive  amorevolissimamente.  Di  qui  lo  Shakspeare  trasse 
il  suo  Dramma  Misura  per  misura,  e  già  innanzi  a  lui, 
Giorgio  Whathstone  la  Commedia  di  Promos  e  Cas- 
sandra: tutto  ciò  assai  prima  che  il  colonnello  Kirk, 
vissuto  ai  tempi  di  Giacomo  II,  venisse  accusato  di 
un  consimile  misfatto.  (^)  Anche  una  canzone  unghe- 
rese (^)  si  riaccosta  alla  narrazione  giraldiana,  della 
quale  è  proprio  che  trattisi  di  sorella  anziché  di  mo- 
glie. Ci  sembra  piuttosto  che  la  sostanza  del  Canto 
italiano  sia  conforme  al  racconto  che  serve  di  argo- 
mento alla  Fìiilanire,  tragedia  francese  di  Claudio 
Kouillet,  stampata  nel  15G8:   Quelques  années,  dice 


t'  liti  Salomone-Marino,  Baronessa  di  Carini,  p.  32,  e  anche  Legg.  popò!, 
sici!.,  IX.  L'Imbkiani,  C.  popò!.  aveUinesi,  pag.  73,  no  reca  una  lezione  na- 
poletana, e  un  Canto  in  dialetto  montellese.  E  in  foglio  volante  si  continuò 
a  riprodurre  dall'officina  fiorentina  del  Salani. 

;';  Deca  Vili,  nov.  5:  e  cfr.  di  lui,  la  tragedia:  Epizia. 

(-)  DuNi-op-LiEBiìECHT,  Geschichte  (1.  Prosadichtnng,  Berlin,  Miiller, 
1851,  p.  279. 

(3)    WlDTER-WOLF,   p.  109. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  143 

l'autore,  se  soni  passées  depuis  qu'une  Dame  de  Piémont 
impetra  du  Prevost  du  lieu,  que  son  maris,  lors  prison- 
nier  pour  quelque  concxission,  et  déjà  presi  à  recevoir 
jugement  de  mori,  lui  seroit  rendu,  moyennant  une 
nuit  qu'elle  lui  préteroit.  Ce  faif,  son  mary  le  jour 
suivatit  lui/  est  rendu,  mais  jà  exécuté  de  mort.  Elle, 
esplore'e  de  l'une  et  de  l'autre  injure,  a  son  recours  au 
Gouverneur,  qui  pour  lui  garantir  son  honneur,  con- 
traint  le  dit  Prevost  à  l'espoiiser,  et  puis  le  fait  déca- 
piter;  et  la  dame  cependant  demeure  dépourvue  de  ses 
deux  maris.  (')  Scioglimento  al  quale  accenna  la  ver- 
sione veneta  del  nostro  Canto  : 

De  do  maiii  che  aveva 
No  glie  n'ò  più  nessun; 
Uno  xè  andà  in  galera, 
St'altro  xe  andà  pick. 

Altrove,  e  precisamente  in  una  raccolta  di  casi 
compassionevoli,  1  Tragica,  lo  stesso  fatto  trovasi 
ricordato  come  avvenuto  in  Como  nel  1547,  e  ne 
sarebbe  data  colpa  a  un  capitano  spagnuolo.  O 
Enrico  Stefano  nella  Apologie  pour  Hérodote  stam- 
pata nel  1566,  attribuisce  il  fatto  a  quel  Francesco 
Dupatault,  Signore  de  la  Voulte,  che  nel  1545  fu  pre- 
vosto di  giustizia:  homme,  dice  Bonaventura  des 
Périers,  qui  en  son  temps  a  fait  passer  les  fievres  à 
maintes  personnes,  né  il  racconto  va  oltre  il  crudele 
inganno  :  (^)  altri  ancora  lo  appropria  al  Montmo- 
rency,  ascrivendolo  all'anno  1548  :  il  luogo  sarebbe 
stato  la  Gujenna,  e  la  donna  una  dama  di  Leston- 
nac.  (*)  l'Heuter  nei  Perinn  burgundicarum  e  Giusto 


(1)  Paefait,  Hifit.  du  Théati-e  frang.,  Paris,  1745,  voi.  Ili,  pag.  342. 

(2)  Tragica,  seu  tristium  historiarum  de  poenis  ci'iininalibus  etc,,\òdS, 
Cit.    dal  DUNLOP-LlEBRECHT,   p.  493. 

(3)  Vedi  a  pag.  334,  voi.  I  della  moderna  ediz.  del  Lisieux.  Paris,  1879. 
(*)  Vedi  la  Eevue  Britannique  del  18.J9,  art.  sul  Montaigne. 


144  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Lipsie  più  tardi  ne'  suoi  Monita  poìitica,  fa  risalire 
il  fatto  al  tempo  di  Carlo  il  Temerario,  duca  di  Bor- 
gogna; (^)  ma  è  racconto  di  età  troppo  tarda,  come 
troppo  tarda  è  la  tragedia  del  Pomfret,  dove  del- 
l'infame inganno  è,  per  ire  partigiane,  accagionato 
il  colonnello  inglese.  (")  A  Napoli  invece  un  fatto 
consimile,  ma  dove  si  tratterebbe  non  di  donna  ma- 
ritata, ma  di  fanciulla,  della  quale  il  padre  sarebbe 
stato  ingiustamente  carcerato,  si  farebbe  risalire  ai 
principj  del  Cinquecento,  e  l'esemplar  giustizia  ap- 
parterrebbe ad  Isabella  reggente  del  Regno;  alcune 
teste  poste  sull'Arco  di  s.  Eligio  attesterebbero  il 
fatto  :  se  non  che  cotesta  principessa  non  ebbe  mai 
il  titolo  e  l'autorità  che  le  si  attribuisce,  e  quelle 
immagini  sono  frammenti  anticlii.  (^)  Per  più  indizj 
quindi  si  potrebbe  affermare  che  il  Canto  derivasse 
dal  tristo  caso  della  "  dame  de  Piémont  ,.,  e  che  nato 
nell'Italia  Superiore,  di  là  si  diramasse  con  varietà 
di  episodj  innestati  al  nucleo  primitivo  e  diversi  fra 
loro.  (*)  Potrebbe  tuttavia  far  ostacolo  la  Romanza 


(1)  Vedi  De  Bakante.  Hiat.  iles  rlucs  de  Bom-gogne,  Bruxelles,  1S3S, 
II,  3;}'.t. 

(2)  V.  il  D'Israeli.  Curiosità  /<■«<»)■«)•.,  cit.  dall' Imbriani,  Cant.  popol. 
avellili.,  p.  ?.">. 

(3)  B.  Croce,  L'arco  di  s.  Eligio  e  una  leggenda  ad  esso  relativa  in 
XapoU  nohilissima,  I,  147.  Vedi  anche  nello  stesso  giornale  III,  42  qualche 
cosa  di  consimile  pur  avvenuto  a  Napoli  nel  1624,  dove  però  si  tratta  di 
violata  promessa  di  matrimonio,  non  di  vituperoso  inganno. 

(*)  In  un  foglietto  di  giunte  ai  C.  pop.  del  t.,  il  Nigra  riferisce  un 
racconto  di  S.  Agostino  nel  T>e  Sermone  domini  in  monte  (I,  Iti,  ."iO;  che 
risalirebbe  al  .'i4:ì  circa,  e  ha  qualche  analogia  col  fatto  della  nostra  Can- 
zone. Un  debitore  dello  stato  è  condannato  a  morire,  se  non  paga  una  forte 
somma  al  fisco.  La  moglie  di  lui  è  tentata  da  un  ricco  signore,  che  le  darà 
cotesta  somma,  se  giace  con  lui.  ed  essa,  avuto  il  consenso  dal  marito,  si 
arrende  alle  sue  voglie;  ma  il  seduttore  le  dà  un  sacco  di  terra,  auzichò 
d'oro.  Essa  ricorre  al  prefetto,  che  paga  di  suo  il  fisco,  e  decreta  alla  donna 
la  proprietà  del  podere,  ond'era  stata  tolta  la  terra.  Ma  come  ognun  vede, 
non  si  ha  qui  se  non  un  tratto  di  rassomiglianza,  quello  della  donna  che 
per  salvare  il  marito,  e  lui  consenziente,  soggiace  alle  voglie  altrui;  manca 
però  tutto  ciò  che  forma  la  parte  tragica  del  fatto. 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALLA.NA.  145 

Catalana  della  Dama  di  Tolosa  (^)  o  di  Beus,  i^)  la 
quale,  identica  nel  resto  al  Canto  italiano,  finisce 
colla  vendetta  che  l'ingannata  donna  si  prende  pu- 
gnalando il  traditore.  Ma  potrebbe  anche  essere  che 
il  Canto,  che  i  raccoglitori  catalani  dicono  storico, 
senza  però  saperne  indicare  il  fondamento  di  fatto 
e  l'età,  fosse  d'Italia  passato  in  Ispagna  modifican- 
dosi ;  0  che  un  fatto  consimile  abbia  separatamente 
fornito  l'argomento  ai  due  Canti,  in  qualche  parte 
fra  loro  dissimili,  sebbene  concordi  nella  sostanza.  La 
qual  supposizione  sarebbe  confortata  dal  non  essersi, 
iilmeno  finora,  trovato  nessun  canto  intermedio  fran- 
cese o  provenzale. 

Per  noi,  dunque,  la  Bella  Cecilia  deriva  dal  fatto 
che  consideriamo  storico,  o  che  almeno  credevasi 
realmente  avvenuto  nell'  Italia  superiore  durante  la 
prima  metà  del  Cinquecento,  e  donde  origina  anche 
la  Tragedia  francese.  Il  Rouillet  lo  dice  occorso 
pochi  anni  prima  del  1563  :  un  libro  stampato  in 
Germania  ne  afferma  la  data  al  1547:  la  differenza 
fra  il  Piemonte  e  Como  è  di  quelli  sbagli  che  bene 
si  intendono,  senza  doverne  far  troppo  caso  ;  dap- 
poiché il  racconto,  passando  di  bocca  in  bocca,  potè 
alterarsi  e  scambiare  una  città  coll'altra,  al  modo 
stesso  come  nei  Tragica,  stampati  in  Germania,  il 
Duca  di  Ferrara  è  chiamato  Gonzaga.  La  Canzone 
dovette  nascere  poco  dopo  avvenuto  il  fatto  e  dif- 
fusane  la  notizia  :  perchè,  se  fosse  passato  troppo 
tempo,  non  trattandosi  qui  di  personaggi  illustri  né 


(1)  Mila  y  Fontanals,  Observac.  sohre  la  poes.  popnL,  Barcelona,  1853, 
pag.  143. 

i^]  Briz,  Cansons  de  la  ttrra,  Canta  popol.  cateti.,  Barcelona,  1866, 
voi.  l,  p.  133. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  10 


146  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

di  avvenimento  pubblico  e  di  grand' importanza,  in 
breve  se  ne  sarebbe  illanguidita  la  memoria.  (^) 

Ricerche  consimili,  che  potessero  istituirsi  su 
altre  Canzoni  narrative,  ci  condurrebbero  probabil- 
mente a  fissare  la  data  approssimativa  del  loro  na- 
scimento dal  secolo  decimoquarto  al  decimosesto. 
Si  continuò  dappoi,  per  alcuni  fatti  d' importanza 
provinciale,  come  la  morte  del  Marchese  di  Saluzzo 
(1528),  l'Assedio  di  Torino  (1706),  il  Conte  Lodrone 
(1755)  e  simili,  a  produrre  Canzoni:  ma  si  gettarono 
nello  stampo  antico,  spesso  travestendo  e  mutando 
le  anteriori.  Così  quella  del  1782  sulla  Principessa 
Carolina  di  Savoja  è  formata  sulla  più  antica  del 
Matrimonio  inglese.  {^)  L'Italia  restò  lungo  tempo 
inerte,  sfruttando  l'antica  gloria:  e  al  modo  stesso 
il  popolo,  inariditasi  in  lui  la  virtù  creatrice  del 
verso,  andò  ripetendo  o  rimpastando  ciò  che  del- 
l'avito patrimonio  poetico  eragli  rimasto  nella  me- 
moria. Lo  stesso  fatto  vedremo  accadere  anche  per 
la  Lirica  popolare  prettamente  amorosa  ed  elegiaca. 


VI. 


Circa  gli  stessi  tempi,  ne'  quali  avvenne  in  Fi- 
renze quella  mutazione  de'  costumi  di  che  addietro 
abbiamo  toccato,  accadde  anche  una  mutazione  nel 
gusto  e  nel  sentire  poetico.  Effetto  della  quale  fu  che 


(1)  Più  tardi  La  salvazione  del  marito  o  del  padre  con  l'obbrobrio  della 
moglie  0  figlia  doveva  diventare,  con  applicazione  arbitraria  di  nomi  il- 
lustri, un  motivo  drammatico  :  per  Victor  Hugo  nel  Le  Boi  s'amuse,  nell'epi- 
sodio inventato  del  Marchese  di  Saint- Valier,  e  in  Severo  Torelli,  un  in- 
ventato signore  di  Pisa,  nel  dramma  omonimo  del  Coppée. 

(-)  NiOEA,  C.  poiìol.  del  r.,  p.  xxvii. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALLO'A.  147 

si  allentarono  i  legami  che  già  tenevano  insieme 
avvinti  il  popolo  e  il  poeta,  e  si  formarono  due 
schiere  di  rimatori,  come  due  maniere  di  poesia.  La 
raffinatezza  del  Petrarca  invogliò  alla  imitazione  del 
gran  modello:  e  gli  studj  classici,  a  poco  a  poco 
tornati  in  onore,  volsero  gli  ingegni  all'imitazione 
dell'antico,  benché  ninno  tino  al  Poliziano  sapesse 
appropriarsi  le  forme  dei  Greci  e  dei  Latini  in  modo 
che  paresse  cosa  nativa  anziché  imitata.  Nulla  di  piìi 
goffo  di  quei  verseggiatori  dei  primordj  del  Quat- 
trocento, cl!e,  nati  fiorentini  e  coi  grandi  esempj  della 
scuola  dugentista  e  trecentista  dinanzi  agli  occhi, 
rinnegano  le  gloriose  tradizioni  e  fino  il  sermone  cit- 
tadinesco e  faticosamente  contorcono  il  verso,  la 
sintassi,  i  vocaboli,  per  studio  di  imitazione  impo- 
tente. Così  ebbe  origine  uno  stacco  fra  la  poesia  dei 
dotti  e  quella  dei  volghi,  cui  fu  in  gran  parte 
rimediato,  quando  Lorenzo  il  Magnifico  ed  i  suoi  cor- 
tigiani, probabilmente  per  blandire  la  plebe  —  che 
fu  la  grand'arte  politica  del  nipote  di  Cosimo  — 
tornarono  a  riamicare  le  Muse  col  sentimento  po- 
polare. È  chiaro  pertanto  che  nel  periodo  anteriore 
a  Lorenzo,  poiché  il  popolo  non  aveva  piìi  chi  fa- 
cesse per  lui,  (^)  cominciasse  egli  a  far  da  per  sé,  e 
così  venisser  fuori  versi  rozzi  sì,  ma  non  ineleganti, 
che  formavano  una  maniera  propria  delle  plebi.  Ma 
dopo  aver  faticosamente  riprodotte  le  bellezze  di  Vir- 
gilio, di  Catullo,  di  Claudiano,  dopo  aver  imitato  il 
Petrarca  e  il  petrarchismo,  Lorenzo  e  i  suoi  porsero 
orecchio  anche  alla  Musa  popolana,  che  diffondeva 


(1)  Tuttavia  ciò  non  deve  prendersi  alla  lettera:  la  poesia  per  musica 
e  canto  si  mantenne,  quando  più  quando  meno,  fedele  alle  sue  origini. 
Odasi  questo  Lamento  di  monaca  in  un  Madrigale  di  Alesso  Donati;  dove 
la  forma  paesana  che  è  propria  aneli  e  di  altri  suoi  componimenti  (vedi  1 


148  LA   POESIA   POPOLABE   ITALIANA. 

i  suoi  echi  nella  città  e  nel  contado.  E  diciamo  pen- 
satamente che  porsero  orecchio;  perchè,  se  anche  in 
certi  componimenti  del  Magnifico  e  de'  suoi  clienti 
non  si  vedesse  la  chiara  intenzione  di  imitare  i  canti 
del  popolo,  lo  stesso  Poliziano  ce  ne  ammaestre- 
rebbe, laddove  descrivendo  un  suo  viaggio  i^ev  Roma, 
dice  :  "  Siamo  tutti  allegri,  e  facciamo  buona  cera, 
e  becchiamo  per  tutta  la  via  di  qualche  rappresaglia. 


11.  ccciv.  ccoYi  ecc.  clell.a  Haccolta  Canlucci)  tr.aluce  anche  attraverso  le 
difficoltà  metiiclie  dello  sdrucciolo. 

La  dura  corda  e  '1  vel  bruno  e  la  tonica 

Gittar  voglio,  e  lo  scapolo 

Che  mi  tien  qui  racchiusa  e  fammi  mollica; 

Poi  teco,  a  guisa  d'assetato  giovane, 

Non  già  che  si  sobarcoli, 

Venir  men  voglio  ove  iortuna  piovane. 
E  son  contenta  star  per  serva  e  cuoca, 

Che  men  mi  cuocerò  ch'ora  mi  cuoca. 

Il  tema  della  Monaca,  chiusa  per  iorza  nel  monastero,  o  pentita  di 
esserci  entrata,  e  che  rimpiange  la  libertà,  o  l'amore,  ha  frequenti  esenipj 
nella  nostra  poesia  popolare  antica  e  moderna.  Due  forme  del  Lamento 
della  monaca,  l'una  delle  quali  comincia:  Lassa!  come  furaggio?  Valtin: 
Ed  oh  lassa  me,  tapina,  pubblicò  T.  Casini  da  un  repertorio  giullaresco 
del  secolo  XIV  (vedi  Propugnatore,  N.  S.,  II,  238).  Comunissimo  dev'es- 
sere stato  quello  che  coiniiicia  :  Non  voglio  esser  più  monaca:  a  Siena  nel 
1465  per  la  venuta  della  moglie  del  duca  di  Calabria  fecesi  una  moresca 
di  dodici  persone  molto  bene  e  riccamente  ornate,  e  una  vestita  a  monaca. 
e  ballavano  a  una  Canzona  che  dice:  Non  vogl'esser  pia  nionica,  Arsa  li 
sia  la  tonica  Chi  se  la  veste  piti  (Allegretti,  Diario  Sanese,  in  B.  1.  S., 
XXIII,  772;.  L'intera  poesia  è  riprodotta  da  un  cod.  parigino  da  A.  Ive 
iOiorn.  Stor.  Lett.  Ital.,  Il,  15^0  e  da  G.  Volpi  (Poesìe  popol.  ifal.  ilei  ser.  XV, 
Verona,  Tedeschi,  1891,  estr.  dalla  Bibliot.  Scuoi.  Ital.,  IV,  3).  Un'altra  antica 
versione  evidentemente  napoletana  (Male  mi  fece  mamntata  Per  farmi 
monaca)  fu  edita  da  S.  Feiìiìari  per  nozze  Menghini-Zannoni  (Bologna,  Za- 
nichelli, 1893),  e  un  Canto  carnascialesco  di  monache  il  Ferraki  stesso  insoiì 
nella  Bibliot.  Letterat.  popol.,  I,  30.  Un  lamento  di  monaca  innamorata  ripro- 
dusse V.Cian  da  un  cod.  trevigiano  del  sec. XV  (v.  Vropngnatore,'H.H.,W.òty. 
Una  barzelletta  di  monacello  incarcerate  è  fra  le  poesie  di  Benedetto  Da 
CiNCsoLi  0  fu  ristamp.ata  da  L.  Luzio  (Sanseverino  Marche,  1902).  C.  Fal- 
letti  Fossati  ritrova  le  vestigia  dell'antico  canto  popolare  in  quello  che 
ancor  cantasi  a  Siena:  ...a  te,  monaca.  Non  si  sa  che  ti  farei:  Ti  strapperei 
la  tonaca  (Costumi  sanesi  del  sec.  XIV,  Siena,  Ancora,  1882,  p.  202).  Canti 
moderni  su  questo  toma  recano  L.  Zanazzo  nel  Volgo  di  Itonia  (Roma, 
Lux,  1001,  p.  194}  e  Rondini,  p.  151.  Due  lamenti:  0  monachella  di  hrun 
vestita  e  ISon  rinchiusa  in  quattro  mura  sono  fra  le  stampe  a  uso  del  popolo 
del  Salaui,  1878.  Per  altri  raffronti,  v.  A.  Saviotti  in  Giorn.  star.,  XIV,  249. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAKA.  149 

e  Canzone  di  Calen  di  Maggio,  che  mi  sono  parute 
pili  fantastiche  qui  in  Acquapendente,  alla  romane- 
sca, vel  nota  ipsa  vel  argiimento  „.  (^)  Dove  quel  rappre- 
saglia potrebbe  voler  dire  presa,  incelta,  raccolta:  (") 
e  buona  cosa  sarebbe  certo  l'avere  di  coteste  rappre- 
saglie di  Canzoni  popolari  che  il  Poliziano  andava 
facendo  per  via,  e  poter  paragonare  insieme  le  Can- 
zoni romanesche  colle  fiorentine  e  toscane,  che  a  lui 
parevano  meno  fantastiche.  Ma  se  anche  le  Canzoni 
qua  e  là  beccate  furono  scritte,  nulla  ce  n'è  rimasto: 
ed  è  certamente  peccato. 

Ricchissima  in  ogni  genere  e  varietà  di  com- 
ponimenti è  la  letteratura  popolare  del  secolo  deci- 
moquinto. Lasciamo  da  parte,  che  qui  non  sarebbe 
il  luogo  di  parlarne,  i  Cantari  di  piazza,  e  le  Rap- 
presentazioni, e  i  Canti  carnascialeschi,  e  le  Laudi 
devote,  e  restringiamo  il  nostro  discorso  ai  Rispetti, 
che  pili  si  riaccostano  alla  spontaneità  della  forma 
popolare.  E  davvero  gli  altri  generi  sono  per  lo 
più  scritture  di  dotti  e  di  semi-dotti  ad  uso  del  po- 
polo: nei  Bispetti,  invece,  dobbiamo  riconoscere  oltre 
l'imitazione  anche  la  cosa  imitata,  cioè  un  fondo, 


(1)  Poliziano,  Prose  volgari  inedite  ecc.,  racceolte  e  illustrate  da  Isi- 
doro Del  Lungo,  Firenze,  Barbèra,  1865,  pag.  75. 

(2)  Il  Del  Lungo,  pensa  che  rapjìresaglia  accenni  a  doni  [riprese)  fatti 
alla  brigata,  ma  poi  avverte  che  nello  Canzoni  del  maggio,  il  Poliziano 
"  notava  la  ripresa  o  ritornello,  e  travestiva  il  vocabolo  „.  Il  Gaspary,  Star, 
(iella  Letter.  Ital.-,  IT,  I,  381,  opina  invece  che  rappresaglia  significhi  "  canto 
con  ripresa;  quindi  ballata  „:  e  V.  Rossi,  Il  Quattrocento,  p.  420,  spiega  "  latto 
rappreso,  panna  „  :  e  "  canzone  eli  Calen  di  maggio  „  sarebbe  senza  dipendenza 
diretta,  o  potrebbe  anclie  dipendere  con  faceto  accostamento  da  heccliiamo  „. 
Comunque  abbia  a  intendersi  la  parola,  a  me  pare  che  le  rappresaglie  e  le 
Canzone  maggiajole,  beccate,  abbian  da  esser  cose  simili  assai  fra  loro. 
Per  ultimo  il  Giannini  (pag.  xxvii,  n.)  crede  che  il  Poliziano  volesse  ap- 
punto "  accennare  a  contrasti  poetici,  a  sfide,  che  consistono  infatti  nel 
rimbeccarsi  e  nell'ingiuriarsi  a  vicenda,,  cosicché  la  frase  significherebbe 
il  porger  ascolto  ai  canti  alterni  e  alle  liete  canzonette  maggiajole,  che 
sonavano  agli  orecchi  della  brigata  durante  il  viaggio. 


150  LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

una  massa  di  improvvisazioni  plebee,  clie  poi  i  dotti 
e  i  semi-dotti  cercarono  di  riprodurre.  Ma  anche 
nella  poesia  amorosa  di  forma  popolare  e  nella  ver- 
sificazione dello  Stranihotto  o  Bispetlo  sono  da  rico- 
noscere pili  gradi:  al  sommo  le  composizioni  del 
Magnifico,  del  Poliziano,  del  Pulci;  in  un  grado  inter- 
medio alcune  composizioni  meno  artificiose  delle  pri- 
me, ma  nelle  quali  già  si  vede  l'imitazione;  giù  al 
basso  le  schiette  produzioni  dell'arte  popolare.  Esa- 
miniamo partitamente  queste  tre  facce  di  una  mede- 
sima immagine. 

Le  poesie  stesse  dei  culti  imitatori  presentano 
per  verità  un  doppio  aspetto.  Ve  ne  sono  talune, 
dove  con  ingenua  malizia  si  fa  quasi  la  caricatura 
0  la  parodia  della  Musa  popolare,  ed  altre  in  che  il 
genere  è  sollevato  alla  dignità  di  forma  lettera- 
ria. Alla  prima  categoria  appartengono  la  Nencia 
da  Barberino  del  Magnifico  e  la  Beca  da  Dicomano 
del  Pulci.  Si  vede  che  gli  autori  di  esse  hanno  stu- 
diato e  conoscono  perfettamente  la  fraseologia  della 
poesia  volgare,  specie  della  contadinesca,  natural- 
mente più  umile  e  inculta  di  quella  della  città:  se 
non  che,  trascegliendo  quei  modi  e  quelle  immagini 
proprie  alla  vita  ed  al  costume  del  contado,  non  ca- 
dono in  viziose  esagerazioni.  La  caricatura  c'è;  ma, 
condotta  quasi  sempre  con  elegante  parsimonia,  si 
contenta  di  muovere  il  sorriso,  di  eccitare  la  gio- 
condità, senza  far  ridere  alle  spalle  degli  agresti 
cantori.  Ecco  ad  esempio  come  nella  Nencia  da  Bar- 
berino l'innamorato  Vallerà  descrive  le  bellezze  della 
sua  dama,  che  con  gli  occhi  getta  fiaccole  d'amore  Q) 


(1)  Cfr.  con  un  Canto  popolare  nel  Tommaseo,  p.  78:  Quando  alzi  gli 
occhi  con  tanto  splendore  Mandano  a  terra  falcale  d'amore. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  151 

Non  vidi  mai  fanciulla  tan t'onesta; 

Né  tanto  saviamente  rilevata: 

Non  vidi  mai  la  più  pulita  testa, 

Né  si  lucente,  né  sì  ben  quadrata: 

Ell'ha  due  occhi  che  pare  una  festa, 

Quand'ella  gli  alza  o  che  ella  ti  guata  ; 

Ed  in  quel  mezzo  ha  il  naso  tanto  bello, 

Che  par  proprio  bucato  col  succhiello. 
Le  labbra  rosse  pajon  di  corallo: 

Ed  havvi  drente  due  filar  di  denti, 

Che  son  più  bianchi  che  quei  di  cavallo, 

E  d'ogni  lato  ella  n'ha  più  di  venti. 

Le  gote  bianche  pajon  di   cristallo 

Senz'altri  lisci  ovver  scorticamenti; 

Ed  in  quel  mezzo  ell'è  come  una  rosa: 

Nel  mondo  non  fu  mai  sì  bella  cosa.... 
r  t'ho  agguagliata  alla  fata  Morgana,  (') 

Che  mena  seco  tanta  baronia; 

Io  t'assomiglio  alla  stella  diana, 

Quando  apparisce  alla  capanna  mia. 

Piti  chiara  se'  che  acqua  di  fontana, 

E  so'  più  dolce  che  la  malvagia: 

Quando  ti  sguardo  da  sera  e  mattina. 

Più  bianca  se'  che  '1  fior  della  farina. 

Questa  poesia,  così  piena  di  reminiscenze  del 
parlar  villereccio,  che  inaugurava  un  genere  nuovo 
e  tutto  fiorentino,  fu  accolta  a  grida  di  plauso,  e 
fors'anche  per  vellicare  dolcemente  la  boria  del  pos- 
sente autore,  diffusa  e  cantata  in  Firenze  e  fuori. 
Luigi  Pulci,  còlto  da  poetica  emulazione,  si  pose 
allora  sulle  orme  dell'amico  e  patrono,  cantando  le 
beltà  della  Beca  da  Dicoiuano: 

Ognun  la  Nencia  tutta  notte  canta, 
E  della  Beca  non  se  ne  ragiona.  (^) 


(•)  Nella  Raccolta  del  Vigo,  n.  12-52:  'ntesta  purtava  un  vela  eli  rrigina 
Assimighiava  a  la  Fata  Miirana.  Sulla  menzione  della  Fata  Morgana  nei  Canti 
popolali  meridionali  vedi  Pitrè,  Studi,  pag.  339. 

(2)  Vedi  anche  nelle  Canzoni  a  Ballo,  n.  43  una  Canzonetta  in  morte 


152  LA   POESIA   POPOLARE   ITALL'^NA. 

Ed  ecco  come  il  Pulci  alla  sua  volta  cauta  le  bellezze 
della  sua  Beca: 

Tu  se'  più  bianca  die  non  ò  il  bucato, 
Più  colorita  che  non  è  il  colore, 
Più  soUazzevol  che  non  è  il  mercato. 
Più  rigogliosa  che  Io  imperadore, 
Più  framettente  che  non  è  il   Curato, 
Più  zuccherosa  che  non  è  l'amore, 
E  quando  tu  motteggi  fra  le  gente 
Più  che  un  bev'acqua  tu  se'  avvenente... 

Abbiate  tutte  quante  compassione, 
Fanciulle,  che  la  Beca  è  la  più  bella, 
E  canta  sovr'un  cembol  di  ragione, 
E  del  color  dell'aria  ha  la  gonnella, 
E  mena  ben  la  danza  in  quel  riddone  ... 

Se  non  die  già  nella  Beca  del  Pulci  si  sente  quell'ar- 
tificio, quello  sforzo,  che  sa  di  vera  caricatura,  e  che 
appare  sempre  maggiore  nelle  poesie  rusticali  poste- 
riori, e  giunge  al  suo  colmo  nel  piacevolissimo,  ma  pur 
un  pò"  troppo  leccato,  Lamento  di  Cecco  da  Varliuigo. 
Come  nelle  Stanze  seppe  il  Poliziano  traspor- 
tare le  grazie  della  poesia  classica,  e  ad  un'opera 
tassellata  a  mosaico  dare  pertanto  unità  di  stile  e 
di  colore;  cosi  nei  Rispetti  egli  è  pur  sempre  l'ele- 
gantissimo poeta  dell'arte,  senza  cessare  di  essere 
l'imitatore  della  maniera  popolare.  Ritraendo  dalla 
natura,  ei  forma  la  sua  poesia  con  magistero  d'ar- 
tista, sicché  nulla  di  piìi  squisito  è  stato  fatto  in 
questo  genere:  ma,  mentre  nei  Rispetti  lo  stile  è  tutto 
polizianesco,  vi  si  ravvisa  però  una  qualche  imma- 
gine della  Musa  volgare.  Si  direbbe  un  quadro  sboz- 
zato da  mano  inesperta,  e  poi   ritoccato,   colorito. 


della  Kencia.  È  rimasto  anelie  al  dì  d'oggi  il  modo  di  dire:  la  bellezza  della 
Nencia,  per  indicare  il  buco  nel  mezzo  del  mento  Che  rimbelìira  tutta  sua 
figura. 


LA   POESIA   rOPOLARE   ITALIANA.  153 

fluito  da  mano  maestra;  ma  per  modo  che  e  l'ine- 
sperienza dell'una  e  il  tocco  sicuro  dell'altra  si  la- 
sciassero scorgere,  pur  producendo  una  unica  im- 
pressione nel  riguardante.  Quando  nei  Rispetti  di 
Messer  Agnolo  leggiamo: 

Vorre'  saper  quel  che  ragion  ne  vuole, 
Furare  il  core  ad  un  fedele  amante,  (^) 

ritorna  involontariamente  a  memoria,  come  motivo 
conforme  e  piìi  semplice,  il  Canto  toscano: 

Giovanottino,  non  ti  par  peccato 

Rubare  un  core,  e  non  lo  render  mai?  (') 

Per  contrario,  quando  ci  cade  innanzi  agli  occhi  il 
Canto  toscano: 

E  quando  io  penso  a  quelle  tante  miglia 
E  che  voi,  amor  mio,  l'avete  a  fare, 
Nelle  mie  vene  il  sangue  si  rappiglia. 
Tutti  li  sensi  miei  sento  mancare  ;(^) 

ci  sembra  che  di  qui  il  Poliziano  abbia  preso  le  mosse 
per  cantare: 

Quando  penso,  amor  mio,  che  '1  giorno  è  presso, 
Che  prender  mi  convien  sì  lunga  via....  (*) 

In  quest'altro  Canto  v'è  perfino  rassomiglianza 
di  rime: 

Tanto   è  possibil,  bella,  ch'io  ti  lassi, 

Quanto  nel  mezzo  al  ciel  fermar  la  luna, 

Fermare  il  sole  che  non  camminassi, 

E  poi  contar  le  stelle  ad  una  ad  una;(^) 


(1)  Poliziano,  Stanze,  Orfeo  e  Rime,  ediz.  Carducci,  Firenze,  Barbera, 
1863,  pag.  194. 

(2)  Tigri,  n.  503,  808,  991.  Cfr.  Vigo,  ii.  479. 

(3)  Id.,  n.  .582. 

(*)  Poliziano,  ibid.,  pag.  209. 
(5)  Tigri,  n.  860. 


154  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

e  il  Poliziano: 

Se  mille  volte  amor  me  '1  comandassi, 
Che  può  far  di  me  strazio  quanto  vuole, 
Tanto  potrebbe  far  eh'  io  non  ti  amassi, 
Quanto  potrebbe  far  fermare  il  sole.  (') 

Pieno   di   dolce   mestizia   è    il    canto    popolare 
che  dice: 

Quando  sentirai  dir  che  sarò  morta, 
Ogni  mattina  alla  messa  verrai; 
Arriverai  a  quell'oscura  fossa, 
E  l'acqua  benedetta  mi   darai. 
E  allor  dirai  :  Eccole  lì  quell'ossa 
Di  quell'amante  che  tanto  straziai: 

Allor  dirai:  Decco  qui  il  mio  bene; 
E  lui  è  morto,  e  a  me  morir  conviene  (-) 

E  r  intonazione   stessa  è  nel  Poliziano  : 

Quando  questi  occhi  chiusi  mi  vedrai 

E  '1  spirito  salito  all'altra  vita, 

Allora  spero  ben  che  piangerai 

El  duro  fin  dell'anima  transita  : 

E  poi  se  l'error  tuo  conoscerai. 

D'avermi  ucciso  ne  sarai  pentita. 

Ma '1  tuo  pentir  fia  tardo  all'ultim'ora  : 

Però,  non  aspettar,  donna,  ch'io  mora.  (^) 
Allor  che  Morte  ara  nudata  e  scossa 

L'alma  infelice  delle  membra  suo, 


(1)  Poliziano,  ibiiì.,  p.  225. 

(2)  Tigri,  n.  1144.  Cfr.  Lmbriani,  li,  370. 

(3)  PoLiziAxo,  ìhid.,  pag.  272.  Vedi  nelle  note  del  Carducci  ai  di- 
spetti polizianeschi  parecchi  altri  raffronti  con  frasi  ed  immagini  dei 
Rispetti  del  contado  toscano.  Altri  confronti  mi  addita  il  prof.  G.  (iiannini, 
per  es.:  Poliziano  (p.  191)  :  Le  tue  bellezze  poi  che  ne  farai  ?  e  un  Canto  po- 
polare (Tigri,  n.  132):  Le  tue  bellezze  a  chi  le  vuoi  lasciare? — PoLiz.  (p.  214): 
E' tuo'  bet/li  occhi  mi  han  furato  il  cuore:  e  nn  Canto  luccliese  (p.  7):  Con 
r/uegli  occhietti  mi  hai  rubato  il  cuore.  —  PoLlz.  (p.  326):  Tu  mi  chiedesti  il 
cuore,  i'  tei  donai,  e  un  Canto  hiccliese  (p.  43):  Tu  ini  chiedesti  il  cuore,  io 
te  lo  detti.  —  PoLiz.  (p.  243):  Mentre  che  il  fiore  è  nella  sua  vaghezza.  Coglilo, 
che  bellezza  poco  dura:  Fresca  è  la  t'osa  da  mattina,  e  a  sera  Essa  ha  per- 
duta sua  bellezza  altera;  e  un  Canto  pisano  (A.  Giannini,  p.  20):  Cogli  la 
rosa  quando  l'è  sul  fiore,  Che  quand' }■  aperta,  l'ha  perso  il  colore,  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  155 

E  eh'  io  sarò  ridotto  in  scura  fossa 
E  sarà  ombra  quel  che  corpo  fiie, 
Verrai!  gì'  innainorati  a  veder  l'ossa 
Ch'Amor  spogliò  con  le  crudeltà  sue: 
—  Ecco,  diran  tra  lor,  come  Amor  guida 
A  strazio  e  morte  chi  di  lui  si  fida  — .  (') 

Anche  Luigi  Pulci,  sebbene  con  minor  sicurezza 
di  pennello  e  minor  delicatezza  di  tocco,  si  provò 
alla  imitazione  dei  Rispetti  popolari.  Eccone  un 
saggio,  dal  quale  potrebbe  giudicarsi  che  gli  Stram- 
botti del  gran  cantore  del  Morgante  fossero  non 
immeritamente  caduti  in  dimenticanza: 

0  guida  di  mia  alma  e  di  mia   vita, 
Mantenimento  de'  mia  sensi  afflitti, 
0  sol  degli   occhi  miei,  donna  gradita, 
Amor  m'  ha  dentro  gli  occhi  tuoi  fitti  ; 
0  Sol  d'ogni  altra  bellezza  infinita, 
0  sostegno  di  mia  membri  sconfitti, 
0  perla  mia  vezosa,  o  alma  onesta. 
Gli  orecchi  alquanto  a'  mia  Rispetti  presta.  (^) 


(1)  Poliziano,  p.  272.  F.  Sabatini  pubblicò  come  dal  Poliziano  sette 
Rispetti  inediti  tratti  da  un  cod.  dei  sec.  XV  (Roraa.,  tip.  di  Roma,  1881),  che 
è  quel  cod.  canoniciano  del  quale  diciamo  più  oltre  (p.  159,  n.  2);  ma  non 
hanno  nessun  sentore  polizianesco  ;  e  i  confronti  che  l'editore  fa  di  essi  con 
odierni  Rispetti  sono  per  lo  più  arbitrarj  e  cervellotici. 

(2)  Gli  Strambotti  del  Pulci,  benché  stampati  più  volte  nel  sec.  XVI 
(v.  BiiUNET,  Manuel,  IV,  97.5),  sono  rarissimi  a  trovarsi:  né  mi  riuscì  rin- 
venirne altro  esemplare  salvo  quello  esistente  già....  in  una  biblioteca 
d'Italia.  Ciò  mi  avvenne  nel  1866;  e  allora  presi  copia  dei  primi,  risei-- 
vandomi  a  copiare  il  tutto  con  più  comodo.  Tornato  più  tardi  a  farne 
ricerca,  ho  dovuto  riconoscere  che  una  mano  rapace  ha  strappato  il  raro 
Opuscolo  dal  volume  miscellaneo  ove  si  trovava.  Ricordo  però  che  in 
questi  anni  passati  un  librajo  propose  di  farmi  vedere  gli  Strambotti,  da 
lui  acquistati  di  recente,  e  ch'ei  rallegravasi  di  poter  vendere  a  caro 
prezzo  :  se  non  che  andato  per  cercarli,  non  li  trovò  più  al  loro  posto,  e 
nell'impeto  dello  sdegno  lasciò  sfuggire  il  nome  di  colui,  sul  quale  cade- 
vano i  suoi  sospetti.  Questo  garbato  signore  era  probabilmente  lo  stesso 
che  aveva  defraudato  del  prezioso  cimelio  la  Biblioteca  già  detta,  e  che 
dopo  averlo  venduto  al  librajo,  ora  glielo  aveva  rubato  per  rivenderlo  ad 
altri,  e  così  cavarne  doppio  profitto  !  —  Ora  però  codesti  Strambotti  del  Pulci 
sono  stati  riprodotti  da  A.  Zenatti,  Firenze,  libreria  Dante,  1887,  che  poi 
diede  fuori  di  su  un'antica  stampa  altri  Strambotti  e  Rispetti  nobilissimi 
d'amore...  composti  per  L.  Pulci  fiorentino,  Firenze,  libr.  Dante,  1894. 


156  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAKA. 

Ma  proseguendo  vi  ha  qualche  cosa  di  meglio;  ad 
esempio  : 

Che  giova  a  me,  se  tu  mi  vói  gran  bene 

E  non  me  '1  sai,  signore,  addimostrare? 

E  se  pietà  tu  hai  delle  mie  pene, 

Tu  sai  che  me  ne  pòi  remunerare  ; 

Tu  pòi,  volendo,  tu  venire  a  mene, 

Venir  sicuramente  e  ritornare  ; 

Se  vuoi  che  l'amor  nostro  si  mantenga. 

Fa'  ch'una  volta  a  favellar  ti  venga.... 
Tanti  dispetti  tu  mi  fai  il  giorno 

Che  mi  farai,  iddea,  disperare  ! 

Vengo  a  vedere  il  tuo  bel  viso  adorno 

E  tu  me  '1  celi  e  non  me  '1  vuoi  mostrare  ; 

Ed  io  come  ferito  a  te  ritorno. 

Abbasso  gli  occhi  e  non  so  che  mi  fare, 

E  poi  mi  parto  forte  sospirando, 

A  passo  a  passo,  la  morte  chiamando.... 
Fa'  mi  quanti  dispetti  mi  può  fare. 

Fuggimi  pur,  se  tu  mi  sai  fuggire; 

E  stu  mi  vuoi   in  tutto  abbandonare. 

Tu  mi  abbandona,  eh'  i'  ti  vo'  seguire. 

lo  son  disposto  di  volerti  amare. 

Se  per  amarti  dovessi  morire; 

Giusta  mia  possa  sempre  io  amerotti, 

E  per  iddea  a  mia  vita  ferretti . 

Quel  che  accadeva  nel  mezzo  d'Italia,  in  quella 
specie  di  Accademia  che  raccoglievasi  nel  palagio 
mediceo,  avveniva  anche  nello  stesso  tempo  nel- 
l'Italia inferiore  alla  Corte  degli  Aragonesi.  (')  Anche 
là  sentivasi  il  bisogno  di  innovare  le  forme  della 
poesia,  di  rinfrescare  l'ispirazione  nelle  vivide  fonti 
del  sentimento  spontai>eo  e  popolare  ;  e  come  qua 
sonavano  agli  orecchi  i  Bhpetti  contadineschi,  cosi 
là  gli  Strambotii  o  Stranimotti.  Il  Cariteo,  poeta  spa- 


(1)  Vedi  M.  Mandai.ari,  liimainri  napoletani  de!  Quattrocento,  Casert.n, 
Jaselli,  1885. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  157 

gnuolo,  ma  che  visse  in  Napoli  e  scrisse  in  lingua 
italiana,  par  che  fosse  il  primo  a  volgersi  all'imi- 
tazione della  poesia  popolare.  Se  non  che,  pel  poeta 
della  Corte  aragonese  si  trattava  di  voltare  in  lingua 
letteraria  le  forme  vernacole,  quando  in  vece  al  Po- 
liziano ed  ai  Fiorentini  giovava  invece  a  quelle  ac- 
costarsi, e  ritrarne  il  piìi  possibile.  Cosicché  tanto 
sono  briosi  e  vivi  e  vispi  i  liispetti  dei  poeti  toscani, 
quanto  gravi,  pesanti,  artificiosi  gli  Sfraìiihoffi  del 
Cariteo  e  de'  suoi  seguaci  meridionali.  Giudichisi  dal 
primo  fra  gli  Straiìtmottl  del  Cariteo  stesso  ;  ove  però 
è  osservabile  assai,  al  modo  schiettamente  popolare 
del  mezzodì,  l'ottava  composta  di  due  rime  quattro 
volte  alternate  : 

Accende  il  mio  cantar  fiamma  d'amore, 
Noi  crudo  mare  e  ne   le  gelide  onde  ; 
Cantando  io  nelle  selve  esce  di  fuore 
La  fera  che  cacciata  si  nasconde  : 
Odono  lacrimando  il  mio  dolore 
Omini  et  animali,  arbore  e  fronde; 
Ma  riscaldar  non  posso  il  freddo  core 
Di  questa,  che  m'ascolta  e  non  risponde.  (') 

L'invenzione  di  questo  nuovo  genere  di  poesia, 
accaduta  quasi  contemporaneamente  a  Firenze  e  a 
Napoli,  ma  non  senza,  certamente,  che  l'esempio 
dei  poeti  fiorentini  avesse  efficacia  sui  napoletani,  (^) 
incontrò  il  favor  generale;  e  ben  presto  tutti  i  poeti 
d'Italia  dell'ultimo  quarto  del  Quattrocento  e  de'  pri- 
mordj  del  secolo  successivo,  alle  altre  categorie,  nelle 
quali  scompartivano  le  loro  produzioni  letterarie,  ag- 
giunsero anche  quelle  dello  Straììihotto  e  del  Bispetto: 


(1)  Nelle  Opere  del  Chaeiteo  dell'edizione  veneziana  di  Manfiin  Bon. 
{-)  Vedi  E.  PÈRCOPO,  Le  Mime  dei  Chariteo,  Napoli,  1892,  I,  p.  lxiv. 


158  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

sicché  un  poeta  del  tempo,  il  Bellincioni,  ridevasi 
delle  Muse  tornate  contadine,  Là  di  Valdarno.  (^)  Se  non 
che,  come  avvertono  i  trattatisti,  (^)  sebbene  fossero 
una  stessa  e  identica  cosa,  si  andò  d'accordo  nel 
serbare  più  specialmente  lo  Strambotto  alla  poesia 
eulta  (^)  e  il  Rispetto  destinare  ali"  imitazione  delle 
forme  contadinesche.  Ambedue  derivavano  dalla  stes- 
sa origine  popolare;  ma  l'uno  e  l'altro  si  allontana- 
rono dalla  naturalezza,  per  volgersi  quello  alle  sve- 
nevolezze dei  madrigali  cortigianeschi,  questo  alla 
caricatura  delle  usanze  villerecce.  Di  Strambotti  fu 
piena  tutta  Italia,  e  specialmente  le  residenze  prin- 
cipesche: le  dame  e  i  cavalieri  erano  sazj  del  tanto 
petrarcheggiare,  e  parve  loro  aver  trovato  nuova 
vena  di  poesia,  tanto  piìi  gradita  quanto  di  sua  natura 
era  o  poteva  parere  improvvisata,  e  da  cantarsi  sul 
liuto.  Poesia  e  musica  dalle  aule  scesero  anche  alle 
vie  e  alle  piazze,  (*)  e  il  popolo  imitò  le  imitazioni 
delle  cose  sue,  fatte  dai  signori. 

Come  ai  giorni  nostri  vedemmo  venire  in  voga  e 
tornar  di  moda  i  Rispetti  e  gli  Stornelli,  così  allora 
fu  degli  Strambotti;  ma  la  prova  riuscì  infelice  così 
allora,  come  ai  dì  nostri.  Alla  corte  di  Lodovico  il 
Moro,  un  gentiluomo  napoletano  di  nome  Andrea,  ac- 
compagnandosi collo  strumento,  introdusse  dapprima 
«li  Strambotti  del  Cariteo,  che  avevano  ricevuto  lieta 


(1}  Rime,  Bologna,  Romagnoli,  1856,  pag.  193. 

(")  Crescimbeni  ,  Istoria  della  t-uly.  pnenia ,  Venezia,  1731,  voi.  I, 
pag.  203. 

(3)  Venuto  alle  mani  dei  poeti  letterati  e  cortigiani,  lo  Strambotto 
parrebbe  giustificare  la  falsa  etimologia  da  sti-an  motto:  strano,  cioh,  come 
dice  il  Crescimbeni  (Volg.  Poes.,  I,  3,  4)  e  pieno  di  biziai-ì-issime  fantasie 
ed  acutezze. 

(*)  Jiispetti  da  cantare  in  sul  Unto,  Stanze  che  si  dicono  sidla  viola  la 
sera  per  serenata,  sono  dotti  alcuni  componimenti  di  questo  genere,  che 
pubblicò  G.  Volpi,  nella  Biblioteca  delle  scuole  italiane,  voi.  IV  (1891% 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  159 

accoglienza  presso  le  nobili  brigate  e  nella  Corte 
del  mezzodì.  L'udì  Serafino  dell'Aquila,  che  allora 
dimorava  in  Milano,  e  divenne,  mi  si  passi  la  parola, 
il  più  grande  e  gradito  stramhottajo  di  que'  tempi. 
Ma  passando  di  imitazione  in  imitazione,  quel  poco, 
anzi  pochissimo  di  fragranza  nativa  che  il  genere 
poteva  ancora  conservare,  svanì  affatto,  e  alle  mani 
di  Serafino  lo  Strambotto  divenne  un  epigramma 
lezioso,  un  madrigaletto  pulitino  e  tutto  azzimato  ; 
il  fiore  dei  campi  tolto  al  vivido  aere  fu  un  povero 
fiore  di  stufa.  Già  altrove  ho  dato  esempio  di  questa 
ibrida  forma  cortigianesca.  {^)  Aggiungerò  soltanto 
che  degli  Strambotti  di  Serafino  e  de'  suoi  imitatori 
e  seguaci  si  fecer  raccolte  a  penna  (")  e  a  stampa,  (^) 
e  che  principali  autori  di  questo  falso  genere,  oltre 
i  due  antesignani,  furono  Diomede  Guidalotti,  Leo- 
nardo Giustiniani,  (*)  Bernardo  Accolti,  (;')  l'Altis- 


(1)  Vedi  Del  secentismo  nella  Poesia  cortigiana  del  secolo  XV,  nella 
Nuova  Antologia,  1876,  e  poi  nel  voi.  StudJ  sulla  leti.  Hai.  de'  primi  sec, 
Ancona,  Morelli,  1884. 

(-)  Vedi  ad  es.  i  codici  Palatini  228  e  573.  Quest'ultimo  codice,  che 
coTitiene  188  Strambotti  di  Mess.  Sigismondo,  sebbene  abbia  in  alcun  luogo 
la  data  del  1477,  per  le  pagg.  dove  .sono  copiati  gli  Strambotti  dev'essere 
posteriore:  ofr.  Novati,  Istoria  di  Patrocolo  e  fZ'/H»i(?o)-ia,  Torino,  Società 
bibliof.,  1888,  p.  XLViii).  Il  noma  di  Mess.  Sigismondo  indica  forse  sol- 
tanto l'autoi-e  dei  primi,  cliè  ve  n'  ha  fra  mezzo  del  Poliziano,  di  Sera- 
fino ecc.,  ma  tutti  adespoti.  Anche  un  codice  canoniciano  di  Oxford 
descritto  dal  Moktaka  (Catalog.  n.  99)  contiene,  oltre  XX  stanze  d'amore 
e  CXXIV  ottave  del  Magnifico  e  i  Rispetti  e  gli  Strambotti  spicciolati  del 
Poliziano,  XLllI  Rispetti  di  più  persone,  altri  CCCCVI  Rispetti  anonimi,  e  in- 
fine ancora  altri  XV  Rispetti  di  più  persone,  fra  quali  ve  n'  ha  del  Poliziano. 

(3)  Vedine  la  bibliografia  in  M.  Menghixi,  Le  Rime  di  Serafino  dei 
Ciminelli  dall'Aquila,  Bologna,  Romagnoli,  1894,  I,  pag.  lui  e  segg. 

(*)  Pel  Giustiniani  vedi  i  27  5^c«ni&o«i  di  lui  che  pubblicai  nelGiorn. 
filol.  Rom.,  II,  79;  quelli  editi  dal  MoepurcxO  in  Bibliof.  Letter.  popol.,  II,  95. 
Vedi  anche  Sabatini,  Alcuni  Strambotti  di  L,  G.,  Roma,  tip.  di  Roma,  1880, 
e  T.  Ortolani,  Appunti  su  L.  G.,  Feltre,  Castaldi,  1896. 

(5j  Vedi  il  Quadrio,  voi.  III,  pag.  290,  il  quale  cita  ancora  gli  Stram- 
botti di  Messer  Zan  Polio  aretino,  alias  Pollastrino  (sul  quale  è  da 
vedere  Mazzi,  La  congrega  dei  Rozzi,  Firenze,  Le  Monnier,  1882,  I,  54), 
Venezia,  1522,  non  avvertendo  però  che  sono  in  lode  di  S.  Caterina  da 
Siena,  e  già  stampati  nel  1505  :    e  dice  poi,  che  nel  libricciuolo  intitolato 


160  LA   POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

simo,  (^)  il  Calmeta,  Francesco  da  Mantova,  Pamfìlo 
Sassi,  Francesco  Gei  (^)  e  persino  il  divin  Pietro  Are- 
tino. (^)  Di  due  altri,  Baldassarre  Olimpo  da  Sasso- 
ferrato  e  Giambattista  Verini  fiorentino,  parleremo 
in  appresso. 

Abbiamo  detto  che  vi  è  una  forma  intermedia, 
nella  quale  l'artifizio  poetico  appena  si  svela,  e  che 
più  arieggia  la  schietta  foggia  popolana.  Probabil- 
mente, diventato  ormai  il  Rispetto  un  genere  in  voga, 
furono  composti  da  chi  non  era  propriamente  popolo, 
ma  neanche  possedeva  vera  cultura  letteraria.  (*) 
Tali  sarebbero  quei  Bispetti  per  Tisbe  che  trovausi  in 
un  codice  magliabechiano,  {°)  e  de'  quali  altra  volta 
diedi  un  saggio,  O  ampliato  di  poi  dal  Carducci.  (') 
Sentiamone  qualcheduno  : 

Cara  speranza,  mi  mantien  la  vita, 
Dolce  diletto  nel  mio  core  stai  ; 
E  di  bellezza  se'  tutta  compita, 
Più  ch'altra  donna  ch'io  vedessi  mai. 


La  tremenda  e  spaventosa  Compagnia  ile'  Tagliacantoni  e  Mangiapilastri  di 
Buono  Thomani  cittadino  lucchese,  Vinegia  s.  a.  e  Viterbo  IGUO,  si  trovano 
molti  di  questi  Strambotti.  Ma  il  libro  è  stato  jier  me  introvabile. 

(1)  Vedi  l'edizione  datane  da  R.  Renier,  Torino,  Soe.  bibliog.,  1S86. 

(2)  Gli  Strambotti  di  questi  ultimi  due,  vedili  in  Fekkari,  Bibliot.,1,  275. 
Notizie  sul  Cei  v.  in  G.  Volpi,  Note  di  varia  erudis^etc.  Firenze,  Seeber,  1903. 

(3)  Introvabili  sono  stati  per  me  anche  gli  Strambotti  dell'AitExiuo. 
Ho  invece  rinvenuto  nella  Marciana  VOpera  del  fecundissimo  giovene  Pietro 
PlCTOKE  Aretino,  zoé  Strambotti,  Sonetti,  Capitoli,  Epistole,  Barzellette  et 
una  Desperata, \enezìa,  Niccolò  Zoppino,  1512.  Chi  è  egli,  ebbi  altra  volta 
a  domandare,  questo  Pietro  Aretino  pittore?  A  questa  mia  dimanda  risposo 
A.  Luzio,  P.  A.  nei  j)rimi  suoi  anni  a  Venezia  ecc.  Torino,  Loeselier,  1888, 
p.  109,  identificandolo  col  Flagello  de'  Principi. 

(<)  Tale  sarebbe  quel  (iiovan  Matteo  fiorentino,  del  quale  il  Ferrari 
{Bibliot.  letter.  popol.,  I.  Ili)  riproduce  sei  Strambotti. 

(;>)  Cod.  1008,  ci.  VII,  varior.  (strozz.  638). 

(0)  In  un  articolo  intitolato  La  poesia  popolare  fiorentina  nel  secolo 
decimoquinto,  inserito  nella  Bicista  Contemporanea,  voi.  XXX,  fase.  lOG, 
Torino,  Settembre  18G2. 

(7)  Nel  Discorso  premesso  alle  J?iMie  del  Poliziano,  ediz.  cit.,  pag.  cxiii 
e  segg.  E  ora  sono  stati  pubblicati  integralmente  dal  Ferrari,  Bibliot.  leti, 
popol.,  I,  91. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  161 

La  faccia  tua  di  rose  è  colorita, 
Tapino  a  me,  perchè  la  viddi  mai? 
Perchè  la  viddi  mai  ?  perchè,  perchè  ? 
Perchè  la  viddi  mai?  tapino  a  me! 

Qua  e  là  ne'  seguenti  è  notevole  la  ripresa  (/) 
del  concetto  e  delle  parole  negli  ultimi  versi,  che 
è  forma  caratteristica  del  genere  presso  i  Toscani: 

Non  posso  più  cantare  

Dentro  al  mio  cuore  è  gran  maninconia  : 
E  aggio  perduta  la  fresca  ghirlanda. 
Quella  che  mi  donò  l'amanza  mia; 
Come  farò  s'ella  me  la  domanda? 
Dirò  :  l'aggio  perduta  in  questa  via  : 
S'ella  me  la  domanda  con  ragione, 
Dirò  :  l'aggio  donata  ad  un  garzone.  (-) 


(1)  La  ripresa  è  anche  in  questo  Strambotto  stampato  dal  Carducci 
negli  Strambotti  e  liispetti  dei  secoli  XIV,  XV,  XVI  (Per  le  nozze  Teza- 
Perlasca  :  Bologna,  Zanichelli,  1877): 

Io  mi  vivea  e  non  avea  amore. 
Non  avea  donna  a  chi  volessi  bene  ; 
Quando  tu  m'apparisti,  o  nobil  fiore. 
Al  cor  tu  desti  amarissinie  pene. 
Subitamente  m'entrasti  nel  core, 
Come  saetta  che  dall'arco  viene  ; 
Subitamente  tu  m'innamorasti. 
Lo  cor  m'apristi  e  dentro  ti  serrasti. 

Altri  esempj  se  ne  trovano  in  Fereaki,  Bibliot.  lett.  popol.,  I,  78,  8.j  ecc. 
(.'-)  Cfr.  con  questo  canto  marchigiano  (Gianandbea,  165): 

Me  r'  ho  perduta  ra  violetta  jalla, 
Quilla  che  me  don?j  r'amante  mia: 
E  si  per  sorte  che  me  r'ardimanna 
Dirò  che  me  r'ho  persa  per  ra  via: 
E  si  me  r'ardimanna  che  ra  ole  : 
Me  r'  ha  rnbbata  chi  bene  me  ole, 
E  si  me  r'ardimanna  che  ra  cliiede 
Me  r' ha  rubbata  chi  me  ole  bene; 

ridotto  cos\  a  Venezia  'Bernoxi,  IV,  72)  : 

Per  ti  go  perso  la  viola  zala. 

Quella  che  m' à  dona  el  mio  amore; 
Cosa  faroggio  s'el  me  la  dimanda  ? 
Dirìj  che  ghe  l'ò  dada  al  sonadore. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  itaì.  —  11 


162  LA^POESIA    POPOLARE   IT  ALIAI;  A. 

Sta  colla  buona  notte,  o  Signor  mio, 

E  allo  mio  letto   me  ne  vo  a  posare.... 
0  dolce  casa,  o  pietre  preziose, 

Ove  dimora  la  speranza  mia. 

Per  Dio  vi  priego  die  siate  pietose  : 

Pietà  vi  prenda  della  doglia  mia.... 
Dell  lasso  !  quanto  dolorosamente 

r  faccio  quest'amara  dipartita!   (') 

Io  mi  diparto  misero  e  dolente, 

E  l'alma  si  diparte  dalla  vita. 

Eivederotti  mai,  stella  lucente? 

Rivederotti  inai,  rosa  fiorita? 

Rivederotti  mai,  cuor  del  mio  cuore. 

Gentile  e  bella,  e  delle  rose  il  fiore?  (-) 
r  faccio  dipartenza  sconsolata  ... 

Io  so  la  gita  e  non  so  la  tornata....  (^) 
La  dipartenza  si  vuol  fare  onesta, 

Clio  non  ne  dica  mal  lo  vicinato.... 
Vengoti  a  riveder,  anima  mia, 

E  vengoti  a  vedere  alla  tua  casa; 

Pongoini  ginocchioni  nella  via, 

Bacio  la  terra  dove  se'  passata  ; 

Bacio  la  terra,  ed  abbraccio  il  terreno, 

Se  non  m'ajuti,  bella,  i'  vengo  meno. 

Del  qual  ultimo  cauto  potrebbe  essere  uua  varia 
lezioue  questo  llispdio  toscano: 

Ti  vengo  a  visitare,  alma  regina. 
Ti  vengo  a  visitare  alla  tu'  casa: 
Inginoccliioni  per  tutta  la  via. 
Bacio  la  terra  andii' che  sei  passata: 
Bacio  la  terra  e  risgiiardo  lo  mura, 
Dove  se' passa,  nobil  creatura: 


(1)  Vedi  altra  lezione  in  Fei{faui.  Jiihiivi.  ìetl.  popol.,  I,  81.  Cfr.  Tigri. 
11.  588:  Questa  partenza  mi  par  aupta  lan/u.  K  n.  590  :  Questa  partita  la  vo' 
far  piangendo  ecc.  Cfr.  AlvkkÀ,  Canti  popol.  trarlizionali  vicentini,  ii.  1. 

(2)  Con  lievi  differenze  è  l'V'IlI  dei  Jiispetti  del  secolo  XV,  stampati 
dall'ALVisi  l'Ancona,  Civolli.  ISSO).  —  Qualche  rassomiglianza  ha  con  la 
(juarta  delle  JV  Ballate  najiol.  del  sec.  XV,  edito  da  G.  PÈiìCoi'o,  Kapoli, 
Do  Kubertis.  1884. 

(3)  Cfr.  Tioiìi.  II.  ,508:  Che  lo  leniate  fino  alla  tornata.  E  COG:  Mi  prese 
a  dimandar  della  tornata. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  1G3 

Bacio  la  terra  e  risguardo  le  tetta, 
Dove  passaste,  nobil  giovinetta.  (') 

Frasi,  parole,  immagini  assai  rassomiglianti  a 
quelle  dei  Rispetti  modernamente  raccolti  nel  contado 
toscano  trovansi  anche  in  questo  componimento  ine- 
dito, che  traggo  da  un  codice  Laurenziano,  O  ove  è 
veramente  designato  per  Canzone  a  hallo,  (^)  non  altro 
forse  essendo  che  Rispetti,  come  dicevasi,  spicciolati: 

Afiio,   ciascuna  donna   inamorata, 

Adio,  costei,  eh' è  fresca  più  clie   rosa; 

Da  voi  si  parte  l'alma  sconsolata. 

Né  mai  si  crede  trovare  altra  cosa 

Se  non  sospiri  e  guai  con  dolore, 

Fin  che  non  torno  dove  lasso  il  core. 
0  me  tapin  !  potrò  tanto  parlare 

Ch'io  sia  inteso  da  qualche  creatura? 

L'alma  del  core  mi  sento  mancare, 


(ij  TiGKi.  11.  375. 

(-)  Laiirenz.  SS.  Annunziata,  il.  122.  Le  poesie  popolari  ivi  contenute 
sono  ora  pubblicate  per  intero  dal  Ferkari,  Bihl.  leti,  popol.,  I.  101. 

(3)  Col  nome  e  la  forma  di  Ballata,  ma  cun  stretta  rassomiglianza 
allo  stile  dei  Rispetti,  trovasi  quest"  altra  poesia  nel  cod.  379  Magliab., 
cos\  stampata  dal  Trucchi  (II,  32."))  : 

Tradita  sono  da  un  falso  aniadore. 

Che  m'ave  per  vaghezza  tolto  il  core. 
E  se  n'  è  ito,  o  lassa  isventurata, 

E  so  che  più  di  me  ne  va  penando  : 

Ed  io  rimango  tutta  isconsolata. 

Perclr  io  so  bene  eh'  io  mi  moro  amando. 

Non  me  n'avveddi,  lassa!,  se  non  quaiulo 

Un  leni  servo  mi  scrisse  il  tenore. 
Quando  da  prima  di  lui  innamorai 

E'  non  ardiva  di  guardarmi  in  viso  ; 

Ed  io  cortesemente  gli  parlai, 

Guardando  sempre  ne' suoi  occhi  fiso; 

E  si  partì  da  me  col  cuor  conquiso 

E  de'  mie"  vaghi  sguardi  il  prese  amore. 
Con  quanta  pace  e  con  quanta  allegrezza 

Mi  veniva  a  veder  qnel  damigello: 

E  per  la  tanta  sua  piacevolezza 

Ognora  eh'  io  '1  vedea  parea  più  bello. 

Ben  credetti  di  lui  portar  l'anello. 

E  non  aver  giammai  altro  signore  ecc. 


1(34  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Cieito  mi  viene  per  la  mia  sventura. 

Della  gran  doglia  mi  vo'  disperare, 

E  biasimar  la  sorte  e  la  fortuna 

Che  Dio  m'  ha  dato  in  questo  mondo  rio, 

eh'  io  serva  a  chi  consuma  lo  cor  mio. 

Chi  mi  t'ha  tolto,  il  caro  mio   conforto? 
Chi  m"  ha  rubato  la  speranza  mia? 
Chi  mi  t'ha  tolto,  fresco  giglio  d'orto, 
Consolamento  della  vita  mia? 
Chi  mi  t'ha  tolto,  il  caro  mio  aspetto  (?), 
Chi  mi  t'ha  tolto,  fior  di  legiadria  ? 
Morte  non  ha  (?)  disfatto  quel  bel  viso, 
Che  facea  in  terra  un  altro  paradiso. 

Ohi,  dappoi  che  non  ti  vidi  mai, 
Ne  non  baciai  il  tuo  polito  viso, 
Che  tu   diciesti  :   "  Anima  mia,  che  fai? 
Baciami  un  tratto,  e  fammi  sto  servizio  ,. 
Ed  io  meschino,  allora  ti  baciai, 
Ta  mi  abbracciasti  con  sì  dolce  riso. 
Che  di  morir  saria  stato   contento, 
Tanto  era  dolze  quello  abrazamento. 

Ornò  vicine,  perchè  non  piangete 
Che  avete  perso  il  fior  di  gentileza? 
Oniè,  meschine,  che  non  conoscete 
Né  non  curate  della  sua  vagheza  ; 
Ma  in  breve  tempo  voi  vcderete 
Mancar  fra  voi  ogni  allegreza  : 
Mancheravi  ogni  gioja,  ogni  piacere, 
Perchè  il  bel  viso  'n  potrete  vedere. 

0  inaniorato,  che  giìi,  tanto  amasti 
Quello  bel  viso,  eh'  è  fatto  di  terra, 
E  licenzia  da  lei  tu  non  pigliasti, 
Perchè  facesti  con  lei  tanta  guerra? 
La  bocca  bella  perchè  non  baciasti? 
Perchè  lassasti  andarla  sotto  terra?... 

Voi  viverete  sempre  mai  nojosi, 

Ed  io  meschino  sempre  piangeraggio, 
Ch'  i' ho  perduto  i  begli  occhi  amorosi; 
Si  bella  donna  mai  non  troveraggio, 
Né  baci  che  sien  tanto  graziosi  : 
Omè  meschino,  come  la  faraggio  ? 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  165 

Morii-  voglio,  lasso  me  meschino, 
E  seguir  sempre  il  viso  pellegrino. 

Quando  mi  penso,  oimè,  del  bel  partito 
Sol  che  perdei  per  non  aver  baldanza, 
Ben  vorrei  esser  vivo  sepelito  ; 
E  porto  in  cuore  pur  tanta  tristanza, 
Che  di  baciarti  non  fui  sì  ardito 
La  tua  boccuccia  di  tanta  dolcezza  : 
Che  se  a  quel  luogo  presto  non  ritorni. 
Morto  mi  troverai  in  pochi  giorni. 

Ma  che  ci  giova,  ahimè  !  se  noi  ci  amiamo? 
Noi  stiamo  in  pene,  e  mai  non  godiamo  :  (^j 
L'uno  con  l'altro  gran  pena  duriamo 
Quando  cogli  occhi  noi  ci  vediamo. 
Facciamo  cosa  che  ci  consoliamo, 
Che  in  bocca  della  gente  non  istiamo  : 
Desiderare  e  non  aver  mai  bene, 
Lo  corpo  ha  tormenti  e  l'anima  pene. 

Questa  contrada  è  piena  di  amanti, 
Questa  contrada  è  piena  di  amatori  : 
'N  questa  contrada  vengon  tutti  quanti, 
E  par  che  piovan   li  vagheggiatori  ; 
Alla  mia  vita  non  ne  vidi  tanti 
Quanti  ne  veggo  passar  quinci  fuori  : 
La  gente  ne  ragiona  a  quel  ch'io  sento.... 

Uguale  indole,  mista  di  naturale  e  di  artificioso, 
di  spontaneità  e  di  imitazione,  di  popolare  e  di  cu- 
riale hanno  centoventicinque  Rispetti,  che  trovansi 
in  un  codice  della  Biblioteca  di  Perugia,  che  per 
somma  gentilezza  e  benignità  del  perugino  Municipio 
mi  è  stato  concesso  potere  studiare  e  copiare  a  tutto 
mio  agio.  Un  saggio  di  siffatti  Rispetti  venne  dato 
nel  1859  dal  prof.  Adamo  Rossi  :  (^)  di  poi.  per  nozze 


(1)  Che  giova  dir  ci  amiamo,  sì,  ci  amiamo:  Che  giova  lo  volerci  tanto 
bene  ecc.:  Tigri,  ii.  577.  Cfr.  questo  Canto  tevamese:  Che  sserve  che  ttii 
tnme  gar.i' e  e  i'  te  game?  Che  sserve  cusctu  bhen  die 'noe  viileme?:  MOLIXAKI 
DEL  Chiaro,  Canti  pox)ol.  teram.,  n.  25;  e  questo  umbro:  Che  giova  che  re 
amamo  che  ce  amaino  Che  tanto  no'pijà  nun  ce podemo  ?  (Mazzatinti.  137). 

{-)  Saggio  di  Eispetti  cavati  da  un  cod.  della  Comunale  di  Perugia, 
per  cura  del  bibliotecario  Adamo  Rossi,  Pei'ugia,  Vagiiini,  1859. 


166  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAJNW. 

di  un  amico,  io  ne  pubblicai  alcuni  altri:  Q)  orami 
pare  che  possa  essere  di  qualche  utilità  renderli  tutti 
di  pubblica  ragione,  come  sarà  fatto  in  Appendice  a 
questi  studj.  (-) 

Questi  Rispetti  si  direbbero  una  raccolta  di  com- 
ponimenti di  vario  genere,  benché  della  stessa  fami- 
glia; e  non  solo  di  vario  genere,  ma  di  diverso  stile; 
imperocché  ve  n'  ha  alcuni  che  sanno  assolutamente 
di  letterario,  altri  che  si  direbbero  esemplati  dalla 
viva  voce  di  un  cantore,  che  li  profferisse  accom- 


(1)  Bispetti  del  sec.  XV,  Livorno,  Vigo,  ISTO,  Per  nozze  Gargiolli- 
Xazari. 

i")  AbLiamo  già  citato  uno  di  quegli  Strambotti  pubblicati  già  dal 
Carducci  per  occasione  di  nozze  :  eccone  \m  altro  clic  molto  si  avvicina 
alla  maniera  popolare,  estratto  da  un  cod.  scritto  nel  l-lòS; 

Gli  occbi  leggiadri  sotto  brune  ciglia, 
Quanti  ne  sguardi  innamorati  n'  liai  ; 
E"  bianchi  denti  e  le  labra  vermiglia; 
Ah  traditora,  quanti  morti  n'hai! 
Un  angiolo  del  ciel  mi  t'assomiglia. 
Tante  son  le  bellezze  che  tu  hai. 
Beata  a  te,  beata  a  te.  beata, 
Da  quanti  amanti  se'  desiderata  ! 

Aggiungiamo  questi  due  comunicatici  dal  dott.  Curzio  Mazzi  e  tolti  da  un 
cod.  del  1438  esistente  nel  K.  Archivio  di  Siena: 

Il  più  lieto  amante  di  questo  mondo  fui. 

Ora  mi  trovo  il  più  isconsolato  : 

Questo  mi  avvien  per  lo  dir  mal  d'altrui  ; 

Donche,  mal  aggi  chi  mi  ci  ha'ncolpato: 

Ancora  spero  di  veder  colui 

Stentare  al  mondo  per  lo  suo  peccato: 

Ancora  spero  di  veder  vendetta 

Di  quella  falsa  lingua  maledetta. 
Po'  che  la  mattinata  faggio  fatta 

Dammi  licenza  eli'  i'  mi  vo'  partire. 

E'  non  è  ora  di  più  stare  in  piazza, 

E  l'ora  è  tarda,  e  vogliomene  gire, 

Dammi  licenza mia  carnale. 

Che  l'ora  è  tarda,  e  più  non  posso  stare. 

Pel  primo  Rispetto,  v.  la  lezione  veneta  offerta  da  V.  C'ian,  Ballate  e  Stram- 
botti del  sec.  XV,  in  Giorn.  Stor.  Lett.  Ital.,  IV,  5.3. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  167 

pagnandosi  con  la  viola,  sotto  le  finestre  della 
innamorata.  Stenterebbesi  a  credere  che  potessero 
essere  di  un  solo  autore,  anche  se  fra  mezzo  non 
ve  ne  fossero  alcuni  di  quelli  che  già  vedemmo  inti- 
tolati a  Tisbe  dal  codice  magliabechiano,  ed  altri  di 
quelli  qui  sopra  riferiti  dal  laurenziano.  Nessuno  poi 
potrebbe  sostenere  che  dovessero  riporsi  fra  i  vera- 
mente popolari  quelli  in  che  la  bella  è  paragonata 
ad  Elena,  a  Medea,  a  Pulisena,  a  Pantasilea,  seb- 
bene questi  nomi  dovessero,  per  opera  dei  cantori 
di  piazza,  esser  noti  anche  fra  la  plebe;  né  quelli 
in  che  la  durezza  della  donna  è  detto  superar  la 
crudeltà  di  Nerone  e  di  Mezenzio.  Così  anche  ognun 
sente  che  dev'esser  penna  eulta  quella  che  ha  scritto: 

Al  paradiso  è  fatto  un  gran  rumore, 
Che  via  se  n' è  volata  un'angiolella  : 
Ala  furata  l'alto  Dio  d'Amore, 
Perchè  li  parse  angelicata  e  bella. 

Per  contrario  altri  ve  n'  ha,  de'  quali  l' intonazione 
è  ben  diversa,  e  ove  trovasi  anche  la  ripresa  finale. 
Siene  questi  d'esempio  : 

Chi  ara  cotanta  grazia  da  Dio, 

Chi  sarà  quello  tanto  grazioso, 

Che  goda  el  tempo  che  perduto  ho  io 

In  questo  mondo  senz'aver  riposo  ? 

Chi  sarà  el  tuo  marito,  o  signor  mio, 

Chi  sarà  quello  avventurato  sposo. 

Chi  sarà  quel  di  si  contenta  vita. 

Che  metterà  l'anel  fra  le  tue  dita? 
Affacciati,  Signora,  e  udirai 

Costui  che  par  che  tanto  pianga  forte: 

A  fatto  li  Rispetti  a  li  suoi  guai, 

Piange  e  sospira  e  domanda  la  morte: 

Oimè,  Signora,  se  lasciato  m'  hai. 

Girò  baciando  le  mura  e  le  porte  : 


168  LA   POESIA  POPOLARE   ITALIAXA. 

Girò  baciando  le  porte  e  le  iiuua, 
Se  m'abbandoni,  o  cara  mia  Signora. 

Forse,  Madonna  bella,  tu  non  sai 
Coni' io  son  forte  di  te  innamorato; 
Non  mi  conosci,  e  non  mi  udisti  mai 
Andar  cantando  per  questa  contrata, 
Madonna,  sono  Io  servo  clie  ormai 
Novellamente  l'alma  t'ho  donata; 
Sono  il  servo,  Madonna,  che  di  uovo 
Tu  m'  bai  ferito,  e  pace  pili  non  trovo. 

Tanti  dispetti  mi  fate  lo  giorno, 
Faretemi,  Madonna,  disperare: 
Vengo  a  vedere  lo  tuo  viso  adorno 
Tu  ti  nascondi,  e  non  mi  vuoi  sguardare; 
Ed  io  com'nomo  morto  mi  ritorno 
Con  gli  occhi  bassi,  e  non  li   posso  alzare; 
Poi  mi  ritorno  forte  sospirando, 
Di  passo  in  passo  la  morte  chiamando. 

Qua  e  là  si  trovano  immagini,  frasi  e  anche  versi 
delle  odierne  Canzoni  campagnnole:  ma  non  già  un 
Rispetto  tutt'  intero.  La  maggior  rassomiglianza  è 
forse  fra  uno  di  questi  Rispetti  ed  altro  della  rac- 
colta del  Tigri.  L'antico  dice  a  questo  modo  : 

Quattro  parole  ti  voglio  ridire, 

Poi   che   m'avesti,  donna,  abbandonato; 
E  la  prima  è,  che  tu  mi  fai  morire, 
E  l'altra,  ch'io  ti  sia  raccomandato: 
La  terza,  io  non  la  posso  sofferire; 
Dammi  la  morte,  io  sono  apparecchiato: 
S' io  mora,  eh'  io  non  sia  da  voi  aiutato. 
Vostra  salii  la  colpa  e  lo  peccato. 

E  il  Canto  toscano  : 

Alza  la  bionda  testa  e  non  dormire. 
Non  ti  lasciar  superar  dallo  sonno  : 
Quattro  parole,  amore,  io  son  per  dire, 
Che  tutte  e  quattro  son  di  gran  bisogno; 
La  prima,  eli' è  che  mi  fate  morire. 


LA  POESIA  POPOLARE  IT  ALLENA.  169 

E  la  seconda,  che  un  gran  ben  vi  voglio: 
La  terza,  che  vi  sia  raccomandato, 
L'ultima,  che  di  voi  so' innamorato.  (') 

Sulle  coste  adriatiche,  a  Zara,  suona  così: 

Alza  la  bionda  testa  e  no  dormire, 
No  te  lassar  più  vinzere  dal  sono! 
Quatro  parole  t'avaria  da  dire 
E  tute  quatro  xe  de  gran  bisogno. 
La  prima  :  Bela,  no  mi  far  morire  : 
La  seconda  :  Che  peno  note  e  giorno; 
La  terza  :  Che  ti  amo  e  te  vói  bene, 
La  quarta:  Levime  da  queste  pene.  (^) 

Ad  ogni  modo,  si  le  imitazioni  cortigianesche  e 
sì  queste  di  minor  suono,  debbono  ragionevolmente 
far  presupporre  resistenza  di  Canti  prettamente 
popolari,  che  servissero  di  modello.  Riconosciuto  che 
negli  Strambotti  e  Rispetti  delle  stampe  e  dei  codici 
del  Quattrocento  (^)  si  vuol  riprodurre  la  maniera 


(1)  Tigri,  n.  263.  Cfr.  Gianandkea,  p.131;  Marcoaldi,  Canti  papol. 
umbri,  n.  69,  e  Canti  pop.  latini,  il.  29,  40;  IvE,  pag.  7*2  ;  Manda  lari,  p.  100. 
Cfr.  anche  Vigo,  n.  1447  :  Quattru,  suspivi  ti  mannu,  patruna.  Tutti  quattru 
■fidili  ammasciaturi  ecc. 

{-)  Viixanis,  XXV  Strambotti  pop.  zaratini,  n.  1. 

(3)  Notiamo  alcune  stampe  di  Bispetti  e  Stratnhotti  anticlii  fatte  in 
questi  ultimi  anni  : 

C.  Gakgiolli,  Rispetti  da  contadini  di  Aless.  Adimari  (estr.  dal 
Propugnai.,  1874). 

A.  D'AscoNA,  Rispetti  del  sec.  XV,  Livorno,  Vigo,  1876  (per  nozze 
Gargiolli-Xazari). 

G.  Fedeezoni,  Ballate  e  Strambotti  del  sec.  XIV,  Bologna,  Zanichelli, 
1876  (nozze  Peli-Verati). 

G.  Carducci,  Strambotti  e  Bispetti  dei  sec.  XIV,  XV,  XVI,  Bologna, 
Zanichelli,  1S77  (per  nozze  Teza-Perlasca). 

V.  Joppi,  Rime  amorose  del  sec.  XV,  Udine,  Seitz,  1879  (per  nozze 
Freschi-Perugini). 

E.  Alvisi,  Rispetti  del  sec.  XV,  Ancona,  Civelli.  1880. 

L.  Gentile,  Cinque  Rispetti  ined.  del  sec.  XV,  Firenze,  Arte  della 
Stampa,  ISSI  (per  nozze  Biagi-Piroli). 

V.  Morandi,  Rispetti  di  Amore  del  sec.  XV,  Roma,  Centenari,  1862 
(per  nozze  Francisci-Paparini). 

S.  Ferrari,  Serenata  del  sig.  2'orquato  gentiluotno  napolitano,  Livorno, 
Vigo,  1883  (per  nozze  Marradi-Foraboschi). 


170  LA    POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

di  poetare  propria  del  popolo,  è  necessario  ammet- 
tere che  r  imitazione  non  fosse  fatta  a  caso,  ma 
sopra  esempj  di  qualche  notorietà.  Se  non  che,  ognun 
ben  comprende  come  sia  ben  difficile  il  poter  dire: 
questi  e  questi  furono  i  Canti  che  il  popolo  della 
città  e  del  contado  possedeva  in  quel  tempo  :  ma 
potrebbe  anch'essere  che  un  giorno  una  qualche 
felice   scoperta  ci   conducesse  a  conoscere  quanto 


L.  Gentile,  Serenata  di  Strambotti  del  sec.  A'I',  Prato,  Unione,  1883 
'pei'  nozze  Marradi-Foraboschi). 

D.  NiGRisoLT,  Strambotti  di  G.  B.  Refrigerio,  Bologna.  Zanichelli,  1884 
(nozze  Rava-Baceaiini). 

V.  Gian,  Ballate  e  Slrainholti  del  sec.  Xf,  tratti  da  un  cod.  trevisano, 
in  Giorn.  Stor.  Lett.  It.,  IV,  1. 

M.  Mandalari,  liimiitori  napoletani  del  Quattrocento,  Caserta.  Ja- 
telli,  188.-.. 

U.  Bassini,  Rime  di  Cesare  Nappi  notnro  boloc/nese  del  sec.  ATT',  Bo- 
logna, Zanichelli,  1886  (per  nozze  Ferrari- Gini). 

S.  Ferrari,  V.  Fiorini,  V.  Bugaki.i,  Stram'iotti  di  Baldassarre  Olim^jo 
da  Sassoferrato,  tratti  dalla  Nova  Fenice,  Bologna,  Zanichelli,  1886  (per 
nozze  Zanichelli-Mariotti). 

Renier  R.,  Strambotti  e  Sonetti  dell'Altissimo,  Torino.  Società  Biblio- 
flla,  1886. 

G.  Padovani,  Strambotti  del  sec.  XVI,  Bologna,  Azzognidi,  1887 
(nozze  Padovani-Padovani). 

G.  e  T.  Casini.  Sonetti,  Ballate  e  Strambotti  d'amore  dei  sec.  XIV e  XI', 
Firenze,  Carnesecchi,  1889  (nozze  Magnoni-Loli). 

M.  Menghini,  Dodici  Rispetti  pop.  ined.  (estr.  dal  Propugnatore,  N.  S., 
Ili,  274),  Bologna,  Fava  e   Garagnani,  1890. 

G.  Volpi,  Poesie  popol.  italiane  del  sec.  XV,  Verona,  Tedeschi,  1891 
(dalla  Sibl.  delle  Scuole  iteti.,  IV,  ;!). 

L.  F.  Valdrighi.  Il  libro  di  Canto  e  dì  Liuto  di  Cosimo  Bottegari, 
fiorentino,  Firenze,  Orlandi.  1891. 

G.  Zannoni,  Strambotti  ined.  del  sec.  XV,  Roma,  Salviucci,  1892. 

E.  Percopo.  Barzellette  napoletane  dtl  Quattrocento,  Kapoli,  1893, 
(nozze  SoglianoMasi;. 

A.  Saviotti,  Rime  ined.  del  secolo  A'I',  Bologna,  Fava  e  Garagnani, 
1893  (estr.  dal  Propucinatore,  N.  S.,  XV). 

P.  Tommasini-Mattiucci,  Per  nozze  Luzi-Corneli,  Citt.'i  di  Castello, 
Lapi,  1898. 

S.  Ferrari.  Rispetti,  Canzonette  musicali  e  giuochi  per  le  veglie,  da 
mas.  toscani  dei  sec.  XVI  e  XVII,  Bologna,  Zanichelli,  189.5  (nozze  Bas- 
sini-Cherubini).  ' 

F.  Fla.mini,  Ballale  e  Strambotti  di  poeti  aulici  del  (,iuattrocento,  Pa- 
dova, Cooperativa,  1897  (per  nozze  B'Ancona-Orvieto). 

S.  Ferrari,  Per  nozze  Menghini-Zannoni ,  Bologna,  Zanichelli,  1893. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALL^XA.  171 

desideriamo.  Cou  la  raccolta  perugina  siamo  assai 
vicini  alla  forma  prettamente  popolare;  anzi  qua  e 
là  vi  sono  Rispetti  clie  stimiamo  proprio  di  popolo, 
mischiati  ad  altri  apocrifi  e  curiali.  E  perchè  non 
potremmo  supporre  che  taluno,  quando  il  genere  co- 
minciò a  prender  voga,  si  ponesse  a  far  rappresaglie, 
come  direbbe  il  Poliziano,  dei  Rispetti  originali, 
preferendo  alle  imitazioni  pili  o  men  bene  riuscite,  le 
più  ingenue  immagini  del  genere  stesso? 

Ma  finché  altri  faccia  la  desiderata  scoperta, 
noi  ne  abbiam  fatta  una  per  conto  nostro,  la  quale 
ci  potrà  indubitatamente  far  conoscere  che  cosa 
cantasse  il  popolo  fiorentino  qualche  secolo  addietro. 
Il  lettore  ci  perdoni  la  superba  parola  di  scoperta 
che  abbiamo  adoperata:  ma  nel  caso  nostro  e'  vedrà 
che  la  fortuna  ha  avuto  men  luogo  che  non  in  molti 
altri,  e  ci  abbiamo  un  poco  di  merito,  avendo  scorto 
coi  nostri  occhi  quello  che  tanti  altri  occhi,  che  si 
eran  posati  sullo  stesso  documento,  non  avevan 
saputo  ritrovarvi,  o  avevan  solo  intraveduto.  La 
dimostrazione  poi  di  questa,  ci  si  lasci  dunque  dirlo, 
scoperta,  ci  è  costata  tanta  fatica  di  ricerche,  e 
tanta  contrazione  di  memoria,  che  il  discreto  let- 
tore vorrà  usarci  indulgenza,  se  arrivati  in  fondo 
saremo  così  sfacciati  da  chiedergli  il  plaudite.  C) 

Or  ecco  di  che  si  tratta.  Agnolo  Allori  detto  il 
Bronzino,  fiorito  come  pittore  e  come  poeta  sulla 
metà  del  sec.  XYI,  scrisse  fra  le  altre  cose  facete, 
onde  è  annoverato  fra  i  berneschi,  un  Capitolo  inti- 


mi) Dobbiamo  avvertire  che  conteraporaneamente  a  noi  il  Rubieki  si 
accorgeva  anch'egli  del  fatto,  e  istituiva  raffronti  nella  stia  Storia  della  p. 
pop.  italiana  (Firenze.  Barbera,  1S7S,  p.  212  e  segg.1  fra  la  Serenata  e  i  Canti 
popolari.  In  questa  seconda  edizione  del  nostro  lavoro  abbiamo  pi'otìttato 
delle  ricerche  del  Rubieri,  e  per  le  indicazioni  di  lui  e  nostre,  nonché  di  altri 
studiosi  abbiamo  potuto  portare  a  maggior  compiutezza  codesti  raffronti. 


172  LA   POESIA   POPOLARE    ITALIANA. 

tolato  la  Serenata,  stampato  in  fine  alla  Catrina  del 
Berni,  nell'edizione  del  1567.  Fu  di  poi  riprodotto  pa- 
recchie volte:  ma  senza  clie  nessuno  si  avvedesse  che 
la  Serenata  era  un  centone,  salvo  forse  l'editore  mi- 
lanese delle  Opere  del  Berni  stampate  dal  Sonzogno 
nel  1873,  che  fu  il  compianto  Camerini.  Infatti  egli 
si  avvicinò  pur  dubitosamente  al  vero,  dicendo: 
Ogni  terzetto  pare  finisca  con  un  verso  di  Canzoni 
popolari;  ma  si  restrinse  poi  a  additare  due  soli  casi, 
ne'  quali,  come  vedremo,  sono  riferiti  i  capiversi  di 
Canzoni,  che  trovansi  già  nella  Mandragora  di  mes- 
ser  Niccolò  e  \\e\V  Errore  del  Gelli  :  però  ei  nulla 
vide  che  gli  rammentasse  poesie  popolari  tuttora 
cantate.  Noi  di  queste  abbiamo  ritrovate  una  gran 
quantità  :  ma  per  quanto  studio  ci  abbiamo  posto, 
per  quanto  abbiamo  lavorato  colla  memoria,  non 
siamo  però  sicuri  di  non  aver  peccato  di  ommissione. 
Ci  sono  alcuni  versi  che  ci  stanno  fitti  in  capo  come 
antiche  conoscenze,  come  già  trovati  in  qualche  poe- 
sia popolare,  senza  che  ci  sia  stato  possibile  rinve- 
nirli nelle  collezioni  a  stampa.  Altri  potrà  aggiungere 
a  quanto  già  abbiamo  raccolto;  nuove  pul)blicazioni 
di  Canti  popolari  daranno  altri  raft'ronti;  e  forse  si 
potrà,  per  nuove  cure,  provare  per  l'intero  compo- 
nimento ciò  che  adesso  proviamo  solo  in  parte,  e 
pel  rimanente  affermiamo:  cioè,  che  la  Serenata  del 
Bronzino  è  nell'ultimo  verso  d'ogni  terzetto,  tutt'un 
centone  di  capiversi,  i  quali  appartengono  a  Rispetti 
popolareschi.  (^) 


(1)  Il  Bronzino  non  può  dirsi  inventore  dì  questo  genere,  dacché  il 
KovATi  (Stiulj  crii:,  e  letter.,  Torino,  Loesclier,  1889,  png.  218)  ci  addita  una 
(ìixperata  amorosa  del  sec.  XV,  dove  ogni  terzo  verso  appartiene  al  vecchio 
o  al  nuovo  Testamento  e  talvolta  a  qualche  inno  liturgico,  e  ne  adduce  a 
prova  le  prime  setto  terzine. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  173 

Riferiremo  per  intero  la  Serenata,  (^)  sofferman- 
doci ogni  tanto  a  indicare  i  Canti  popolari,  onde  essa 
è  congesta.  E  molto  probabile  che  il  Bronzino  cono- 
scesse i  Canti  nella  loro  forma  toscana:  ma,  poiché  di 
taluni  è  superstite  soltanto  la  lezione  in  altri  dia- 
letti italiani,  le  nostre  ricerche  e  le  indicazioni  ap- 
partengono non  solo  alle  raccolte  toscane,  ma  a 
quelle  di  tutti  gli  altri  vernacoli  finora  pubblicate. 

Se  tu  volessi  duo  parole  udire 

Fatti  un  -po'  fiiora  ;  e  se  tu  se'  nel  letto, 
3)  Deh  lieva  la  tua  testa  da  dormire. 

Quest'ultimo  verso  rammenta  il  principio  del   Ri- 
spetto, che  qui  addietro  abbiamo  già  riportato  : 

Alza  la  bionda  testa  e  non  dormire.  ('-) 

E  di':  mia  madre,  ascolta;  al  dirimpetto 
Sento  lUi  che  canta,  ed  un  arpe  die  suona; 
6)  Porgimi  la  camicia  e  lo  reietto. 

Anche  qui  abbiamo  una  notevole  rassomiglianza  con 
un  verso  di  Canto  siciliano  : 

Mamma,  ca  passa  In  duci  bninettu; 
E  iddu.  la  caiuisciu  a  lu  cantari  ; 
Pigghiami  la  camicia  e  lu  trubbettu.  (^) 
Quanta  ni'affacciu  e  lo  viju  passari  ; 
Vista  ca  riiaja  li  tricci  ci  jettu 
E  trizzi  trizzi  lu  fazzu   acchianavi:  C*) 


(1)  È  curioso  l'esperimento  fatto  testé  dalla  signorina  A.  Fukno  sopra 
un  improvvisatore  popolare  di  Legnaja,  dicendogli  il  primo  verso  dei  Canti 
riforiti  dal  Bronzino,  e  dandogli  come  l'aìi-e  a  seguitare  con  altri  quattro 
versi  (v.   Uno  Sfomellaio  fioi-entino,  in   ArcJi.  irati,  popoì.,  XX,  .340). 

(2  Vedi  p.  ICS.  E  cfr.  Tigri,  n.  263;  Dal  Medico,  Canti  del popcl.  venez., 
pag.  37;  Bebnoni.  punt.  IV,  n.  45;  Garlato,  p.304;  Villaxis,  XXV  Storn. 
zarat.,  e  anche  Imbriani,  II,  122. 

(3)  Fe/e«o,  diminutivo  di  velo;  truhhettu,  gonna,  grossolana,  specie 
di  gamuiTa  usata  dalle  donne  di  contado;  la  differenza  di  luoghi  e  di 
usanze  dà  ragione  della  variante. 

(*)  Le  trecce  che  fanno  da  scale  si  ritrovano  in  molte  poesie  e  rac- 


174  LA   POESIA   POPOLARE   ITALLVXA. 

Oca  juiitu  poi  In  striiiciu  a  lu  ine  pettu, 
E  senza  sonu  lu  'nsigiui  a  ballar!.  (') 

r  son  sì  vnyo  della  tua  persona. 

Che  vagheggiando  vo  sera  e  mattina 
9)  La  casa  per  amor  della  padrona. 

Tu  mi  piacesti  infiìi  da  piccolitia, 
Ond' io  ho  detto,  tanto  che  son  fioco: 
12)  Autor,  amor,  tn  se' la  mia  rovina. 

Quest'ultimo  verso  abbiamo  piìi  addietro  citato,  pel 
ricordo  che  se  n'ha  ncW  Errore  del  Gelli:  e,  aggiun- 
giamo qui,  nella  Tonici  del  Tantera  di  Gabriele  Si- 
meoni.  Perduta  la  lezione  antica  e  non  sovvenendo- 
cene altra,  ne  riferiamo  una  lombarda  : 

Aniur,  amur,  te  set  la  mia  rovina 
De  fanun  innamora  insci  piccolina; 
Ma  famm  innamora  non  1'  è  niente, 
Abbandonar  l'amur  l'è  un  sran  tormento.  (-) 


conti  d'ogni  popolo:  vedi  in  proposito  una  nota  del  Kììhler  alla  SS''  Tso- 
vella  siciliana  della  Gonzexbach.  Sicilìan.  Muurchen  ecc.,  Leipzig.  Engel- 
niann,  18.70.  Il,  236;  Pitèè,  Fiale,  novelle  e  racconti  popol.  sicil.,  Palermo, 
Pedone,  ISTa,  voi.  I,  pag.  112, 121,  167,  e  Imbbiani,  XII  Canti  pomiglianesi, 
p.  129,  noncliè  C.  popol.  proc.  meridionali,  I,  53-4,  e  C.  popol.  di  Mercogliano, 
11.  1.5;  CoKAZZiNi.  p.  42  (la  fiaba  di  l'etrusinella:  cfr.  De  Nixo,  Usi  e  co- 
stumi abruzzesi,  Firenze,  Barhera,  18S3,  in,  60,  e  PiTEÈ,  in  Arc'i.  trad.  i>02>., 
I,  526};  MoLiNAEi  DEL  Chiaro,  C.  pop.  nnp.,  p.  113,  149,  e  del  medesimo, 
C.  p.  di  Meta,  u.  42,  nonché  in  (?.  B.  Basile,  II,  28.  Odasi  ad  esempio,  questo 
canto  di  Mercoyliano,  il.  13  (cfr.  nel  periodico  La   Calabria,  II,  28): 

Figliola,  clie  stai  "neiiniuo  a  'sta  feiiesta, 
Famme   na  grazia,  min  te  ne  trasire: 
Jlineme  'nn  capillo  de  "sta  trezza. 
Calale  abbascio  ca  voglio  saglire. 
Quanno  nce  simmo  "ncoppo  a  'sta  fenesta, 
Pigliame 'mbraccio  e  portarne  a  durmire; 
Quanno  nce  simmo  'ncoppo  a  cliillo  lietto, 
Oh  quanto  suolino  ca  voglio  durmire  ! 

Per  il  passo  del  Fiiìdusi  cit.  dal  Kohler  nella  traduzione  dello  Schack, 
possiamo  rimandare  alla  traduzione  italiana  del  Pizzi,  liacconti  epici,  To- 
rino, 1877,  pag.  450. 

(1)  Vigo,  n.  627.  Cfr.  Guastella,  Canti  popol.  del  circondario  di  Mo- 
dica, p.  88,  dove  però  il  3»  verso  dice:  Purtatimi  'na  seggia  di  rispetta. 

(•)  Imbriaxi,  Canti  p>opol.  di  Massa  Lombai-da  e  Varese,».'.  E  anche, 
ma  non  come  capoverso,  in  Mazzatinti,  ii.  108. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALL4NA.  175 

In  quel  principio  e'  vii  nojarn  poco; 
E  per  vedere  in  te  tanta  bellezza, 
15)  Credetti  che  l'amar  fosse  ìin  bel  (jiuco. 

È  il  Rispetto  toscano  che  dice  : 

Credevo  che  l'amor  fosse  un  bel  giuoco, 
Quando  l'incominciai  a  praticare; 
M' è  riuscito  una  lìaninia  di  fuoco, 
Che  non  la  spegneria  l'acqua  del  mare;  (') 

che  nel  Veneto  prende  questa  forma  pili  scherzosa: 

Credeva  che  l'amore  fusse  un  ziogo, 
Che  a'  fusse'  na  roba  da  magnare  : 
Adesso  che  la  vedo  e  che  la  pruovo, 
La  xe  'na  roba  da  considerare;  ('^) 

0  anche  : 

Me  vogio  maridar  :  so'  maridada  ; 
Credeva  de  star  ben:  so' sassmada  ; 
Credeva  che  l'amor  fusse  un  zogheto. 
Ma  invece  l'è  un  tormento  maledeto  : 
Credeva  che  l'amor  fusse  un  zogar, 
Ma  invece  l'è  un  tormento  da  crepar.  (^) 

Dipoi  ni'è  sempre  accresciìito  vaghezza, 
Ch'io  dicea  meco:  a  goder  quel  bel  viso, 
18)  Se  tu  sapessi  qnant'egli  è  dolcezza! 

Questo  verso  ci  può  dar  testimonianza  della 
popolarità  che  ebbero,  e  tutt'ora  conservavano  un 
secolo  appresso,  i  Rispetti  del  Poliziano,  poiché  di 
lui  è  quello  che  così  appunto  comincia: 

Se  tu  sapessi  quanto  è  gran   dolceza 
Un  suo  fedele  amante  contentare. 


(1)  TitJEi,  11.  Só.t;  Giuliani.  Moralità  e  Foesia  ecc.,  pag.  262.  Cfr.  Vigo, 
11.  1350:  Tu  ti  credeyinu  chi  l'amuri  è  jncu  ecc.  E  un  Canto  c:ilabiese  in 
Lombroso,  Tre  mesi  in  Calabria  (lìivlut.  Conttnipor.,  voL  XXXI,  p.  41.5, 
decembre  1863):  Tu  ti  cridivi  cri  l'amore  è  gioco:  L'an>ore  è  foco,  e  non  si 
X>Ho  sfittare.  E  nell'Istria:  Credilo  che  l'aniure  fuosso  un  zoyo,  Ch'tl  fuosso 
qualche  citossa  da  mangiar  ecc.:   IvE,  p.  145. 

(2)  Garlato,  p.  283. 

(3)  Dal  Medico,  pag.  157.  Cfr.  Beexom,  piiiit.  Il,  n.  03. 


176  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Gustare  e'  modi  suoi,  Li  geutileza, 
Udirlo  dolcemente  sospirare: 
Tu  porresti  da  canto  ogni  dureza, 
E  diresti:   una  volta  i' vo' provare  ; 
Quando  una  volta  l'avessi  provato, 
Tu  ti  dorresti  aver  tanto  indugiato.  (') 

Tanto  che  a  lìoco  a  poco  io  sono  ucciso, 
Anzi  fili  ìììorto,  a  quel  che  di'  indorino, 
21)  Quando  nascesti,  fior  del  j^aradiso. 

Abbiamo   qui   uno   dei   piìi  noti   fra   i    Rispetti 
odierni  del  contado  : 

Quando  nascesti,  fior  di  paradiso, 
A  Roma  vi  portonno  a  battezzare  : 
11  Papa  santo  vi  scoprì  il  bel  viso, 
E  grazia  chiese  d'esservi  compare;   C^} 

Vostra  madre  vi  vedde  tanto  bella. 
Nome  vi  messe  la  diana  stella  : 

Vostra  madre  vi  vedde  tanto  cara, 
Nome  vi  messe  la  stella  diana,  (^j 

Ma  si  trova  già.  frammisto  ad  altre  scritture. 
in  uno  scartafaccio  di  un  notaio  del  sec.  XV: 

Quando  nasciesti,  o  fior  del  paradiso. 
Fusti  portata  a  Roma  a  battezzare. 
El  papa  quando  ti  scoperse  il  viso, 
Chiese  di  grazia  d'esser  tuo  compare, 
E  la  tua  madre,  graziosa  e  bella. 
Ti  pose  nome  la  diana  stella.  C) 


1)  Ediz.  cit.,  pag.  244. 

('-')  Migliore  perchè  di  andamento  più  natnrale,  la  lezione  da  me  rac- 
colta: Il  santo  padre  vi  scoperse  il  viso  E  chiese  grazia  ecc. 

(3)  Tommaseo,  C.  pop.  tose.,  pag.  .58:  Tigri,  n.  87.  Cfr.  Maecoaldi.  C. 
popol.  umbri,  n.  1.5;  Mazzatinti,  n.  39;  Mandai.aei,  ^?<rt  Canti  ecc.  n.  ."l-ì; 
C'ALIAI!!,  p.  ."ÌS.  Una  variante  toscana  da  me  raccolta: 

E  lo  tuo  babbo  clfera  un  buon  garzone 
Ti  messo  nome  la  spera  del  sole: 

E  lo  tno  nonno  ch'era  nn  vecchio  antico 
Ti  mosse  nome  fior  del  Paradiso. 

(<)  Alvisi,  liispetti  del  sec.  XV,  Ancona,  CivcUi,  1880,  n.  .3. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALLA.XA.  177 

Non  posso  stare  in  casa,  e  fuor  cammino;  (') 
E  però  mi  vien  detto  a  tutte  l'ore: 
24)  Madonna,  io  mi  son  fatto  peìlegrino. 

Il  seguente  Canto  che  trovasi  in  certe  Raccolte 
semipopolari  a  stampa,  delle  quali  ampiamente  di- 
remo in  appresso,  sembra  variante  o  derivazione  di 
quello  che  cominciava  coll'ultimo  verso  trascritto  : 

Finger  mi  voglio  un  dì  da  Pellegrino, 
Venuto  da  paesi  assai  lontano  : 
Poi  voglio  accostarmi  a  voi  vicino, 
Chiedendovi  pietà  di  un  cristiano; 
Quando  vorrete  darmi  qualche  quattrino, 
Vi  stringerei  nel  prenderlo  la  mano, 
E  mi  farei  chiamar  fedele  amante, 
Tanto  fedel  per  voi,  tanto  costante.  (-) 

Che  cosa  avrebbe  fatto  l'amante  vestito  da  pel- 
legrino, lo  dice  questo  Canto  popolare  siciliano: 

Curuzzu,  pri  putirivi  parrari 
Bisogna  ca  mi  vesta  pillirinu  ; 
Di  arreri  la  tò  porta  addimannari  ; 

—  Faciti  la  limosina  a  un  mischinu.   — 

—  Figghiuzzu,  'un  haju  nenti  chi  vi  dari, 
Cca  non  mi  trovu  ne  pani  nò  vinu  : 

La  sula  cosa  ti  putissi  dari 

Lu  rizzettu  pri  sinu  hi  mattina  ; 

E  a  lu  mattinu  ti  vegnu  a  shugghiari  : 

—  Susi,  viddanu,  ca  ha  fari  camminu.  — 

—  Non  su'  viddanu,  no,  su'  cavaleri  ; 
Lu  tò  amuri  mi  ha  fatta  pillirinu  —  (') 


(1)  Cfr.  Vino,  11.2104:  Xun  imzzu  citniirtari  na  nuttata,  Mi  shsh  ililu 
lettu,  e  nesciii  fora. 

(2)  Vedi  ImbriANI,  C.  popol.  pror.  merid.,  Il,  2-Ì5.  Cfr.  Mine  caglio 
fare  Monaco  remito,  in  Imbkiani,  C.  p.  di  Marìgliano,  il.  11:  un  Cinto 
greco  di  Castrignano  in  Morosi,  n.  90,  e  Molinaei,  C.  p.  ìictpoL,  n.  222  e  230. 
e  C.  pop.  di  Meta,  n.  47. 

(3)  Vigo,  n.  2G3.  Cfr.  Pitkè,  C.  pop.  sicil.,  J,  228. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  itaì.  —  12 


178  LA   POESIA    POPOLARE   ITALIANA. 

E  nelle  provincie  meridionali: 

r  n'  aggio  conime  fa  ppe  te  parlare, 

Vestire  nime  nge  voglio  cappuccino  ecc.  (') 

Pìglio  licenza,  e  dico  in  un  colore, 
Come  se  mi  si  fusse  sparto  il  fiele: 
27)  r  mi  parto  da  te,  madre  d'amore. 

Ma  che  mi  giova  per  alzar  le  vele 

Standomi  in  porto:  tu  se' la  mia  stella, 
20)  0  fancinlletta  di  casa  crudele  ! 

E  quest'epiteto  ci  fa  venire  a  mente  il  principio 
di  una  Canzone  siciliana: 

Finestra  tli  'na  cammara  crnilili, 

(Juantu  sospiri  mi  hai  fatti  jittari.  (') 

Il  cuor  nel  petto  mi  batte  e  martella 
Per  gelosia,  e  dico  a  ogni  jìcrsona  : 
83)  Chi  goderà  la  tua  persona  bella  ? 

Qui  giova  ricordare,  pel  concetto  se  non  per  le 
parole,  il  primo  dei  riferiti  Rispetti  del  Cod.  peru- 
gino Clìi  ara  cotanta  grazia  ecc.,  e  richiamare  anche 
questa  ottava  della  Nencia  : 

Ben  si  potrà  tenero  avventurato 
Chi  sia  marito  di  sì  bella  moglie  : 
Ben  si  potrà  tenere  in  buon  dì  nato 
Chi  ara  quel  fìoraliso  senza  foglie; 
Ben  si  potrà  tener  santo  e  beato 
Chi  si  contenti  tutte  le  sue  voglie 
D'aver  la  Nencia,  e  tenersela  in  braccio, 
Morbida  e  bianca,  che  pare  un  sugnaccio. 


(1)  Imbeiani,  C.  pnpol.  prov.  meridion.,  II,  2i.S.  Per  travestimenti  drl- 
ram.iiite  in  pellegrino,  vedi  Imbkiani,  I,  n.  182,  3.30;  Tigiìi,  025,  1130;  Fek- 
RARO,  C.  popol.  moiiferr.,  n.  25,  e  C.  pop.  di  Lagose,  n.  76  ;  Bernoni,  punt. 
IX,  n.  7,  e  Tradizioni  popolari  veneziane,  p.  30;  Bolza,  n.  56  e  AVidtek- 
WoLF,  n.  95. 

{-)  Vigo,  n.  1394:  cfr.  n.  937:  Piteè,  C.  popol.  sic,  I,  p.  244;  Avolio, 
num.  92. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAXA.  179 

E  questo  Rispetto  attribuito  al  Pulci: 

Quanto  felice  in  vita  sarà  quello 
Che  potrà  tua  persona  possedere  ! 
D'esser  tuo  sposo  e  di  darti  l'anello 
Certo  felice  si  potrà  tenere, 
D'aver  in  sua  balìa  corpo  sì  bello 
Sì  come  il  tuo,  né  debba  altro  volere 
Che  tener  te  per  legittima  sposa. 
Che  fu  né  sarà  mai  si  bella  cosa!  (') 

E  per  ultimo  questo  Rispetto  popolare  toscano: 

E'  chi  vi  goderà,  palmina  d'oro  ? 
E  chi  vi  goderà  palma  d'argento? 
E  chi  vi  goderà,  ricco  tesoro  ? 
Chi  sarà  quello  che  avrà  il  cuor  contento? 
E  chi  vi  goderà  potrà  ben  dire 
D'avere  il  paradiso,  e  non  morire.  (^) 

Altre  rassomiglianze  offrono    tuttavia  questi   altri 
Canti  toscani  : 

La  mattina  pel  fresco  é  un  bel  cantare. 
Quando  le  dame  si  senton  d'amore, 
E  stanno  'n  su  quell'uscio  a  ragionare  : 

—  Chi  l'avirà  di  noi  quel  bel  garzone  ?  — 
E  stanno  in  su  quell'uscio  a  far  consiglio  : 

—  Chi  l'avirà  di  noi  quel  fresco  giglio?  (") 


E  le  vostre  bellezze  vanno  in  Francia, 
Saigon  le  scale  dell'  Imperatore  ; 

Saigon  le  scale  dell'Imperatrice, 
Chi  avrà  del  vostro  amor  sarà  felice  ; 

Saigon  le  scale  dell'  Imperatore, 
Felice  chi  averà  del  vostro  amore  !  ("') 

Oh  Dio,  chi  goderà  tante  bellezze?  (^) 


(1)  Ediz.  Zenatti,  n.  83,  p.  26. 

(2)  Tigri, n.  146.  Cfr.  Mazzatinti.  n.  29  :  Chi  se  la  goclo-à  sta  giovinetta  ecc. 

(3)  TlGEI,  u.  29. 
C)  Id.,  n.  61. 

(■')  Id.,  11.  220;  Tommaseo,  p.  -372. 


180  LA   POESIA  POPOLARE  ITALL^NA. 

E  questo  veneziano  : 

Sia  beiiedeto  chi  t'à  messo  al  moiulo, 
E  chi  t'à  fato  nasser  cussi  bela! 
Ma  chi  te  adorerà,  viseto  tondo, 
E  chi  te  basarà  la  boca  bela?;  (') 

che  a  Chioggia  suona: 

Benedir  vogiu  chi  t'à  messo  al  mondo, 
Nassere  chi  t'à  fato  tanto  bela, 
E  chi  t'à  fato  quel  viseto  tondo: 
Ma  chi  te  godarà,  vita  mia  bela?(^) 

E  nelle  Marche: 

Chi  ve  la  toccherà  'ssa  bianca  mano, 
Chi  ve  lo  metterà  l'anello  d'oro  ?  (^) 

E  neir  Istria  : 

E  chi  vi  culgerà,  rusa  mia  bela?  (^) 

Non  mi  posso  'pif/^io'^  pia  uno  spasso, 
E  non  fo  altro  mai  die  sospirare: 
36)  0  me  meschino,  o  me  misero  lasso  ! 

Vorrei  jìoterti  il  mio  dolor  mostrare; 
Deh,  così  come  il  cuor  m'arde  e  saetta, 
39)  Volesse  amor  che  si  potesse  fare! 

Tante  cose  si  possono  voler  fare  coU'aiuto  di 
Amore,  di  Dio  e  del  cielo,  che  riesce  difficile  indo- 
vinare ciò  che  appunto  si  desiderava  dopo  questo 
capoverso.  Questo,  ad  esempio,  in  Toscana  : 

Volesse  il  ciel  che  si  potesse  fare 
Tutto  quello  che  viene  in  fantasia  ! 
Le  case  si  potesser  tramutare. 
Io  volentier  tramuterei  la  mia. 
In  un  bel  piano  la  vorrei  portare 
Dove  risiede  la  speranza  mia  ; 


(!)  Dal  Medico,  p.  40. 
(•■!)  Garlato,  p.  202. 

(3)    GlANANDEEA,    p.    75. 
:4)  IVE,  p.  84. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  181 

Dove  risiede  ]a  speranza  e  il  core, 
Prima  morir  che  abbandonarti,  amore.  (') 

E  un  Canto  marcliigiano,  che  però  non  ha  forma 
alcuna  dialettale,  esprime  press'  a  poco  lo  stesso 
desiderio  : 

Volesse  Dio  che  si  potesse  fare 
La  casa  vostra  vicino  alla  mia; 
Uno  alla  porta  e  l'altro  alla  finestra, 
Oh  Dio  che  bello  amore  che  sarìa  !  (^) 

Uno  di  Montefiascone  contiene  un  augurio  di  ricon- 
ciliazione : 

0  Dio  del  cielo,  se  potessi  fare 

Di  tornare  a  far  pace  co'  sta  bella! 
Quando  l' incontro  non  mi  vuol  parlare, 
Subitamente  abbassa  gli  occhi  a  terra.  {^) 

Nel  Veneto  invece  si  vorrebbe  una  cosa  impossibile: 

0  Dio  del  ciel,  che  se  podesse  fare 
Un  péto  d'oro  imbotona'  de  arzento, 
Che  se  podesse  verzere  e  serare 
Per  veder,  bela,  chi  gk  '1  cuor  contento.  (■*) 

E  più  strano  desiderio  è  quello  significato  in  un 
Canto  di  Spinoso  : 

0  Dio,  0  Dio  !  e  si  putesse  fare 
Di  li  pasturi  'na  bella  muria  ! 
Li  picurello  li  dami  a  guardare 
Ma  li  muglieri  li  guardami  nui.  (^) 

Ho  bene  scritto  in  ima  pìstoletta 

Quant'  io  son  tuo,  e  te  l'avì-ei  ìiiandata 
42)  Se  tu  sapessi  leggere,  o  brunetta. 


(1)  TiGEi,  11.  869. 

(2;  GiANANDREA,  p.  .54.  Il  solo  priuio  verso  in  De  King,  C.  pop.  ìciìjì- 
ìiesi,  p.  21. 

(3)  Maesiliani,  11.  14.5. 

(i)  Dal  Medico,  p.  18,  e  C.  del  piop-  (^>  <^'hiog(jia,  n.  27;  Beknoxi.  II,  2C. 

(S)  IMBRIANI,  II,  68. 


182  LA  POESIA  POPOLARE  ITALU.NA. 

Ma  che  bisogna  lettera  o  aiìibasciata  9 

Stìi  vuoi  saper  come  Amor  m'ha  governo, 
45)  Apri  quella  finestra,  eh' è  serrata. 

E  questo  evidentemente  dev'esser  l'antico  lìispetto 
del  codice  perugino,  che  pili  oltre  sarà  da  noi  riferito, 
e  clie  nel  codice  ha  il  numero  81: 

Apri  la  tua  finestra  eh' è  serrata 
Fatti  di  fuori,  o  pellegriu  falcone  ; 
Non  è  ora  eh' a  letto  sia  andata, 
Deh,  fatti  alla  finestra,  o  car  signore, 
E  udirai  la  nostra  serenata, 
La  quale  è  fatta  sol  per  lo  tuo  amore, 
E  udirai  cantar  nostri  Rispetti, 
Che  so,  fanciulla,  che  te  ne  diletti. 

Né  molto  diverso  è  il  principio  del  Canto  seguente 
marchigiano  : 

Tfacciate  alla  finestra  rinserrata, 
'Ffacciate  fuori,  specchio  de  valore  : 
Tu  ne  stai  nella  stanza  rinserrata, 
lo  sto  de  fuori  collo  raffreddore  : 

Tu  te  ne  stai  su  quel  letto  de  penne. 
Io  sto  de  fuori  a  contempla'  le  stelle; 

Tu  te  ne  stai  su  quel  letto  de  piume. 
Io  sto  de  fuori  a  contempla' lo  lume.  (^) 

E  il  verso,  presso  a  poco,  trovasi  anche  in  questo 
Canto  napoletano  : 

Susate,  Nenna  mmia,  de  'sto  suonno, 
Troppo  'nce  si'  stata  a  lo  repuoso  ; 
Apri  la  finestra  eh'  haie  richiusa, 
'Assa  asci  l'addore  re  rosa.  (") 

Io  tremo  a  mezza  state  e  sudo  il  remo; 
E  parmi  poter  dir  j)er  setnpre  mai  ; 
48)  Fortuna,  tn  ni'  hai  messo  nel  cpiaderno. 


(1)  GlANANDKEA,    p.lg.    129. 

(2)  Imbkiani,  Canti  popol.  prov.  mei-idion. ,  I,  137.  Un  Canto  di  Mon- 
tella (Capojje,  n.  10)  comincia:  Ain-iti  sse  fenestre  cu  so  chiuse  ecc.  Molti 


LA  POESIA   POPOLARE  ITALIANA.  183 

E  qui  ecco  una  prova  della  uotorietà  che  ebbero  a 
tempo  loro  gli  Strambotti  di  Serafino  Aquilano,  uno 
dei  quali  appunto  comincia  così: 

Fortuna,  tu  m' liai  posto  in  quel  quinterno  (') 
Ove  tu  scrivi  gli  altri  sventurati, 
Li  qual  non  han  mai  bene  in  sempiterno, 
Perchè  di  libertà  lor  soa  privati, 
Sì  come  scrisse  Dante  nell'  Inferno  : 
Lassate  ogni  speranza,  voi  ch'entrati  ; 
Lassate  ogni  speranza  con  gran  pene. 
Che  in  sempiterno  non  arete  bene.  (^) 

E  se  'l  vedermi  non  ti  pare  assai. 
Mentre  ch'io  canto  la  mia  2)(iss'ione, 
Deh,  fatti  alla  finestra,  e  iidirai. 

E  anche  qui  viene  a  mente  il  Rispetto  che  nel 
codice  perugino  ha  il  numero  15,  e  pili  oltre  riferi- 
remo intero  : 

Affacciati,  signora,  e  udii  ai 

Costui  che  par  che  tanto  pianga  forte  ecc.; 

che  ricorda  la  mossa  di  un  Canto  siciliano: 

Affaccia  alla  finestra,  ascuta  e  senti, 
Ca  sti  canzuni  li  cantu  pri  tia.  (^) 

E  se  non  hai  di  me  compassione 
Di  vedermi  in  tal  modo  consumare, 
Tu  se'  pia  cruda  che  non  fu  Sansone. 

Verso  che  forse  è  errato  nel  nome  :  nel  qual  caso 
gli  corrisponderebbe  un  Rispetto  de'  perugini  : 


Canti,  comuni   a  diverse   regioni,    cominciano  :  Finestra   che   di   notte   stai 
serrata:  v.  Garlato,  p.  226;  Maesiliani,  n.  28  ecc. 

(')  Sulla  forma  :  metter  nel  quaderno  o  quinterno  o  libro  ecc.  :  vedi 
RuBlEHi.  pag.  21-t,  n.  5.  In  un  cod.  pesarese:  Scripto  m'ha  la  fortuna  al 
suo  quaderno  (A.  Saviozzi,  liime  ined.  del  sec,  XV,  Bologna,  Fava  e  Ga- 
ragnani,  1893,  p.  17). 

(2)  Opera  dell'elegantissimo  Seeaphino  etc.  Vinetia,  Bascarini,  1548, 
e.  177. 

(3)  Vigo,  n.  1240. 


184  LA  POESIA  POPOLARE  ITALLA.NA. 

Tu  se'  più  cruda  che  non  fu  Nerone, 
E  se'  più  cruda  che  non  fu  Mezeiizio. 

Il  del,  l'aria,  la  terra,  il  fuoco,  e  il  mare 
Piangeri  vieco  a  cald'occlii,  e  conte  vedi, 
57)  La  luna  s'è  venuta  a  lamentare. 

Principio  di   una  delle   ])iù  artificiose  Canzoni  to- 
scane : 

La  luna  s'  è  venuta  a   lamentare 
In  de  la  faccia  del  divino  Amore; 

Dice,  che  in  cielo  non  ci  vuol  più  stare, 
Che  tolto  glie  l'avete  lo  splendore; 
E  si  lamenta,  e  si  lamenta  forte: 
L'ha  conto  le  sue  stelle,  e  non  son  tutte; 
E  glie  ne  manca  due,  e  voi  l'avete; 

Son  que'  du'  occhi,  che  in  fronte  tenete.  (^) 


(1)  Tigri,  ii.  79.  Cfr.  ii.  163: 

Io  l'ho  sentita  a  lamentar  la  luna, 
Ha  ditto  ciie  le  manca  le  sue  stelle... 
Son  'sti  begli  occhi  che  portate  in  fronte  eco. 

E  nel  GiANASiiEEA,  pag.  71  (ofr.  Marcoaldi,  Guida  eli  Fabriano,  III,  n.  07); 

Guarda  nel  cielo  ce  manca  du"  stelle. 
Quelle  che  manca  le  portate  voi, 
E  le  portate  li  ss'oechi  galanti, 
Senza  du'  stelle  '1  sole  non  va  avanti  ecc. 

E  anche  nel  Marcoaldi.  C.  popol.  piceni,  n.  6  (cfr.  anche  78): 

Bella,  lo  sole  te  farà  citare: 
Dice  gli  avete  tolto  lo  splendore; 
Anche  la  luna  ce  vuo'  ragionare, 
Gli  avete  tolto  du'  stelle  d'amore. 

E  in  Marcoaldi,  C.  popol.  nnibri,  n.  84  (cfr.  Mazzatinti,  n.  CU  e  C'aliaki, 
p.  38): 

La  luna  sta  su  'n  cielo  e  s'allamcnta, 

E  dice  che  glie  mancano  le  stelle: 

Le  stelle  che  glie  mancano  so'  due. 

So'  li  bell'occhi  che  portate  voi  ecc. 

Anche  in  Sicilia  (Vigo,  n.  458): 

E  di  lu  celu  scisiru  du'  stiddi, 
E  sunu  chissi  ca  'nfrunti  purtati. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  185 

//  cuor  mi  carerò,  se  tu  me  'l  chiedi, 
AiiDiiazzerènii,  s'io  ti  contentassi; 
60)  Che  viioi  ch'io  faccia  se  non  ine  lo  credi? 

Arebbon  piii  pietà  le  fiere  e'  sassi; 

Tanto  ch'io  sto  pei'  gridar  coni'un  pazzo: 
63)  Vorrei  che  tutto  'l  mondo  rovinassi. 

E  anche  questo  verso  doveva  esser  comincia- 
mento  di  Canzone  popolare:  se  non  che  mi  è  dato 
soltanto  di  rammentare  questo  Canto  ligure,  che  ne 
ritrae  un  poco: 

Vurreiva  che  'r  imintagne  peifundassa, 
E  i  Muufenin  fuss' a  la  bella  siimna: 
Ch' u  perfundasse  mezzu 'r  Ca.stellazzu, 
Ra  casa  del  mi'  amur  ra  beila  piimma.  (') 

Tal  twJta  cerco  di  pigliar  sollazzo, 
E  dico  meco  per  nn  vie  di  dire: 
66)  T  son  disposto  di  fare  un  palazzo  ; 

E  probabilmente  il  principio  di  questo  Canto  toscano: 

In  alto  in  alto  vo'  fare  nn  palazzo, 
In  alto  in  alto,  sulla  bella  altura. 
A  ogni  finestra  vo'  tendere  nn  laccio, 
A  tradimento  per  tradir  la  luna: 

A  tradimento  per  tradir  le  stelle. 
Perchè  restai  tradito  dalle  belle; 

A  tradimento  per  tradire  il  sole, 
Perchè  restai  tradito  dall'amore.  (^) 


Cfr.  pure  Lizio-Beuno,  C.  i^opol.  Isol.  EuL,  p.  208-9.  E  a  Venezia  (Bernoni, 
punt.  6,  n.  5;  cfr.  Dal  Medico,  p.  30): 

Gennaro  con  Febraro  se  lamenta 

Che  a  quei  do  mesi  gà  manca  do  stele: 
La  mia  morosa  gà  do  oeeti  in  testa, 
Clie  le  mi  par  clie  le  sia  proprio  quele. 

Cfr.  IvE,  p.  43,  e  Villanis,  XXV  Sti:,  n.  25. 

(1)  Marcoaldi,  C.  popol.  liguri,  n.  42.  Cfr.  un  C.  popol.  lucchese  re- 
cato dal  Giannini,  p.  65:  La  sti-ada  di  Tereyìio  npi-of ondasse,  Un  bastimento 
d'acqua  ci  venisse,  Tutte  le  male  lingue  l'affondasse. 

(-)  Tigri,  n.  1128.  Cfr.  Vigo,  n.  514:  Vurria  fari  'n  palaszu  supra  nn 
munti  ecc. 


186  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Se  piuttosto  l'antico   Canto  non   è  questo,  vivente 
ancora  nell'Umbria: 

Me  so'  disposto  ile  fare  'n  palazzo 
E  fabbricato  de  'na  grande  altura; 
Atomo  atorno  ce  vojo  mette  'n  laccio 
Per  tradimento  ce  chiappo  la  luna: 
E  ce  chiappo  la  luna  e  po'  lo  sole. 
Da  già  ch'io  so' tradito  da  l'amore; 
E  ce  chiappo  la  luna  co'  le  stelle, 
Da  già  che  so'  tradito  da  le  belle;  (') 

che  nelle  Marche  conserva  solo   il   primo  verso,   e 
prosegue  in  altro  modo: 

Me  so'  disposto  de  fare  'n  palazzo, 
Le  mura  d'oro  e  le  porte  di  sasso  : 
Me  se'  disposto  de  fare  un  castello; 
Le  mura  d'oro  e  le  porte  di  ferro;  (^) 

0  anche: 

Io  son  disposto  a  fare  un  convento, 
Le  porte  d'oro  e  le  mura  d'argento: 
Io  son  disposto  a  far  un  palazzo, 
Le  porte  d'oro  e  le  mura  di  sasso.  (') 

E  viver  lieto;  e  poi  ritorno  a   dire: 
Io  va'  la  morte;  e  così  tuttavia, 
69)  Vorre'  morire,  e  non  vorre'  morire. 

Anche  qui  ò  il  caso  di  un  canto  de'  più  noti  e 
diffusi.  (*)  In  Toscana  si  dice: 

Vorrei  morir  di  morte  piccinina. 
Morta  la  sera  e  viva  la  mattina. 
Vorrei  morire  e  non  vorrei  morire, 


(1)  Mazzatinti,  n.  340. 

{-)  GiANANDEEA,  pag.  188.   Cfr.  p.  213.  E  vetli  anclie  Rondini,  p.  IC. 
(3)  Rondini,  p.  C7. 

(■»)  Anche  G.  B.  Verini,  poeta  rimasto  popolare,   comincia  una  sna 
ottava  della  Crudeltà  d'amore  dicendo: 

Bramo  la  morte  e  non  vorrei  morire. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  187 

Vorrei  veder  chi  mi  iiiauge  e  chi  ride;  (^) 
Vorrei  morire  e  non  vorrei  la  morte, 
Vorrei  veder  chi  mi  piange  piti  forte; 
Vorrei  morire  e  star  sulle  finestre, 
Vorrei  veder  chi  mi  cuce  la  vesto; 
Vorrei  morire  e  stare  sulla  scala. 
Vorrei  veder  chi  mi  porta  la  bara; 
Vorrei  morire,  e  vorre'  alzar  la  voce, 
Vorrei  veder  chi  mi  porta  la  croce.  (-) 

E  scambiati  di  luogo  qua  e  là  i  versi,  cosi  presso  a 
poco  dicono  gli  Umbri,  {^)  quei  della  Valle  padana,  (*) 
i  Trentini,  f)  i  Meridionali,  C')  i  Liguri,  (')  i  Veneti,  (^) 
i  Marchigiani,  ('■*)  i  Romagnoli,  (^")  gli  Istriani  e  i  Dal- 
mati. C^)  E  un  consimil  concetto  esprimono  alcune 
Villette  friulane: 

Uèi  muri  d'une  muart  hielle. 

Par  torna  a  risussità: 

Uèi  fa  scrivi  in  somp  de  casse 

Ch'  'o  soi  muart  innamora,  ('^) 
Volintìr  mi  viodaressis 

Sulla  brèe  distiràt  : 

E  pò  dopo  In  diressis 

Che  soi  muart  innamorat.  C'^) 


(1)  Questo  desiderio  di  parer  morti  per  vedere  chi  ne  piange  e  chi  n'è 
lieto,  trovasi  anche  in  un  distico  popolare  greco:  Maecellxjs,  Chants popul. 
de  la  Gflce  moderne,  Paris.  Lévy,  1860,  pag.  261. 

(2)  Tigri,  n.  507;  cfr.  Giannini.  Cpop.  tose,  p.  172,  321. 

(3)  Makcoaldi,  n.  49;  Mazzatinti,  )i.  217. 

(*)  Ferearo,  C.  popol.  race,  a  Pontelagoscnro:  n.  19  delle  Homanele. 

(5)  Zenatti,  C.  2}opol.  trentini  del  sec.  XVI,  Trento,  Zippel,  1891,  p.  6. 

(8)  Imbriani,  C.  popol.  prov.  merid.,  I,  p.  271  ;  Finamore,  II,  n.  479-80; 
Se  verini,  p.  16.5. 

C)  Marcoaldi,  n.  8. 

(8)  Bernoni,  punt.  VI,  n.  37;  punt.  VII,  n.  13;  Garlato,  p.  342;  Ca- 
i.lARi,  p.  68-69. 

^o)  GiANANDBEA,  pag.  176.  Nella  Lezione  di  Porto  S.  Giorgio,  raccolta 
dal  GiANANDREA,  11  canto  comincia  appunto:  Vorria  morire  e  non  vorria 
morire, 

(10)  Pergoli.  n.  396. 

(")  IVE,  p.  125;  ViLLANlS,  XXr  Stramb.  sarai.,  n.  20. 

(12)  Arboit,   Villotte  friulane,  n.  104. 

(13)  ID.,  n.  152. 


188  LA  POESIA  POPOLARE  ITALLIXA. 

Uèi  muri  t'una  manieia 
De  torna  a  ri^iissità; 
Par  torna  inceniò  una  volta 
Cui  lìo  ben  a  fevellà.  (') 

Talvolta  fìipr/o  oìid'io  so  che  tti  sia, 
Ma  tosto  tosto  par  che  'l  cìior  si  penta, 
82)  E  veiigoti  a  vedere,  anima  mia. 

E  il  primo  verso  di  uno  dei  Bispetti  a  Tishe,  qui 
addietro  riprodotto,  insieme  colla  lezione  odierna: 

Vengoti  a  rivedere,  anima  mia; 

del  quale  l'esistenza  ci  è  confermata  dalla  Landa: 

V^engoti  a  visitare,  anima  mia,  ^ 

E  vengoti  a  picchiar  l'uscio  del  cuore. 

che  gli  aveva  usurpato  la  musica.  (') 

E  quella  cosa,  che  sì  mi  tormenta 

Cerco  mostrarti,  e  dico:  0  volto  umano, 
75)  Eccomi  qui  venuto,  or  ti  contenta. 

Se  poi  tu  non  mi  accetti,  tanto  strano 

Mi  ^xn",  ch'io  manco:   e  pare  il  fatto  mio 
78)  Quando  la  rocca  ha  perso  il  castellano. 

Ricorda,  ma  veramente  un  po'  dalla  lontann. 
quel  Rispetto  toscano  che  dice: 

E'  mi  son  messo  a  fabbrica'  un  castello, 
Credevo  d'esser  vero  castellano: 
Quando  l'ho  fabbricato  e  fatto  bello. 
M'hanno  levato  le  chiavi  di  mano. 

Ed  io,  meschino,  che  l'ho  fabbricato 
Con  pianti  e  con  sospiri  l'ho  lasciato; 

Ed  io,  meschino,  che  lo  fabbricai, 
Con  pianti  e  con  sospiri  lo  lasciai.  (^) 


(1)  ID.,  n.  491. 

(-)  Laude  spiriluali,  ediz.  G.illettì,   Firenze,  Goccili,  1864,  p.  37. 
(3)  Lezione  nis.  presso  di  me.  Gir.  Tioiu,  n.  1166;  Tommaseo,  p.  320; 
Giannini,  p.  125;  A.  Giannini,  C.  p.  pisani,  n.  68;  FiLirriNi,  n.  19;  Men- 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  189 

Per  la  tua  guerra  alla  morte  m'invio; 
Se  tu  vuoi  dunche  mantenermi  in  vita, 
81)  Facciam  la  pace,  caro  l'amor  mio. 

Con  lieve  differenza  è  il  Rispetto  che  dice: 

Facciam  la  pace,  caro  bene  mio, 

Che  questa  guerra  non  può  piìi  durare: 

Se  non  la  vói  far  tu,  la  farò  io: 

Fra  me  e  te  non  ci  è  guerra  mortale; 

Fanno  la  pace  principi  e  signori, 
Così  la  posson  far  due  amatori:  (^) 

Fanno  la  pace  principi  e  soldati, 
Così  la  posson  far  due  innamorati: 

Fanno  la  pace  principi  e  tenenti. 
Tanto  la  posson  far  du'  cor  contenti.  (-) 

Saresliti  in  mai  persa  o  snnirrita? 

Non  vai  pia  fuori,  ed  io  sempre  t'aspetto: 
84)  Gentil  fanciulla,  se' fatta  romita? 

Non  molto  diversamente  il  Canto  toscano: 

E  la  mi'  dama  s'è  fatta  romita. 
Da  nessun  lato  la  vedo  affacciare: 
Una  vecchiaccia  me  l'ha  convertita: 
Ah  se  la  trovo,  la  vo'  scorticare! 

La  voglio  scorticare  per  le  spalle 
Per  far  la  mangiato'  alle  mi'  cavalle.  ('') 


GHiNi,  11.  246;  Metalli,  Usi  e  costumi  dalla  camp,  romana,  Roma,  tip.  popol.. 
1903,  p.  127.  Vedi  inoltre  Vigo,  n.  1972,  .3120;  Avolio,  n.  365;  Imbriani,  Canti 
popol.  calahr.,  il.  10. 

(1)  Cfr.  Salomone-Marino,  ii.  447;  De  Xino,  png.  27;  Makcoaldi,  Canti 
popol.  liguri,  n.  66. 

(2)  Tigri,  ii.  810. 

(3)  Tommaseo,  p.  22.  Cfr.  Tigri,  n.  1130: 

Voglio  andare  a  rimettermi  eremita. 

Andrò  pellegrinando  a  far  viaggi, 

Per  non  tradir  me  stesso  e  la  mia  vita. 

Cfr.  Imbriani,  Canti  popol.  di  Marigliano,  n.  37:  Bella  figliola,  fatte  remi- 
tella  ecc. 


190  LA  POESIA  POPOLAEE   ITALIANA. 

E  COSÌ  pure  questo  siciliano: 

Alleila  santa,  si' fatta  niniita! 

'Ntra  ssa  finestra  non  ci  affacci  mai; 
Si  tu  ci  affacci,  mi  duni  la  vita, 
Si  su' nialatu,  sanali  mi  fai.  (') 

Ma  s'io  avessi  a  comporre  un  Eispelto, 
Alla  tua  ìììadre  io  Io  vorrei  cantare: 
87)  Venir  ti  possa   il  diavolo  allo  letto. 

È  la  Canzone  che  canta  Callimaco  nella  Man- 
dragora, (')  quando  fa  da  garzonaccio  sciocco: 

Venir  ti  possa  il  diavolo  allo  letto 
Da  poi  che  non  ci  posso  venir  io;  (^) 

vivente  ancora  nelle  Marche: 

Che  possa  veni'  '1  diavolo  al  tuo  letto, 
Giacché  venire  non  ce  posso  io: 
Te  possa  rompe'  l'ossa  dello  petto, 
Tutte  le  membra  che  t'ha  fatto  Iddio.  (^) 

E  nell'Istria: 

Puossa  vignei  lu  diavolo  a  In  lietu, 

Cusseì  che  ti  nu' vuoi  ch'i'  vegnu  meìo; 
Te  puossa  ronpi  li  coste  del  pito, 
Doùte  li  menhra  che  t'uo  fato  Ideio.  (°) 


(1)  Vigo,  ii.  G67:  e  cfr.  1632,  2ST8,  e  218  n.;    Imbeiani,  I,  79-81,  lti3; 
Maecoaldi.  C.  popol.  piceni,  39;  Dal  Medico,  87. 

(2)  Atto  IV,  se.  9. 

(3)  È  r ultimo  dei  Bispetti  del  sec.  XV  tlell'ALViSi   (ofr.  Bililiot.  Leti, 
popol.,  I,  86),  in  corrotta  lezione: 

Venir  ti  possa  il  diavolo  allo  letto 
Da  poi  ch'io  non  vi  posso  venir  io 
E  ronipidi  due  costole  del  petto 
E  raltro  membra  che  t'iia  latto  Iddio; 
E  tiriti  per  monti  e  per  valli 
E  spicati  ci  capo  dalle  spalle. 

(■1)   GlANANDEEA,  pa.ff.  220. 
(6)  IvE,  p.  2  L'i. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  191 

Terrèla  chiusa,  e  favela  stentare; 
E  s'ella  si  guastasse  del  mio  amore, 
90)  Vorrei  come  Giansonne  poter  fare. 

È  pur  peccato  a  non  lasciar  ir  fuore 
Sì  bella  cosa,  o  ingrata  vecchierella ; 
93)  Non  redi  tu,  ch'io  uiìioio  di  dolor ei 

Qui  torna  a  mente  il  Rispetto  marchigiano  che 
comincia: 

0  veccliiarella,  eh' hai  'sta  hella  fìja, 
Te  la  domanno,  si  me  la  vuoi  dare.  (') 

La  ti  tien  chiusa,  e  andava  a  spasso  ella 
In  giovinezza:  ond'io  pur  ìììÌ  confondo, 
96)  Dappoi  ch'io  non  ti  posso  avere,  o  Iella. 

Se  tu  mi  domandassi,  io  ti  rispondo: 

Quand'un  brama  una  cosa,  e  puolla  avere, 
99)  Non  eie  il  piìi  bell'amore  in  questo  mondo. 

Ma  quando  io  mi  credetti  poter  bere 
Di  te,  un.  altro  si  cavò  la  sete; 
102)  Oh  me  mesc.hin,  che  giova  di  vedere! 

Per  le  immagini  dell'acqua  e  della  .sete,  ben  si 
adatta  a  questo  capoverso  il  Rispetto  toscano,  che 
ha  anche  quasi  lo  stesso  cominciamento: 

Cosa  mi  giova,  misera,  vedere 

L'acqua  chiara  in  una  bella  fonte. 
Vederla  chiara  e  non  poterla  bere, 
Non  si  potere  accostare  alla  fonte? 
Non  si  potere  accostare  alle  ciglia: 
Io  ho  l'amante  e  l'altra  me  lo  piglia; 
Non  si  potere  accostare  alla  prode; 
Io  ho  l'amante  e  l'altra  se  lo  gode.  (-) 

Ma  sotto  diverse  forme,  il  lamento  contenuto  nei 
versi  100-101  è  comunissimo  nella  poesia  popolare. 
In  Sicilia: 


(1)   GlANANDEEA,   \\   76.  Cfr.   TlGRI,   11.   946. 

(3)  Tigri,  n.  732. 


192  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 


Jeu  riie  'ddivatu  tanta  'na  lattuca, 
Autru  s'ha  fatta  'na  becUla  'nzalata.  (') 


Ovvero; 


Cavirnavi  'na  rrosa  damascena, 
Ch'era  'nvidia  di  tatti  li  iardina, 
Frisca,  verniigghia,  e  sbattanata  appena, 
Abbarsaniava  l'aria  vicina; 
A  la  strasatta  un  corva  ci  si  avvena, 
La  pizzulia,  la  spanipina  e  stramina; 
Quanta  perdisti,   o  rrosa  damascena, 
Quanta  mi  costa,  o  Dia,  la  tò  mina.  (-) 

Ed  anche: 

Era  picciottu,  e  curtivai  un  guardinu; 
Nun  mi  scantava  di  Sali  e  risenu: 
Tantu  hi  curtivai  sira  e  matinu, 
Nzina  cli'addiventau  jardinu  veru. 
Autri  ci  trasi  e  nesci  ri  cuntinu, 
Si  va  cuggliiennu  la  frutta  sirena; 
Er  io  cutngna  cuogghiu,  la  miscliinu, 
Catiigna,  ghilnsia,  tassi  e  bilenu!  (^) 

Questi  due  sono  del  Leccese: 

Me  misi  a  nutricare  na  cirasa 

Cu  li  miei  stenti  e  cu  la  mia  fatia: 
Bella  è  la  cima,  ccliiìi  bella  la  spasa, 
Ca  cchiù  megghin  la  ccogghiere  facia. 
Dia  mia!  ci  la  tinissi  nnanti  casa. 
Ni  dia  l'acqua  quanda  la  vulia: 
Nde  passa  n'autr'amanti  o  nde  la  rasa; 
Attroa  li  stenti  e  la  fatia  mia! 

N'arviretto  chiantai  a  la  mia  giardina, 
N'arviretta  cliiamatu   Trimamore; 
E  cu  li  miei  sudori  l'addacqqaai, 
'N  capa  de  Tanna  me  caccia  nu  fiore: 


(1)  Vigo.  d.  107:3. 
y^)  Vigo,  n.  2998. 

(3)  Avoi.io,  n.  390.  Vedine  .altri  es.  in  Lizio-Bruxo,  Canti  ocelli  (hi  po- 
X)olo  sicil.,  pagg.  124,  128. 


LA   POESIA   POPOLARE  ITALL^^NA.  193 

Lu  fiore  mia  nisciunu  hi  dduiaii, 
Sulu  me  111  gudia  lu  magna  'ddoie; 
Ma  quandu  scii  la  fiore  pe  pigghiave, 
N'autr'amante  de  intra,  e  jeu  de  fere. 

Quest'altro,  pur  leccese,  adopra  quantità  d'immagini 
a  voler  esprimer  la  sua  sventura,  e  quella  fra  le  altre 
della  vigna  e  del  vino,  che  è  anche  nella  Serenata: 

Subbr'a  sta  monte  forma'  nu  sciardinu, 
Prima  prima  chiantai  menta  rumana, 
E  poi  nei  me  chiantai  hi  petrusinu; 
E  n'autra  le  minescie  se  ccunzau. 
Chiantai  le  igne,  e  nu  pruai  hi  rimi, 
Ca  n'dutni  quanti/,  inne,  e  hindonan. 
Pigghia'  do  petre  e  formai  nu  mulina; 
E  n'autra  quanto  inne,  e  ntramosciau. 
Jeu  fici  le  strade  a  sta  sciardina, 
N'autru  qaantu  se  nd'inne,  o  spassigliiaa. 
Carisciai  petre,  e  fici  nu  palazzu, 
E  n'autru  qaantu  inne,  e  nei  abitau. 
Fazzu  le  barcunate  a  stu  easinu, 
E  n'autru  qaantu  inne,  e  se  'nfacciau. 
Pigghiai  le  taule,  e  fici  mi  littinu, 
E  n'autru  quantu  inne,  e  riposau. 
Sta  donna  l'aggi'  amata  jeu  hi  prima, 
E  n'autru  quanta  inne,  e  la  sposau. 
'Mposta  se  dice:  La  manda  è  mischina, 
Lassa  gudere  a  ci  nu  faticau!  (') 

Immagini  che  piacquero  anche  ai  letterati  imitatori 
del  popolo.  Ad  esempio  il  Poliziano: 


0)  De-Simone,  Canti  popol.  leccesi,  ne]VEco  dei  dite  mari,  giornale  lec- 
cese, 1S67,  n.  17.  Cfr.  con  altre  lezioni  in  Imbkiani,  Canti  popoì.  prov.  me- 
>id.,  \,  289  ;  n,  91  e  sgg. :  in  Molinaki,  C.  xiop.  di  Meta,  n.  8,  e  C.  napolef., 
pag.  135;  in  Finamore,  Vocabol.  aVruzz.,  n.  135;  Scherillo,  n.  38;  e  col 
Canto  sopra  arrecato  del  Castello  e  del  castellano.  In  una  barzelletta  na- 
poletana del  400  pubbl.  da  E.  Pekcopo  (Napoli,  1893,  nozze  Sogliano-Mari, 
pag.  25):  Io  zappai  questo  giardino  Sempre  intorno  con  ardore,  Solo,  solo 
e  peregrino  Comportai  pena  e  dolore.  Altro  venne  per  di  fare.  Dentro  l'orto 
io  lo  trovai,  E  s'io  grido,  pensarai,  Ch'i  la  gran  doglia  ch'io  sento. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  Hai.  —   13 


194  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAJfA. 

r  seminai  lo  campo,  ed  altri  il  miete: 
Aggiorni  speso  la  fatica  in  vano; 
Altri  lia  gli  uccelli,  ed  io  tesi  la  rete, 
Solo  la  piuma  m'è  rimasto  in  mano; 
Altri  è  nell'acqua,  ed  io  moro  di  sete. 
Altri  è  salito,  e  io  disceso  al  piano. 
Pianger  dovrian  per  me  tutte  le  priete. 
Ch'io  seminai  lo  campo,  ed  altri  il  miete.  {^) 

E  Serafino: 

Il  bon  campo  che  arai  con  sudor  tanto 
Un  altro  a  pieno  l'ha  ricolto  in  erba. 
La  vite  ch'io  posi  all'arbor  santo, 
Un  altro  ha  vendemmiato  l'uva  acerba. 
Il  frutto  ch'io  ricoglio  è  doglia  e  pianto 
Che  lo  ingrato  terreno  al  cultor  serba. 
Così  passando  la  mia  vita  rode. 
Che  un  altro  indegno  li  miei  stenti  gode.  (") 

E  Panfilo  Sasso: 

De  l'arbor  che  con  mia  mano  piantai 

Altri  n'ha  il  frutto,  ed  io  solo  le  foglie: 
Del  bel  giardino  che  già  car  comperai 
Scacciato  sono,  ed  altri  il  fior  ne  coglie; 
Del  ben  che  con  fatica  mi  acquistai 
Altro  ne  adempie  tutte  le  sue  voglie. 
Guarda  se  Amor  mi  fa  del  male  assai 
Vj  se  il  cielo  è  disposto  a  le  mie  doglie!  (^) 

L'altra  è  del  parrocchiano;  orsa,  vedrete 
Coni'  e'  sarà  governo  una   DHittlna! 
105)  r  son  disposto  d'ainiii<(~:are  un  prete. 

Questo  Cnnto  non  si  ode  pili,  ch'io  sappia,  in 


(1)  Ediz.  cit.,  pag.  26G,  e  ivi  una  variante.  Vedi  anclie  il  Rispetto:  Eì 
bel  giardin  Qhe  tanto  coltiiai. 

(-)  Ediz.  cit.,  p.ng.  1-55.  Si  trov.n,  come  audio  altii.  tra  i  Hìspeiti  del  Poli- 
ziano: cdiz.  cit..  pag.  267;  ma  ò  pur  attriln'.ito  a  Baccio  L"goliiio  'Bartoli. 
Mss.  della  BihUot.  Xazioii.,  Il,  143;  e  come  di  lui  lo  trovo  anche  nelle  rime  del 
Calmeta  (ediz.  di  Cliivasso  1.529}.  Egli  è  che  no"  codici  e  nelle  stampe  vi  ò 
un  continuo  scambio  fra  autore  e  autore,  noncliè  dei  Canti  popolari  co'  let- 
terari, e  viceversa. 

(3)  In  Sibliot.  leti,  popoì.,  I,  296. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  195 

Toscana  :  ma  sì  in  altre  provìncie  italiane.  In  Pie- 
monte : 

Son  risoluto  ch'a  vói  masse  'n  previ: 
Se  nun  mi  pentii,  n'ha  vói  masse  doi; 
Se  la  giustizia  la  mi  darà  tortu, 
Mi  sarò  viv,  e  '1  previ  sarà  mortu.  (') 

A  Venezia: 

Sangue  de  mi,  che  vói  mazzar  un  prete. 
Voi  tór  lissenzia  da  la  Signoria! 
E  se  la  Signoria  me  darà  torto, 
Mi  sarò  vivo,  e  '1  prete  sarà  morto.  (^) 

La  ragione  del  preticidio  è  forse  quella  accennata 
nel  Rispetto  marchigiano  : 

So'  disposto  de  fare  una  pazzia; 

'Mmazzare  un  ahatello  e  andnnne  via; 
Si  la  giustizia  me  manna  a  chiamare 
Je  le  so  racconta  le  mie  ragioni  ; 

Je  lo  dirò:  Lustrissimo  Signore, 
'Mmazzai  'n  abbate  che  f'acea   l'amore  : 

Je  lo  dirò  :  Lustrissimo  Prelato, 
Ammazzai  un  abbatello  innamorato  ; 

Si  lu'  voleva  fa'  lo  prementino, 
Cosa  s'è  messo  a  fa'  lo  collarino?  (^) 

Ed  anche  un'altra  cosa  mi  rovina, 
Star  s)  discosto  e  vederti  di  rado  : 
108)  Noti  ci  è  piii  hello  amar,  die  la  vicina. 

Abbiam  già  vista  ricordata  questa  Canzone  po- 
polare dal  Gelli  e  dal  Ceccbi:  essa  è  tuttora  vivente 
nelle  provincie  napoletane: 

Oh  quanto  è  bello  l'ammore  vicino! 
Si  nun  la  vide,  la  siente  cantare. 


('-)  Maecoaldi,  Canti  popoì.  piemont.,  n.  35 

(2)  Bernoni,  piint.  I,  n.  C9. 

(3)  GlANANDREA,   pag.    200. 


196  LA   POESIA   POPOLARE   ITALLAJsA. 

La  sieute  quannu  chiamine  la  galliua: 
—  Cune,  retella  iiimia,  curre  a  mangiare.  (') 

Anzi,  sarebbe  tuttora  vivente  in  Toscana,  se  dobbiam 
credere  genuina  la  forma  di  questo  Rispetto,  intro- 
dotto da  Temistocle  Gradi  in  un  suo  racconto  : 

Che  bell'amor  uhi  ama  la  vicina, 
E  specialmente  chi  l'ha  dirimpetto, 
Che  la  vede  la  sera  e  la  mattina 
E  la  vede  levare  e  andare  a  letto  ! 
Chi  ama  la  vicina  ha  gran  valore, 
La  vede  spesso,  e  l'ha  contento  il  core; 
Chi  ama  la  vicina  ha  un  gran  vantaggio, 
La  vede  spesso  e  fa  corto  il  viaggio.  (-) 

Ma  senza  dubbio  così  si  canta  a  Roma  : 

Bbella  cosa  è  l'amare  la  vicina, 

Massimamente  quann'è  ppoco  hbela; 
Mirela  quanno  s'arza  la  matina, 
Subbito  è  ppronta  in  quella  fenestrella. 
Je  fo  dde  bbasciamani  e  Ilei  s'inchina, 
Je  dico:  Arri  verità,  faccia  bbella: 
Amare  la  vicina  è  'u'avantaggio, 
Se  vede  spesso  e  s'arisparmia  er  viaggio.  (^) 

A  qìiesli  d)  dalia  (ita  casa  bado, 

E  diasi,  e  fei  le  viste,  e  feci  il  tristo, 
111)  In  questa  via  ci  sa  dì  moscado. 

A  un  che  m'appostava,  e  ni'avea  visto; 

E  il  Canto  toscano  che  dice: 

In  questa  ruga  ci  sa  di  moscato, 
Par  che  ci  abbino  fatto  spezieria  : 
Un  albero  di  pepe  ci  han  tagliato, 
Per  fare  lo  specchino  all'alma  mia; 
Che  tu  ci  specchi  dentro  quel  bel  viso, 


(1)  Imbriani,  Canti  popol.  di  Marigliano,  n.  32.    Cfr.   Canti  prov.  me- 
ridion.,  I,  88;  Finamore,  H,  il.  4G1  ;  Corazzimi,  p.  177;  Caliaki,  p.  261. 

(2)  Racconti,  Firenze,  Barbera,  1864,  p.  412. 

(3)  Menghini,  11.  24G.  Cfr.  Pergoli,  ii.  269. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  197 

0  fior  d'arancio  colto  in  Paradiso  ; 

Che  tu  ci  specclii  dentro  quel  bel  volto, 
0  fior  d'arancio  in  Paradiso  colto.  (') 

In  Abruzzo  diventa  : 

Che  bbell'udore  de  musche  'n  giiestu  viche  ! 
Pare  che  ffusse  'na  spezijarije  ! 
'Mmmezz'nce  sta  nu  pede  de  vijole  ecc.  ;  (^) 

e  a  Reggio  di  Calabria  : 

'Sta  ruga  havi  'nu  gghiarvu  di  muscatu, 
Pari  ca  nc'esti  'na  spezzelaria, 
Ca  nc'esti  'nu  garoffulu  cliiantatu 
Chi  cu' li  rami  cambogghia  la  via  ecc.  (^) 

E  ricordanti  di  quella  canzona: 
114"  Quando  la  donna  vien  di  buon  acquisto. 

Ma  il  mio  compagno  intanto  mi  ragiona, 

Che' si  leva  a  buon'ora  e  dice  tosto: 
117)  Andianne,  andianne,  che  la  grossa  sìiona. 

La  grossa  dev'essere  ]a  campana:  e  qui  viene  a 
mente  un  Canto,  che  con  piccole  varianti,  è  diffuso 
in  ogni  regione  italiana.  In  Sicilia  si  dice: 

All'armi,  all'armi,  la  campana  sona, 
Li  Turchi  sunu  junti  a  la  marina: 
Ca  ha  li  scarpi  rutti  si  li  sola 
Ca  eu  li  sulavi  sta  matina.  {*) 

E  nelle  Marche: 

A  Roma,  a  Roma  la  campana  sona, 
Li   Turchi  so'  arrivati  alla  marina: 
Chi  ha  l'amante  vecchio  lo  rinnova;  (^) 


(1)  Tigri,  n.  483.  Cfr.  n.  1.'36:  La  vostra  casa  odora  di  moscado.  Cfr. 
anche  Imbriani.  Canti  popol.  pror.  merid.,  II,  212,  e  Canti  calabr.,  n.  27; 
Vigo,  n.  1891;  Piteè,  n.  246,  668;  De  Nino,  Usi  e  cast.  ttbruz.,\\\,222\  Men- 
GHiNi,  n.  227. 

(2)  FiNAMORE,   VocahoL,  p.  271. 

(3)  Mandalari,  p.  109. 

(*)  Vigo,  n.  5177.  Cfr.  Imbeiani.  II,  73;  Fixamore.  271  ;  Bertoni,  IV,  14; 
VlLLANlS.  Stramb.  zarat.,  n.  9;  Feekari,   C.  p.  monferr.,  145. 
(5)  Gianandrea,  p.  211. 


198  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAXA. 

ma  meglio  in  Toscana: 

All'erta,  all'erta,  che  il  tamburo  suona, 
I  Turchi  sono  armati  alla  marina: 
La  povera  Rosina  è  prigioniera.  (') 

Per  me  starei  fino  a  qtiest'ultro  agosto: 
Danari  e  roba  lascerei  per  tene 
120)  Stìi  mi  dicessi:  che  vnoi  tn  piit  tosto? 

Abbi  compassione  alle  mie  pene, 
E  non  perdere  tempo  perchè  vola: 
123)  Stato  m'è  detto  che  la  Morte  viene. 

Canto  dei  più  generalmente  diffusi.  In  Toscana 
varia  un  po'  il  primo  verso  : 

M'è  stato  detto  che  ne  vien  la  Morte, 
Tutte  le  belle  le  vuol  via  mandare  ; 
Tu   che  se'  bella,  aspettati  tal  sorte: 
Le  tue  bellezze  a  chi  le  vuoi  lassare  ? 
Lassale  a  uno  che  ti  voglia  bene, 
Lassale  a  me  che  non  ti  vo'  un  gran  male. 

Lassale  a  me  in  d'una  foglia  d'ulivo, 
Che  io  le  manterrò  fino  a  che  vivo  ; 

Lassale  a  me  in  d'una  foglia  d'arancio, 
Che  te  le  manterrò  fino  a  che  campo.  (^) 

Meglio  in  Sicilia  : 

Haju  saputu  ca  la  Morti  veni. 

Tutti  li  beddi  si  veni  a  pigghiari  ; 
Tu  ca  si  bedda  mentiti  in  pinseri  : 
Ssi  to'  biddizzi  a  cui  li  vo'  lassari  ? 
Non  li  lassari  all'omu   sfardidderi. 


(1)  Tigri,  p.  .3.39.  I  primi  due  versi,  comuni  nlle  vario  lezioni  sono 
certamente  antidii,  senza  però  che  ci  sia  bisogno  di  ravvisare  nella  cam- 
pana, quella  "fusa  da  re  Manfredi,,  come  vuol  l'Imbriani.  È  curioso  poi 
che  il  vecchio  canto  si  rinnovasse  ai  tempi  della  guerra  d'Abissinia  nella 
Canzonetta  //  soldato:  itnìiaito  pru/ioniero  in  Affrica:  Attenti,  attenti,  che' 
la  tromba  suona,  1  Mori  sono  armati  alla  marina:  Coraggio,  hattaglion, gio- 
ventù buona  Contro  il  nemico  ner  ilell'Ahissinia  ecc. 

{-)  Tigri,  n.  992.  Ma  il  Tommaseo,  pag.  96,  reca  il  principio  secondo 
una  lezione  pistojese,  che  dice:  M'è  stato  detto  che  la  Morte  viene.  Cfr. 
MoLiNARo,  C.  i>op.  nap.,  p.  117,  C.  pop.  di  Meta,  li.  2;  Amalfi,  n.  119;  Se- 
verini,  11.  220;  Mazzatinti,  n.  297. 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  199 

Cu  si  li  cancia  ppi  ovu  e  dinari; 
Lassili  a  mia  ca  sugna  l'arginteri, 
C'a  ti  l'incarta  "ntra  li  carti  rari.  ('■) 

E  a  Venezia: 

I  va  digando  che  la  Morte  viene 
E  che  la  porta  via  tatte  le  bele. 
Mi,  che  so  bela,  cessa  mai  farogio  ? 
Le  mie  heleze  a  chi  ghe  le  darogio? 

Le  mie  beleze  a  nissan  le  vói  dare, 
Perchè  soto  tera  me  le  vogio   portare  ; 

Ma  soto  tera  no  se  porta  beleze, 
Se  porta  dei  rosari  e  de  le  messe.  C^) 

E  qiiand'  io  posso  dirti  tina  2:>arola, 
Non  ii  fuggir,  perchè  non  t'è  onore, 
126)  0  trionfante  donna  al  mondo  sola. 

Anche  questo  è  un  Rispetto  polizianesco  : 

0  trionfante  donna  al  mondo  sola. 
La  tua  bellezza  poi,  che  ne  farai? 
Vedi  che  '1  dolze  tempo  se  ne  vola 
E,  per  pentirsi,  non  ritorna  mai  ; 
Morte  cradele  ogni  piacere  imbola, 
Ogni  diletto  al  fin  poi  torna  in  gaai  ; 
Pentiti,  adunche,  e  non  voler  al  tatto 
Perder  di  giovaneza  el  fiore  e  '1  fratto.  (^) 

Non  aspettar  eh'  i'  ninoja  per  tuo  anwre, 
Che  vi  son  presso  per  la  tua  dureza  : 
129)  Non  vedi  tu  il  pallido  colore? 

E   potrebbe  esser   l'antico  Strambotto,  fra   gli 
attribuiti  al  Pulci  : 

Risguarda  nel  mio  pallido   colore, 

L'ossa  e  li  nervi  afflitti  in  tanti  guai, 
Qual  manifestan  l' infinito  amore. 
Che  porto  oltramisura  sempre   mai  ! 


{!)  Vigo,  n.  88.  Cfr.  Imbeiaxi,   C.  popol.  pi-ov.  mericì.,  Il,  365. 
(-)  Beenoni,  punt.  II,  n.  2.  Cfr.  Dal  Medico,  pag.  48:  Me  xe  sta  dito 
che  la  Morte  viene  ecc.:  Gaelato,  p.  251.  Lezione  istriana  in  IvE,  p.  197. 
\?)  Ed.  cit.,  p.  191. 


200  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAXA. 

Li  guai  due  dardi  sono  al  miser  core, 
Due  orsi,  due  lion,  due  crudel  draghi; 
Risguarda  nel  mio  volto  impallidito, 
Qual  manifesta  il  cor  da  voi  ferito.  (^) 

Aiìia7'  chi  t'alita  è  senno  e  gentilezza  : 
E  dir  2)regando  pai-e  anco  che  vaglia, 
132)  0  signor  mio,  mandategli  fortezza. 

Il  tuo  parlar  vezzoso  fende  e  taglia, 
E  oltre  a'  modi  tìioi  leggiadri  e  snelli, 
135)  Tu  hai  dn' occhi  d'andare  in  battaglia. 

In  Toscana  si  canta  : 

L' 'ete  un  par  d'occhi  per  entra'  in  battaglia; 
Altr'arme  non  v'occorre  per  ferire: 
Se  uno  dà  di  colpo,  l'altro  taglia; 
Questi  son  colpi  da  farmi  morire  : 

Questi  son  colpi  che  li  manda  Amore; 
Passano  i  panni  e  il  petto,  e  vanno  al  core.  (-) 

E  nelle  Marche: 

Porti  du'  occhi  che  pò'  andà'  in  battaja, 
Benché  'u  portassi  l'arme  da  ferire  : 
Uno  tira  di  colpo,  l'altro  taja, 
Bella,  sì  nata  per  famme  morire  : 
Uno  tira  de  colpo  e  taja  forte  ; 
Bella,  sì  nata  per  damme  la  morte.  (^) 

I'  vo'  cantar  tuoi  jìortamenti  belli, 
Non  passerà  però  tutto  domane; 
138)  E  vonimi  cominciare  alli  capelli. 

Ricorda  il  Rispetto  toscano  : 

Vostre  bellezze  si  fanno  ai  capelli, 
E  se  ne  vanno  alla  pulita   fronte  ; 
'Ete  un  par  d'occhi  che  paion  due  stelle, 
Paiono  il  sol  quando  apparisce  al  monte  ; 


(1)  Ediz.  Zeiiatli,  cit..  p.  2.3. 

(•)  Tigri,  ii.  284.  Cfr.  Tommaseo,  p.  70;  A.  Giannini.  Canti  p.  pis.,  n.  10. 
(3)  GiANANDREA,  p.  51.  Cfr.  ViGO,  11.  407;  Imbriani,  I,  228;  De  Kino, 
C.  p.  sabin,,  p.  21. 


LA   POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  201 

Paiono  il  sol  quando  al  monte  apparisce: 
Dove  levate  il  pie,  l'erba  fiorisce.  (') 

Incomincia  dai  capelli  l'enumerazione  delle  bellezze 
dell'amata  anche  il  rustico  cantore  siciliano  : 

Vegnu  a  cantari  li  bellizzi  toi  ; 
La  prima  cosa  li  biunni  capiddi  : 
L'occhi  e  le  gigghia  so'  du'  niuri  groi, 
Li  dintuzzi  su'  perni  minutiddi  : 
Lu  petto  è  biancu  e  scriviri  cci  pòi  ; 
Porti  dui  puma  russi  a  li  inasciddi. 
Bella,  pòi  stari  cu  li  pari  toi 
Coniu  la  luna,  lu  suli  e  li  stiddi.  i"^) 

E  similmente  il  cantore  marchigiano  : 

Te  vojo  principiare  a  benedire; 
Sulli  capelli  vojo  principiare: 
Dalli  capelli  me  ne  vo  alla  fronte. 
Pare  'na  bianca  neve  'n  cima  al  monte; 
E  dalla  fronte  me  ne  vo  alle  cija  : 
Chi  te  l'ha  profilate,  o  bella  fija? 
E  dalle  cija  me  ne  vo  alli  occhi. 
Pare  garofoletti  in  terra  colti  ; 
E  dalli  occhi  me  ne  vo  alle  guance, 
Vedi  che  bel  giardin  de  melarance  ! 
E  dalle  guance  me  ne  vo  allo  naso, 
E  uno  scannello  d'oro  profilato  : 
E  dalle  guance  me  ne  vo  alla  bocca, 

Pare  'na  rosa  spampanata  doppia 

E  dalla  bocca  me  ne  vo  alla  gola, 
Beato  chi  de  voi  se  ne  innamora  ! 
E  dalla  gola  me  ne  vo  allo  petto  : 
Stella  diana  e  Paradiso  aperto  !  (^) 

Streghe  l'olire  mi  jiaiono  e  befane, 
Poich'io  ti  vidi,  o  viso  angelicato  : 
141)  Vuoi  ch'io  ti  conti  tue  bellezze  limane? 


(1)  Tommaseo,  p.  77.  11  Tigri,  n.  117:  si  fan  da' rapelli. 

(2)  PlTRÈ,  I,   n.  170. 

(3)  GiANANDKEA,  p.  48.  Cfr.  Marcoaldi,  C.  p.  ìimhri,  11.  91.  E  cfr.  una 
lezione  molisana  data  dal  Molinaro  (Ai-ch.  trad  pop.,  XII,  396)  dove  non 
v'  è  però  il  verso  iniziale. 


202  LA  POESIA  POPOLARE  1TALL\NA. 

La  tua  bellezza  è  tal  che  m'ha  cavato 
Della  memoria,  e  qtiand'  io  ri  pensassi, 
14i)  Ben  credo  che  tu  m'abbi  ammaliato. 

Tìi  muovi  gli  occhi  con  tal  grazia  e'  passi 
Che  tu  fai  fiitli  gli  uu>nini  prigioni: 
147)  Chi  sar)n  s)  crtulel  che  non  t'amassi  ? 

È  il  Rispetto  XLV  del  Pulci  : 

Chi  sare'  sì  ciudel  che  non  amassi 
Gentil  iddea,  e'  tnoi  biondi  capegli  ? 
El  vago  viso  con  che  il  cor  mi  passi 
E' lucenti  occhi  tua  più  ch'altri  begli? 
Faresti  innamorar  le  pietre  e'  sassi 
E  per  le  selve  innamorar  gli  nccegli. 
Se  inver  di  me  tu  fussi  un  po'  pietosa 
Al  mondo  non  fu  mai  sì  bella  cosa;  (') 

che  modernamente  suona  così  a  Venezia: 

E  chi  sarìa  quel  can  che  no  te  amasse 
Veder  a  bagolar  quei  bei  oceti  ? 
Do'  pomi  sparpagnai  per  le  ganasse  : 
E  chi  sarìa  quel  can  che  no  te  amasse?  (-) 

Io  non  ti  posso  dir  le  mie  ragioni; 

Ma  s'io  ti  trovo  fuor,  cara   mia  dama, 
150)  rorroinniiti  dinanzi  inginocchioni. 

E  questo  pure  è  del  Pulci  : 

Porromiti  dinanzi  giuocchione 

Come  alla  croce  fé' la  Maddalena: 
Pregherotti  con  tanta  devozione, 
Che  ti  verrà  pietà  della  mia  pena; 
Non  sei  però  ne  tigre  né  leone, 
Ma  se'  gentile  e  d'ogni  pietà  piena  ; 
Dov'è  beltà,  ragion  vuol  che  vi  sia 
Misericordia,  amor  e  cortesia.  [■') 


(1)  Ediz.  Zenatti.  p.  16.  E  cfr.  col  Rispetto  ii.  5  del  ood.  perugino,  e 
col  X  dei  Doilici  Uispetti  popol.  ined.  pubblicati  da  M.  Men'GHINI,  in  l'ro- 
pugnatore,  N.  S.,  Ili,  1.  Nota  che  l'ultimo  verso  ò  nella  Xencia  del  Magnifico. 

(-)  Behnoni,  X,  "). 

(s)  Ediz.  Zenatti,  p.  U>. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  203 

Anche  un  Canto  siciliano  : 

Ca  ti  starria  davanti  addinucciiiuni.  (') 

E  niostverotti  quel  die  7  tnio  cor  hriiììia, 
E  farotti  arrossir,  couie  suol  fare 
153)  Quando  la  donna  vede  Vuovi  che  l'ama. 

Chi  sa,  se  forse  io  mi  sapessi  fare 

Me'  eh'  io  non  ti  so  dir,  quando  alla  festa 
156)  La  sera  per  lo  fresco  è  ìin  bel  cantare? 

E  tuttavia  si  canta  fra  noi  : 

La  sera  per  lo  fresco  è  un  bel  cantare, 
Le  fanciullette  discorron  d'amore: 
Una  con  l'altra  avviano  a  ragionare, 
E  dicono  :  L'  hai  visto  il  nostro  amore  ? 

E  dicon  :  Dov'è  andato  il  nostro  damo? 
E  non  lo  vedo,  e  nel  cantar  lo  chiamo. 

E  dicon:  Dov'è  andato  il  nostro  amore? 
E  non  lo  vedo,  e  1'  ho  sempre  nel  core.  C'^) 

Ma  io  sto  fuori  a  roiìipenni  la  testa, 
E  tu  stai  chiotta  ; 

E  sta  meno  male  del  cantore  siciliano  : 

Oli  chi  friddii,  o  chi  nevi,  o  chi  ghilata! 
Friddii  pi  chistu  'un  n'ajii  'ntisu  mai. 
R'  unni  mi  vinni  sta  bella  nuttata, 
Ri  vèniri  a  cantari  ck  unni  stai? 
Arrisbigghiti  armenu,  renna  amata. 
Runa  hi  suonnu  a  cu'  nun  dormi  mai  ; 
Tu  rormi  nti  ssu  lettu  arripusata, 
Er  iu  cà  fora,  ca  cuntu  li  vai.  (^) 

E  chi  forse  ascoltassi, 
159)  Tutta  la  notte  la  madre  tei)) pesta. 


m  Vigo,  n.  925.  I!  Capit.  XXV  della  Camilla  di  Olimpo  da*ASSOFEiì- 
KATO  comincia  : 

A  li  tuoi  piedi  vengo  inginoccliione. 

(2)  Tigri,  n.  21. 

(3)  AvOLio,  n.  285. 


204  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Potrebbe  dirsi  reminiscenza  forse  di  quel  della 
Beca  : 

La  Beca 

Tutta  la  notte  nel  letto  tenciona, 

Ed  io  pur  suono  e  casca  giù  la  brina;  (') 

o  anche  di  quel  che  dice  l'amante  della  Nencia: 

. .  . .  vo  la  notte  intorno  a'  tuo'  pagliai, 
E  sì  mi  caccio  a  cantare  a  ricisa: 
Tu  se'  nel  letto,  e  scoppi  dalle  risa; 

se  nella  sua  primitiva  veste  toscana  non  lo  trovas- 
simo in  un  Canto  dialettale  di  Carpignano  Salentino: 

Tutta  la  notte  la  mamma  tempesta 
Pe'  'nducere  'sta  figghia  a  bona  via  : 

—  Figghia,  non  ti  'nfacciare  alla  finestra, 
Mo'  passa  lu  tou  amante  })pe'  sta  via  — 

—  Se  me  tagliassi  le  bracco  e  la  testa, 
De  la  finestra  nu'  mme  leveria  ! 
Quiddlui  ci  porta  lu  cappieddu  'n  testa, 
Quiddhu  è  patronu  de  la  vita  u.mia.  (-) 

10  vie  ne  vo  cogli  occhi  molli  e  bassi  ; 
Tìi  ti  prostendi  e  russi  a  piìi  potere  ; 

162)  Tu  donni,  io  veglio,  e  vo  perdendo  i  passi. 

E  uno  Strambotto  di  Serafino  : 

Tu  dormi,  io  veglio  e  vo  perdendo  i  passi, 
E  tormentando  intorno  alle  tue   mura; 
Tu  dormi,  e  '1  mio  dolor  risveglia  i  sassi, 
E  fo  per  gran  pietà  la  luna  oscura  : 
Tu  dormi,  ma  non  già  questi  ocelli  lassi 
Dove  il  sonno  venir  mai  s'assecura  ; 
Perch'ogni  cosa  da  mia  mente  fugge. 
Se  non  l' immagin  tua,  che  mi  distrugge.  (') 

11  mio  compagno  s'f>  posto  a  d lacere, 
Ch'è  stato  tanto  ritto,  che  gli  nuoce: 


(1)  E  ivi  stesso  :  J)ido^:ar  possa  <iitella    mala  vecchia  Che  tutta  notte 
sta  a  rivilicare. 

(-)  Imbriani,  I,  182. 
(3)  Ediz.  cit.,  pag.  1.S2. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  205 

165)  Cara  madonna,  i'  nono  al  ino  piacere  : 

I\on  posso  più  cantar,  ch'io  non  ho  boce. 

Ed  anche  questo  è  vivente  : 

Non  posso  più  cantar,  cliè  noti  ho  voce  : 
Stanotte  son  dormito  a  ciel  sereno, 
E  son  dormito  all'ombra  d'una  noce 
Dove  non  era  né  paglia  né  fieno;  (') 

e  a  Venezia  varia  così  : 

Non  posso  più  cantar,  che  no  go  vose  ; 
Porte  un  bocal  de  vin  co  quatro  nose; 
Porte  del  vin  e  no  porte  de  l'acqua; 
Deme  da  bever,  se  volè  ca  canta.  {'^) 

Giunti  a  questo  punto,  mi  si  conceda  ricordare 
quello  eh'  io  scriveva  parecchi  anni  addietro,  par- 
lando della  raccolta  di  Canti  popolari  toscani  fatta 
da  Giuseppe  Tigri.  Io  proponeva  lìn  d'allora  il  que- 
sito della  origine  della  Poesia  Popolare:  origine 
quanto  al  luogo  e  quanto  all'età,  e  in  proposito  di 
quest'ultima,  io  conchiudevo  :  "  Essa  (la  poesia  po- 
polare) deve  rimontare  ai  tempi  quando  le  nostre 
plebi  sentirono  gli  influssi  del  risorgimento,  e  nuova 
vita,  nuova  energia,  nuova  cultura  le  veniva  diroz- 
zando :  perchè  chi  vi  ponga  ben  mente  vi  sente 
circolare  per  entro  la  freschezza  della  gioventìi. 
Solamente  i  popoli  usciti  dall'infanzia  e  lungi  an- 
cora dalla  maturità,  sentono  e  poeteggiano  a  questo 


(!',  TiGEl,  n.  391  :  cfr.  n.  27.  Ridotto  a  Stornello  in  Xerucci,  n.  4,  e 
iu  Giannini,  p.  5. 

(-)  Bernoni,  punt.  Ili,  n.  67;  Cai.iari,  p.  220,  25.5.  E  anche  Dal  Me- 
dico, p.  40,  98  n.  e  128:  Xon  posso  pi ìi  cantar  che  ho  perso 'l  canto.  Xelle 
Marche:  Xon  posso  canta'  più,  che  so'  calato  (Gianandhea,  pag.  10;;  nel 
Monferrato:  Xon  possu  pi  canile,  eh' ajo  ra  rantia  (Feeearo,  pag.  147  e 
NiGHA,  pag.  574).  In  Sicilia  (Purè,  n.  18,3):  Cumii  cantava  'mt  pozzti  cchiù 
cantari  A  ch'aju  persit  la  vuci  ch'avia  ecc.;  e  a  Napoli:  Cumin'aggiu  da  canta', 
vocia  min  aggio  ecc.  (Molinaki,  p.  177). 


206  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

modo.  Questa  è  veramente  poesia  di  gioventìi.  Vi  si 
sente  tutta  la  ingenuità  e  la  forza,  la  schiettezza 
e  l'energia,  la  purità  e  la  passione  di  un  amor 
primitivo,  di  un  affetto  giovanile  „.  (^)  E  qualche 
tempo  appresso  :  "  Certo  noi  non  pretendiamo  di  as- 
serire che  i  moderni  Rispetti  e  Strambotti  e  Stornelli 
siano  in  tutto  ciò  che  erano  nel  Quattrocento  ;  ma, 
salvo  poche  modificazioni  portate  necessariamente 
daf  volger  de'  tempi  e  dalla  trasmissione  orale,  po- 
trebbe asserirsi  che,  per  la  tenacità  dei  volghi  nel 
ritenere  le  antiche  usanze,  nel  loro  insieme  e  nel 
più  generale  aspetto  essi  sieno  i  modelli,  a'  quali 
attenevasi  per  le  sue  imitazioni  la  scuola  medicea. 
Invero  il  popolo  nostro  al  dì  d"oggi  non  canta,  ma 
ripete:  non  inventa,  ma  riproduce  u)i  tesoro  di  versi, 
a  cui  per  tradizione  è  affezionato  ;  ed  anche  credendo 
di  improvvisare,  ei  rimescola  e  riunisce  immagini  e 
versi  sparsi  in  varj  componimenti.  Questa  poesia 
popolare,  di  cui  adesso  si  fan  raccolte,  e  che  è  sem- 
brata una  rivelazione,  non  è  che  l'ultima  eco  della 
gioventìi  di  una  schiatta  ;  gioventìi,  che  si  mostra 
nella  ingenua  forza,  nella  energica  schiettezza,  nella 
purità  primitiva  di  quei  Canti,  che  oggi  il  popol 
nostro  non  saprebbe  piìi  comporre  a  quel  modo;  ma 
che,  ricevendoli  esso  e  trasmettendoli  di  generazione 
in  generazione,  va  solo  leggermente  modificando. 
Noi,  radunandone  i  frammenti  dalla  viva  voce  delle 
montanine,  andiamo  ritrovando  le  membra  sparse 
del  passato  ;  porgendo  orecchio  al  canto  dell'agri- 
coltore, raccogliamo  un  suono,  che,  ormai  quasi 
perduto  nelle  pianure  e  nelle  valli  dell'Arno,  si  va 
prolungando  nelle  ardue  cime  dell'Appennino,  quasi 


(')  Aiipeiidico  del  giornale  La  Inazione,  11  settembre  18G0. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIAXA.  207 

in   ultimo    riparo    ai    progressi    dell'  incalzante   ci- 
viltà „.  C) 

Quello  che  avevamo  allora  affermato  per  indu- 
zione e  congettura,  adesso  è  provato  da  documenti. 
Il  Bronzino,  componendo  la  sua  Serenata  di  versi  di 
Canzoni  popolari,  faceva  una  bizzarria  che  avrebbe 
mancato  di  ogni  lepore,  se  non  si  fosse  trattato  di 
cose  notissime,  le  quali  bastava  accennare,  perchè 
subito  se  ne  ridestasse  la  memoria,  (-)  Egli  scriveva 


(1)  Ardi.  cit.  della  Sivistrt   Contempoi-anea  del  ]8(>2. 

(2)  Anche  Pieteo  Aretino  nella  Cortigiana  (att.  II.  se.  12)  pone  in 
bocca  d'uno  sciocco  mio  Strami/Ottino  da  Ini  composto,  e  senza  senso, 
dove  però  è  qualche  verso  di  Strambotti,  e  uno  vive  anche  al  di  d'oggi: 

0  stelluzza  d'amore  o  angel  d'oro, 
Faccia  di  legno  e  viso  d'oriente. 
Io  sto  più  mal  di  voi  la  nave  in  porto 
Lormo  la  notte  a  la  tempesta  e  al  vento. 
Le  tue  bellezze  vennero  di  Fi'ancia; 
Come  che  Giuda  che  si  strangolòe. 
Per  amor  tuo  mi  fo  cortigian  io. 
Non  aspetto  giammai  cotal  desio. 

Raffronta  il  v.  5  col  verso  del  Tigki,  n.  61:  E  le  vostre  heìlezze  vanno  in 
Francia.  Anche  A.  F.  Doni  nelle  Utatize  dello  Spar^Mglia  alla  Silvana  (ediz. 
Baccini,  Firenze,  1886,  p.  2-1  e  30)  ha  una  strofa  di  capiversi  di  Canzoni: 

Canto  SI  dolce  che  dir  noi  sapria  : 

Fortuna  ch'iin  gran  tempo  mi  se'  stata. 
Ecco  di  qua  l'amorosella  mia, 
Quest'i  la  primavera  eh' è  tornata, 
Tu  sei  pagana,  nata  in  2)agania, 
In  nella  grotta  sta  la  sventurata, 
Xenriozza  mia,  Xenciozta  ballerina, 
E  so  l'antar  per  lettra  la  Bosìna. 

E  forse  anche  un'altra  ottava  contiene  richiami  a  Rispetti: 

Kon  odi  tu  quel  che  dice  la  Piva? 

—  Baciami  un  tratto  e  poi  lasciami  andare. 
Baciami  tosto,  che  mia  madre  arriva  — 

—  La  traditora  non  mi  lascia  arare. 

La  tra'  di  pie,  la  stringe  la  cattiva  — 

—  0  madre  mia,  io  non  faccio  fornello, 
Ma  scuoter  mi  facevo  il  mio  guarnello. 

Ma  un  componimento  abbastanza  lungo,  tutto  quanto  intessuto  di 
principj  di  Canzoni  del  tempo,  è  quello  che  s'intitola  Opera  nuova  nella 
quale  si  ritiova   essere   tutti  li  principii  delle  Canzoni  antiche   e  moderne. 


208  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

nel  Cinquecento  :  ma  perchè  quei  canti  fossero  dav- 
vero noti,  dovevano  ormai  esser  già  vecchi  :  ed  egli 
ne  riferisce  anche  del  Poliziano,  di  Serafino  e  di  ri- 
cordati già  nel  Quattrocento.  Ma  anche  pei  quattro- 
centisti dovea  trattarsi  di  forme  già  universalmente 
conosciute:  non  avrebbero  tentato  l'imitazione  della 
poesia  popolare,  se  questa  già  non  era,  se  già  non 
avesse  recato  i  suoi  frutti,  e  di  questi  non  fosse 
stata  universal  contezza;  non  avrebbero  creato  un 
nuovo  genere  letterario,  se  non  esisteva  il  modello 
che  volevano  riprodurre.  Così  si  risale  più  addietro, 
almeno  rispetto  ai  primi  germi  :  e  non  sarebbe  te- 
merità, dopo  quello  che  abbiamo  visto,  se  la  forma 
popolare  della  poesia  dicessimo  contemporanea  nel 
suo  nascimento  alla  forma  letteraria.  C) 


poste  in  ottava  rima:  cosa  piacevole  et  ridiculosn  ecc.  S.  a.  il.  ma  della  seconda 
metà  del  sec.  XVI.  È  stato  scoperto  nella  Universitaria  di  Bologna,  e  dot- 
tamente ripubblicato,  largamente  illustrandolo,  col  titolo  Un  Centone  da 
S.  Ferkari  (nel  Propugnai.,  N.  S.,  XIII.  p.  432). 

Dei  Canti  da  noi  menzionati  vi  si  trovano  i  seguenti  : 

Io  mi  levai  d'un  bel  mattin  d'amore, 
Averzi  Mareolina  scarpe  pontie 
Bel  pegoraro  quando  andarastu  al  monte. 
Mia  madre  marideme 
Dimmi,  quella  scarpetta  chi  t'ha  fatto. 
La  bella  Franeeschina 
La  scarpa  da  Bologna  mi  fa  male 
Cavai  Baiardo. 

(1)  Una  testimonianza  assai  notevole  dell'anticliità  di  queste  poesie 
potrebbe  trarsi  dagli  epiteti,  aggiunti,  ipocorisini  ecc.  Il  Xannucci  nella 
1»  ediz.  del  Manuale,  Firenze,  Magheri,  1838,  voi.  II,  pag.  xl,  raccolse  gli 
"  ipocrismi  dati  dagli  antichi  poeti,  alle  loro  donne  „,  e  notò  quelli,  fra 
gli  altri,  di  chiarita  spera,  aulente  cera,  aulente  lena,  rosa  dell'orto,  rosa 
di  Maggio,  fiore  odoroso,  stella  d'albore,  stella  diana,  sitila  d'oriente,  fior 
d'amore  ecc.  Nel  poema  del  Febns  e  Breus  trovo  :  Fontana  di  bellezza, 
chiara  stella,  rosa  di  maggio  fiorila,  rosa  angelicaia,  rosa  vermiglia,  dama 
calorosa,  rosa  colorita  ecc.  Nelle  ballate  del  Pecorone:  Lucente  stella,  fior 
del  giardino,  rosa  risplendente,  viso  rilucente,  fior  di  natura,  cuor  valoroso 
ecc.  Nella  Teseide:  Mattutina  stella,  fresca  rosa  del  mese  di  Maggio,  rosa 
di  spina,  viso  delicato,  giglio  novel  di  primavera,  viso  amoroso  ecc.  Nel  Nin- 
fale: Viso  adorno,  fontana  di  bellezze,  fresca  rosa  ecc.  Nel  Filostrato:  Stella 
mattutina,  rosa  di  spina  ecc.  Gettando  un'occhiata  alla  Raccolta  del  Tigri 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALLA.XA.  209 


VII. 


La  lirica  popolare  italiana  nella  sua  duplice 
forma  di  Stramhotto  o  Bi^petto  e  di  Stornello  o  Fiore 
è  stata  finora  raccolta  provincia  per  provincia  e 
dialetto  per  dialetto;  ma  è  dappertutto  la  stessa,  (^) 
non  solo  nell'indole  generale,  ma  anche  nella  special 
forma  dei  componimenti.  Se  la  pubblicazione  delle 
collezioni  provinciali  proseguirà  con  lo  zelo,  del 
quale  abbiamo  prova  da  una  cinquantina  d'anni  a 
questa  parte,  noi  crediamo  che  fra  non  molto  potrà 
farsi  una  raccolta  generale  di  Canti  del  Popolo 
Italiano,  nella  quale  sotto  ciascun  tema  si  trove- 
ranno le  vario  lezioni  vernacole,  e  non  molti  saranno 
i  Canti  che  appariranno  proprj  di  una  sola  regione. 
Fra  i  Siciliani,  per  le  ragioni  che  più  oltre  addurremo, 
ve  ne  sarà  un  certo  numero  senza  riscontro  in  altri 
dialetti:  taluni  anche  fra  i  Toscani:  ma  per  le  altre 
Provincie  si  avranno  soltanto  rari  esempj  di  Canti 
scompagnati  e  interamente  locali. 


trovo  epiteti  od  immagini  ideiiticlie  o  simili:  J5fZ  fiordaliso, iìnr  d'arancio, 
ìiì,azzo  di  viole,  gentil  fiore,  candida  rosa,  viso  angelicato,  gentilina,  rosa 
fiorita,  viso  di  nobiltà,  mazzo  di  basilico,  faccia  serena,  bel  viso  adorno,  rosa 
incarnata,  giglio  cortese,  fior  di  x>aradiso,  giglio  valoroso,  fresca  viola,  fresco 
fiore,  fior  di  primavera,  fior  di  gentilezza,  vermiglia  rosa,  giglio  dell'orto, 
vago  fiore,  stella  mattutina,  stella  diana,  stella  rilucente,  fonte  di  bellezza, 
e  simili.  Sono  tutte  forme  della  gioventù  della  poesia,  che  si  perdono  dap- 
poi. Si  potrebbero  anche  paragonare  le  Lettere  di  Montanini  stampate  dal 
Tigri,  pag.  183  e  segg.,  con  la  Lettera  di  Troilo  a  Cressida  nel  Filostrato, 
canto  VH,  ott.  52  e  segg.  Salvo  la  differenza  fra  un  cavaliere  e  un  mon- 
tanaro, e  fra  un  poeta  culto  ed  un  inculto,  l'andamento  delle  lettere  amo- 
rose, nell'un  caso  e  nell'altro  offre  non  poche  rassomiglianze. 

(1)  n  novelliere  sanesc  Fortini  cos'i  scriveva  della  Poesia  popolare 
del  suo  tempo:  "Questo  Sardinapallo  passando  per  la  strada  se  n'andava 
cantipolando  certe  canzoncine  alla  napolitana,  come  a  dire,  al  modo  nostro, 
alla  villana;  e  alla  romanesca  si  domandano  alla  montanina  :  li  viniziani 
dicono  alla  bergamasca  „  :  Terza  giornata  ecc.  Siena,  1811,  p.  95. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  14 


210  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Di  questa  nostra  asserzione  sull'  identità  del 
Canto  popolare  nelle  diverse  parti  d'Italia  ci  piace 
addurre  qui  prove  abbondanti:  e  se  altri  ci  accu- 
sasse di  fornirne  pili  del  bisogno,  risponderemmo 
che  i  confronti  e  le  osservazioni,  che  via  via  an- 
dremo facendo,  non  serviranno  soltanto  al  fine  indi- 
cato, ma  ci  apriranno  l'adito  a  trattare  due  que- 
stioni importanti  :  sulla  patria  primitiva  dei  Cauti 
stessi,  e  sulla  loro  forma  originaria.  Non  gravi,  dun- 
que, al  lettore  di  seguirci  attentamente  in  questo 
studio  comparativo  di  Canti,  simili  fra  loro  e  solo 
diversi  in  alcuni  particolari,  che  però  non  lasciano 
porre  in  dubbio  l'identità  sostanziale  del  componi- 
mento. E  forse  la  vaghezza  della  maggior  parte  di 
queste  poesie  allevierà  il  fastidio  della  lunga  enu- 
merazione e  dei  molteplici  paragoni.  Avvertasi  in- 
tanto che  a  fondamento  delle  nostre  ricerche  po- 
niamo le  versioni  toscane,  poiché,  come  vedremo, 
esse  posson  quasi  dirsi  intermedie  fra  la  forma 
primitiva  e  le  successive  variazioni. 

Apriamo,  dunque,  la  raccolta  del  Tigri,  e  quasi 
subito  e'  imbatteremo  in  questo  Rispetto  : 

lersera  (ci)  passò  il  mio  amor  caiitaiulo, 
Ed  io  mescliina  lo  sentia  dal  letto  ; 
Volto  le  spalle  alla  mia  madre  e  piango; 
Le  pene  che  mi  dà  quel  giovinetto  ! 

Le  pene  che  mi  dai,  tutte  le  scrivo  ; 
Tempo  verrà  che  noi  le  leggeremo  : 

E  noi  le  leggerem  tutte  le  carte  ; 
Bello,  che  di  burlare  avete  l'arte  ; 

E  noi  le  leggerem  foglio  per  foglio  ; 
Più  me  ne  fate,  ed  io  più  bea  vi  voglio.  (') 


(1)  TiGKi,  11.  6.  Nelle   Chiane  il  Rispetto  si  è  ridotto  alla  parte  so- 
stanziale, ed  è  divenuto  .Stoniello  : 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  211 

Qui,  come  spesso  avviene,  la  canterina  è  stata  quasi 
trascinata  dalla  menzione  delle  pene  amorose,  a 
frammischiare  o  rannodare  insieme  due  diversi  Ri- 
spetti, (^)  e  dopo  i  primi  versi  del  secondo  a  con- 
tinuare colla  parafrasi  o  ripresa,  propria  al  canto 
toscano.  Ma  nella  prima  parte  il  Rispetto  toscano 
è  sostanzialmente  questo  Strambotto  siciliano  : 

Assira  lu  niè  amuii  ija  cantaniui 
Jò  era  'iita  lu  liettu  e  hi  sintia  ; 
Aju  vutatu  li  spaddi  a  me  maninia, 
Pi  sentiri  'i  canzuni  chi  dicia. 
E  cu'  i  larmuzzi  miei  lu  liettu  abbagnu, 
E  poi  l'asciucu  cu  la  fantasia. 
Amuri,  n'antra  vota  va  cantannu,  {-) 
Morta  mi  truovi  di  malancunia.  (^) 

Antica    origine   ha   il    seguente,   sempre    nella 
prima  rubrica  del  Tigri  : 

Quanti  ce  n'è  che  mi  senton  cantare 

Diran:  buon  per  colei  ch'ha  il  cor  contento! 
S'io  canto,  canto  per  non  dir  del  male, 
Faccio  per  iscialar  quel  ch'ho  qua   drente: 

Faccio  per  iscialar  mi'  afflitta  doglia  : 
Sebbeu  io  canto,  di  piangere  ho  voglia  ; 


Quando  varchi  de  qui,  varclii  cantando  : 
Io  puariiiina  so  tul  letto  e  'ntendo  : 
M'avvòlto  a  la  mi'  mèma  lagrimando. 

BiLLi,  Poeaie  giocose  nel  dialetto  dei  chianajuoU,  Arezzo,  Belletti,  ISTO,  p.  5G. 
In  Casale  di  Val  di  Cecina: 

Quando  passi  di  qui,  passi  cantando. 
Io,  poverina,  nel  letto,  t'intendo; 
Volto  le  spalle  a  mamma,  e  per  te  piango. 

Cfr.  gli  Stornelli  n.  156  del  Tigri,  e  n.  90  del  Xekucci,  p.  163. 

(1)  Cfr.  Tigri,  n.  787. 

('-)  Migliore  la  variante  :  Si  iin'antra  vota  tu  2>(issi  cantannu. 

(3)  PiTRÈ,  Centuria  di  C.  pop.  sicil.,  n.  20.  Cfr.  Vigo,  n.  1202,  ove  il 
3»  verso  dice  men  bene:  Votu  li  )!2yaddi  a  me  marita  tantu;  e  cos'i  anche 
nel  GuASTELLA,  n.  143  :  invece  I'Avolio,  n.  -52,  concorda  colla  nostra  le- 
zione. 


212  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Faccio  per  iscialav  l'afflitta  pena: 
Sebben  io  canto,  di  dolor  son  piena.  (') 

111  un  codice  del  secolo  XV  troviamo  questo  llì- 
spetto,  che  si  direbbe  forma  letteraria  del  canto 
toscano  e  del  siciliano  che  segue  : 

Oh  quanti  son  che  m'odono  cantare 
Che  credono  però  ch'abbia  bel  tempo  ! 
Tutti  vi  prego  lassatemi  stare, 
Che  quando  io  canto  allora  mi  lamento 
Per  una  donna  ch'ò  preso  ad  amare, 
Che  m'ave  posto  in  si  grave  tormento  : 
Però  chi  segue  Amor  s'abbia  a   guardare 
Non  l'intervenga  la  pena  ch'io  sento.  ('-) 

Le  rassomiglianze  cadono  sul  primo  tetrastico,  che 
in  Sicilia  suona  cosi  : 

Cantu,  ma  In  me  cantu  nun  è  cantu, 
Canta  pr'allianarimi  lu  senzu  : 
Li  genti  chi  mi  sentinu  ca  cantu, 
Dicinu  :  Miat'  idda  !  avi  bon  tempu  ! 
Tegnu  malincunia,  pri  chistu  cantu  : 
Mi  scantu  s'  iddu  moru  'nta  stu  tempu  : 
Sugnu  picciotta  e  vogghiu  scialu  e  cantu, 
Ca  quantu  moru,  mi  quetu  lu  senzu.  (^) 

Ma  a  Venezia  vive  il  solo  tetrastico  con  un  verso 
non  mutato  dell'antica  lezione  : 

Quanti  ghe  n'è  che  me  sente  cantare, 
E  i  dise  :   Custìa  canta  dal  bon  tempo  ! 
Che  prego '1  ciel  che  li  poss'agiutare  : 
Quando  che  canto  alora  me  lamento.  (^) 

E  neir  Istria  : 


(1)  Tigri,  n.  22,  e  ridotto  a  Stornello,  in  Giannini,  C.p.  ìuont.  lucch  ,y.  3. 
Cfr.  Ferraro,  C.  popol.  di  Lagosciiro,  n.  55;  Garlato,  p.  344. 

(2)  Cod.  Palat.,  n.  228. 

(3)  Salomone-Marino,  n.  221. 

(4)  Dal  Medico,  p.  O'J.  Cfr.  Bernoni,  punt.  IV,  ii.  8;  Caliaf.i,  p.  257. 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  213 

Quanti  de  quisti  me  sento'  a  cantare 
Deìse  :  Quileìa  canta  l'uò  el  bon  tempo  ! 
E  cusseì  Ideìo  li  puossa  gióutare  : 
Quando  ch'i  canto  alura  i'  me  limento.  (') 

E  anche  nelle  Marche  : 

Quanti  ce  n'è  che  me  sente  cantare, 
Dice  :  Beata  a  lia,  eh'  ha  '1  cor  contento  ! 
Per  grazia  non  mi  fate  biastimare  : 
Ch'  io  quanno  canto,  allora  mi  lamento.  C^) 

L'amore,  a  detta  di  quest'altro  Rispetto,  comin- 
ciò dalle  fasce,  anzi  prima  del  nascere  dell'amata  : 

Bella,  non  eri  nata,  eh'  io  t'amavo. 
Ora  sarebbe  il  tempo  eh'  io  t'avesse  ; 
Tua  madre  partoriva,  ed  io  pregavo 
Acciò  una  bella  femmina  facesse, 
E  davanti  al  compare  me  n'andavo 
Acciò  che  un  nome  bello  ti  mettesse. 

Ti  mise  nome  Rosina  d'amore, 
Per  farmi  consumar  la  vita  e  il  core  : 

Ti  mise  nome  Rosina  incarnata; 
E  per  farmi  morir,  bella,  sei  nata.  ('■^) 

Su  questo  stampo  va  la  lezione  veneziana  : 

Giera  ancora  da  nassar  che  te  amava, 
Dover  no  gera  che  nissun  te  amasse  : 
La  mamma  partoriva,  e  mi  pregava 
Venze  de  mascio,  femena  nasesse, 
Davanti  el  padre  tuo  me  inzenociava 
Che  qualche  gran  bel  nome  el  te  metesse  ; 

Che  el  te  metesse  nome  Gigia  bela: 
Altra  no  amo,  se  no  amo  quela.  (""j 


(1)  IvE,  p.   17. 

(-)  GiANANDEEA,  p.  8.  Cfc.  SABATINI,  C.poxì.  romani,  in  Eicista  di  leti, 
popol.,  I,  9.3. 

(3)  TiGKi,  n.  91. 

(4)  Bernoni,  punt.  VII,  ii.  10.  Cfr.  Dal  Medico,  p.  115.  Kella  lezione 
vicentina  (Alveea,  n.  li),  il  nome  è  CJiiara  stella,  come  nel  Rispetto  11.3-12 
del  Tigri.  Kella  lezione  istriana  dell"  Ive,  p.  22,  il  nome  è  Galante,  nella 


214  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Né  diverso  è  lo  Strambotto  siciliano  : 

Bella,  'un  eravu  nata,  ed  iu  v'amai. 
Sempre  li  sensi  mei  fora  ccu  vui, 
Ccu  vostra  marna  li  santi  piiai 
Pri  fari  fimminedda,  e  fici  a  vui  ; 
A  la  mammana  iu  la  ji  a  chiamai 
Pri  mèttiri  ssu  iiomu  beddu  a  vui  ; 
Zzuccaru  e  meli  a  la  fonti  purtai, 
Pri  fari  duci  la  vuccuzza  a  vui.  (') 

Il  giubilo  per  la  contemplazione  della  beltà  del- 
l'amata erompe  dall'animo  del  cantore  toscano  a 
questo  modo: 

Sia  benedetto  chi  fece  lo  mondo  ! 
Lo  seppe  tanto  bene  accomodare. 
Fece  lo  mare,  e  non  vi  fece  fondo. 
Fece  le  navi  per  poter  passare. 

Fece  le  navi,  e  fece  il  Paradiso, 
E  fece  le  bellezze  al  vostro  viso.  (^) 

Alquanto  diversa  è  la  lezione  siciliana  di  Partinico: 

Vurria  sapiri  cu'  fici  Iu  munnu  : 
E  cu'  hi  fici  Iu  sappi  ben  fari  ; 
Fici  Iu  suli  cu  Iu  circu  tunnu, 
Fici  la  luna  'nta  Iu  fari  e  sfari  ; 
Fici  Iu  mari  poi  eh' è  senza  funnu, 
Fici  la  navi  pri  Iu  navicari  ; 
Aju  firriatu  tri  voti  Iu  munnu, 
E  bedda  cumu  tia  'n  uni  potti  asciari.  (^) 

Però  lina  lezione  di  Terra  d'Otranto  meglio  si  ac- 
costa alla  toscana  : 

Sia  benedittu  ci  fico  Iu  mundu! 
Comu  Iu  sappo  bone  fabricaro  ! 


romagnola  del  Percìoli,  n.  171,  Marianna.  Una  lezione  ferrarese,  tratta  da 
un  manoscritto  del  secolo  XVIII,  ò  recata  da  H.Yetì^avm.  in  Arch.  ti-axìU. 
piipol..  Il,  586. 

(1)  Vigo,  n.  354. 

{?)  Ticini,  n.  100.  Cfr.  n.  279,  480,  e  Tommaseo,  p.  18. 

(3)  Salomone-Marino,  n.  16. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  215 

Fice  la  notte  e  poi  fice  lii  giurmi, 
E  poi  lu  fice  crisceie  e  mancare. 
Fice  la  mare  tantu   ciipu  e  fandn, 
Ogni  vascellu  pozza  navigare  : 
Fice  pure  le  stelle  e  poi  la  luna  ; 
Poi  fice  l'occhi  toi,  cara  padruna.  (') 

È  notissimo  il  Rispetto,  nel  quale  la  bruna  figlia 
del  contado,  nigra  sed  fornìosa,  scusa,  esalta  anzi  il 
colore,  che  sul  suo  volto  induce  il  non  ripartito  rag- 
gio del  sole  : 

Tuiti  mi  dicon  che  son  nera  nera: 
La  terra  nera  ne  mena  il  huon  grano: 
Guardatelo  il  garofano,  gli  è  nero, 
Con  '^[uanta  cortesia  si  tiene  in  mano.  (-) 

La  neve  è  bianca,  e  sta  sulle  montagne. 
Il  pepe  è  nero,  e  va  nelle  vivande  ; 

La  neve  è  bianca,  e  sta  su  per  i  monti, 
Il  pepe  è  nero,  e  sta  in  tavola  e'  conti.  (^) 

Ognuno  facilmente  scorgerà  la  rassomiglianza  collo 
Strambotto  raccolto  a  Catania,  che  però  è  applicato  ad 
uomo  : 

Mi  mannastivu  a  diri  ch'era  niru, 
Niura  è  la  terra  ca  fa  lu  dinaru  ; 
Lu  galofiru  è  beddu  quannu  è  nini, 
E  pri  bellizza  lu  tegnu  a  li  manu  ; 


(1)  Imbriani,  C.  popol.  pror.  merid.,  II,  117.  Vedi  ivi  altre  lezioni  me- 
ridionali, e  cfr.  Mandalari,  p.  15;  Molinaeo,  C.  popol.  napol.,  p.  255  e 
C.  p.  di  Metta,  n.  56;  Fuortes,  C.  p.  di  Giuliano,  n.  21;  Amalfi,  n.  142; 
efr.  una  lezione  marchigiana  in  Gianandbea,  p.  193,  romagnola  in  Pergoli, 
n.  413,  e  umbra  in  Mazzatinti,  p.  349. 

[-)  Anche  in  un  distico  popolare  greco:  ....  j7  garofano  h  nero  e  si 
rende  caro:  Mahcellus,  op.  cit.,  p.  277.  E  Virgilio  :  Alba  lignstra  cadimi, 
vaccinia  nigra  leguntur. 

(3)  Preferisco  questa  lezione  da  una  mia  Raccolta  manoscritta  a  quella 
del  Tigri,  n.  143  (cfr.  anche  n.  216),  dove  la  seconda  parte  riguarda  il  damo: 

Tutti  mi  dicono  che  il  mio  damo  è  tinto; 
A  me  mi  pai'e  un  angiolo  dipinto: 
Tutti  mi  dicon  che  il  mio  damo  è  nero: 
A  me  mi  pare  un  angiolo  del  cielo. 

Vedi  altra  lezione  toscana  nel  Livi,  p.  13. 


216  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

L'amuii  di  li  ni  uri  è  amuri  finu, 
L'amuri  di  li  janchi  è  aniuri  sanu  . 
Sai  chi  ti  sacciu  a  diri,  amuri  finu  ? 
Li  iiiuri  cu  li  janchi  si  confanu.  (^) 

Mista,  a  quel  che  sembra,  di  siciliano  e  di  toscano, 
e  in  ultimo  interpolata,  è  questa  lezione  di  Groita- 
minarda  nel  Principato  ulteriore: 

L'ammove  mmio  mm'ha  mauuato  a  dire:  (^) 
Dice  ca  so'  brunetto,  e  non  mme  vele. 
Io  le  mannaje  a  dicere  accusi  : 
La  terra  nera  buono  grano  mena  ; 
La  terra  'janca  va  pe'  lo  vallone,  (') 
La  terra  nera  sse  compra  a  denaro. 
Non  te  feda'  de  l'albero  che  penne. 
Manco  de  l'ommo  curto  che  te  'nganna.  {*) 

La  maggior  forza  del  sentimento  amoroso   fin 
sulle  pratiche  devote  è  così  espressa  in  Toscana: 

Dimmi,  bellino,   com'  i'  ho  da  fare 
Per  poterla  salvar  l'anima  mia? 
r  vado  'n  chiesa  e  non  ci  posso  stare, 
Nemmen  la  posso  dir  l'Ave  maria: 

r  vado  'n  chiesa,  e  niente  posso  dire  : 
eh'  i'  ho  sempre  il  tuo  bel  nome  da  pensare; 
r  vado  'n  chiesa,  e  non  posso  dir  niente. 
Ch'i' ho  sempre  il  tuo  bel  nome  nella  mente;  {'") 

che  a  Venezia  si  canta  in  questa  forma  : 

L'amor  me  fa  redur  a  un  passo  tale. 
Che  co'  so'  a  messa  no   so  dove  sia. 


(1)  Vigo,  ii.  1441.  Cfr.  Salomone-Marino,  n.  42,  43. 

(2)  Cfr.  col  verso  del  Rispetto  toscano  del  Tigri,  n.  Ifitìl:  i'  lo  mio 
amor  me  V  ha  mandato  a  dire,  e  del  Bernoni,  puiit.  IV,  li.  40:  La  mare 
del  mio  ben  ìii' ita  manda  a  dire  ecc.  Vedi  anche  Caliari,  p.  SG,  1.3U. 

(3)  Tigri,  li.  116:  La  neve  !>  bianca  e  sia  su  pe'  valloni. 

(})  Imbriani,  C.  pop.  prov.  merid.,  II,  54,  e  cfr.  Molinaro,  C.  p.  nap., 
p.  230  e  Corazzini,  p.  205.  Gli  ultimi  due  vei-si  swWalbero  die  pende,  .ap- 
partengono ad  altro  Canto  elio  nel  Veneto  dice:  Non  te  fidar  de  l'alboro 
che  pende:  Dal  Medico,' p.  114,  e  cfr.  Bernoni,  punt.  II,  n.  43;  Altera,  n.  18; 
Pasqualioo,  n.  5;  Widter-Wolf,  n.  4:3,  e. 

(6)  Tigri,  n.  262. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  217 

No  sò  s'  el  prete  leza  sul  messale, 

Né  manco  no  sò  dir  l'Avemaiia. 

E  se  la  digo,  poco  la  me  vale, 

Dal  ben  che  mi  te  vogio,  anema  mia  ! 

Te  tegno  tanto  in  la  mia  mente  scrita  : 

Amo  più  ti,  che  la  mia  propria  vita.  (') 

Similissima  è  la  lezione  corsa: 

Gioja,  tu  m'  ha'  riduttu  a  singhiu  tali 
Voju  a  la  messa,  e  nun  so  duvi  sia  : 
Nun  ascoltu  parodra  di  u  missali, 
E  min  soju  piìi  dì  dr' Ave  maria  ;  (^) 
Quann'  e'  la  dicu,  nudra  nun  mi  vali, 
Parchi  t'  ho  sempri  in  ti  la  fantasia  : 
E  parchi  e'  soju  a  tia  troppu  riali, 
In  onghi  locu  sempri  ti  bunìa.  (^) 

Or  ecco  la  versione  insulare  : 

Amuri,   amuri,  chi  m'hai  fattu  fari! 
Li  senzii  mi  1'  hai  misu  'n  fantasia, 
Lu  patrinnostru  m'  ha'  fattu  scurdari 
E  la  mitati  di  la  vimmaria; 
Lu  creddu  nun  lu  sacciu  'ncuminciari, 
Vaju  a  la  missa,  e  mi  scordu  la  via  ; 
Di  novu  mi  voggh'jri  a  vattiari, 
Ca  turcu  addivintai  pri  amari  a  tia.  {■*) 

Questo  Rispetto  toscano,  clie  ha  insieme  del  ma- 
lizioso e  dell'ingenuo,  serba  quasi  integro  il  tetrastico 
del  corrispondente  Strambotto  : 

Dimmelo,  caro  amor,  come  facesti, 

Quando  dal  petto  mio  cavasti  il  cuore? 
Dimmelo,  con  che  chiave  me  l'apristi 
Che  non  sentii  né  pena  né  dolore? 


(1)  Dal  Medico,  p.  73. 

('-)  Cfr.  con  Tigri,  n.  350:  Giovanottino,  m'hai  ridotto  a  tuie,  furio  aila 
Messa  e  non  so  dove  sia  :  Sapevo  le  paroie  del  Messale,  Adesso  non  so  pih 
l'Ave  maria  ecc. 

(3)  Tommaseo,  C.  xiopol.  Corsi,  Venezia,  Tasso,  1841,  p.  34i;  Viale. 
C.  ìjopol.  Corsi,  Bastia,  Fabiani,  1855,  p.  234. 

{*)  Vigo,  n.  1462.  Cfr.  Avolio,  n.  76;  Seveeini,  ii.  59  e  Gioegi.  n.  7. 


218  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

'Gna  che  tu  l'esse  la  chiave  reale  : 
Cavallo  un  cor  dal  petto,  e  non  far  male; 

'Gna  che  tu  l'èsse  la  chiave  d'avorio: 
Cavarlo  un  cor  dal  petto,  e  'n  sentir  duolo.  (^) 

Infatti  in  Sicilia  suona  così: 

Dimmilln,  amuii  min,  conni  facisti 
Quannu  hi  cori  'n  petto  m'arrubbasti, 
E  quali  fu  la  chiavi  ca  rapristi, 
Ca  mancu  ppi  ummra  duluri  mi  dasti  ? 
Ca  la  chiavi  daveru  e  tu  l'avisti. 
Rapisti  adaciu,  e  poi  ti  lu  scippasti  : 
Chissà  è  lu  primu  dannu  ca  facisti, 
E  doppu  ca  ccu  tia  m' incatenasti.  (^) 

Artificioso    è,   come  ognun   vedrà,  il  seguente 
Rispetto  : 

M'  è  stato  dato  un  pomo  lavorato, 

Ed  io  per  pegno  gli  ho  dato  il  mio  core. 
Intorno  intorno  gli  era  inargentato, 
In  mezzo  ci  era  scritto  due  parole. 

Una  diceva:  Core  tanto  amato; 
L'altra  diceva  :   Gelosia  d'amore; 

Una  diceva:  Spìccio  e  viole; 
Siete  la  catenella  del  mio  core; 

Una  diceva:  Spicolo  e  mortella; 
E  del  mio  cor  siete  la  catenella.  (^) 

Con  molte  irregolarità,  per  perdita  di  rime,  vi  si 
accosta  questa  Vilota  veneziana  : 


e  la  lezione  meridionale  in  Imbeiani,  C.  pop,  titani,  n.  6;  Mandalart,  p.  240, 
e  MoLiNARO,  C  ^).  nap.,  p.  128.  Cfr.  questo  Canto  popol.  spagnolo: 

Voy  a  misa  y  no  la  oigo 
(Dile  il  Dio  que  me  perdone) 
Porqne  no  qxiito  los  ojos 
Del  sitio  donde  te  pones  : 

V.  lì.  Marin,  C.  pop.  espan.,  Sevilla,  1882,  II,  2'C,. 

(1)  Tigri,  n.  299.  Cfr.,  per  il  solo  primo  tetrastico,  la  lezione  veronese 
in  Cesconi  ecc..  Canti  popol.  veronesi,  n.  17:  e  i  soli  primi  due  versi  in  un 
tetrastico  marchigiano  presso  Gianandrea,  p.  20. 

(2)  Vigo,  n.  484:  cfr.  lezione  romana  in  Corazzini.  p.  271. 

(^)  Tigri,  n.  321.  Cfr.  per  doni  consimili,  Tigri,  n.  458;  Vigo,  n.  51^  ce. 


LA  P0ESL4.  POPOLARE  ITALIANA.  219 

M' è  stato  regalato  tre  iiaranze, 
Drento  ghe  gera  scrite  tre  parole  : 
Una  diseva:   Ohimè,  qnatito  mi  ami! 
L'altra  disea  :  Da  gelosia  mi  moro  ! 
L'altra  diseva:  Anima  tevena  ! 
Ma  no  tegnir  amanti  a  la  catena.  (') 

La  probabil  forma  prima  è  in  questo  Canto  siciliano: 

Mi  mannasti  un  pumiddu  muzzicatu, 
E  jo  pri  canciu  ti  mandai  lu  cori  ; 
Ed  era  tutta  d'ora  arracamata, 
Dintra  cc'eranu  scritti  tri  palori; 
Una  diceva  :  cori,  e  l'autru  :  clatu, 
L'autra  obi  pri  tia  st'arma  nni  mori  : 
Nu  'mporta  ca  m'aviti  'bbandiinatu, 
Sempre  siti  chiavuzza  di  sta  cori.  (-) 

Sotto  le  finestre  della   sua  bella  così   canta  il 
villico  toscano  : 

Vengo  di  notte,  e  vengo  appassionato. 
Vengo  nell'ora  del  tuo  bel  dormire  ; 
Se  ti  risveglio,  faccio  un  gran  peccato, 
Perchè  non  dormo,  e  manco  fo  dormire. 
"    Se  ti  risveglio  un  gran  peccato  faccio; 
Amor  non  dorme,  e  manco  dormir  lascia;  (^) 


(1)  Dal  Medico,  p.  129. 

{",  PiTijÈ,  Canti  2>opol.  sicil.,  I,  il.  242.  Cfr.  Vigo,  il.  1867  ;  altra  lezione 
in  Lizio-Bruno,  Canti  pop.  Isol.  Eoi.,  n.  31  ;  napoletana  in  Kopiscii.  p.  142 
e  in  MoLiNAEO,  C.  jjop.  nap.,  p.  22.3  ;  marchigiana  in  Gianandeea,  p.  108.  Si 
direbbe  che  A.  Veneziano  imitasse,  perfezionandolo,  questo  Strambotto  po- 
polare, in  quest'ottava  del  20  libro  di  la  Celia  (Opere,  Palermo,  Giliberti, 
1859,  p.  85,  n.  264)  : 

Un  pumu  russu  la  bedda  mi  detti 
Cu  facci  allegra,  accussì  sia  sincera  ! 
Russu  è  pri  stizza,  ed  iu  chi  chiù  nun  stetti 
Subitu  lu  spaccai,  vitti  chi  nn'era  ; 
Ci  truvai  cincu  ariddi,  chi  poi  letti 
Furmaru  littri,  chi  dicianu  Spera. 
Beatu  mia  tri  voti,  s'a  l'affetti 
Lu  russu  è  presti  e  la  spiranza  è  vera. 

(3)  TiGHi,  n.  372;  cfr.  n.  403.  Cfr.  Xieki,  n.  21. 


220  LA  POESIA  POPOLARE    ITALIANA. 

e  a  questo  modo  nell'Umbria: 

Vado  de  notte  e  vado  passeggiando, 
Vado  sull'ora  del  dolce  dormire, 
Se  io  te  sveggliio  faccio  'n  gran  peccato 
Perchè  min  dormo  e  min  lasso  dormire  : 
Dorme,  bellina  mia,  dorme  sigura. 
Che  io  sirò  il  guardian  de  le  tue  mura  ; 
Dorme,  bellina  mia,   dorme  serrata, 
Che  io  sirò  '1  guardian  de  la  tu'  casa.  (^) 

Neil"  Istria  il  Canto  si  è  ampliato  così  : 

Deh,  cumpatime,  cara  visinanza, 

Se  quista  nuoto  i'  son  vignoii  a  cantare  ; 

In  'sta  cuntrada  i'  go  'na  dubitanza, 

'Na  poùta  biela,  i'  mi'  la  puoi  lassiare. 

E  cumpatime  s'  i'  son  vignoù  tardi, 

Pioùn  a  bun'ura  i' n' iè  possioù  vineìre  ; 

r  son  vinoùto  de  la  mieza  nuoto, 

Gioùsto  su  Tura  del  dul(;'e  durmeire  ; 

Faco  l'amure  e  nu'  faco  peccadi, 

E  mei  nun  duormo  e  i'  mi' lassio  durmeire.  (^) 

La  mossa  delle  due  versioni  è  in  questo  Canto  si- 
ciliano : 

Vinni  di  notti  a  puntu  di  durmiri; 

Mi  ti  spezzu  lu  sonnu  è  gran  piccato  ; 
Facciuzza  di  billizza  e  di  piaciri, 
Cu  ti  r  ha  dittu  chi  t'avia  lassatu  ? 
Jò  nun  ti  lassù  'nfin'  a  lu  muriri. 
Mentri  mi  dura  la  vita  e  hi  sciatu  ; 
Quannu  a  la  Chesa  'n  mi  viditi  jiri, 
Tannu  cridi  chi  t'  haju  abbannunatu.  (^) 

La  trasformazione  in  qualche  animale,  più  spesso 


(1)  Mazzatinti,  11.  242. 

(2)  IvE.  rag.  11. 

(3)  Vigo,  ii.  1858.  Cfr.  ii.  1301,  dove  il  penult.  verso  dice  meglio: 

Quannu  a  la  fasta  mi  ridi  scinniri. 


LA   POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  221 

in  un  uccelletto,  (^)  ricorre  sovente  nei  Canti  amo- 
rosi di  tutti  i  popoli  ed  anche  in  poeti  culti;  (")  e 
in  Toscana,  ad  esempio,  si  canta  così: 

Piacesse  al  ciel  ventassi  un   rondinino. 
Avessi  l'ale  e  potessi  volare  ! 
Vorrei  volar  su  l'uscio  del  mulino, 
Dove  sta  lo  mi'  amore  a  macinare  : 

Vorrei  volar  sull'uscio  e  poi  sul  tetto, 
Ove  sta  l'amor  mio,  sia  benedetto  ! 

Sia  benedetto,  e  benedetto  sia 
La  casa  del  mi'  amore,  e  poi  la  mia  ; 

Sia  benedetta,  e  benedetta  sempre 
La  casa  del  mi'  amore,  e  poi  la  gente.  (^) 

Il  secondo  verso  resta  quasi  sempre  lo  stesso,  il 
terzo  si  adatta  alla  variata  rima  del  primo  ;  onde 
altra  lezione  toscana,  che  dice  cosi  : 

Piacesse  al  ciel  eh'  io  fossi   rondinella. 
L'avessi  l'ale  e  potessi  volare  ! 


(1)  Vedine  raccolti  paieeclii  esenipj  in  Lizio-Bruno,  Canti p.  Isol.  Eoi., 
p.  12L  Aggiungi  queste  vaghissime  Villette  friulane  (Aiìboit,  n.  798,  8721: 

S'  i"  foss  une  sizilline  (rondinella) 

'Orress  mettimi  a  svuelà  ; 

Par  là  a  viodi  che"  ninine 

Su  ehel  jett  a  ripozà. 
Se  io  foss  una  sizilla 

Sul  balcon  vorrèss  vola, 

Vorrèss  bàtti  tant  las  alas 

Fin  eh'  a  mi  lassàss  entra. 

In  alcune  Villanelle  napoletane  del  sec.  XVI.  il  desiderio  è  di  trasfor- 
marsi in  grillo  :  v.  V.  Eossi,  Lett.  del  Calmo,  p.  6,  n. 

{-)  Per  esempio  in  Bernardo  da  Ventadorn  (v.  Baptsch,  Chresiom. 
provenr.,  Elberfeld,  1895,  col.  52): 

Ai  Deus  ar  sembles  ironda 
Que  voles  per  l'aire 
Que  vengues  du  noit  prionda 
Lai  al  seu  rapaire  I 

(3)  Tigri,  n.  449.  Cfr.  n.  418,  448,  625.  Altra  lezione,  in  Giuliani,  Let- 
tere sul  vivente  Unguagg.  tose,  p.  365.  Vedi  anche  per  1'  Umbria,  Mazza- 
tinti,  n.  194  ;  per  la  Sicilia,  Pitrè,  Canti  popol.  sù-.il.,  I,  n.  60,  61  e  Vigo. 
n,  1543;   per  T Istria,  Ive,  p.  123;   per  Ferrara,  Febraro  wcW Arch.  tradiz. 


222  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Volar  vorrei  'n  quella  contradia  bella 
Dove  l'è  lo  mio  amore  a  lavorare.  (^) 

Ma  a  Venezia  vi  si  conserta  l' immagine  del  mare  : 

Vorave  esser  in  pé  d'un  oseleto, 
Aver  le  ale  per  poder  svolare! 
Vorave  andar  in  sima  d'un  trinclietu, 
A  veder  lo  mio  amore  a  navegare.  (^) 

Tutte  le  lezioni  ritornano  al  principio  di  un  Canto 
siculo  : 

Oìi  Diu,  ch'addiventassi  pahimmedda  ! 
L'ali  mi  vurria  mettiri  e  vulari  : 
Virria  a  pusari  'nta  ssa  cammaredda, 
Quanta  li  virria  vestiti  e  spugghiari. 
Oh  Diu,  chi  l'arti  mia  fussi  pitturi  ! 
Ca  un  ritraitu  di  tia  m'avirri'  a  fari  ; 
Bedda,  chi  sempre  pensi  a  lu  me  amuri, 
Amuri,  lu  me  nnomu  'n  ti  scurdari.  (^) 

Alla  sua  Caterina  l'amatore  vorrebbe  fare  un 
bel  telajo,  e  così  si  esprime  la  lezione  toscana  : 

Un  albero  di  pepe  vo'  tagliare 
Per  fare  lo  tejaro  a  Caterina; 
Le  casse  d'oro  li  ci  voglio  fare  : 
Ci  si  potrà  specchiar  sera  e  mattina. 
Le  fila  d'oro  e  la  spola  d'argento: 
0  Caterina,  non  mi  dar  tormento.  (■*) 

Nelle  Marche  varia  a  questo  modo: 

'N  mezzo  del  mare  un  arboro  de  pepe  ; 
Marinarello,  arcojene  'na  rama, 


pui)Ol.,  II,  587  ;  per  lo  Marche,  P.  F.  Leopaisdi,  C  pup.  recanat.,  u.  0,  o  jiel 
Veneto,  Gaelato.  p.  3.37. 

(1)  Tommaseo,  pag.  144,  e  vedi  ivi  altre  lozioni. 

(2)  Beknoni,  punt.  Ili,  11.  14,  e  altra  versione  in  Ti-adis.  popol.  veiies., 
p.  127.  Cfr.  Dal  Medico,  p.  'JìK 

(3)  Salomone-Marino,   n.  91;  Vkio,   n.   509.  Altra  lezione  in  Lizio- 
Brl'NO,  ('unti  scelti  popol.  siciL,  l'i.  04;  v.  anche  Fiori  selvatici,  n.  9G. 

(•»;  Tigri,  n.  459. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAKA.  223 

Pei-  facce  lo  telaro  a  Teresina. 
0  Teresina,  contenta  sarai 
Co'  'n  telaron  de  pepe  tessarai, 
0  Teresina,  contenta  sarete, 
Co'  'n  telaron  de  pepe  tesserete.  (') 

L'albero  di  pepe  sparisce  nella  lezione  sicula  : 

Oh  Din,  chi  sta  carerà  fussi  mia, 
Ch' è  la  cchiù  bedda  di  chista  citati! 
Un  tilareddu  d'ora  cci  farla, 
Cu  quattru  arvulicchi  attiuniati  : 
Unii  d'aranci»,  'n'  autru  di  lumia, 
Unu  di  panna,  e  'n'  autru  di  granati. 
Oh  Diu,  t'avissi,  Catarina  mia, 
Ca  cchiù  imn  patiria  chiddu  chi  pati!  (^) 

Ma  ritorna  in  una  lezione  del  Principato  citeriore: 

Voglio  fa'  'n  arbore  de  pepe 

Pe'  fa'  lu  telaru  a  neiina  mmia  ; 
La  navetella  de  noce  moscata, 
Le  lizze  so'  de  seta  carmosina  ;  (^) 

dove  per  rifar  la  rima  del  secondo  verso,  converrà 
riporre  il  nome,  già  trovato  in  altre  versioni,  di 
Caterina. 

Questo  proposito  di  fare  all'amata  un  telajo 
prezioso  è  voto  antico  del  popolano  poeta,  imitato 
ben  presto  da  poeti  di  meno  incolto  stile;  e  già  in 
mano  a  un  vecchio  facitore  di  versi,  era  diventato 
un  sonetto,  anzi  un  sonetto  caudato  : 

S' io  il  potessi  far,  madonna  bella. 
La  tela  che  tessete  faria  d'oro 


(.1)  GiANANDREA,  p.  201  ;  cfr.  Mazzatinti,  11.  337. 

{-)  Salomone-Maeino.  11.  105.  Cfr.  la  lezione  del  Vigo.  ii.  2345,  dove 
le  rime  del  2»,  4tJ  e  6"  sono  perfette,  e  tutte  in  atu.  Per  una  lezione  ca- 
labrese, vedi  Canale,  n.  21. 

(3)  Imbkiani,  C.  pop.  provine,  merid.,  II,  p.  212;  efr.  Finajiore,  Vocah., 
271  ;  Mandalaki,  p.  123  ;  De  Nino,  Usi  e  cast,  abnuz.,  Ili,  222  ;  Molinaro 
Del  Chiaro,  C.  p.  materani,  l;  Amalfi,  n.  166. 


224  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAXA. 

E  le  do'  spuole  d'un  sottil  lavoro 

D'un  rubino  che  luce  più  che  stella  ; 
E  d'argento  farei  cento  cannella 

Tutte  smaltate  con  sottil  lavoro, 

E  lo  spoletto  che  metti  nel  foro 

D'un  diamante  che  si  metta  in  ella. 
Le  casse  e  banche  faria  di  corallo, 

Pettine  e  liccio  d'avorio  commessi. 

Seggiola  e  calcol  faria  di  cristallo. 
E  per  lucerna  vorrei  che  voi  avessi 

Due  carboncin,  che  lucan  senza  fallo, 

E  balsamo  per  olio  vi  mettessi. 
E  io  con  voi  starei  a  imbavare  (a  lavorare?): 
Cento  anni  e  più  penassi  a  insegnare  (a  imparare?).  (') 

Ma  presto  sì  era  raccorciato  in  uno  Strambotto: 

Se  io  potessi  far,  fanciulla  bella, 
La  tela  che  tu  tessi  faria  d'oro, 
E  d'ariento  farei  le  cannella 
E  lo  spoletto  che  metti  nel  foro, 
E  di  cristallo  farei  la  panchetta: 
(Quella  dove  siedi,  o  fanciulletta. 

Nel  Rispetto  che  segue  sono  uniti  insieme  due 
diversi  Canti;  e  difatti  i  primi  due  versi  sono  privi 
di  rispondenza  ritmica  con  i  seguenti: 

Non  mi  chiamate  più  biondina  bella 
Chiamatemi  biondina  isventurata. 
Se  delle  sfortunate  c'è  nel   mondo. 
Una  di  quelle  mi  posso  chiamare. 
Get^to  una  palma  al  mare,  e  mi  va  al  fondo: 
Agli  altri  vedo  il  piombo  navigare. 

Che  domine  ho  fati' io  a  questo  mondo? 
Ho  l'oro  in  mano,  e  mi  diventa  piombo. 

Che  domine  ho  fatt' io  alla  fortuna? 
Ho  l'oro  in  mano  e  mi  diventa  spuma. 

Che  diamine  ho  fatt'  io  a  questa  gente  ? 
Ho  l'oro  in  mano  e  mi  diventa  niente.  ('*) 


(1)  Il  son.  ì)  tratto  dal  cod.  lauvcnz.  122  della  SS.  Aiiiiiin/..;  lo  stram- 
botto seguente  dal  laur.  gadd.  161  :  vedi  S.  Fekkaiìi,  Sonetti  e  Strambotti, 
in  liii.'.  crii.  leti.  Hai.,  Ili,  188  e  Bibliot.  lett.  popol.,  I,  p.  83. 

(-)  Tigri,  n.  540.  Cfr.  Nieki,  n.  101;  Caliaei,  p.  39  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAXA.  225 

Il  distico  iniziale  è  il  Canto  storico  per  Isabella  di 
Lorena,  del  quale  abbiamo  già  detto  piìi  addietro  :  O 
ma  il  rimanente  del  Canto  toscano  dopo  il  distico 
iniziale,  si  raffronta  con  uno  Strambotto  siculo  : 

Di  quanta  sfiutiinati   c'è  a  la  iiiunnu 
Una  di  cliisti  mi  pozza  chiamali  ; 
.Tetta  la  paggliia  a  mari  e  mi  va  a  tanna, 
E  ad  aatru  vija  la  chiamma  natali: 
Autra  fa  palazzi  'atra  un  sdirappu, 
Ed  io  'ntra  chiani  non  ni  pozza  fari  ; 
Autra  munci  la  petra  e  nesci  sucu, 
Pri   mia  siccaru  l'acqui  di  la  mari.  (') 

E  direttamente  da  questa  lezione,  anziché  dalla  me- 
diana, direbbesi  derivata  la  lezione  ligure  : 

I  più  disfortiinà  eh'  i  sua  al  manda, 
Una  di  quelli  mi  possu   chiamare  ; 
Metta  'na  piiimma  'n  ma',  e  n'an  va  ar  fandu, 
r  altri  lo  pumbi  lu  fan    navegare  ; 
r  altri  fan  li  palassi  a  la  montagna, 
Mi  a  la  pianura  ma  li  possu  fare; 
r  altri  fan  l'amù  cun  le  fìe  bele, 
Mi  manc'er  suzze  mi  vihu  mirare.  (■') 

Infinite  varianti  ha  per  ogni  dove  il  canto  della 
tortorella  :  (*)  a  proposito  del  quale  è  da  notare  che 


(1)  Vedi  a.  pag.  Ili  e  segg. 

{-)  Vigo,  n.  3097.  Lezione  calabra  in  Canale,  n.  45  e  in  Mandalaki, 
p.  49,  3G0.  391;  greco-leccese  in  Morosi,  SltidJ,  n.  119;  umbra  in  Mazza- 
tinti,  n.  321;  marchigiana  in  Gianandrea,  p.  188;  lucchese  in  N^teri,  101, 
e  in  Giannini,  p.  12,  e  in  C.  pop.  tovc,  p.  247  e  363;  veronese  in  Caliari, 
p.  49;  tetrastico  in  Ive,  p.  113.  Anche  la  lezione,  veneta  (Bernoni,  punt.IV, 
n.  74;  è  un  tetrastico,  ma  riducibile  a  Stornello,  perchè  il  4^  v.  è  identico 
al  1".  E  stornello  è  anche  la  lezione  romana,  in  Siv.  lett.  popol.,  pag.  94. 
13)  Maecoaldi,  Canti  popoì.  lig.,  n.  31. 
(■1)  Una  antica  Canzone  popolare  francese  : 

An  bois  de  dueil  je  m'en  iray .... 
En  ressemblant  la  turturelle, 
Qui  a  le  cffiur  triste  et  marry; 
Quand  elle  a  perdu  sa  pareille. 
.Sur  branche  seiehe  va  à  mourir: 

Haupt,  Franznsische  VolksUed.,  Leipzig,  Hirzel,  1S77,  p.  12:  e  cfr.  altra  Can- 
D'Ancona,  La  poesia  pop.  itaì.  —  15 


226  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

fin  dal  sec.  XIII,  Boncompagno  da  Sigua  nella  sua 
Bota  Veneris  additava  l' immagine  della  tortorella 
vedovata  fra  le  altre  forinole  da  adoperarsi  nell'epi- 
stolario erotico.  Faciam,  egli  scriveva,  sicut  turtur, 
que  SHiuìi  perdit  maritum....  Illa  s'iquidem  posteci  non 
i<edet  in  ramo  viridi  sed  gemet  in  sicco  ranw  voce  flehile 
jugiter,  et  aquam  claram  turbat  cuni  appetit  libere; 
nidlum  Itisi  niortis  prestolatur  solatium.  (^)  Siffatta 
menzione  nel  formulario  del  retore  bolognese,  non 
che  in  alcuni  Bestiarj  moralizzati,  e  fra  noi  nel  Fioì- 
di  Virtii  (cap.  XXV),  nei  Sermoni  del  Sacchetti  e  nel- 
Y Acerba,  rese  comune  a  poeti  di  popolo  e  a  poeti 
d'arte  la  gentile  e  mesta  immagine.  Ai  molti  esempj 
già  raccolti  (^)  ne  aggiungo  uno  tratto  da  un  poe- 
metto popolare  intitolato  la  Salamandra  : 

Vedova  toitorclla,  che  si  lagna 

Fugge  fra  selve  oscure,  e  spaventosa 
Va  ricercando  la  persa  compagna, 
Scura,  scontenta,  mesta  e  dolorosa; 
Arriva  all'acqua  chiara,  e  là  si  bagna. 
Poi  se  la  beve  cosi  torbidosa  ; 
Così  pur  io  perverso  e  sfortunato. 
Cerco  la  donna  mia  che  in'  ha  lasciato.  (^) 

Ecco  la  forma  di  quel  cauto  sulle  bocche  del  popolo 
di  Toscana: 

La  tortora  che  ha  perso  la  compagna 
Fa  una  vita  molto  dolorosa  : 


zone  francese  in  G.  Paris,  Ch.  du  XV  s.,  Paris,  1875,  p.  145.  Vedi  per  altri 
raffronti,  spagnoli  e  danesi,  Gian,  in  Giorn.  star.  leti.  Hai.,  IV,  45,331  e  del 
medesimo,  Spigolature  petrarch.  nel  Numero  Unico  Padova  a  F.  Petrarca. 

(1)  E.  Monaci,  La  R.  Ven.,  cstr.  dai  liendic.  dei  Lincei,  Poma,  Sal- 
viucci,  1889,  p.  7fi. 

(-)  Vedi  GoLDSTArij  e  Wknduinkh,  Ein  tosco-venelian.  Pestiariits,  Halle. 
Niemeyer,  1892,  e,  riassumendo  quanto  è  stato  scritto  sull'argomento.  V. 
l'iAN,  Le  Rime  di  Jiartol.  Cavassico,  Bologna,  Komagnoli,  1893,  I.  ccxix  (cfr. 
V.  Possi,  in  Giorn.  stor.  leti,  ital.,  XXVII,  217). 

(3)  Mescolo  insieme  le  lezioni  di  una  rozza  stampa  di  Lucca.  Ba- 


I 


LA   POESLÌ  POPOLARE   ITALLIXA.  227 

Va  in  un  fiumicello,  e  vi  si  bagna, 

E  beve  di  quell'acqua  torbidosa  : 

Cogli  altri  uccelli  non  ci  s'accompagna, 

Negli  alberi  fioriti  non  si  posa  : 

Si  bagna  l'ale  e  si  percuote  il  petto, 

Ha  persa  la  compagna:  oh  che  tormento.  (') 

0  meglio,  come  porta  altra  lezione  toscana,  formando 
perfetta  ottava: 

E  va  dicendo:  Amor  sia  maledetto.  (-) 

La  lezione  sicula,  che  piìi  si  accosta  alla  nostra,  sa- 
rebbe questa  : 

Quannu  la  torturidda  si  scumpagna, 
Si  parti,  e  si  ni  va  a  ddu  virdi  loca; 
Passa  di  l'acqua,  e  hi  pizzu  s'abbagna, 
Prima  lu  sguazza,  e  poi  ni  vivi  un  pocu  ; 
Va  cliiancennu  pri  tutta  la  campagna, 
Cumu  si  stassi  'mmezzu  di  lu  focu  : 
'Mara  cu'  perdi  la  prima  cumpagna, 
Ca  perdi  spassu,  piaciri  e  jocu!  (^) 

Né  molto  se  ne  discosta  la  lezione  calabrese: 

La  turdera  ch'è  perza  la  compagna 
Tutte  glie  jorne  va  malenghuenosa. 
Addò  che  trova  l'acqua  ce  se  bagna 
E  se  la  beve  tutta  'ntorbetosa. 
Ce  se  va  a  mett'a  na  rava  de  montagna 
E  chiama  la  compagna  a  anta  voce, 


rolli,  1855,  e  di  quella  di  Fr.  Selmi  nel  suo  scritto  Bell'antica  novella  ital.  in 
ottava  rima,  nella  Biv.  contempo)-,  del  1863. 
(1)  TiGEi,  11.  650:  cfr.  n.  649,  553. 

{-)   TOMJIASEO,  p.    193. 

(3)  Vigo,  n.  2906-2927  ;  Avolio,  n.  423.  Una  lezione  veneta  molto  cor- 
rotta è  nel  "VViDTER-WoLF,  n.  55,  una  veronese  in  Caliari,  p.  85;  una  istriana 
in  IVE,  p.  117,  una  marchigiana  in  Gianakdhea,  p.  147,  una  umbra  in  Maz- 
ZATiSTi,  n.  348.  Per  le  lezioni  meridionali,  v.  Molixaro,  C.  pop.  di  Meta, 
11.  367  e  C.  pop.  Hcip.,  n.  313;  E.  Lovakini.  C.  pop.  tarantini,  in  Misceli,  jjer 
>!022e  Eossi-Teiss,  p.  331;  Amalfi,  C.  p.  di  Sorrento,  n.  31;  Imbhiaxi,  C.  p. 
prov.  merid.,  II,  287,  e  C.  poiìol.  di  Mariyliano,  n.  17.  L'  Imbkiani  pone  a 
confronto  colle  versioni  popolari  un  sonetto  d'  Olimpo  da  Sassofeerato. 


228  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Ce  se  va  a  Jiiett'a  ne  rame  de  castagna 

E  ce  se  va  a  mett'a  a  fa'  ne  cante  amorose.  (^) 

Quest'altro  pure  è  diffuso  per  tutt'  Italia  : 

Dove  sei  stato,  o   gioveiiin,  d' inverno, 
Che  bianco  e  rosso  siete  sull'estate? 
Sei  stato  sul  giardin  di  là  dall'  Elmo, 
Dove  son  quelle  viole  imbalsamate  ; 

E  tu  sei  stato  sul  giardin  del  sole, 
Dov'  hanno  imbalsamato  le  viole.  (^) 

Molte  sono  le  varianti  del  terzo  verso:  nel  Leccese; 

Jeu  dormi  alli  palazzi  de  Salieruu; 

a  Bagnòli  irpino: 

Io  stavo  a  quere  parti  de  Salierno;  (^) 


Ancor  più  somiglianza,  persin  nelle  rime,  offrono  qnesti  versi  di  Panfilo 

Sasso  : 

La  tortorella  dolorosa  e  trista. 

Dopo  eh"  ha  perso  la  dolce  compagna, 
Soletta  va  per  boschi  e  per  campagna, 
Fuggendo  quanto  può  l'umana  vista  : 
Ne  mai  si  annida  ove  floi'isce  arista. 
Ne  d'acqua  chiara  mai  si  lava  o  bagna, 
Ma  sempre  amando  più,  si  duole  e  lagna. 
Tanto  ch'ai  fin  morte  erudel  n'acquista  ecc. 

Anche  il  Be.mbo  ha  un  Sonetto  (n.  41)  al 

Solingo  au.sello,  che  piangendo  vai 
La  tua  perduta  dolce  compagnia  ecc. 

Per  altri  raffronti  con  poesie  d'arte,  v.  Giorn.  stoi:  lett.  ilah,  XV,  473.  Nel 
sec.  XVI  servì  di  spunto  a  una  Villanella  alla  napoletana  (v,  Menghini 
in  Zeits.  f.  roman.  l'ìtilol.,  XVI,  502)  : 

Piange  la  tortorella  sconsolata 
Quand'ha  perduto  la  fida  compagna. 
Ch'a  pietà  muove  il  cielo  e  la  campagna. 

(1)  Nel  giornale  La  Calabria,  IT,  46. 

(2)  Tigri,  n.  710. 

(.s)  I.MRKiANi,  C.  popol.  )»-ov.  mei-ìd.,  II,  442  e  Molinaro,  C.  pop.  »ap., 
11.  529.  Nella  lozione  marchigiana  le  parole  del  primo  verso  sono  mutato 
di  posto:  Viirria  sape'  dove  l'inrerno  state,  e  il  segreto  della  gioventù 
perpetua  e  fresca  consisto  nell'usar  l'acqua  di  Noccra:  v.  Gianandrea, 
pag.  CI. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  229 

a  Verona: 

Mi  stago  nei  giardini  de  Maderno;!') 

ma  le  più  si  accordano  alla  lezione  sicula,  come  ad 
esempio  la  ligure: 

—  Dund' i  sei  s'teta,  Rosa,  ques't' inverna, 
Ch'i  n'an  sei  tanta  fresca  e  culurita?  — 
—  N'an  sun  steta  a  lu  giardin  de  Palermu, 
Dund'u  fiuriscia'  le  rOse  d'  invernu.  —  (^) 

Così  siamo  ricondotti  alla  probabile  origine: 

—  Vnrria  sapiri  unn'abita  lu  'nvernu, 

Fri  stari  frisculiddu  'ntra  la  stati.  —  (^) 

—  Sugna  'ntra  li  jardina  di  Palernui 
'Ntra  la  palazzu  di  so'  Majstati, 

E  cai  mi  vattiau  fu  re  Cngghierniu, 
Cli'è 'ncarunatu  di  tutti  tri  stati;  {*) 
Si  vói  sapiri  pirclù  vaju  e  vegnu, 
Sempri  l' liaja  ccu  tia  la  vuluntati.  (") 


(1)  Caliaei,  p.  158. 

(-)  Marcoaldi,  Canti  popol.  Ug.,iì.']ó.  Anche  nel  tetrastico  pratese  : 
il  yiavdin  di  Palermo  :  Livi,  pag.  15. 

(3)  Meglio  nel  PiteÈ,  C.  popol.  sicil.,  voi.  I,  pag.  99:  abbiti fri- 

xciilidda. 

(*)  Varianti  in  Salomohe-Maeino,  n.  33:  Uiini  si  vattiò  lu  re  Ciirj- 
gltìermn,  Unni  si  crisimavanu  li  fati.  In  Terra  d'Otranto:  Tie  dormi  alli  pa- 
lazzi de  Paliernni,  Addilli' sse  spoggìiia 'e  bestunu  le  fate:  Imbkiani,  C.pop. 
prov.  merid.,  II,  442. 

(5)  Vigo,  n.  1516.  Il  PitbÈ  (Lettera  a  F.  Zaiiibrini,  Bologna,  Fava  e 
Garagnani,  1870,  p.  11  ecc.)  ed  altri  scrittori  siciliani  danno  a  questo  Cantc' 
valore  storico,  e  lo  fanno  risalire  ai  tempi  di  Guglielmo  II.  Ma  in  questo 
battesimo  regale,  del  re  tradizionalmente  ricordato  e  benamato,  non  saprei 
vedere  se  non  una  esagerazione  poetica,  come  nell'altro  Strambotto  eli  e 
dice  la  bella  Xipiiti  di  lu  Me  vtnizianu,  Nascisti  in  Francia,  piurtata  in 
Gaita  E  vattiata  a  lu  fonti  rumanu  (o  a  lu  dumi  Giordanu).  Altrimenti, 
ripeto  quel  clie  già  dissi  a  pagg.  131-2,  perchè  non  prenderemmo  per  storia 
ciò  che  dice  il  Rispetto  toscano  (Tigri,  n.  4077)  : 

Quando  nascesti,  fior  di  Paradiso, 
A  Roma  vi  portonno  a  battezzare. 
Il  Papa  santo  vi  scoperse  il  viso, 
E  chiese  grazia  d'esservi  compare?  ecc. 

A  strambotti  del  see.  XII  non  posso  credere:  madie,  anche  molto  tempo 
dopo,  volendo  lodare  la  donna  amata  e  dovendo  menzionare  un  re,  si  sce- 


230  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAXA. 

Il  Canto  funebre  che  segue,  si  riduce  facilmente 
al  suo  capostipite: 

Morirò,  morirò:   che  n'averai  ? 

Per  me  sia  messa  in  ordine  la  croce. 

E  le  campane  suonar  sentirai, 

Cantare  il  Misererò  a  bassa  voce  : 

'N  mezzo  di  chiesa  portar  mi  vedrai, 

Cogli  occhi  chiusi  e  colle  mani  in  croce; 

E  arriverai  a  dire  :  or  me  ne  pento. 

Non  occorr'altro,  quando  il  fuoco  è  spento.  (^) 

Se  nel  primo  verso  si  ponga,  come  portano  alcune 
versioni:  non  dubitare,  {^)  \\e\  terzo:  Acntirul  suonare, 
e  nel  quinto:  mi  vedrai  ^ìortare,  avremo  sempre  una 
perfetta  ottava,  e  saremo  anche  più  presso  alla  forma 
siciliana  : 

Murirò,  murirò,  non  dubitari, 

Fazzu  cuntento  a  tia,  coruzzu  duci  ; 
A  menzannotti  sintirai  sunari 
Una  lenta  campana  a  brevi  vuci  ; 
A  ghioinu  chiari  vidirai  passar! 
Lu  parrineddu,  la  stola  e  la  cruci  ; 
A  tia  sul  a  cummeni  d'affacciari  : 
Morsi  l'amanti  to,  jetta  li  vuci.  (■') 

E  ad  esso,  nonostante  la  mescolanza  di  voci  dialet- 
tali e  letterarie,  si  riduce  il  seguente  Canto  zaratino: 

Che  mora?  Morirò,  non  dubitare; 
No  sentirai  più  quest'aflita  vose  ; 


gliesse  quello  rimasto  nella  ti'aclizioiio,  non  rie.sce  difficile  a  credere,  anzi  è 
naturalissimo:  come  ò  pur  cosa  naturale  che,  sempre  per  esaltar  ramata. 
si  ponesse  la  sua  residenza  invernale  negli  ameni  giardini  palermitani, 
ne'  quali  poi  non  sembrami  necessario  veder  proprio  indicati  quelli  della 
Cuba,  e  non  altri. 

(1)  TiGEi,  n.  1142,  114.3:  Variante  in  Livi,  p.  Hi.  Cfr.  Vigo,  n.  UGO. 

(2)  Marcoaldt,  C.  popol.  la'..,  n.  23. 

;3)  Vigo,  nota  al  n.  .'?225.  Cfr.  Imbriani,  II,  216,  31G-7  e  C.  pop.  calnhr., 
n.  12;  Canale,  n.  47;  Lombroso,  Tre  mesi  in  Calabria,  nella  liivista  con- 
teiiipor.,  dicembre  1863,  voi.  XXXV,  p.  414;  Maxdalari,  p.  398;  Molinaro, 
C.  p.  nap.,  n.  29.5;  Peli.izzari,  Fiabe  e  ca»2.  pop.  di  Maglie,  Maglie,  Ca- 
pere, 83:  Marsiliani,  n.  G61;  Xieri,  48, 


LA   POESIA   rOPOLARE   ITALIANA.  231 

Quattro  campano  sentirai  sonare, 
Do  picole  campane  a  bassa  vose  ; 
A  l'alba  ciara  mi  vedrai  passare, 
Un  morto  acompagnado  de  la  erose.  (') 

Fra  le  due,  la  forma  intermedia  parrebbe  esser  quella 
del  Lazio  : 

Morirò,  morirò,  non  dubitare, 

Piìi  non  la  sentirai  st'afflitta  voce: 

A  mezzanotte  sentirai  sonare 

'Na  piccola  campana  a  bassa  voce  ; 

All'alba  già  lo  vederai  passare 

Un  morto  accompagnato  dalla  croce.  ('-) 

Anche  quest'altri  due  lugubri  Rispetti  toscani 
si  raffrontano  a  due  Strambotti  insulari  : 

Quando  sentirai  dir  che  sarò  morta. 
Ogni  mattina  alia  messa  verrai, 
Arriverai  a  quell'oscura  fossa, 
E  l'acqua  benedetta  mi  darai.  (^) 
E  allor  dirai  :  Ecco  qui  quell'ossa 
Di  quell'amante  che  tanto  straziai. 

Allor  dirai  :  Decco  qui  il  mio  bene  : 
E  lui  è  morto,  e  a  me  morir  conviene.  (*) 


Amor,  se  mi  vuoi  ben,  fammi  una  fossa, 
E  portamici  dentro  a  sotterrare  ; 
In  capo  all'anno  vienmi(^)  a  veder  l'ossa 
E  fanne  tanti  dadi  per  giocare, 

E  quando  sarai  sazio  di  quel  giuoco, 
Prendi  quei  dadi,  e  gettali  nel  fuoco. 


(I)    VlLLANIS,    p.    39,    II.    20. 

{-)  Marcoaldi,  n.  2.3. 

(3)  Una  lezione  meridionale  :  Pigìia  me  pimin  allora  d'acqua  santa 
E  benedici  la  persona  mmia:  Ijiekian'i,  II,  .370. 

(4)  Tigri,  n.  1U4. 

(ó)  Il  Tigri  legge:  vienni  e  annota  vienne,  ne  vieni.  La  mia  raccolta 
nis.  e  la  stampa  della  Tipogr.  Cino  leggono:  vienmi :  però  anche  il  Tom- 
maseo, p.  3.50,  ha  vienni. 


232  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIAXA. 

E  quando  sarai  sazio  di  giocare, 
Prendi  quei  dadi,  e  gettali  nel  mare.  (') 

A  queste  lezioni  toscane  corrispondono  le  seguenti 
siciliane  : 

Si  mortu  tu  mi  voi,  fammi  'na  fossa, 
Mi  cci  vorvichi  intra  e  ti  nni  vai  ; 
All'ottu  jorna  jioi  cci  torni  apposta. 
Tu  spinci  la  balata  e  truvirai  ; 
E  di  la  carni  mia  nni  trovi  l'ossa, 
Fattinni  un  paro  'i  rari,  e  jucliirai  ; 
Si  alcunu  ti  nni  spia  :  Di  cu'  su'  l'ossa  ? 
—  Di  l'amanti  fidili  chi  lassai.  —  (^) 


0  cara  'manti,  scavami  'na  fossa, 

Ddarivacamicci  dintra,  e  poi  vattinni; 
E  doppu  l'annu  dùnacci  'na  smossa, 
Vidi  a  chi  sugnu  juntu  e  prejatinni 
Carni  nun  cci  nn'è  ccliiìi  supra  di  l'ossa, 
Fattinni  un  paru  d'ali,  e  ghiocatilli.  (') 
A  cu  po' ti  duinanna,   dicci:  Ss'ossa 
Su"  di  lu  prinui  ca  'nvrazza  mi  tinni.  ('') 

A  questo  punto  ci  sembra  opportuno  il  ricordo 
di  tre  Canti,  sparsi  in  tutta  Italia,  da  tutti  i  nostri 
volghi  conosciuti  e  ripetuti,  che  però  secondo  il 
Salomone-Marino  non  altro  sarebbero  se  non  episodj 
di  un  Poemetto  storico  siciliano  sopra  la  Baronessa 
di  Carini,  (^)  Noi  non  ci  sentiamo  così  persuasi,  come 
il  valente  amico,  della  intrinseca  colleganza  di  questi 
Canti  col  poema  storico,  né  ci  pare  che  formino  corpo 


(1)  Tigri,  n.  1147. 

(-}  PiTKÈ,  C.  popol.  sicil.,  I,  n.  301. 

(3)  Variante  in  Vigo,  n.  3239:  JVi  fai'npavu  di  dadi  e  jocatinni. 

(4)  PiTKÈ,  Ibid.,  p.  392. 

(")  Salv.  Sai-O.mone-Marino,  La  Baronessa  dì  Carini,  leggenda  sto- 
rica popolare  del  see.  XVI  in  poesia  siciliana,  Palermo,  Pedone,  1873.  Vedi 
ora  anche  Moi.inabo  del  Chiaro,  Un  canto  del  pop.  napol.,  (Fciiesta  ca 
luciv'  e  rao  nu'  luce)  con  varianti  e  confronti,  Kapoli,  Argenio,  1881. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  233 

col  resto  per  modo,  che  abbiano  a  dirsene  parte  ne- 
cessariamente integrante;  ma  saremmo  piìi  propensi 
a  crederli  posteriormente  e  a  poco  a  poco  incorporati 
e  amalgamati,  non  senza  qualche  adattamento  artifi- 
cioso e  qualche  ripiego,  per  comporre  la  narrazione 
degli  amori  infelici  di  Caterina  La  Grua;  né  il  fatto 
avrebbe  in  sé  nulla  di  nuovo  o  di  straordinario,  per 
chi  conosca  i  procedimenti  della  poesia  popolare.  (^) 
Comunque  vada,  ecco  i  tre  brani,  secondo  la  lezione 
del  Salomone-Marino  : 

Su'  chiusi  li  finestri,  amara  mia  ! 

Dunni  affacciava  la  me  Dia  adurata  ; 
Cchiù  nun  s'affaccia  no,  comu  sulia, 
Voi  diri  chi  'ntra  lu  Ietta  è  malata. 
'Ffaccia  so  mamnìa,  e  dici:  —  Amaru  a  tia! 
La  bella  chi  tu  cerchi  è  suttirrata.  —  (^) 
Sipultura  chi  attassi  !  oh  sipultura, 
Comu  attassasti  tu  la  me  pirsuna!  (^) 


Vaju  di  notti  comu  va  la  luna, 
Vaju  circannu  la  galanti  mia: 


(1)  Anche  la  musica,  per  quel  che  parmi  rilevare  dalle  parole  del 
Salomone-Marino,  p.  200,  non  è  la  stessa  in  tutti  i  pezzi  della  leggenda 
e  ciò  starebbe  a  conferma  de'  miei  dubbj. 

{-)  Si  confronti  cxuesto  Canto  provenzale: 

Ai  una  mia  qu>s  malauta, 

Sabe  pas  se  serò  per  ieu. 
Chaca  fes  que  troube  soun  pero 

Jeu  ie  demando  couma  vai, 

Soun  péro  me  respouud  pia  vite; 

—  Es  guerida  de  tout  soun  mal  : 

Es  entarrada  à  la  grand  glèisa; 

La  tèsta  toca  l'escaliè  ; 

Metras  un  pèd  dessus  sa  toumba 

E  l'autre  dessus  l'escaliè  ecc. 

Atger,  Poés.  pop.  en  langue  d'oc,  Montpellier.  1875,  p.  22. 

(3)  Questi  sembrano  essere  due  versi  di  ripieno,  fatti  per  allacciar 
colla  rima  il  brano  seguente,  e  che  appunto  per  tal  motivo  furono  ad  altri 
preferiti  dall'editore.  Ma  essi  potrebbero  pur  dare  indizio,  e  così  altri  con- 
simili, delle  acconciature  che  furono  stimate  necessarie  per  collegare  fra 
di  loro  i  varj  brani,  e  comporne  un  tutto. 


234  LA   POESIA   POPOLARE   ITALL\XA. 

Fri  strata  mi  scuntrau  la  Morti  scura, 

Senz'occhi  e  bucca  parrava   e  vidia; 

E  mi  dissi  :  —  Unni  vai,  bella  figura?  — 

—  Cerca  a  cu'  tantu  beni  mi  vulia  ; 
Vaju  circannu  la  me  'nnamurata.  — 

—  Nun  la  circari  cchiìi,  eh' è  suttirrata  — 
E  si  nun  cridi  a  mia,  bella  figura, 

Vattinni  a  la  Matrici  a  la  Biata, 
Spinci  la  cciappa  di  la  sepultnra, 
Ddk  la  trovi  di  vermi  arrusicata  ; 
La  surci  si  manciau  la  bella  gala, 
Dunni  luceva  la  bella  cinnaca  ; 
La  surci  si  manciau  li  nichi  mani, 
Dd'ucchiuzzi  niuri  ca  nun  cc'era  aguali. 
'Nnsignàtimì  unni  su'  li  sagristani, 
E  di  la  Chiesa  aprissiru  li  porti  ; 
Oh  Diu,  chi  mi  li  dàssiru  li  chiavi, 
0  cu  li  manu  scassiria  li  porti  ! 
Vinissi  l'Avicariu  ginirali, 
Quanta  cci  canta  la  me  'ngrata  sorti  : 
Ca  vogghiu  la  me  Dia  risuscitari, 
Ca  nun  è  digna  stari  ca  li  morti. 
Oh  mala  sorti,  chi  mi  sapi  dura, 
Manca  vidiri  la  me  amanti  amata! 
Sagristanu,  ti  preju  un  quarta  d'ara, 
Quanta  cci  cala 'na  torcia  addumata; 
Sagristaneddu,  tenimilla   a  cura, 
Nun  ci  lassari  la  lampa  astutata, 
Ca  si  spagnava  di  dormiri  sula. 
Ed  ora  di  li  morti   accumpagnata  ! 

Métticci  'na  balata  marmurina, 
Cu  qiiattvu  ancileddi,   una  pri  cima; 

E  tutti  quattru  'na  curuna  tennu. 
L'occhi  a  lu  cela,  e  preganu  chiancennu  ; 

E  a  littri  d'ora  ci  vogghiu  untata 
La  storia  di  sta  morti  dispirata. 

Diiivulii,  ti  preju  in  curtisia, 

Fammi  'na  grazia  ca  ti  la  dumannu, 
Fammi  parrari  cu  l'amanti  mia, 
Doppu  a  lu  'iirerna  mi  resta  cantaunu. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  235 

Lu  Serpi  chi  passava  e  mi  sintia  : 

—  Cavalcami,  ca  siignu  a  tò  cumannu.  — 

Hàmu  spirita  pri  'na  scura  via, 

Nun  sacciu  diri  lu  unni  e  lu  quanta. 
Jivi  a  lu  'nfernu,  o  mai  coi  avissi  andata! 

Quant'era  chinu,  mancu  cci  capia  ! 

E  trovu  a  Giuda  a  'na  seggia  assittatu, 

Cu  un  libru  a  li  manu  clii  liggia. 

Era  dintra  un  quadaru  assai  'nfacata, 

E  li  carnuzzi  tini  s'arrustia  ! 

Quannu  mi  vitti,  la  manu  ha  allangatu, 

E  cu  la  facci  cera  mi  facia. 

Eu  cci  haju  ditta:  La  tempu  nun  manca, 

Ca  senza  la  limosina 'un   si  campa; 
Aspetta  tempu,  ca  rota  hi  manna, 

Sicca  lu  mari  ed  assurgi  lu  fauna. 
Ma  'ntunnu  'ntunnu  lu  focu  è  addumatu, 

E  'n  menzu  la  me  amanti  chi  pinia  ; 

E  nun  ci  abbasta  ca  mina  lu  ciatu, 

E  di  cuntinu  mazzamariddia. 

Idda  mi  dissi  :  —  Cori  scilirata, 

Chisti  su'  peni   chi  patu  pri  tia  ! 

Tanna  la  porta  ti  avissi  firmatu 

Quannu  ti  dissi  :  —  Trasi,  armazza  mia  !  — 
Ed  eu  rispusi  :  —  Si  'un  t'avissi  amata, 

Mortu  nun  fora  lu  munnu  pri  mia  ! 
Apri  stu  pettu  e  cci  trovi  stampata 

Lu  bellu  nomu  di  Titidda  mia.  —  (') 

Di  questo  episodio  della  Leggenda  storica  girano, 
come  dicemmo,  per  tutta  Italia,  versioni  similissime, 
distinte  l'una  dall'altra  in  tre  diversi  frammenti  : 
uno  della  finestra  chiusa,  l'altro  dell'incontro  colla 
Morte,  il  terzo  della  discesa  all'  Inferno  :  O  ed  è 
osservabile  che   paragonando  i    singoli    frammenti 


(1)  Op.  cit.,  pagg.  133-138. 

{-)  Una  discesa  all'Inferno  in  cerca  dell'amata  è  anche  in  un  Canto 
della  Lorena  nel  Putmaigke,  Chants  popitl.  dii  pai/s  messili,  p.  71.  Più  bella 
è  la  Canzone  di  simile  argomento  pubblicata  da  W.  Smith  fra  i  Chants 
'hi  Velai/  et  du  Forez,  nella  Romania,  voi.  IV,  p.  449. 


236  LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

colla  lezione  sopra  riferita,  essi,  anche  quando  mag- 
giormente si  sono  svolti,  appaiono  tuttavia  meno 
infarciti  di  oziose  riempiture,  che  non  nella  forma 
arrecata  dal  Salomone-Marino.  I  versi  Eu  ci  liaju 
dittu,  ad  esempio,  del  terzo  brano,  sono  un'aggiunta 
evidentissima,  che  forse  si  conviene  all'elaborazione 
del  Poemetto,  ma  che  non  si  ritrovano  in  nessuna 
delle  lezioni  separate,  e  si  direbbero  nati  da  posteriore 
congegno  dell'insieme.  Ma  se  mettiamo  a  raffi'onto 
quanto  di  sopra  abbiamo  trascritto  dal  verso  Vaju 
di  vottl  fino  a  La  storia  di  sta  morti,  che  formano 
ben  trentotto  versi,  con  questi  altri  dodici  che,  come 
Canto  in  se  compiuto,  ripetonsi  a  Palermo  e  a  Par- 
tinico,  forse  si  concluderà  che  dalla  forma  piìi  sem- 
plice è  stato  tratto  il  primo  germe  della  lezione  piìi 
ampia  e  particolareggiata,  che  indi  venne  a  costi- 
tuire il  Poemetto  narrativo.  Ecco,  secondo  noi,  la 
lezione  primitiva: 

Vaju  di  notti  ciiniu  va  la  luna,  {') 
Vaju  circannu  la  me  'nnanuuata  ; 
Fri  strata  mi  'ncontrau  la  Morti  bruna, 

—  Nun  la  circari  ccliiìi  eh'  è  suttirrata. 
S'  'un  vo'  cridiri  a  mia,  Leila  figura, 
Vattinni  a  San  Franciscu  a  la  Biata  : 
Grapi  la  cciappula  di  la  sepultura, 

E  ddà  la  trovi  di  vermi  manciata.  — 

—  Sagri.staneddu,  tenimiila  a  cura, 
Tenimiccilla  la  lampa  addumata, 
Ca  si  scantava  di  dormiri  sula, 

Ed  ora  è  di  li  morti  accumpagnata.  ('j 

Anche  l'ultimo  brano  ci  sembra  piìi  semplice,  pili 
efficace,  ]nìi  primitivo  in  un  Canto  palermitano: 


(1)  Come  principio  di  altro  Canto  questo  verso  trovasi  fra  i  veneziani 
anche  in  Beknoni,  puiit.  X,  n.  25. 

(2)  Salomone-Marino,  C.  pop.  sici!.,  n.  540. 


LA   POESIA   POPOLARE  ITALIANA.  237 

■Tvi  a  lu  'infernu,  oh  mai  ci  avissi  stata  ! 
Quant'era  chimi,  mancu  cci  capia  ! 
Atturnu  attiirim  lu  focu  addumatii, 
E  'mmenzii  cci  tiuvai  l'amanti  mia. 
Qiiaunu  mi  vitti  m'  ha  accarizziatii, 
Dicennu  :  —  Ora  vinisti,  armuzza  mia. 
Ti  l'arrieoidi  lu  tempu  passatu, 
Quannu  middi  carizzi  ti  facia?  —  (') 

Stimiamo  inutile  riferire  qui  tutte  le  varie  lezioni, 
che  trovansi  diligentemente  raccolte  dall' Imbriani,  (") 
dal  Salomone-Marino  O  e  dal  Molinaro  del  Chiaro  (*) 
e  ci  contenteremo  delle  sole  forme  toscane  : 

Finestra  che  risplendi  ed   or  se'  oscura, 
Lo  vedi,  l'amor  mio  diace  malato. 
Si  affaccia  la  sorella  e  m'assicura 
Che  il  mio  bene  è  già  morto  e  sotterrato. 

Sempre  piangeva  che  sola  dormiva, 
Or  se  ne  sta  co'  morti  in  comitiva  ; 
Senti,  Pasqualin  mio,  abbici  cura. 
Accendi  il  lume  a  quella  sepoltura.  (•') 


Vado  di  notte  come  va  la  luna. 
Vado  cercando  la  mia  'unamorata; 
Trovai  la  Morte  con  la  veste  bruna, 
Mi  disse:  —  La  tua  bella  è  sotterrata; 
Se  non  lo  credi,  vattene  alla  Cura, 
Tutta  da'  vermi  la  vedrai  mangiata.  —  (°) 


;i)  Salojione-Maeixo,  ibid,  n.  167. 

{-)  Imbriani,  C.  popol.  prov.  merUìion.,  voL  II,  pag.  253-268.  Aggiungi 
Imbriani,  C.  popol.  in  dialetto  titano,  n.  1;  Amalfi,  C  ^j.  di  Sorrento,  n.  22; 
Pellizzaki,  Fiabe  e  Cam.  di  Maglie,  p.  85. 

(3)  Op.  cit.,  pag.  221-228.  Aggiungi  Bernoni,  punt.  IV,  n.  .36;  Gia- 
NANDEEA,  p.  158,  165;  IvE.  p.  218;  Mazzatinti.  p.  210:  Finajiohe,  Vocab., 
p.  273  e  181  e  Tradis.  impol.  abruzz.,  II,  n.  349,  e  la  lezione  romana  in  Rie. 
lett.  popol.,  p.  22.  Cfr.  anclie  il  Canto  narrativo  La  dama  morta  in  Giannini, 
C.  p.  tose.  p.  .389. 

{i)  Opnsc.  cit. 

(5)  Tigri,  n.  566. 

(O)  Salomone-Marino,  op.  cit.,  p.  216.  Altra  lezione  in  Tigri,  n.  1112. 


238    ^  LA  POESIA  POPOLARE  ITALL\NA. 

Sono  stato  all'  Inferno,  e  son  tornato  ; 
Misericordia  la  gente  che  c'era  ! 
V'era  una  stanza  tutt'alluminata, 
E  dentro  v'era  la  speranza  mia. 
Quando  mi  vedde  gran  festa  mi  fece, 
E  poi  mi  disse  :  —  Dolce  anima  mia. 
Non  t'arricordi  del  tempo  passato, 
Quando  tu  mi  dicevi:  Anima  mia? 
Ora  mio  caro  ben,  baciami  in  bocca. 
Baciami  tanto  eh'  io  contenta  sia. 
È  tanto  saporita  la  tua  bocca  ! 
Di  grazia  saporisci  anche  la  mia. 
Ora,  mio  caro  ben,  che  m'  hai  baciato, 
Di  qui  non  isperar  d'andarne  via.  (') 

L'ottava  che  segue  direbbesi  rifacimento  di  un 
Canto  siciliano  fatto  da  mano  non  incolta: 

Benedetto  quel  Dio  clie  t'  ha   creato, 
E  quella  madre  che  t'  ha  partorito  ! 
E  il  padre  tuo  che  t'  ha  ingenerato  ; 
Benedetto  il  compar  che  t'  ha  assistito  ; 
Il  sacerdote  che  t'ha  battezzato, 
E  alla  luce  di  Dio  t'ha  istituito! 
Benedette  parole,  e  quella  mano, 
E  poi  quell'acqua  che  ti  fé'  cristiano.  (-) 

Ma  ancbe  piìi  colta  era  la  mano  del  Giustiniani,  che 
sul  finire  del  secolo  XV,  lo  rimaneggiava  a  questo 
modo  : 

Sia  benedetto  il  giorno  che  nascesti 
E  l'ora  e  '1  punto  che  fosti  creata  ! 
Sia  benedetto  il  latte  che  bevesti, 
E  il  fonte  dove  fusti  battezzata  ! 
Sia  benedetto  il  letto  ove  giacesti, 
E  la  tua  madre  che  t'  ha  nutricata  ! 


Cfr.  pel  Veneto.  Gaei.ato,  pag.  208,  248.  Per  1'  Umbria,  Mazzatinti,  n.  300; 
per  l'Abruzzo,  Finamoiìe,  U,  ii.  350. 

(1)  Tommaseo,  p.  2G;  Tigri,  ii.  515.  Cfr.  n.  258,  514. 

(2)  Tigri,  ii.  25.3. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALLANA.  239 

Sia  benedetta  tu  sempre  da  Dio  ; 
Quando  farai  contento  lo  cor  mio?  (') 

Nel  Veneto  l'ottava  è  diventata  Ninna-nanna  di  una 
madre  : 

Sia  benedeto  a  l'ora  che  nassesti, 

L'ora  e  '1  momento  che  ti  ò  partorito  ; 

Sia  benedeto  '1  late  che  bevesti 

A  la  tua  mama,  che  t'  lia  nutricato  ; 

Sia  benedeto  '1  prete,  e  anca  '1  compare, 
Che  t'à  tegnùo  a  la  fonte  a  batizare. 

Sia  benedeto  '1  prete,  e  anca  '1  zagheto, 
Che  t'  ha  messo  quel  nome  benedeto  ; 

E  benedeto,  e  benedeto  sempre  ; 
Sia  benedeto  a  chi  te  dorme  arente. 

A  chi  te  dorme  arente  a  ti,  putela  ; 
Fame  la  nana,  che  ti  è  tanto  bela.  (^) 

Veniamo  adesso  alla  fonte  sicula  : 

Binidittu  lu  Din  chi  ti  creau, 
E  la  mammuzza  chi  ti  parturiu, 
E  lu  patruzzu  chi  ti  ginirau, 
Lu  cumpari  chi  a  fonti  ti  tiniu  ; 
Lu  parrineddu  chi  ti  vattiau, 
E  l'acqua  cu  li  sali  ti  mittiu; 
Biniditta  cu'  fu  chi  t'addivau, 
Ca  t'  ha  'ddivatu  pri  l'aiiuui  mia.  (') 

Né  la  diversa  applicazione  di  una  stessa  im- 
magine può  servire  ad  offuscare  intieramente  la 
rassomiglianza  intrinseca  dei  seguenti  due  Canti, 
toscano  e  siculo  : 

Se  gli  alberi  potessan   favellìvre, 

Le  fronde  che  son  su  tossano  lingue. 


(1)  D'Ancona,  SiramboUi  di  Leon.  Giustiniani,  in  Giorn.  filol.  romumn. 
I[,  185.  E  vedi  Sabatini,  Alcuni  Strambotti  di  L.  Giustin.  conservati  dalla 
tradiz.  popolare,  Roma,  tip.  di  Roma,  1880,  p.  10. 

(-)  Dal  Medico,  p.  170.  Cfr.  una  Nanna  consimile  in  Purè,  C.popoì. 
sicil.,  II,  63. 

(3)  Salomone-Marino,  n.  3.  Ridotta  a  Stornello  romanesco  in  Blessig, 
part.  I,  n.  116. 


240  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

L' inchiostro  fosse  l'acqua  de  lo  mare, 
La  terra  fosse  carta  e  l'erba  penne, 

E  in  ogni  ramo  ci  fusse  un  bel  foglio, 
Ci  fusse  scritto  il  bene  che  ti  voglio  ! 

E  in  ogni  ramo   ci  fusse  un  bel  breve, 
Ci  fusse  scritto  quanto  ti  vo'  bene.  (') 

iS^è  molto  diversamente  i  Veneti  : 

Vorave  che  qu'  i  albori  parlasse, 

Le  fogie  che  xe  in  cima  fusse  lengue, 
L'acqua  che  xe  nel  mar  el  fusse  ingiostro. 
La  tera  fusse  carta,  e  l'erba  pene  ; 

La  tera  fusse  carta,  e  l'erba  pene  ; 
Glie  scrivarìa  una  letera  al  mio  Bene; 

Ma  chi  fusse  quel  can  che  la  lezesse, 
Sentir  le  mie  passion,  e  no  pianzesse?  (^) 

Ed  anche  qui  ricorre  un  rifacimento  del  Giustiniani: 

Se  li  arbori  sapessen  favellare 
E  le  lor  foglie  fusseno  le  lingue, 
L'inchiostro  fusse  l'acqua  dello  mare, 
La  terra  fusse  carta  e  l'erba  penne, 
Le  tue  bellezze  non  potria  cantare. 
Quando  nascesti,  li  angioli  ci  venne. 
Quando  nascesti,  colorito  giglio. 
Tutti  li  santi  fumo  a  quel  consiglio.  (') 


(1)  Tommaseo,  p.  9S,  cil  ivi  altra  lozione:  Ticei.  n.  4S.'!;  Nerucci. 
p.  191.  Altra  variante  toscana  è  in  Arboit,  n.  351,  a  proposito  tlella  vil- 
letta friulana  : 

Si  lu  cil  foss  tante  eciarte 
E  lì  stellis  tang  nodàrs, 
E  clie  '1  mar  foss  taiit  inggiùstri 
E  lìs  barcis  calaniàrs  ecc. 

Por  altri  raffronti,  vedi  G.  Giannint,  C. pop.  htcch.,  p.  109  n..  e  F.  Sabatini, 
Ale.  Stramb.  di  L.  Giustiniani  consercnti  nelhi  trailiz.  popoliirp,  Konia,  tip,  ili 
Eoma,  1880,  p.  ti. 

(2)  Dal  Medico,  p.  70;  Beknoni,  piiiit.  VII,  n.  30  :  C'fr.  Dal  MnDico. 
C.  popnl.  eli  C/iiogt/ia,  n.  29;  Gianandrka,  p.  153, 

|3)  Gioi-n.  filol.  i-om.,  II,  p.  184.  Ma  bnrinscamento  il  Calmo  (Ediz. 
V.  Rossi,  pag.  xcvi;  e  vedine  parodia  bergamasca  a  pag.  4051  : 

Se  Bnran  e  Torcelo  fosse  carta 
E  fosso  ingiostro  i  nostri  canali 


LA   POESIA  POPOLARE   ITALL\XA.  241 

Or  è  curioso  che  questa  immagine  che  ricorre  da 
tanto  tempo  (^)  in  tante  letterature  e  presso  tanti 
popoli,  C"^)  in  Sicilia  sia  volta  a  significazione  reli- 
giosa : 

Si  Tinca  fusai  hi  mari  supranu, 
Lu  celli  ccii  la  terra  fussi  carti, 
L'ancili  'ncelii  e  hi  munnii  supranu, 
E  Toma  'nterra,  la  natura  e  l'arti  ; 
Si  ogni  omu  milli  nianu  avissi, 
Ed  ogni  manu  milli  pinni  e  carti, 
Scriviri  di  Maria  mai  non  putissi 
Di  li  grazii  so'  la  quinta  parti.  (^) 

Ma  probabilmente  questa  è  forma  secondaria:  ed 
il  Canto  siciliano  che  avrebbe  servito  di  modello 
alla  trasmutazione  in  senso  spirituale,  e  alle  imi- 
tazioni peninsulari,  potrebbe   esser  questo,   che  il 


Anche  i  pontili  che  xe  a  Santa  Marta 

Si  diventasse  pene  e  caramali, 

Si  fosse  man  le  botarghe  da  l'aita 

E  che  vegnisse  lengue  i  cascavali 

E  ogni  sasso  fosse  compositoi-, 

No  scrivaria  zo  che  m"ha  fatto  Amor. 

E  meglio  il  Guaeini,  l'astor  fido,  V,  2: 

Se  tante  lingue  avessi  e  tante  voci 
Quanti  occhi  ha  il  cielo  e  quante  arene  il  mare. 
Perderei  tutto  il  suono  e  la  favella 
Xel  dire  appien  le  vostre  lodi  immense. 

(1)  Xel  sec.  XVI  è  già  in  una  specie  d'incatenatura  del  Jfe;ion  vicen- 
tino :  v.  LoVARisi,  C.  p.  in  Ruzzante,  p.  .35. 

(-)  V.  l'art,  di  R.  Kohler,  Und  tvenn  der  Iliminel  uai-  Papier,  nel- 
r  Orieiìt  u.  Occident,  II,  .546.  Aggiungi  un  Canto  grecanico  di  Soleto  nel 
Morosi,  n.  148,  e  un  muto  sardo  in  Bellorixi,  Sagijìo  di  Canti  pop.  nuoresi, 
Bergamo,  Cattaneo,  pag.  2.5.  Anche  in  Spagna  (F.  R.  Maein,  II,  p.  266)  : 

Si  la  mar  fuera  de  tinta 
Y  el  ciel  fuera  papel. 
Xo  se  podria  escribir 
Lo  mucho  que  es  mi  querer. 

1=)  Vigo,  n.  .3297.  Cfr.  anche  n.  3944. 

D'AxcoxA,  La  poesia  pop.  Hai.  —  16 


242  LA  POESIA  POPOLARE  ITALL4.yA. 

Salomone-Marino,  trae  da  un  manoscritto,  forse  di 
fonte  piìi  antica,  ma  datato  del  1735: 

L'arbuli  si  putissinu  parrari, 

Si  tutti  li  fogli  so  forano  lingui, 
P'inga  chi  fora  l'acqua  de  hi  mari, 
E  la  terra  pi  carta  e  l'erba  pinni, 
La  to  bellizza  min  si  puria  cuntari  ; 
Bella,  tanta  bellizza  lindi  ti  vinni? 
Ca  certu  è  cosa  da  iiiaravigliari. 
Din  stissu  irci  in  cela  hi  disinni.   (') 

Corrispondono  fra  loro  tutte  queste  altre  ver- 
sioni di  un  Canto  diffusissimo,  anche  quando  le  une 
pajono  più  dalle  altre  allontanarsi.  In  Toscana: 

Il  Lunedì  voi  mi  parete  bella, 

E  Martedì  che  mi  parete  un  fiore; 
Il  Mercoldì  che  siete  un  fior  novello. 
Il  Giovedì  un  bel  mazzo  di  viole  ; 
E  Venerdì  che  siete  la  piii  bella, 
Il  Sabato  che  siete  un  fior  fiorito. 

E  poi  vien  la  Domenica  mattina. 
Par  che  siate  una  rosa  in  su  la  spina. 

Si  torna  al  Lunedì  dell'altra  volta  ; 
Siete  una  rosa  in  su  la  spina  colta.  (") 

E  in  bocca  di  donna  : 

Siete  piii  bello  il  Lunedì  mattina, 
Massimamente  Martedì  vegnente  : 
Mercoledì  una  stella   brillantina, 
Il  Giovedì  uno  specchio  rilucente  ; 
Il  Venerdì  un  mandorlo  fiorito. 
Il  Sabato  più  bello  che  non  dico. 

S'arriva  alla  Domenica  mattina: 
Mi  parete  figliuol  d'una  regina.  (^) 


(1)  e.  p.  sicil.  trascritti  nei  sec.  XVI,  XVII  e  XVIII,  in  Ardi,  tradiz. 
popol.,  I,  356:  e  vedi  altre  lezioni  riferite  a  pag.  368. 

(2)  Tigri,  n.  UT. 

(3)  Tigri,  ii.  222. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALL\XA.  243 

Alla  lezione  toscana  si  accostano  quelle   di   altre 
Provincie,  e  prima  questa  della  Sabina: 

Quanto  sei  bella  Lunedi  a  niatina, 
Ma  sei  più  bella  il  Martedì  seguente  ; 
E  '1  Mercoidì  me  pari  'na  regina, 
E  '1  Giovedì  'na  stella  rilucente: 
E  '1  Venerdì  'na  rosa  senza  spina, 
Lo  Sabato  sei  bella  veramente; 

La  Domenica  poi  quando  t'adorni. 
Pili  bella  sei  de  tutti  l'artri  giorni,  i^) 

E  nelle  Marche  : 

Quante  sì  bella  il  Lunedì  mattinai 
Mascimamente  il  Martedì  seguente  ; 
Lu  Mercurdì  me  pare  'na  bambina, 
Lu  Giovedì  'na  stella  rilicente  ; 
Lu  Venardì  'na  rosa  damascbina, 
Lu  Sabbate  sì  bella  veramente. 

La  Demeneca  può'  quanne  te  veste, 
Ecche  la  Pasqua  cben  tutte  li  feste  ; 

La  Demeneca  può'  quanne  t'adorne, 
Ecche  la  Pasqua  chen  tutte  li  fronne.  (-) 

A  Venezia  : 

Bela,  che  di  Domenica  sei  nata, 
De  Luni  siete  stata  a  l'arcipresso. 
De  Marti  siete  una  rosa  incalmata, 
De  Mercore  te  onoro,  bel  viseto  : 
De  Zoba  siete  una  rosa  odorata. 
De  Tenere  te  tegno  scrita  in  peto, 
De  Sabo  no'  me  fare  la  ritrosa. 
De  Domenica  sei  mia  cara  sposa.  (^) 

Le  versioni  sicule  che  ci  sono   note  si  allontanano 
dallo  schema  comune  di  rime  : 


(I)  De  Nino,  pag.  11.  Cfr.  Maecoaldi,  C.  pop.  umbri,  n.  42.  e  Guida 
di  Fabriano,  p.  184,  n.  8-5. 

(•)  GiANANDREA,  pag.  67  ;  Pigokini-Beei.  p.  48.  Cfr.  in  Maecoaldi, 
C.  pop.  liguri,  n.  9,  una  lezione  toscaneggiata  del  genovesato. 

(3)  Dal  Medico,  pag.  65.  Cfr.  Villanis,  XXV  Stramb.,  n.  14. 


241  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Bedda,  ca  di  Duminica  nascisti, 
Lu  Lìmidi  ti  jisti  a  vattiari. 
Lu  Màrtiri  nascerà  ssi  to'  trizzi. 
Lu  Mercuri  ti  jeru  a  crisimari  : 
Lu  Jòvidi  sparmaru  ssi  biddizzi, 
Vènniri  ti  jìttasti  a  caulinari  ; 
La  Sabbutu  a  tò  niatri  cci  dicisti  : 
—  Matri,  quannu  ni'aviti  a  mavitari  ?  (^) 


Bedda,  ca  la  Duminica  si'  fata, 
Lu  Luni  si'  'na  Dia  di  Paradisu, 
La  Marti  siti  n'anciLa  caLata, 
Lu  Mercuri  straluci  lu  tò  visu, 
Lu  Jovi  siti  'na  lucenti  spata, 
Lu  Venneri  vi  stati  'nfesta  e  risa, 
Lu  Sabitu,  eh' è  l'urtima  jurnata, 
Mureniu,  e  ninni  jeniu  'n  Paradisu.  (^) 

Forma  intermedia  si  direbbe  questa  del  Principato 
Citeriore  : 

Quant'  ti  vidiv'  beli  Luniddi  matin'  ! 
Cchiù  bell'assà'  lu  Martidì  siguent', 
Lu  Carmin'  mi  parivi  'na  rigin', 
Lu  Giuvidì  'na  steli'  d'urient', 
Lu  Vanard'i  'na  ros'  senza  spin'. 
Lu  Sabbet'  'na  Dea  verament'.  (^) 

A  questi  Canti  si  direbbe  che  fondamento  e  ra- 
gione principale  sia  l'enumerare  i  giorni  della  set- 
timana, (*)  come  anche  ai  seguenti.  Odasi  il  Rispetto 
toscano  : 


(1)  Salomone-Marino,  n.  S2. 

(-)  Vigo,  n.  103 ;  cfr.  Fixamoee,  Vocab.,  p.  294.  In  Piteè,  Canti  iiop.  siti!., 
Prefaz.  p.  14!.  l'ultimo  v.  ilice:  Cu' si  ciirca  cu  tia  va 'm  l'aradisu. 

(,3)  Imbkiani,  C.  pop.  proc.  ììierid.,  I,  71;  cfr.  uno  beneventano  in  Co- 
KAZZINI,  p.  34'2;  uno  molisano  in Molinako  (J)-c7i.  irarf.  pò/).,  XII,  394);  uno 
greco  di  Soleto  in  Morosi,  n.  147.  e  in  Ast.  Pelleokini,  Nuovi  saggi  romaici 
in  Terra  d'Otranto  (Suppl.  Ili  tioWArch.  gioito!,  ital.,  p.  33,  n.  LUI). 

<)  (.'oine  ad  es.  nel  Canto  popolare  di  Provenza:  Ais  rescountrat  ina 
mio,  in  AiiiiAUD,  I,  170.  Enumerazioni  dei  giorni  della  settimana  vedi  an- 


LA    POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  245 

La  bella  donna  che  lia  perso  la  rócca, 
E  tutto  il  Lunedì  ne  va  cercando, 
Il  Martedì  la  trova  mezza  rotta, 
Mercoledì  la  porta  rassettando; 
Il  Giovedì  le  pettina  la  stoppa, 
Il  Venerdì  le'  la  va  incanoccliiando  : 
Il  Sabato  si  liscia  un  po'  la  testa. 
Domenica  non  fila,  perdi' è  festa.  (') 

Né  molto  diversamente  si  canta  in  Piemonte,  (^)  a 
Venezia,  (^)  nell'  Istria,  ("')  nel  Trentino,  O  nel  La- 


che  iiell"  Imbriani,  Canti  popol.  prov.  mericl.,  I,  72.  L'n  Canto  di  impreca- 
zione da  malattia  a  raoi'te,  giorno  per  giorno,  in  Gianandrea,  p.  243,  e 
FuoRTE,  C.  p.  di  Giuliano,  n.  76:  e  una  distribuzione  dei  giorni  della  set- 
timana secondo  la  qualità  degli  innamorati,  in  Corazzisi,  Poes.  jtopol.  di 
Caprese,  Sansepolcro,  1883,  p.  9.  Nel  giornale  il  Boi-fjhini  (III,  329)  trovo 
questa  antica  burlesca  enumerazione:  Tu  gli  ha'  avere,  È  ben  dovere;  lo  gli 
ho  a  dare,  Ti  vo  pagare;  Lunedì  vieni  per  essi.  Martedì  saran  gli  stessi, 
Mercoldì  tu  gli  aeerai,  Giovedì  riscoterai.  Venerdì  vieni  a  buon  ora,  Se  no. 
Sabato  all' istess'ora ;  Se  Domenica 'uri  V ho  pagato.  Lunedì  torna  da  capo; 
che  con  leggiere  varianti  si  cantava  ancora  a  Livorno  un  trenf  anni 
sono. 

(1)  Tigri,  n.  1185.  Cfr.  Amalfi.  Villanelle  di  S.  Valentino,  n.  94.  Altra 
lezione  toscana  è  nel  Giuliani,  Moralità  e  poes.  del  ling.  tose,  pag.  178. 
dov'  è  anche  una  terza  lezione  in  altro  metro.  Analogia  di  soggetto  con 
questo  Canto  ha  una  Canzonetta  comasca  sui  Calzolari  recata  nel  Bolza, 
n.  45,  e  un'altra,  ma  evidentemente  monca,  perchè  non  procede  oltre  il 
tetrastico  e  la  menzione  del  Giovedì,  in  Bernoni.  Xuovi  C.  popol.  renes., 
p.  21.  Una  Canzone  popol.  francese  dice  dei  tessitori  che  du  hindi,  ils  en 
font  une  féte,  Et  le  mordi  ils  vont  voire  les  fillettes...  Le  inercredi  ils  grais- 
sent  des  galettes....  Le  jéhueudi  ils  ont  mal  à  la  téle....  Le  vendredi  ils  bran- 
lent  la  navette....  Le  samedi  la  toile  n'est  point  faite  ecc.  (Eev.  des  tradii, 
popid.,  X,  99^.  Curiosa  è  la  Semaine  de  la  niariée  :  Dimandi'  Je  fus  à  l'as- 
sembìé,  Là,  comme  je  fus  regardée  !  Le  hindi  je  fus  demandée....  Le  mardi 
je  fus  accordée,  Le  mercredi  je  fus  fianrée....  Le  je.udi  je  fus  mariée.... 
Le  vendredi  j'  fus  bàtonnée....  Le  samedi  j'  fus  divorcée....  Et  v'ià  ma  semaine 
hien  passée  {B.OLi.AìiD,  Becueil  de  C7ia««.  joojjk?.,  Paris,  Maisonneuve,  I,  172). 
Vedi  anche  la  Malusine,  I,  78,  126,219.342.  Ma  è  superfluo  citar  altro,  dac- 
ché le  forme  e  gli  adattamenti  svariati  che  ha  assunto  l'enumerazione  dei 
giorni  trovansi  raccolti  da  V.  Imbkiasi  nelle  note  alla  l'osilecheata  di 
P.  Sarnelli,  Kapoli.  Morano,  1885,  p.  148  e  segg.,  e  ora  più  ampiamente  da 
G.  Giannini,  nel  Niccolò  Tommaseo,  l,  n.  7-8:  I giorni  della  settimana  nella 
Ietterai,  popolare. 

i?)  Kigra,  p.  484. 

(3;  Bernoni.  punt.  IV,  n.  75;  Garlato,  p.  461;  Caliari.  p.  216. 

W  Ive,  p.  245  ;  ViLLANiS,  XXV  Str.  zarat.,  16. 

(^)  Bolognini,  Usi  e  cast,  del  Trentino,  Rovereto,  Sottochiesa.  1892, 
pa„'.  62. 


246  LA  POESIA  POPOLARE  ITALLINA. 

ZÌO,  (^)  nell'Umbria,  C)  nelle  Marche,  O  nella  Ro- 
magna, (*)  in  Terra  d'Otranto  e  in  altre  provincia 
del  Mezzogiorno,  (^)  finché  si  viene  alla  lezione  si- 
cula: 

La  Duniinica  persi  la  cunocchia, 
Tutto  lu  Limi  hi  bivi  circannu, 
Lu  Marti  la  truvavi  tutta  sciusa, 
Lu  Mercuri  la  vosi  scunucchiari 
Lu  Jovi  scarminai  tutta  la  stuppa, 
Lu  Venniri  mi  misi  a  'ucunuccliiari, 
Lu  Sabitu  cridia  filarla  tutta, 
Vinili  la  festa,  e  non  la  potti  fari.  C^) 

Singolari  mntazioni  di  forma,  ed  anche  di  par- 
ticolari, ha  avuto  il  Canto,  del  quale  ora  diremo. 
Il  quale  in  Toscana  si  è  rattratto,  a  dir  così,  in  uno 
Stornello  : 

Se  il  Papa  mi  donasse  tutta  Roma, 
E  mi   dicesse  :   Lascia  andar  chi  t'ama, 
Io  gli  direi   di  no,  sacra  Corona.  C) 

E  anche  nella  Sabina  mantiene  forma  di  Stornello: 


(1)  Maesiliani,  n.  94. 
('-)  Mazzatinti.  11.  51. 

(■■')    GlANANDREA,    p.    172:    RONDINI,    p.    18. 

(<)  Vedi  la  canzone  antica  ma  tuttora  vivente,  della  Lavurina,  in 
FEKRAni,  Bihl.  lett.  pop.,  I.  2.t7. 

(.0)  Imbriani,  C.  pop.  pi-oi\  ìuerid.,  I,  72;  Amalfi,  LV  VillaneUe  rac- 
colte in  S.  Valentino,  Napoli,  Priore,  1888,  p.  62;  Finamore,  II,  12.5;  Coraz- 
ziNi,  p.  360-64.  Cfr.  uno  greco  di  Martano,  in  Morosi,  n.  63. 

('')  Vigo,  n.  4448.  Al  terzo  v.  direi  che  debba  correggersi  sciiisa  in 
rutta.  —  Nell'uso,  l'ottava  è  ridotta  a  più  brevi  versi.  In  Toscana:  Lunedì 
lunediai  (lunediare  indica  l'appendice  della  festa  domenicale,  propria  ad  al- 
cuni mestieri,  per  es.  ai  calzolaj,  ai  cappellai  ecc.,  e  in  generale  a  opemj 
poco  volenterosi)  Marted)  non  lavorai,  Mercoldì  persi  la  rocca,  Giovedì  la 
ritrovai,  Venerdì  l'incannocchiai.  Sabato  mi  doleva  la  testa  E  Domenica  è 
festa  :  che  in  Romagna  è  :  Lunedé  a  pers  la  rócca,  Martedé  an  fé'  'ngotta, 
Merquel  a  la  zercó,  Giovedì;  a  la  triiró,  Vene)'  a  l'inrucó,  Sahat  aiìnniò  la  testa, 
Perchè  Dmilnga  l'era  festa. 

(')  Tigri,  Storn.  ii.  137.  Ne  ho  parecchie  varianti  toscane,  dove  i 
nomi  che  ricorrono  sono  Arezzo.  Firenze,  Barberino,  ecc.  :  cfr.  Mazza- 
tinti,  n.  94. 


LA   POESIA   POPOLARE  ITALLA.NA.  247 

Se  i]  Papa  me  donasse  lo  cappello, 
E  '1  Principe  Borghese  lo  cavallo, 
Non  te  potria  lascia',  core  mio  bello.  (^) 

E  così  pure  fra'  Piceni  : 

E  se  venisse  ro  Papa  de  Roma, 

E  me  dicesse  :  Lassa  auda'  chi  t'ama  ; 
E  non  ro  posso  fa',  sagra  Corona.  (-) 

Nel  Lazio  ci  apparisce  come  tetrastico  : 

Se  il  Papa  mi  donasse  tutta  Roma, 
E  il  Principe  Borghese  l'Amentana, 
E  mi  dicesse  :  Lascia  andar  chi  t'ama, 
Io  gli  direi  di  no,  sacra  Corona.  (^) 

E  tetrastico  preceduto  da  distico,  e  seguito  da  ri- 
tornello a  Napoli  : 

'Nt'  a  'stu  pietto  mmio  ne' è  'na  capanna, 
Viennece,  ninno  mmio,  a  tfa'  "sta  nanna. 
Si  nce  venesse  chillo  Rre  de  Spagna, 
Mme  dicesse:  Brunnottella,  io  a  te  boglio. 
Io  mme  votarrìa  :  Re,  vattenne  a  Spagna, 
Nun  cagno  a  ninno  mmio  ppe'  nu  regno. 
Uno  vene  e  'n'auto  vene. 
Tutti  a  mme  mme  vonno  bene.  (^) 

Tre  tetrastici  si  direbbero  uniti  nel  Canto  veneziano: 

El  grando  Turco  m'à  manda  a  ciamare, 
Assiò  che  t'abandona,  anema  mia  ; 
No  te  abandonaria,  zentil  mia  dama, 
Gnanca  s'el  me  donasse  la  Turchia; 
Se  i  me  donasse  Franza  co  Parigi, 
El  nobile  castel  de  Mont'Albano, 


(1)  De  Xino,  p.  29  :  v.irj  Stornelli  romani  in  Corazzini,  p.  271. 

(2)  GiANASDEEA,  p.  118;  EoNDi.M.  p.  12.  Per  la  Eomagn.i,  vedi  Pee- 
GOLi,  n.  186. 

(3)  Makcoaldi,  C.  p.  lat.,  u.  30.  Ma  ha  forma  di  tristico  nel  Blessig, 
part.  I,  n.  14.  58  e  101,  e  nel  Nannaeelli,  p.  .32. 

;<)  Imbriani,  C.  pop.  jirov.  merid.,  II,  349;  ofr.  JIolixaeo,  C.  j^op.   eli 
Meta,  n.  22,  e  C.  pop.  napol.,  p.  185. 


248  LA  POESLA.  POPOLARE   ITALL\NA. 

La  rica  ciesa  de  Santo  Luigi, 

Co  tuto  lo  tesoro  veneziano  ; 

Se  i  me  donasse  una  baicheta  e  un  toro, 

Pelo  per  pelo  una  peza  de  pano, 

Se  i  me  donasse  anca  un  monte  d'oro, 

La  Zeca,  l'Arsenale  e  '1  Bu(^intoro.  (') 

Qui  la  menzione  di  Parigi  ci  fa  risovvenire  la  rieille 
cìumson  di  Alceste  nel  Misantropo  : 

Si  le  Roi  m'avoit  donne 
Paris,  sa  grande  ville, 
Et  qu'il  me  fallùt  quitter 
L'amour  de  ma  mie, 
Je  dirois  au  Roi  Henri  : 
Reprenez  votre  Paris  ; 

J'aime  mieux  ma  mie,  oh  gay, 

J'aime  mieux  ma  mie.  (^) 

Più  si  allontana  dalla  forma  comune  la  lezione  si- 
cula,  die  originariamente  dovè  constare  del  solo 
secondo  tetrastico  : 


(i)  Beenoni.  punt.  IV,  n.  26;  Dal  Medico,  p.  23,  dove  in  nota  è  pur 
recata  in  forma  di  semplice  Stornello  ;  Garlato,  p.  288. 

(-)  Att.  1,  se.  2^.  Cfr.  con  alcuni  poeti  antichi  italiani,  citati  dal  Kan- 
NUCCi,  Manuale,  l,  131  :  per  es.,  Mazzeo  Ricco: 


Che  se  tutta  Messina  fosse  mia 
Senza  voi,  donna,  niente  mi  saria. 


Jacopo  Pugliese  : 


e  anche  : 


Il  re  Giovanni  : 


Se  in  mia  balìa  avessi  Spagna  e  Pranza, 
Non  averei  sì  ricca  tenuta; 

Se  fosse  mio  lo  reame  d'Ungheria, 
Con  Greza  e  Lamagna  infino  in  Fransa, 
Lo  gran  tesoro  di  Santa  Sofia, 
Kon  poria  ristorare  sì  grande  perdanza. 

(Rime  del  cod.  vatic,  I,  379). 

Me"  mi  tegno  per  pagato 
Di  Madomia, 

Che  s"  i'  avessi  lo  Contato 
Di  Bologna, 

E  la  Marca  e  lo  Ducato 
Di  Guascogna  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALLANA.  249 

Vitti  vinili  a  Tuiidda  di  fora, 

C'un  cavadduzzu  russu  chi  vulava: 

Sutta  li  me'  finestn  e  li  balcuna 

C'ua  fazzulettu  all'occhi  lagiimava. 

S'  iddu  venissi  un  Re  cu  la  cuiuna 

Mi  dicissi  :  Ti  vogghiu  'ncuiunaii, 

Eu  senipii  cci  dicissi  'na  paloia: 

—  Yogghia  a  Tiividdu,  nuii  vogghiu  cuiuua.  f') 

La  menzione  del  Papa  e  della  sua  proposta  all'  in- 
namorato ci  reca  a  mente  un  altro  copioso  gruppo 
di  Canti,  C)  variati  alquanto  l'un  dall'altro,  ma  nel 
fondo  identici,  dove  si  contiene  una  risposta  del  Papa 
stesso,  che  talora  però  diventa  semplice  confessore. 
Cominciamo  dai  tetrastici.  In  Toscana  si  canta: 

r  andiedi  a  Roma  e  mi  fu'  confessato, 
E  dissi  :  Padre,  a  una  donna  vo'  bene  ; 
E  lui  mi  disse  :  Vo'  fate  peccato, 
Amar  la  donna  d'altri  non  conviene.  (^) 

In  Piemonte  : 

Sun  stai  ai  pe'  del  pader  confessure, 

r  ho  ditt  ch'a  j'  ho  basa  la  me'  signora  : 
Oh,  fat  an  sa,  me  car,  eh'  a  't  benedissa, 
La  basrèiva  anca  mi,  se  glie  l'avissa.  (*) 


Ovvero 


Sun  stat  a  Roma  a  cunfessem  dal  Papa; 
1'  ho  ditt'  se  fé  l'amure  l'è  peccatu. 
Al  Papa  l'ha  rispost  eh' l'è  gnanc  vergogna, 
L'amure  l'è  'na  cosa  che  bisogna.  {') 


(1;  Salomone-Marino,  n.  338;  Vigo,  n.  1818.  Cfr.  con  Pitrè,  C.pojtoì. 
sìcil.,  I,  n.  31  :  £  si  Falermit  mi  sarrìa  annutatu  Nun  cangiassi  'n' amanti 
cumti  tia. 

(-)  Vedi  curiosi  raffronti  in  F.  Rodbiguez  Makix,  Juan  del  Pueblo, 
Historia  amorosa  popular,  Sevilla,  1S82,  p.  59. 

(3)  Tommaseo,  p.  382;  varie  lezioni  in  Finamore,  II,  67. 

(*)  Maecoaldi,  C.  pop.  piemont.,  n.  19. 

(5)  Id.,  n.  10.  Cfr.  n.  4;  Ferraro.  Canti  popol.  del  Basso  Monferr., 
n.  CXXX;  KiGEA,  p.  577. 


250  LA  POESIA  POPOLARE  ITALLLN^A. 

In  Liguria  : 

Sun  s' taf  a  Riimma,  e  col  Papa  j' ho  parlata, 
r  ho  dice'  se  a  fé  l'amur  se  l'è  peccata: 
M'ha  dice'  ch'u  n'è  peccata,  e  cosi  sia, 
Bas'ta  te  l'amar  cu  'na  bella  fia.  (^) 

A  Verona  : 

Son  andà  a  Roma  a  dimandarghe  al  Papa 
Se  a  far  l'amor  se  fa  nessun  peccato  : 
È  salta  fora  un  padre  dei  più  veci: 
Fé  pur  l'amor,  che  siestu  benedeti  !  (") 

In  Lombardia: 

Mi  sono  stato  a  confessam  dal  Pappa, 

Gh' hoc  dito  che  ho  basaa  la  mia  morosa: 
El  m'ha  risposi:  Te  flisset  benedett, 
La  basarla  anch'  mi,  se  ghe  l'avess  !  (^) 

Varia  forma  e   diversità   lievi   di    sostanza  hanno 
questi  altri  Canti  :  e  primo  il  Sabino  : 

So  stato  a  Roma  per  grazia  de  Dio, 
E  r  ho  veduto  lo  Papa  assettato. 
E  gliel' ho  detto:  Santo  patre  mio, 
Perdonami,  eh'  io  sono  'nnamorato. 
0  tìglio,  figlio,  te  perdoni  Iddio, 
Che  dalla  parte  mia  t'  ho  perdonato.  (^) 

A  Napoli  : 

Jammo,  ninno  mniio,  jammonce  a  Roma, 
Jammo  a  vasare  li  pieri  a  hi  Papa, 
Sempe  dicenno  :  Santo  Papa  mmio, 
Perdonarne  se  stonco  'nnammorato. 
Esso  se  vota  :  Te  perdona  'ddio, 
Si  è  pe'  mme,  io  faggio  perdonato; 
E  si  non  fosse  santo  Papa  io 
Sarrìa  de  li  primmi  'nnammorati.  (^) 


(1)  3IARC0ALDI,    C.  pnpoì.   ìig,,  11.  d'i. 

(2)  KiGHi,  11.  11;  Calzari,  p.  22.3. 

(3)  IsiBRlANl,  e.  popol.  di  SoDDiia  Loiiiì/arda  e   Varese,  p.  191. 
(<)  De  Nino,  p.  20;  cfr.  Filippini,  Folklore  fabrian.,  u.  2.3. 

(5)  I.MBRiANi,  C.  pui>.  proc.  iiierid.,  II,  385  e  Severini,  ii.  CVI.  Vedi  ivi 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  251 

Al  Papa,  come  dicemmo,  spesso  si  sostituisce  un  pre- 
dicatore 0  altro  sacerdote:  Nella  Liguria: 

La  primma  votta  che  'in  sun  cunfessatu, 
Sun  cuufessa  da  iin  padre  giovinetti!  : 
La  primma  cosa  ch'u  m'ha  diimandatu, 
U  m'ha  dicciu  s'a  sun  annamuratu: 
E  mi  j'  ho  dicciu  :  Padre,  nul  sun  pocco, 
E  lu  sun  tantu  che  nun  trova  lecco  : 
E  le' u  m'ha  dicciu:  Vattene  cun  Diu, 
Di  ques'tu  mal  ne  pecca  ancura  ia.  (') 

Nelle  Marche  : 

So'  stata  a  Eoma  e  me  so'  confessata 
Da  un  padre  capacci'  predicatore  :  ('^) 
La  prima  cosa  che  m'ha  dimannata; 
M'  ha  dimannato  si  faceo  l'amore  ; 
Io  j'  ho  risposto  :   Padre  mio  devoto, 
Faccio  l'amore,  ch'io  non  trovo  loco; 
E  lu'  me  disse:  Fija  disgraziata, 
Si  non  lassi  l'amor,  sarai  dannata. 
Io  j'  ho  risposto  :  Padre  confessore. 
Prima  dannata,  eh'  io  lassi  l'amore  ; 
E  la'  me  disse  :  Va  in  nome  dei  santi, 
Va  a  fa'  l'amor,  che  lo  fa  tatti  quanti  ; 
E  la'  me  disse  :  Va  in  nome  de  Dio, 
Va  a  fa'  l'amor,  che  lo  faccio  ancor  io.  (") 

In  Toscana  : 

La  prima  volta  che  mi  confessai 
Mi  confessai  da  un  Predicatore. 
La  prima  cosa  che  mi  domandasse, 
Mi  domandò  se  facevo  all'amore. 


altre  varianti  meridionali,  e  altri  Canti  sul  tema  della  confessione,  come 
anche  in  Molinaro,  C.p.  napol..y.  201;  Mandalari,  p.  Ió2,  Diverse  lezioni 
in  CoEAZziNi,  p.  290  e  in  Filippini,  in  Arch.  traci,  pop.,  XVI,  81. 
(')  Marcoaldi,  C.  popol.  liguri.,  n.  70. 

(2)  Nella  lezione  pur  marchigiana  data  dal  Rondini,  p.  7,  il  confes- 
sore ha  un  nome:  Soìi  stata  a  Eoma  e  ini  son  confessata  Del  padre  fra  Fran- 
cesco Cipolloni. 

(3)  Gianandrea,  p.  156  e  vedi  altra  lez.  antecedente  :  cfr.  Molinaro, 
C.  p.  di  Meta,  n.  7,  e  C.  p.  napol.,  p.  204;  Mazzatinti,  n.  339. 


252  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAXA. 

Ed  io  gli  dissi  :  —  Padre  mio  diletto, 
Faccio  all'amor  con  un  bel  giovinetto.  — 
E  lui  mi  disse  :  —  Fanciulla  garbata, 
Lascia  l'amor,  se  no  sarai  dannata.  — 
Ed  io  gli  dissi  :  —  Padre  confessore. 
Prima  dannata  che  lasciar  l'amore.  — 
E  lui  mi  disse;  Vattene  co'  Santi.... 
Ma  son  pene  d'amor,  le  provan  tanti; 
E  lui  mi  disse  :   Vattene  co'  Turchi.... 
Ma  son  pene  d'amor,  le  provan  tutti; 
£  lui  mi  disse  :  Vattene  con  Dio....  ' 
Ma  son  pene  d'amor,  le  provo  anch'  io.  (') 

A  Venezia  : 

So  stata  a  Cioza  a  tor  el  giubileo, 
M'ò  confessato  dal  padre  priore: 
La  prima  cossa  che  '1  m'à  domandato 
'L  m'à  dito:  Figlia  mia,  fastu  l'amore? 
E  mi  go  dito:   Padre  confessore. 
Tende  i  pecati,  e  no  tende  l'amore. 
—  Ma,  figlia  mia,  questo  no  xe  pecato  : 
Sibeu  so  fratacion,   so  inamorato. 
Inamorà  su  'na  cagna  giudea, 
Ch'à  rinegata  la  fede  cristiana  ; 
El  padre  turco  e  la  madre  pagana, 
Gnanca  la  figlia  no  è  vera  cristiana.  (^) 

E  nell'Istria  : 

Sun  statu  a  Ruma,  e  i'  me  son  cunfessato. 
Go  deito  che  a  oùna  poùta  i  ghe  vuoi  bene, 
E  l'où  m'no  deito  :  Feilgio,  i'  sjì  danaio. 
Ama  li  poùte  d'altri  nu'  cunviene. 

E  mei  gh'iè  deito:   Padre  cunfessure. 
Tendi  a  la  Gesia,  e  mei  tendo  a  l'amure. 

E  mei  gh'  iè  deito  :  Padre  meio  biato. 
Tendi  a  la  Gesia,  e  mei  tendo  al  pecato.  {^) 


(1)  Dalla  mia  raccolta  ms.,  cantatomi  da  donna  di  Cevoli  nelle  colline 
pisane.  Altra  lezione  pisana  in  A.  Giannini,  n.  45. 

(2)  Bernoni,  punt.  IV,  n.  21  ;  Gaki.ato,  p.  318. 

(3)  IVE,  p.  228  :  cfr.  Villanis,  p.  38. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  253 

Ma  i  due  motivi  principali,  della  confessione  al 
Papa,  e  del  perdono  colla  singolare  penitenza,  si 
trovano,  come  del  resto  in  altre  versioni  su  riferite, 
in  questo  Strambotto  siciliano  : 

Vinili  un  picciottu  a  Roma  cunfissatii 
Pi-i  valivi  a 'na  donna  stiemu  beni  : 
Lu  Papa  dissi:   Figghiii,  si'  addannatn, 
Amari  donni  d'autni  nun  cunveni, 
Patri,  cci  cuntu  tutta  lu  passata  : 
Idd'  avi  lu  me'  cori,  e  si  la  teni. 
E  quann'  è  chissu,  ti  sia  pirdunatu  : 
Pri  pinitenza  vògghiala  ccliih  beni.(') 

Non  Uguali  in  principio,  ma  evidentemente  iden- 
tici nel  rimanente  sono  questi  altri  Canti  di  altro 
argomento.  In  Toscana  : 

Non  ti  ricordi,  turca  rinnegata, 

Quando  t'amavo  e  ti  portavo  amore? 
11  vino  (^)  mi  pareva  acqua  gelata. 
La  neve  mi  parea  rose  e  viole. 


(1)  Salomone-Maeixo,  11.  346.  Cfr.  varia  lezione  in  Vigo,  n.  174.3,  dove 
i  V.  5-6  dicono  : 

S' adunca,  patri,  chi  mora  addannatn 
E  mi  ni  vaju  a  li  seurusi  peni  ? 

Altra  lezione  in  Pitkè,  C.  popol.  sicil.,  I,  n.  84,  finisce  : 

Cliistu  ppccatu  ti  l'assorvu  in, 
Cà  amavi  donni  d'autru  "un  è  piccati!, 
E  si  nun  fora  Santu  Papa  iu. 
Meggliiu  di  tia  farria  lu  'nnamuratu. 

Secondo  il  Pitkè.  Studi  di poes.  popol.,  pag.  212,  il  Canto,  con  qualche  varietà 
(cfr.  Salomoxe-Maiìino  in  Arch.  tiad.  popol.,  I,  378;  sarehbe  di  origine  let- 
teraria, e  in  tal  forma  sonerebbe  : 

Vegnu  di  Roma  e  sugnu  cunflssatu 
D'una  donna  ch'amava  e  viil'ia  beni; 
Lu  cunflssuri  mi  dissi:  E  piccatu  ; 
Amari  donna  d'autru  nun  cunveni. 
Iu  ci  rispusi  :  Patri,  su"  furzatu, 
Lu  miu  cori  'n  putiri  idda  lu  teni. 
Iddu  mi  dissi:  T'aju  pirdunatu: 
Pri  pinitenza.  vogghila  chiù  beni. 

(-)  Evidentemente  deve  dir  pioggia,  come  nelle  altre  lezioni. 


254  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

I  tuoni  mi  facean  l' inserenata, 

E  le  saette  arrallegiare  il  cuore; 

Mira,  bellina,  se  tu  ti  lamenti  ! 

Ho  perse  le  nottate  all'acqua,  ai  venti  !  (') 

A  Venezia  con  somiglianza  anche  nella  mossa 

Se  ti  savessi,  falsa  e  rinegata: 
Le  pene  che  ò  patio  per  '1  tuo  amore  ! 
Quando  ti  gieri  in  camara  serata, 
E  mi  meschino   fora  a  le  verture  ! 
La  piova  me  pareva  aquu  rosada,  (^) 
I  lampi  me  parea  segni  d'amore  ; 
E  la  tempesta  me  pareva  pomi. 
Quando  che  giera  soto  i  toi  balconi.  (^) 

Or  ecco  una  delle  lezioni  siciliane: 

Tu  non  ci  pensi,   leta  maritata, 

Quannu  mi  dasti  lu  pumu   d'amuri  : 
Erutu  ccu  l'amanti  arripusata. 
Ed  iu  ddà  fora  ca  cuntava  l'uri  ; 
La  nivi  mi  paria  entra  lavata, 
Li  petri  matarazzi  di  cuttuni, 
Lu  lampu  mi  parìa  torcia  addumata, 
Lu  truonu  mi  parìa  suono  d'amuri, 
E  l'acqua  ca  currìa  'ntra  dda  nuttata 
Tutta  mi  l'accittavi  pri  tò  amuri.  (*) 

Vedasi  anche  il  canto  seguente  : 

Mamma,  non  mi  mandate  fuori  sola. 
Son  piccolina  e  non  mi  so  guardare: 
Vi  è  un  bel  giovanottino  alla  mia  scuola. 
Che  mi  ha  promesso  di  volermi  amare. 


(1)  Tigri,  n.  889. 

(2)  Sulla  frase  acqua  rosa  o  rosada  nei  Canti  jiopolari  italiani,  vedi 
Lizio-Bruno,  C.  popol.  Isol.  Eoi.,  p.  61. 

(3)  Bernoni.  punt.  VII,  n.  32.  Cfr.  Dal  IVlEnico,  p.  UC;  Ai.verÀ.ii.  4 
Caliari,  p.  257;  PASf;UALloo,  li.  18;  Gari.ato,  p.  207,  38U;  IvE,  p.  207. 

(4)  Vigo,  ii.  1237.  Cfr.  n.  1238;  Lizio-Bruno,  C.  pop.  Isol.  Eoi.,  n.  50 
GuASTELLA,  n.  150;  P.  GioROi  ed  altri,  Per  nozze  Chiarini-Perroni,  Roma 
1892,  lezione  romana  in  JUv.  lett.  popol.,  I.  26.  Nel  Bruzio  di  V.  Radula 
Napoli,  Testa,   1878,  p.  310,  v'ha  questa  lezione  calabrese:  7'i(fla  atanotti 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  255 

E  mi  ha  promesso  di  darmi  un  bel  fiore  ; 
Lo  vo'  portai-  dalla  parte  del  cuore, 

E  ha  promesso  di  darmi  una  viola: 
Mamma,  non  mi  mandate  fuori  sola. 

E  m'ha  promesso  darmi  un  gelsomino: 
Lo  vo' pigliare  perdi' è  graziosino.  (') 

e  si  confronti  con  questa  lezione  latina,  nella  quale 
evidentemente  al  tetrastico  sostanziale  si  è  accodato 
uno  Stornello: 

Mamma,  non  mi  manda'  per  l'acqua  sola, 
Son  piccolina  e  non  mi  so  guardare: 
Un  giovinotto  che  viene  alla  scuola 
Me  l'ha  giurato  che  mi  vuol  baciare; 
Giovinettuccio,  non  me  ne  fa'  tante, 
Son  piccolina  e  me  lo  tengo  a  niente, 
E  un  giorno  me  le  paghi  tutte  quante.  (''') 

Una  reminiscenza  ve  n'  ha  nel  tetrastico  marchi- 
giano : 

0  Mariuccetta,  mammeta  te  chiama. 
Non  vóle  che  ce  vai  per  l'acqua  sola; 
E  se  ce  vai  te  porti  la  cagnola. 
Moccicherà  a  chi  tocca  la  padrona.  (^) 

Ma  pili  compiuta  è  la  lezione  recanatese  : 

—  Mamma,  non  mi  mandar  per  l'acqua  sola, 
Son  piccioletta,  e  non  mi  so  guardare  ; 
Un  giovinetto  che  vien  dalla  scuola 
Me  l'ha  giurata  che  mi  vuol  baciare.  — 

—  0  figlia  mia,  non  aver  paura, 

Che  un  bacio  d'uomo  non  guasta  ventura.  — 

—  0  mamma  mia,  e  non  ti  sa  vergogna 
Veder  un  uomo  a  baciare  una  donna?  — 


a  na  scala  ho  dormntn,   L'arqna  e   In    vienfii   mi    e' ha  perraniatu    (sbnt.ic- 
chiato),  Ma  u  vieniti  mi  paria  In  Ina  saìutu  E  l'acqua  mi  paria  acqua  rosata. 

(1)  Livi,  C.  popol.  pratesi,  p.  14. 

(2)  Marcoaldt,  C.  pop.  hit.,  n.  7.  Cfr.  Mazzatinti,  ii.34;  Finamoee, 
IL  112. 

(3)  Gianandrea.  p.  160. 


256  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

—  0  figlia  mia,  e  non  ti  fa  peccato 
Vedere  un  giovinetto  appassionato?  — 

—  0  mamma  mia,  ti  possa  abbraccia  '1  foco 
Perchè  l'onore  mio  ti  piace  poco.  (*) 

Assai  più  ancora  se  ne  ritrova  nel  Canto  istriano, 
in  che,  come  nel  recanatese,  si  è  innestato  al  resto 
anche  il  famoso  proverbio  boccaccesco  : 

r  vago  a  l'acqua  senza  li  stivali, 
r  son  in  pisca  ile  bagnarne  i  peie  ; 
Siura  mare,  nu'  me  mandi  sula. 
Che  oùn  giuvenito  me  vureìa  tradeire. 
E  cara  feìa,  nu'  te  ciìi  pagoiìra. 
Buca  basada  nu'  pierdo  vintoura  : 

E  cara  feìa,  nu'  te  ciù  suspieto, 
Buca  basada  nu'  cajo  in  desieito.  (^) 

Ma  intera,  come  al  solito,  è  la  versione  insulare: 

Mamma,  non  mi  maiinati  all'acqua  sula, 
Ci  su'  picciotti  e  mi  fannu  spagliar!: 
Ppri  strada  mi  cadiu  la  tuvaggliiola, 
E  un  giovineddu  mi  l'appi  a  pigghiari: 
E  poi  mi  dissi:   Ch'è  ghianca  ssa  gula. 
Un  vasuneddu  ci  vurrissi  dari  : 
Si  ti  'ngagghio  a  vanedda  sula  sula, 
Tutti  li  santi  t'  he  fari  cliianiari.  (^) 

Neppure  nel  seguente  esempio  le  discrepanze 
nascondono  interamente  T identità  primitiva.  In  To- 
scana, adunque,  così  si  canta: 

So'  innamorata  di  due  giovinetti, 

Uno  di  due,  non  so  qual  mi  pigliare  : 
Quel  più  piccino  mi  pare  il  più  bello, 


(1)  Leopardi,  C.  pop.  recanat.,  ii.  11. 

(2)  IVE,  p.  241. 

f})  Vigo,  ii.  H71.  Nella  lezione  abruzzese  recata  dal  Finamore,  Vocah. 
p.  .304,  il  luogo  ove  va  la  fanciulla  è  la  taverna,  e  il  seduttore  il  taver- 
na ro. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  257 

Quello  più  grande  noi  posso  lasciars:  (') 
A  quel  piccino  gli  ho  dato  la  vita, 

A  quel  più  grande  la  palma  fiorita. 
A  quel  piccino  gli  ho  donato  l'alma, 

A  quel  più  grande  una  fiorita  palma; 
A  quel  piccino  gli  ho  donato  il  core, 

A  quel  più  grande  un  mazzo  di  viole.  (^) 

Cangiati  i  giovanetti  in  fanciulle  (^)  e  il  due  in  tre, 
si  ha  quest'altro  Canto  : 

In  questo  vicinato  delle  belle 
Beato  chi  ci  puole  navigare  ! 
E  ce  n'è  tre  che  paiono  sorelle, 
E  fanno  al  nasto  dello  innamorare. 

So'  innamorato  di  quella  più  grande, 
Riluce  quanto  il  sole  alle  montagne  ; 

So'  innamorato  di  quella  mezzana, 
Riluce  quanto  la  stella  diana: 

So'  innamorato  di  quella  piccina, 
Riluce  quanto  il  sole  alla  marina.  C*) 

Cosi  ci  si  avvicina  maggiormente  alle  versioni  si- 
ciliane : 

Tri  picciutteddi  chi  vinni  a  vidiri 
Tutti  tri  m'  haunu  fattu  'nnamurari  ; 
La  granni  è  bedda,  e  nun  la  pozzu  aviri, 
La  mizzaredda  nun  mi  pò  mancari; 


(1)  In  Spagna  (R.  Makin,  II.  160): 

Un  alto  y  un  pequeiìo 
Rondan  mi  calle; 
El  alto  se  parece 
Al  sol  que  sale. 
Pero  el  pequeno 
Se  parece  a  la  luna 
Del  mes  de  Enero. 

[^)  Tigri,  n.  337;  cfr.  Rondini,  p.  21.  Cfr.  per  altri  Canti  sull'amore 
per  due  sorelle,  Imbriani,  C.  pop.  proc.  meriti,  I,  1-8;  IvE,  pag.  133;  Mar- 
coaldi,  C.  pop.  lig.,  n.  49  ;  Canale,  n.  18. 

(3)  Come  in  Marcoaldi,  C.  popol.  picen.,  n.  29,  e  C.  popol.  lat.,  n.  43; 
Garlato,  p.  239-47;  A.  Giannini,  n.  20;  A.  Percoli,  n.  404. 

(4)  Tigri,  n.  328.  Cfr.  per  Tamore  di  tre  sorelle.  Altera,  ii.49;  Dal 
Medico,  p.  38,  nota  3. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ila!.  —  17 


258  LA   POESIA   POPOLARE   ITALLVKA. 

La  picciula  m'  ha  fattu  li  catini, 
Coma  un  canuzzu  a  la  catina  m'avì  ; 
Pi  l'aniuvi  di  Din,  lassami  jiii, 
'Nncatinatu  cu  tia  nun  pozzu  stari.  (^) 

Ed  anclie  nel  caso  seguente  a  ninno  sfuggirà 
l'intrinseca  medesimezza  a  malgrado  delle  apparenti 
dissimiglianze.  (")  In  Toscana  cantasi  : 

0  rondinella,  clie  voli  per  l'aria 

Ritorna  addreto,   e  fammelo  un  piacere  : 
E  dammela  una  penna  di  tu'  alia, 
Che  scriverò  una  lettera  al  mio  bene. 

Quando  l'averò  scritta  e  fatta  bella, 
Ti  renderò  la  penna,  o  rondinella: 

Quando  l'averò  scritta  in  carta  bianca, 
Ti  renderò  la  penna  che  ti  manca  : 

Quando  l'averò  scritta  in  carta  d'oro. 
Ti  renderò  la  penna  e  il  tuo  bel  volo.  (^) 

Alla  quale,  si  ragguaglia,  fra  tante,  questa  lezione 
di  Val  di  Cecina: 

0  rondinino,   che  vai  verso  il  mare 
Voltati  indietro  e  ascolta  due  parole. 
Dammi  una  penna  d'or  delle  tue  ale 
Per  scrivere  una  lettera  al  mi'  amore. 
Quando  l'averò  scritta  e  fatta  bella. 
Ti  renderò  la  penna,  o  rondinella. 

Molti  sarebbero  qui  i  riscontri  che  potrebbero  re- 
gistrarsi di  lezioni  varie,  umbre,  marchigiane  o  la- 
ziali, (^)  meridionali,  (^)  venete  e  delle  coste  adria- 


(lì  PiTiìÈ.  C.  popol.  sicil.,  I,  11.  119;  GuASTELLA,  11.  80;  Lizio-Bruno, 
C.  popol.  Isol.  Eoi.,  p.  116-17. 

(2)  Parecchie  lezioni  nota  il  Kubieri,  p.  44.3  e  segg. 

(3)  Tigri,  ii.  676.  Cfr.  n.  679;  Tommaseo,  p.  201-.3;  Kieri,  n.  54;  Gian- 
nini, C.  popol.  Inceli.,  p.  11,5.  II  solo  quadernario,  alquanto  variato,  è  in  una 
lezione  romana  presso  il  Mueller-Wolf,  pag.  11. 

(<)  Mazzatin'ti,  n.  129;  Gianandkea,  p.  150-1;  Pioorini-Berti,  Co- 
stumi e  Sìtpersliz.  ìiiarchig.,  p.  126;  Marcoaldi,  C.  pop.  lai.,  lì.  10;  Marsi- 
LIANI,   n.  21. 

(•'')  Imbriani,  C.  popol.  prov.  merid.,  I,  28,  e  C.  avellinesi,  ^i.  16;  Moli- 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  259 

tiche;  C)  ^^  ci  restringiamo  alla  versione  sieula: 

0  palunimedda,  (^)  chi  vai  mari  mari, 
Fermati,  ca  ti  dicu  dui  palori, 
Quanta  ti  scippa  'na  penna  di  ss' ali, 
Scrivu  'na  littra  a  cui  pri  mia  ni  mori  ; 
Tutta  di  sangu  la  vurria  untari, 
E  pri  siggillu  metterci  lu  cori  ; 
"Di  poi  ti  dicu  a  cui  mi  1'  ha'  purtari, 
Ti  dugnu  la  to'  pinna,  e  tinni  voli.  (^) 

Dei  due  Canti  che  seguono  sei  versi  si  rasso- 
migliano, lasciando  però  il  dubbio  che  ambedue  in- 
dipendentemente l'un  dall'altro,  provengano  da  una 
lezione  letteraria.  Il  Canto  toscano  dice  così  : 

Quando  passi  di  qui,  passaci    onesta, 
Che  la  gente  non  dica  che  ci  amiamo: 
Tu  abbassi  il  capo,  e  io  abbasso  la  testa, 
E  noi  due  di  buon  cuor  ci   salutiamo. 
Di  tutti  i  santi  ne  vien  la  sua  festa, 
Un  dì  verrà  la  nostra,  se  ci  amiamo. 
Di  tutti  i  santi  la  sua  festa  viene  : 
Verrà  la  nostra:  vogliamoci  bene.  (*) 

In  Sicilia  : 

Quannu  passu  di   ccà,  siati  onesta, 
Pri  l'aggenti  nun  diri  ca  nn'amamu. 
Tu  cali  l'occhi  ed  eu  calu  la  testa, 
Chissu  è  lu  signu  ca  uni  salutamu. 


NARO,  e.  pop.  napot.,  p.  135  ;  Scherillo,  il.  2i5  ;  Doksa,  La  tradiz.  greco- 
latina  in  Calabria,  Cosenza,  Principe,  1881,  p.  105;  Lovarini,  C.  p.  tarant., 
n.  1;  Akalfi,  C.  d'Ischia,  n.  43. 

(1)  Caliari,  p.  21  e  197;  Villanis,  p.  41. 

(2)  In  un  Canto  di  Falena:  palomma:  in  uno  romanesco;  x>aJoinha:  a 
Napoli;  aquila:  a  Lecce:  aceddhiizzu ;  ma  più  spesso:  rondinella. 

(3)  Vigo,  n.  1439  in  nota.  Altra  lezione  in  Lizio-Bruno,  C.  pop.  Isol. 
Eoi.,  n.  26.  —  Tema  frequente  nella  poesia  popolare  è  il  messaggio  per 
mezzo  di  un  volatile:  colombo,  rondine,  usignolo.  Vedi,  per  la  Francia, 
Carnoy,  Littérat.  orale  de  la  Picardie,  Paris,  Maisonncuve,  1883,  p.  339. 
Ma  soltanto  nei  Canti  italiani  la  penna  del  messaggio  è  fatta  da  un'ala  del 
compiacente  messaggero. 

(4)  Tigri,  n.  412.  Cfr.  Leopardi,  C.  pop.  recatan.,  n.  14. 


260  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

L'uccliiuzzi  di  l'aggeliti  su'  balestra, 
Li  guai  tuttidui  nni  li  cuntamu  : 
Ad  ogni  santu  veni  la  so  festa, 
E  nu'  la  festa  nostra  l'aspittanui.  ( ') 

Similissimi  anche  i  seguenti.  Il  toscano  : 

Oh  quanto  voglio  bene  a  chi  so  io  ! 
11  nome  non  lo  voglio  palesare  : 
Lo  tengo  sempre  scritto  nel  cuor  mio; 
In  fin  che  vivo,  lo  voglio  portare. 
In  fin  che  vivo  lo  voglio  tenere, 
A  nessuno  lo  voglio  far  sapere.  ('") 

E  il  Siciliano: 

Quantu  lu  vogghiu  beni  a  cu'  sacc'  in  ! 
Di  nomu  nun  lu  pozzu  muntuari  ; 
Strittu  lu  tegnu  nni  lu  cori   miu, 
Ca  è  picciutteddu  ca  è  dignu   d'amari. 
Di  quantu  picciutteddi   ha  fattu  Dia, 
Tu  sulu  all'occhiu  miu  beddu  mi  pari: 
Qnannu  nun  cridi  lu  parrari  miu, 
Ce' è  ddocu  la  prisenzia  ca  pari.  (^) 

Perfettissimo  riscontro  offre  quest'altro  Canto, 
che  nella  forma  che  segue  ripetesi  in  Toscana  : 

0  Dio  del  cielo,  che  pena  è  la  mia 
Aver  la  lingua  e  non  poter  parlare  ! 
Passo  davanti  alla  ragazza  mia. 
La  veggo  e  non  la  posso  salutare  ! 

E  la  saluto  con  la  mente  e  il  cuore, 
Giacché  la  lingua  mia  parlar  non  puole.- 

La  saluto  col  core  e  colla  mente. 
Giacché  la  lingua  mia  non  puoi   dir  niente.  (*) 


(1)  Salomone-Marino,  n.  191.  Cfr.  Vigo,  n.  1395;  Imbriani,  C.popol. 
prov.  merid.,  II,  325,  e  C.  popol.  aeell.,  p.  45;  Molinaro,  C.  popol.  napol., 
p.  246;  Mandalari,  p.  123,228;  Leopardi,  C.  p.  reccinat.,n.  14.  Una  forma 
aulica  è  accennata  nel  PitkÈ,  StuiìJ,  p.  214. 

(2)  Tigri,  n.  414.  Il  solo  totrastico  in  Gianandrea,  p.  105. 

(3)  Vigo,  n.  749.  Cfr.  Avolio,  n.  2G3,  dove  l"ultima  parola  del  2"  v. 
è  palizari. 

(<)  Tigri,  n.  511.  Cfr.  n.  530;  A.  Giannini,  n.  48.  A  Casale  in  Val  di 
Cecina  la  cantan  così: 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  261 

A  Verona,  (')  a  Vicenza,  (")  in  Piemonte,  C)  nella 
Valle  del  Po,  {*)  in  Liguria,  O  nell'Istria  O  occorre 
il  solo  tetrastico,  ma  a  Venezia  trovasi  e  in  tal 
forma,  C)  e  colla  ripresa  alla  Toscana.  O  In  Sicilia 
poi  si  dice  così  : 

0  Dia,  chi  pena  mi   dastivu  a  mia 
Ch'aju  la  lingua  e  lum  pozzu  parrari  ! 
Passii  davaiizi  di  l'amanti  mia, 
La  viju  e  nini  la  pozzu  salutari. 
O  Dia  di  'ncelu,  o  Virgini  Maria, 
Dicitimillu  va' com'aju  a  fari; 
Ea  la  talìu,  idda  mi  talìa, 
Né  eu  né  idda  patema  parrari  !  (^) 

L'uno  nell'altro  facilmente  si  convertono  questi 
altri  due  Canti.  Ecco  la  lezione  toscana  : 

M' è  stato  ditto  e  m' é  stato  avvisato 
Ch'io  non  passassi  piìx  di  questo  loco; 
Ed  io  ci  passo  come  un  disperato, 
Perchè  la  vita  mia  la  curo  poco. 
S'a  ogni  canto  ci  fosse  un  birro  armato,  (") 


Badate  che  passion  .sarà  la  mia  ! 

Vede'  il  mio  damo  e  "n  gli  potè'  parlare. 
Se  lo  riscontro  nel  mezzo  alla  via, 
Cogli  occhi  lo  'ncomincio  a  salutare. 
Lo  saluto  cogli  ocelli  e  poi  col  cuore, 
Perchè  la  bocca  mia  parlar  non  puole. 
Lo  saluto  cogli  occhi  e  colla  niente 
Perchè  la  bocca  mia  non  può  dir  niente. 

Lezione  marchigiana  in  Gianandrea,  pag.  30. 

(1)  Righi,  n.  3.5. 

(2)  Alvebà,  n.  4S  ;  Pasqualigo,  n.  10. 

(3)  Nigka,  p.  579. 

(*)  Feeraeo,   C.  di  Fontelfig.,  n.  21. 

(5)  Marcoaldi,  C,  pop.  lig.,  n.  85. 

(6)  IvE,  p.  144. 

(7)  Bernoni,  punt.  IV,  n.  29  (il  solo  primo  verso  nel  Ber.voni,  punt.  I, 
n.  57);  Garlato,  p.  346. 

(8)  Dal  Medico,  p.  70. 

(9)  Salomone-Marino,  n.  355. 

(W)  Questo  solo  verso  in  un  Canto  pop.  veronese  (Verona,  1870,  n.  7): 

Ogni  canton  ghe  fosse  un  omo  armato, 
Amar  te  voi  da  vero  inamorato. 


262  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIA^^A. 

A  Ogni  finestra  una  bocca  di  foco, 
Tanto  ci  vo'  passar  la  notte  e  '1  giorno. 
In  fin  che  campo  e  vivo  a  questo  mondo  : 
Tanto  ci  vo'  passa'  'I  giorno  e  la  notte, 
Vostri  begli  occhi  mi  danno  la  morte.  (') 

E  iu  Sicilia  : 

Mi  r  banu  ditta  e  mi  1'  hanu  avvisata 
Non  mi  ci  passa  cchià  di  chissà  locu; 
Ma  jò  ci  passa  cumu  c'è  passata,  (^) 
Pirelli  la  vita  mia  la  prezzu  pocu. 
Si  a  ogni  porta  ci  fussi  un  orna  armata, 
Ogni  finestra  'na  sciamma  di  foca, 
Si  toccanu  la  bella  ch'aja  amata, 
Gei  facissi  vidiri  un  tirrimotu.  (^) 

Negli  esempj  che  adesso  verremo  enumerando  è 
più  che  mai  evidente  l'anteriorità  della  lezione  insu- 
lare. E  primo  odasi  questo  Canto  toscano  : 

Quando  nasceste  voi,  nacque  bellezza, 
11  sol,  la  luna  vi  venne  a  adorare; 
La  neve  vi  donò  la  sua  bianchezza, 
La  rosa  vi  donò  '1  suo  bel  colore. 
La  Maddalena  le  sue  bionde  trecce, 
Cupido  vi  insegnò  tirare  i  cuori  : 

Cupido  v'  insegnò  tirar  le  frecce  : 
M' innamoraron  le  vostre  bellezze.  {*) 

La  forma  sicula  dev'esser  l'originale:  O  perchè 
col  dialetto  insulare  si  restituiscono  le  rime,  alquanto 


(1)  Tigri,  n.  7.52:  e  cfi-.  n.  729:  per  l'Umbri.a  e  il  Lazio,  Mazzatinti, 
11.  314;  Mae.'siliam,  d.  G.j4. 

(^)  Meglio  in  Salomone-Marino,  n.  427  :  com'un  stimurafn. 

(3)  Vigo,  n.  2469:  cfr.  n.  1683,  e  lezioni  meridionali  in  Imbriani,  C. 
pop.  prov.  merid.,1,  H;  Finamore,  Vocab. ,  ji.  28ì  ;  Mandalari,  p.  23.5;  Fiori 
selvatici,  n.  102. 

(••i  Tigri,  n.  80.  Cfr.  n.  8.5.  Ridotto  a  Stornello,  n.  41.  Cfr.  lezione 
niarcliigian.i  in  Gianandrea,  p.  79;  abruzzese  in  Finamoke,  rocnt.,  p.  331  ; 
veneta  in  Garlato,  258,  414. 

(S)  C.  Tenca,  indovinando  la  derivazione  meridionale,  la  sospettò  ori- 
ginariamente abruzzese:  vedi  Frose  e  Poesie  scelte,  Milano,  Hoepli,  U,  254. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  263 

alterate  nella  versione  toscana.  Che  se  anche  trecce 
e  freccie  possano  recarsi  all'antica  forma  di  trezze  e 
f rezze,  fra  queste  rime  e  il  primo  e  il  terzo  verso  re- 
sterebbe sempre  una  semplice  assonanza:  senza  che, 
le  desinenze  are,  ore,  ori  degli  altri  versi  danno  so- 
spetto di  qualche  maggior  corruzione  del  primitivo 
dettato.  Ma  tutto  si  ristabilisce  colle  forme  siciliane: 

Ti  maritasti,  sciuri  di  biddizzi, 

Tò  mamma  t'addiitau  li  'nfasciaturi, 
La  Mantaleiia  ti  desi  li  trizzi.  (^) 
Lu  suli  ti  r  ha  datu  lu  sblendiui  ; 
La  nivi  ti  1'  ha  datu  li  janchizzi, 
La  rrosa  ti  lu  desi  lu  cuiuri, 
Lu  zzuccaiu  t'  ha  datu  li  ducizzi 
E  la  cannedda  lo  bonu  sapuii.  (-) 

Altrove  in  Toscana,  e  precisamente  a  Casale  di  Val 
di  Cecina,  suona  così,  introducendovi  un  ricordo  del 
poema  popolare  di  Paris  e  Vienna: 

Quando  nasceste  voi,  nacque  bellezza, 
C'era  presente  la  luna  col  sole: 
La  luna  vi  donò  la  sua  chiarezza, 
E  '1  sole  vi  donò  lo  suo  splendore; 
E  Vienna  vi  donò  la  bionda  treccia, 
Paris  v'insegnò  fare  all'amore. 
Paris  v'insegnò  tira' li  sguardi: 
Sei  quel  crudel  amor,  che  non  mi  guardi. 
Paris  v'insegnò  tira'  sospiri; 
Sei  quel  crudele  amor  che  non  mi  miri. 

Forma  intermedia  è  la  sabina  : 

Quando  nasceste  voi  nacque  bellezza. 

Nacque  l'argento,  l'oro  e  le  chiare  acque  ; 


(1)  Altri  Canti  dove  si  parla  delle  trecce  della  Maddalena,  sono  in- 
dicati dal  Lizio-Bruno,  C.  popul.  Isol.  Eoi.,  p.  135.  Aggiungi  Molinaeo, 
C.  p.  napol.,  p.  158;  Amalfi,  Cento  canti  d' Inchia,  n.  26. 

(2)  Vigo,  n.  101.  Meglio  al  2»  v.  una  lezione  di  Alimena:  La  Fata 
i'annutò  la  fataciuni:  Purè,  C.  pop.  sicil.,  I,  ii.  42.  Ma  la  lezione  noticiana 


264  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

L'acqua  ve  la  donò  la  sua  chiarezza, 
L'oro  ve  lo  donò  lo  suo  splendore, 
L'argento  vi  donò  la  candidezza. 
Cupido  v'imparò  di  fa' l'amore.  (') 

Altro  caso  di  evidente  anteriorità  sicula  ci  offre 
il  Canto,  che  suona  così  in  Toscana  : 

Quando  nasceste  voi,  superna  luce, 
In  cielo  e  in  terra  gran  festa  si  fece  ; 
E  l'angiuli  gridavan  d'alta  voce  : 
L'è  nata  la  regina  imperatrice.  (^) 

L'è  nata  la  regina,  è  nata  lei. 
Nato  il  consumamento  agli  occhi  miei. 

L'è  nata  la  regina,  è  nato  il  fiore, 
Nato  il  consumamento  allo  mio  core.  (^) 

E  chiaro  come  la  prima  quartina  colle  sue  termi- 
nazioni in  uce,  oce,  ice  dia  a  divedere  una  primitiva 
lezione  alterata,  la  quale,  a  parer  nostro,  potrebbe 
essere  la  seguente  dell'  Isola  : 

Quannu  nascisti  tu,  sanguzzu  ruci,  (*) 
Chi  fìstilizzu  ca  'ncielu  si  fici  ! 
L'ancili  fuoru  tutti  ri  'na  vuci  : 
Nasciu,  nasciu  la  bbella  'mpiratrici. 
Ni  lu  pittuzzu  'na  stidda  vi  luci. 
Siti  cciù  bbella  ri  quantu  si  rici  : 
Bbella,  ssi  ssa  bbilJizza  si  proruci. 
Campi  cuntenta,  e  murirai  filici.  (^) 


(AvOLio,  11.  247)  comincia  come  la  toscana:  Qnamui  nascisti  tu,  stremi  bei- 
lizzi,  La  Fata  ti  calati  li  'nfasciatui-i  :  e  cos"i  pure  la  lezione  calabrese 
(Arlìa,  nel  Passatempo,  giorn.  torinese  del  1864,  voi.  I,  pag.  159):  Quannu 
nascisti,  o  fonti  di  hillizzi,  Lu  suli  ti  donaii  li  soi  sjìlenditi-i  ecc. 

(1)  De  Niro,  p.  15.   Ridotto  a  Stornello,  in  Marcoaldi,   Canti  popol. 
piceni,  n.  35. 

(2)  Ridotto  a  Stornello  in  Mueller-Wolf,  n.  4,  ma  col  3"  v.  errato  : 
E  andette  la  regina  all'  imperatrice. 

(3)  Tigri,  n.  88.  Cfr.  De  Nino,  p.  19;  PiooRiNi-BERr,  p.  143;  Gianan- 
DREA,  p.  59.  E  per  varie  lezioni  umbre,  vedi  Mazzatinti,  n.  24  e  segg. 

(■•)  Sulla  forma  sangu,  o  sanguzzu   duci,  vedi   quanto    dice   il   Lizio- 
Beuno,  C.  pop.  Isol.  Eoi;  p.  73. 

(5)  GuASTELLA,  n.  2.  Cfr.  Vigo,  n.  351  ;  Fiori  selvatici,  n.  26. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  265 

Rime  non  ben  rispondenti,  ma  di  semplice  as- 
sonanza, presenta  il  seguente  Rispetto  : 

Bella  ragazza,  vi  chiamate  Anna  : 

Quanto  mi  piace  Io  vostro  bel  nome  ! 
Voi  portate  un  garofano  da  banda, 
Dall'altra  parte  un  gelsumin  d'amore. 
Se  arriva  il  vostro  amore,  e  vi  domanda  : 
Dove  fu  colto  cotesto  bel  fiore  ? 

Io  l'ho  colto  nel  bel  giardin  d'amore. 
Dove  si  leva  la  spera  del  sole: 

Dove  si  leva,  dove  si  riposa  ; 
Voltati  verso  me,  vermiglia  rosa.  (') 

A  Venezia  corre  il  solo  tetrastico  iniziale,  e  sempre 
con  rime  di  pura  assonanza: 

Tuti  me  dise  che  ti  à  nome  Ana: 

E  cosa  che  me  piase  il  tuo  bel  nome  ' 

Ti  porti  do  garofoli  a  la  banda, 

E  in  mezo  al  peto  ti  à  do  fresche  rose.  (^) 

Ma  nell'Istria  si  svolge  maggiormente: 

A  me  xì  deito  che  ti  noni   .\na  : 

0  Deìo,  quanto  me  piase  el  tu'  biel  nome  ! 

Ti  puorti  due  garufuli  a  la  banda, 

E  in  miezo  al  pito  dui  freschite  viule. 

E  se  qualcoùn  per  suorto  te  dumanda: 

Dov'astu  priso  quile  frische  viule? 

L'ò  prise  in  nel  giardeìn  de  la  Diana, 

Duve  che  la  miteìna  liva  el  sule.  (") 

Tra  le  varie  versioni  insulari  scegliamo  questa  di 
Borgetto  e  Montelepre,  che  ricompone  le  rime  : 

Bedda,  lu  nnomu  tò  chiamatu  è  Anna. 
Oli  quantu  è  duci  ssu  nìiomu  d'amuri! 
Mi  porti  lu  galofaru  a  la  banna. 
Di  centu  migghia  uni  sentu  l'oduri. 


(1}  Tigri,  n.  155  ;  Tommaseo,  p.  395.  Cfr.  per  l' Italia  centrale,  Maz- 
ZATiNTi,  n.  23;  Marsiliani,  n.  16. 

(-)  Beknoni,  punt.  VI,  n.  69  ;  Dal  Medico,  p.  53. 

(3)  IVE,  p.  21.  Cfr.   VlLLANIS,  p.  44. 


266  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Si  passa  qualchidunu  a  m'addumanna  : 
Cu"  ti  lu  detti  ss'odurusu  ciuri  ? 
AUura  eii  mi  imi  vaju  canna  canna, 
E  coi  rispunnu  cu  vuoi  d'annui: 
L'aju  cngghiutu  'nta  lu  pettu  d'Anna, 
Unni  affaccia  la  spera  di  lu  suli.  (') 

Questa  serenata  toscana  non  ha  neanche  essa 
la  perfezione  di  rime  deHa  rispondente  versione 
sicula  : 

Dormi,  speranza  mia,  dormi,  speranza, 
Dormi,  speranza  mia,  riposa  e  pensa  : 
Siamo  pesati  alla  stessa  bilancia. 
Fra  me  e  te  e'  è  poca  differenza. 

Se  lo  potessi  aver  nello  mio  core. 
Oh  che  dolcezza  il  tuo  sguardo  d'amore  ! 

Se  lo  potessi  aver  nello  mio  petto. 
Oh  che  dolcezza  il  tuo  sguardo  diletto.  (") 

Ma  in  Sicilia  : 

Dormi,  spiranza  mia,  dormi,  spiranza. 
Dormi,  spiranza  mia,  riposa  e  penza: 
Semu  pisati  a  la  stissa  valanza. 
Fra  mia  e  tia  ce' è  poca  dilErenza. 
Se  tu  mi  porti  granni  amurusanza, 
Lu  me'  amuri  pri  tia  mi 'avi  putenza. 
Semu  pisati  a  la  stissa  valanza; 
Dormi,  spiranza,  ca 'n  ce' è  diffirenza.  (^) 

Di  capitale  importanza  nelle  nostre  ricerche 
sull'origine  prima  dei  Canti  popolari  è  questo  Ri- 
spetto :  (*) 

Eccomi  giunto  a  questa  cantoniera. 
Dove  fui  preso  nei  lacci  d'amore. 


(1)  Salomone-Marino,  n.  363.  Cfr.  Vhìo,  n.  401;  Guastella,  n.  21; 
AvOLlo,  n.  160.  Lezioni  meridionali,  in  Imbkiani,  C.  x>op.  prov.  merid.,  II, 
141-44;  Mandalari,  p.  389;  Amalfi,  Cento  C.  d'Ischia,  n.  36;  Molinako, 
C.  p.  molisani,  n.  16. 

(a)  TiGHi,  n.  398. 

(3)  Salomone-Maeino,  n.  281. 

{*)  Vedi  anche  in  proposito  di  questo  Canto,  Rubieri,  p.  431. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  267 

C'è  una  ragazza  die  porta  bandiera, 
Jn  faccia  porta  fiaccole  d'amore.  (^) 
E  te  r  ho  visto  fare  un  gran  bell'atto  : 
Gli  occhi  e  la  bocca  ridere  ad  un  tratto.  (*) 

Il  tetrastico  è  tolto  evidentemente  al  seguente  Canto 
dell'  Isola  : 

Sugnu  arrivatu  a  chista  cantiinera, 
Ccà  mi  'ngagghiaru  li  lazza  d'amari  : 
Ce' è  'na  picciotta  chi  porta  bannera, 
E  'nfacci  porta  ciàcculi  d'amuri. 
Aviti  ssa  facciuzza  eh' è  'na  spera, 
E  cu'  l'arriva  a  vìdiri,  uni  mori  ; 
Ed  eu,  l'amara!, 'nta  sta  cantunera 
Vi  cantu  pri  sfugarimi  lu  cori.  ("J 

Qui  è  molto  osservabile  il  vocabolo  cantoniera  che 
in  Sicilia  colla  forma  di  cantunera,  (*)  vale  cantonata, 
canto:  ma  in  Toscana  null'altro  significa  se  non  quel 
"  mobile  di  legno  a  guisa  di  armadio,  che  si  adatta  nei 
canti  delle  stanze,  e  che  serve  a  ri  porvi  roba  „.  (^) 
Non  si  potrebbe  desiderare  segno  pili  chiaro  di  deri- 
vazione siciliana,  non  potuta  mascherare  né  alterare. 
E  ancora  un  esempio:  In  Toscana  si  canta: 

Bella  ragazza,  che  ti  chiami  Nina, 
Sempre  Ninetta  ti  voglio  chiamare, 


('}  Con  gli  occhi  getta  -fiaccole  (l'amore:  Lorenzo  de'  Medici,  nella 
Nencia. 

(")  Tigri,  n.  315.  Cfr.  Marcoaldi,  C.  pop.  piceni,  ii.  45:  Voglio  can- 
tare in  questa  cantonera.  E  Imbriani,  C.  pop.  proi\  nierid.,  II,  432;  Voglio 
canta'  accanto  a  'sta  cantonera,  lezione  di  Bagnoli  Irpino.  Cfr.  Amalfi,  C. 
d'Ischia,  n.  88  e  Beverini,  n.  19.  In  un  Canto  pop.  di  Sora  (nel  giorn. 
G.  B.  Basile,  II,  30)  :  pontonera. 

(^)  Salomone-Marino,  n.  272:  Vigo,  n.  1305. 

(4)  Vedine  esempj  nei  Canti  del  Vigo,  n.  536,  906,  1352,  1909,  2514,  2632, 
4487,  4505  ecc.  Questa  paiola  trovasi  anche  in  Canti  meridionali,  ma  sempre 
in  line  del  verso,  e  dove  è  probabile  la  derivazione  sicula:  v.  ad  es.  Im- 
briani, C.  pop.  prov.  merid.,  II,  229,  230,  242  ecc. 

(5)  Fanfani,  Vocab.  dell'  Uso.  Cfr.  Manuzzi,  Eigutini  ecc.  Erra  il 
Vigo,  nella  nota  ai  Canti  n.  2514  e  2632,  dicendo  che  cantunera  è  voce 
anche  toscana  nel  senso  di  cantonata. 


268  LA    POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Coll'acqua  che  ti  lavi  ogni  mattina 
Ti  piego,  Niiia  mia,  non  la  buttare. 
Che  se  la  butti,  ci  nasce  una   spina. 
Ci  nasce  una  rosetta  tanto  cara 

Chi  primamente  lo  raccolse,  (^)  o  lo  sentì  già  così 
deformato  o  non  seppe  ben  trascriverlo.  Meglio  è  la 
lezione  picena  : 

E  tu  per  nome  che  ti  chiami  Nina 
Sempre  per  Nina  te  voglio  cliiamare, 
L'acqua  che  ti  ci  lavi  la  mattina 
Ti  prego,  Nina  mia,  non  la  buttare  : 
E  se  la  butti,  buttala  al  giardino, 
Ci  nascerà  un  bel   giglio  e  un  gelsomino; 

E  se  la  butti,   buttala  al  gi  arri  ino 
Che  ci  fa  l'acqua  rosa  lo  speziale; 

Lo  speziale   ci  fa  l'acqua  rosata, 
Pe'  guari'  Nina  sua  quand'è  malata.  (^) 

Ma  nel  Veneto  e  in  Istria  l'acqua  servirà  a  tempe- 
rare il  vino  : 

La  sarà  bona  a  intemperar  lo  vino 
Quando  saremo  a  tòla  per  disnare.  (^) 

In  parecchie  lezioni  meridionali  è  cangiato  il  nome, 
togliendo  la  rima  : 

E  mm'  hannu  dettu  ca  te  chiami  Rosa, 
Rosa  e  Rosina  te  vogliu  chiamare. 
Cu  l'acqua  ci  te  lavi  la  matina 
Te  pregu.  Rosa  mmia,  nu'  la  menare. 
Addii'  la  mini  nei   nasce  'na   .spina, 
'Na  rosa  e  'na  rusetta  ppo'  'ddurarc: 
Nde  passa  hi  speziale  e  nde  la  cima, 
Medecina  nde  face  ppe'  sanare.  C) 


(1)  MuELLEK-WoLF,  p.  13,  (loiulc  passù  al  Tommaseo,  p.  398. 

(2)  Marcoaldi,  n.  54. 

(3)  Dal  Medico,  p.  25.  Cfr.  Ive,  p.  201. 

(*)    IMBIUANI,    I,    283. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  269 

Ma  in  qualche  altro  caso,  come  a  Napoli,  si  serba 
il  nome  primitivo  : 

Bella  figliola,  ca  te  chiamine  Niiia, 
r  sempe  Nina  te  voglio  cliiammare  ; 
Cliell'acqua  ca  te  lave  la  matina 
Te  prcio,  Nina  mia,  nu'  la  ghittare. 
A  do'  la  ghiette  ce  nasce  'na  spina, 
'Na  rosa  muscarella  p'aildurare  ; 
Li  mièdeche  ne  fanno  medicina, 
La  dann' a  li  malate  pe' sanare.  (') 

Scendiamo  ora  in  Sicilia,  e  sentiremo  : 

Oh  quant'è  heddu  lu  noma  di  Nina, 
Ca  sempre  Nina  vurrissi  chiamari  ! 
L'acqua  ccu  cui  ti  lavi  la  matina,  (-) 
Bedda,  ti  pregu  di  non  la  jttari  ; 
Ca  si  la  jetti  ni  nasci  'na  spina. 
Nasci  'na  rrosa  rrussa  ppi  ciarari, 
Li  medici  ni  fanno  midicina, 
La  dannu  a  li  malati  pri  sanari.  (^) 

Evidentemente,  adunque,  la  lezione  originaria,  è,  con 
certe  modificazioni,  la  siciliana,  che  passando  lo  stretto 
ha  perduto  qualche  volta  il  nome  dell'amata  e  con 
esso  la  rispondenza  delle  rime:  in  Toscana  si  è  un  po' 
imbrogliata  e  così  un  po'  anche  nelle  Marche,  ma  più 
su  ha  perduto  tutto  quello  che  aveva  in  se  di  gentile. 
Comprenderà  facilmente  il  lettore,  che  se  non 
prolunghiamo  ancora  questi  raffronti,  egli  è  soltanto 
per  non  tediarlo,  non  già  perchè  ce  ne  manchi  ma- 
teria. E  ci  sembra  poi,  che  il  già  riferito  possa  ser- 


ti) MOLINARO,  p.   146. 

(-)  Questo  rcH  cui  della  lezione  di  Termini  sembra  quasi  una  fiorettatura 
letteraria.  La  doppia  lezione  di  Agira  suona:  E  l\icqna  che  ti  lavi  la  ma- 
tina o  Ccu  l'acqua  ca  ti  laoi  la  matina  Ti  metti  li  sciuì-iddi  a'  hivirari.  E 
a  Modica  (Guastella,  p.  79):  Di  l'acqua  ca  ti  lavi  a  la  matina  Ti  preu, 
Nina  mia,  nun  la  jittari:  quasi  sempre  il  medesimo  anacoluto  della  lezione 
toscana. 

(i)  Vigo,  n.  398-9. 


270  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

vire  esuberanteiiiente  a  provare  la  nostra  opinione 
sulla  identità  del  Canto  popolare  delle  diverse  Pro- 
vincie italiane  e  sulla  sua  prima  origine  in  Sicilia. 
Ma  altri  ragguagli  non  meno  curiosi  potrebbero  farsi 
non  già  per  intere  Canzoni  e  per  tetrastici,  ma  per 
soli  distici,  0  per  tre  versi  al  massimo,  ed  anche  per 
un  solo.  Il  che  è  segno  di  un  gran  rimescolamento, 
di  uno  scambio  continuo  di  Canti,  de'  quali  per  lunga 
età  fu  custode  la  sola  memoria,  sicché  l'uno  si  in- 
castrò, a  così  dire,  nell'altro,  perdendo  o  pigliando 
altronde  qualche  verso,  e  rimanendo  identici,  o  quasi, 
nelle  variate  lezioni,  soltanto  il  verso  o  i  versi  del 
cominciamento.  Ci  piace  recare  di  ciò  qualche  spe- 
ciale testimonianza,  raccogliendo  versi  identici  o 
assai  simili,  specialmente  iniziali,  di  Canti  d'ogni 
regione,  e  intralasciando  le  parti  modificate: 

I.  Fossi  sicuro  che  '1  mi'  amor  sentisse 

Ad  alta  voce  io  vorrei  cantare.  (') 

E  se  credesse  cli'el  mio  ben  sentisse, 
De  alta  vose  mi  voria  cantare.  (^) 

II.  Non  posso  piìi  cantar  come  solevo 

Percir  ho  perduto  il  fior  della  mia  voce.  (^) 

Come  cantava  'un  pozzu  cchiìi  cantari, 
Ah,  eh'  haju  persu  la  vuci  ch'avia.  ('') 

III.  Tu  fai  come  lo  mar  che  cresce  a  onde, 

Com'  più  che  cresci,  e  più  bella  ti  fai.  (^) 

U  mar  d'oj;n'aura  batt  d'aunna. 

Chiù  chempi  e  cresci,  chiù  bedda  t'  fci.  (") 


(1)  Tigri,  n.  25. 

(2)  BeRNONI,    pUllt.    VI,    11.    ii. 

(3)  Tigri,  n.  27. 

(4)  Vigo,  n.  1158;  cfr.  n.  1160,. 

(6)  Tigri,  ii.  58;  cfr.  Tommaseo,  p.  40. 

(6)  Vigo,   n.  5308  :  C.niito   doll.a   Coloni.i   lomb;irda   di   S.  Fratello   in 
Sicilia. 


LA  POESIA  POPOLARE  IT  ALLENA.  271 

L'acqua  del  mar  ti  mantien  fresca  e  bella 
Come  la  rosa  in  sulla  verde  spina.   (') 

Lu  mari  ti  mmanteni  frisca  e  bella, 
Comu  'na  rosa  russa  a  li  giardina.  (^) 

Siete  più  bianca  che  non  è  la  carta.  (^) 
Site  cchiìi  ghianca  vuie  ca  n'  è  la  carta.  ("•) 
Siti  cchiù  janca  di  li  janchi  carti.  (=) 

Bella,  bellina,  chi  vi  ha  fatto  gli  occhi. 
Chi  ve  gli  ha  fatti  tanto  innamorati?  (®) 

Sia  benedeta  chi  t'a  fato  i  oci.  (') 

Bianca  come  la  neve  di  montagna.  (^) 

Cchiù  janchi  di  la  nivi  a  li  muntagui.  (®) 

Sete  più  bianca  che  neve  in  montagna, 

Più  rossa  che  n' è  il  sangue  di  dragone.  ('") 

Sì  bianca  cchiù  de  nive  de  muntagna, 
Sì  russa  cchiù  de  sangue  de  dragone.  (^') 

Ill'augioli  vi  viengono  a  servire, 

Quando  che  suona  a  messa,  voi  ci  andate.  (^^) 

Quattr'angeli  la  vengono  a  vestire, 

Quando  suona  la  messa,  voi  ci  andate.  ('^) 

Quando  l'uscio  di  chiesa  voi  entrate, 
Le  lampane  coU'occhi  l'accendete.  ("J 


(I)  Tigri,  ii.  59;  Tommaseo,  p.  40;  cfr.  Gianandrea,  p.  63;   Mazza- 
tinti,  n.  53;   Marsiliani,  ii.  Si. 

(')  Lizio-Bruno,  C.  2>op.  Isol.  Eoi.,  n.  13;  cfr.  Imekiani,  C.  pop.  aeell., 
pag.  44. 

(3)  Tigri,  n.  61, 

(*)  MOLINABO,    p.  258. 

(5)  Vigo.  n.  826. 

(6)  Tigri,  n.  6.5. 

(')  Bernoni,  punt.  IV,  n.  31. 
f8)  Tigri,  n.  67. 

(9)  Vigo,  n.  444,  1213. 

(10)  Tigri,  n.  115. 

(II)  Imbriani,  C.  pop.  pvoi\  mei-id.,  I,  176. 

(12)  Tigri,  ii.  81. 

(13)  Xannarelli,  C.  pop.  di  Arlena,  n.  48. 

(14)  Tigri,  ii.  81. 


272  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA 

Bella  figgliiola,  chi  alla  chiesa  annatì, 
Cu  sti  bell'occhi  la  lampa  driimati.  (^) 

Quannu  dinto  a  la  chiesia  trasisti 

Co'  'sti  bell'iiocchi  la  lampa  allumasti.   (-) 

E  quando  c'alia  chiesa  camminate 

Co'  'sti  begli  occhi  li  lumi  accendete.   (^) 

XI.  0  albero  di  perle  caricato, 

Colonna  a  cui  s'appoggia  l'alma  mia.  (■*) 

Arvulu  di  dumanti  carricatu,  {'") 

Culonna  unni  s'appoja  l'arma  mia.  (^) 

XII.  Avete  i  labbri  fatti  di  corallo, 

Gli  occhi  per  riguardallo  il  Paradiso.  (') 

Ssi  labbra  di  curaddu  minutiddi, 

Ss'occhi  stidduzzi  di  lu  Paraddisu.  (*) 

XIII.  Il  sangue  nelle  vene  mi  si  agghiaccia.  (®) 
El  sango  eh' iè  in  le  vene  me  se  glassa.  (") 

XIV.  Tutte  la  strade  le  vo'  far  bandire, 

Tutte  le  porte  le  vo'  far  serrare.  (^') 

Tutte  le  strade  voglio  far  bandire, 
Tutte  le  porte  voglio  far  serrare.  C") 

XV.  Le  cose  piccoline  son  pur  belle 

Le  cose  piccoline  son  pur  care!  (^^) 


(1;  Lizio-Beuno,  Canti  scelti  del  pop.  sicil.,  p.  45;  cfr.  Gvastella,  n.  19. 

{-)  Imbkiani,  C.  pop,  aveìl.,  p.  59  ;  cfr.  C.  pup.  prov.  meriiì.,  I,  207. 

(3)  Blessig,  part.  I,  n,  45. 

(*)  Tigri,  n.  102.  —  Su  questa  immagine  della  colonna,  usata  assai 
nella  poesia  popolare,  v.  Lizio-Bruxo,  C.  pop.  Isoì.  Eoi.,  p.  77. 

(5)  Su  questa  forma  AelValbero  caricato,  v.  Lizio-Bruno,  C,  pop.  laol. 
Eoi.,  p.  111. 

C^)  Salcmone-Marino,  n.  fi;  cfr.  Vicjo,  n.  67.">,  920, 1024;  Pitrè,  C.  pop. 
sicil.,  I,  p.  198;  Lizio-Bruno,  C.  pop.  Isol.  Eoi.,  n.  19;  Canale,  n.  20. 

(.■)  Tigri,  n.  118. 

1,8)  Salomone-Marino,  n.  69. 

^9)  Tigri,  n.  177. 

(10)  IvE,  p.  61. 

0»)  Tigri,  n.  438. 

('21  Nannarelli,  II.  4G;  cfr.  Righi,  n.  30. 

('3)  Tigri,  n.  144;  cfr.  lezione  ligure,  m.i  di  toscana  provenienza  in 
Maecoaldi,  C.  pop.  liguri,  n.  28. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  273 

Tute  le  cosse  picole  xè  bele. 

Tute  le  cosse  picole  xè  rare  !  (') 

Doùte  li  cose  peìcole  son  biele, 
Doùte  li  cose  peicole  son  rare.  (^) 

XVI.  Gliele   donai  e  gliele  diedi  in   pegno: 

È  questo  il  primo  amor  che  passa  il  segno.  (^) 

Vovria  saver  clii  ha  el  mio  cuor  in  pegno: 
El  primo  amor  xe  quel  che  passa  el  segno.  {*) 

XVII.  Questi  da'  occhi,  due  candele  accese.  (^) 
E  'ntra  lu  mezzu  du  torci  addumati.  (^) 
Dentro  ci  ènno  due  torcie  allumate.  (") 

XVIII.  Cade  l'uliva  e  non  cade  la  foglia, 

Le  tue  bellezze  non  cadono  mai.  (^J 

Casca  li  foje  e  nu'  casca  l'uleia, 
Li  tu'  belisse  nu'  cascarò  mai.  (^) 

XIX.  Ed  io  ti  voglio  amar  per  gentilezza... 

Bello,  per  povertà  non  mi  lasciare.  ('") 

E  no  vardar  che  mi  sia  un  povar  omo, 
Che  povartà  non  guasta  gentilezza.  (") 

La  puvertà  nu'  vasta  gentilezza  ('-) 

C'a  puvertà  ne'  gguaste  ggendelezze.  (^') 


(I)  Dal  Medico,  p.  28:  cfr.  Ber:;>on-i.  punt.  I.  n.  .3;  Altera,  d.  67: 
Righi,  n.  47:  Gaflato,  p.  256:  Caliari,  p.  17.5,  236. 

\2,  Ite,  p.  47. 

(3)  Tigri,  n.  270. 

(<)  Beknoni,  pnnt.  VI,  n.  40. 

(5)  Tigri,  n.  241. 

(6)  Vigo,  n.  161. 

("■)  Marcoaldi,  C.  pop.  piceni,  n.  36. 

(8)  Tigri,  ii.  246. 

(9)  Ite,  p.  54. 

(W)  Tigri,  n.  252.  Cfr.  n.  343,  ,541. 

(II)  Bernosi.  punt.  VII,  n.  5  :  Dal  Medico,  p.  21.  Cfr.  Gia>-a5tieea, 
p.  52.  Questo  Canto,  specialmente  nella  lezione  toscana,  ha  un  certo  sapor 
letterario.  Deriverebbe  da  quello  Strambotto  di  Serafico  Aquilano  che 
conclude:  E  poc ertale,  ancor  che  si  disprezza,  Xon  guastò  mai  virtù,  né 
f/^ntilezza  ? 

(12)  Ite,  pag.  161. 

(13)  Fisamoee,   rocab.,  p.  295. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  18 


274  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAIfA 

XX.  Un'ora  non  mi  lasci  riposare  ; 

E  non  mi  lasci  riposare  un'ora  ; 
Couvien  che  t'ami  e  disperata  mora.  (^) 
Un'ora  non  me  lascia  riposare, 
E  non  me  lascia  riposare  un'ora  ; 
Quest'è  lo  spasso  di  chi  s'innamora.  (^) 

XXI.  Non  ho  portato  né  oro  né  argento, 

Yi  lascio  lo  mio  cor  in  pagamento.  (^) 
Non  ti  darò  nò  oru  nò  argenta, 

Ti  darò  la  mia  vita  in  pagamentu.  ('') 
Oro  no  ve  ne  darò,  nò  pure  argento: 

Solo  la  vita  mia  per  pagamento.  (^) 

XXII.  La  prima  volta  che  m'  innamorai 

M'innamorai  con  uno  sguardo  solo.  (^) 
La  prima  volta  che  m'innamorai, 

Piantai  lo  dolce  persico  alla  vigna.  (') 
La  preima  vuelta  eh' i' son  inamurào. 

So'  inamurato  int'oùna  Calabrise.  (^) 
La  primma  vota  che  me  'nnammurraie 

Me  'nuammuraie  de  'na  calavresa.  (^) 
La  prima  volta  che  m'  inamurai, 

M' inamurai  d'na  bella  rumagnola.  ("*) 

XXIII.  L'ho  perso  lo  mio  core,  e  '1  vo  cercando. 

Ditto  m'è  stato  che  l'avete  voi, 
E  se  l'avete  ve  l'avranno  mando.  (^') 
So'  senza  cuor  o  lo  vago  cercando  ; 
Me  xe  sta  dito  che  l'avete  voi, 
E  se  l'avete  ve  lo  recomando.  (^-) 


0)  Tigri,  ii.  281. 

(2)  Makcoaldi,  C.  2>"P-  piceni,  n.  27. 

(3)  Tigri,  n.  287. 

(^)  Marcoaldi,  C.  pop.  liguri,  li.  13. 
(^)  Altera,  n.  19;  Camari,  p.  12. 
(6)  TiCEl,  11.  294;  cfr.  ii.  334. 
C)  Nannarelli,  11.  49. 

(8)  IVE.  p.  78. 

(9)  MOLINAHO,    p.    209. 

(W)  Fekraro,   C.  poj).  ili  Cento,  li.  9. 

(11)  Tigri,  n.  312. 

(12)  Dal  Medico,  p.  79;  cfr.  loziuiic  istiiaiia  in  Ive,  p.  CO. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  275 

Passu  per  s'ta  ciintradda  camminanda, 
l'ho  persu '1  min  cuorin,  vaddii  zercanda: 
M'e  statu  dicciu  che  Tei  truvà' vai.  (') 

XXIV.  Son  piccinina  ed  Lo  quattordici  anni.  (^) 
Giovanottella  dai  quattordici  anni.  (^) 

XXV.  0  tu  che  donni  e  riposata  stai, 

'N  testo  bel  letto  senza  pensamento.  C) 

0  tu  chi  dormi  senza  pinsamenti.  (") 

XXVI.  Vattene  bella,  vattene  a  dormire, 

11  letto  ti  sia  fatto  di  viole.  {°) 

Vattene  bella,  vattene  a  dormire 
Lu  lietto  ti  sia  fatto  de  viole.  (") 

Vattene  a  letto  e  vanne  a  riposare. 
Lo  pagliaccio  si  copra  di  viole.  (*) 

XXVII.  Finestra  che  di  notte  stai  serrata. 

Di  giorno  aperta,  per  farmi  morire.  (°) 

Finestre  che  de  note  son  serate. 

Di  giorno  aperte  per  farmi  morire.  ('°) 

XXVIII.  Addormentata,  perchè  non  ti  svegli. 

Addormentata  nel  sonno  d'amore?  (") 

Te  respigghia,  respigghia,  'ddurmentata, 
0  'ddurmentata  de  suenno  d'amore.  ('^) 


(1)  Marcoaldi,  C.  2>op.  liguri,  n.  23,  Il  Veneziano  ha  lo  stesso  con- 
cetto nel  1°  libro  di  Celia,  lì.  229  : 

Persi  111  cori  niiu,  e  iiuii  sacciu  unni. 
Ne  sacciu  cui  'n  putiri  si  lu  tegna; 
La  mia  'nnimica  criju  chi  l'ascunni  ecc. 

(2)  Tigri,  n.  329. 

(3    Maecoaldi,   C.  pop.  piceni,  n.  25. 
W  TiGKi,  11.  38?. 
(5)  Vigo,  n.  1191. 
(0)  TiGBi,  n.  394. 

(')   COKAZZINI,   p.   196. 

(8)  Maecoaldi,  C.  pop.  umbri,  w.  46. 

('•>}  Tigri,  n.  399-400. 

(10)  Dal  Medico,  p.  120. 

(")  Tigri,  n.  397. 

(12)  Imbeiani,  C.  pop.  prov.  merid.,  II,  123. 


276  LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

XXIX.  E  l'ho  ben  vista  un'aquila  volare.  (') 

"Vitti  vulari  'n'acula  'ntra  mari.  (^) 

XXX.  In  del  mi'  orto  c'è  nata  una  canna... 

Nel  pedone  ci  canta  il  rusignuolo.  (^) 

Haju  In  jardinedda  a  tramuntana, 
Lu  rusignolu  a  cantari  coi  veni.  (*) 

xxxT.      L'ho  visto  andar  pel  cielo  un  nuviletto, 
A  spasso  andava  per  amor  del  sole.  (^) 

Che  va  facendo  questo  nuviletto 

Che  va  per  l'aria  ricoprendo  il  sole?  (^) 

xxxii.     Quando  sarà  quel  di,  cara  colonna, 

Che  la  tua  mamma  chiamerò  Madonna?  (") 

Quando  sarà  quel  dì,  quel'ora  bona 

Che  chiamerò  to' madre  per  Madona?  (^) 

Quando  sera  quel  di,  cara  coIona, 

Che  a  la  to  mania  glie  dirò  Madona?  (^) 

Oh  Din,  quannu  sarà  curu  giurnu, 

Ci  a  la  tua  matri  la  chiamassi  Mamma?  (") 

xxxiii.  Sarebbe  me'  non  t'avessi  ma'  visto. 

La  lingua  non  t'avesse  mai  parlato!  (^^) 

CoU'occhi  non  t'avessi  mai  veduto, 

La  lingua  non  t'avesse  mai  parlato!  ('-) 

XXXIV.   Ho  visto  la  Serena  a  proda  al  mare.  ('^) 


(I)  Tigri,  ii.  416. 
(2  Vigo,  n.  422. 
(3)  Tigri,  n.  456. 
(<)  Vigo.  n.  2.381. 

(5)  Tigri,  n.  420. 

(6)  Marcoaldf.  C.  pop.  umhri,  ii.  29;  cfr.  Gian..^ndrea.  p.  129. 
(')  Tigri,  n.  46.x 

(8)  Gari.ato,  p.  389. 

(0)  Dai,  Medico,  p.  61;  Bernoni.  punt.  X,  n.  76;  Caliaiu,  p.  112. 

(W)  SciiiFONE,  C.  pop.  savesi,  li.  l.'j. 

(II)  Tigri,  n.  500. 

(12)  Nannaeeli.1,  p.  21. 

(13)  Tigri,  ii.  518. 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALU.XA.  277 

A  menzu  mari  coi  sta  la  Serena.  {') 

lu  mezzo  al  mar  glie  canta  la  Sirena.  (^) 

La  Serenela  che  xe  in  mezo  al  mare.  {^) 

XXXV.       E  quanto  tempo  ho  perso  per  amarte! 
E  gli  era  meglio  avessi  amato   Iddio, 
Del  Paradiso  n'avere'  na  parte.  (^) 

Quel  tempo  che  go  perso  a  amarve  voi, 
L'avesse  perso  a  dir  tante  orazione  I 
Davanti  Dio  ghe  n'avaria  'na  parte.  (') 

xxxvi.      Ti  mando  a  salutare  per  gli  uccelli.  (®) 
Vi  mannu  a  salutari  c'un  ucceddu.  (') 

XXXVII.  Credo  che  m'abbia  dato  la  malìa.  (^) 
Criju  ca  mi  facisti  magarla.  C)    . 

XXXVIII.  Dove  sei  stato,  che  sei  stato  tanto  ? 

Dove  sei  stato,  fior  di  Paradiso  ? 

Ti  pensi  ch'abbia  riso?  Ho  sempre  pianto.  (^°) 

Li  dove  xestii  sta  che  ti  è  sta  tanto, 
0  delicato  fior  di  Paradiso  ? 
Dopo  che  ti  è  sta  via,  go  sempre  pianto.  (^') 

XXXIX.  M'è  posto  mente  quando  son  per  via, 

A  capo  basso  ini  conviene  andare.  (^^) 

A  me  conviene  andà'  coU'occhi  bassi, 
Coll'occhi  bassi  e  colla  testa  china.  ('^) 


(1)  Vigo,  n.  1164. 

{-)  Alveeà,  n.  79;  Pasqualigo,  n.  12;  Caliaki,  p.  252. 

(3)  Dal  Medico,  C.  pop.  di  Chioggia,  u.  2. 

(I)  Tigri,  n.  535. 

(5)  Bernoni,  punt.  n,  n.  57. 

(6;  Tigri,  n.  6.32. 

(')  Salomone-Marino,  u.  351. 

(8)  Tigri,  il  658. 

(9)  Vigo,  n.  2976. 
(W)  Tigri,  n.  700. 

(II)  Beenoni,  punt.  IV,  n.  47;  cfr.  Alvekà,  n.  41. 

(12)  Tigri,  il  741. 

(13)  Xannaeelli,  p.  20. 


278  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

XL.  Quando  ti  vedo  con  altri  parlare.  (*) 
Quannu  cu  autru  ti  viju  parrari.  (^) 
Quand  ti  veg  cuu  li  altri  a  parlare.  (^) 

XXI.        Cittina  bella  dalla  maggiorana 

La  senti  la  tua  madre  che  ti  chiama?  (^) 

Catariniela  de  la  mazurana 

Teira  la  cuorda  e  sona  la  campana.  (^) 

XLii.      Ecco  la  palma  se  vuoi  far  la  pace.  (^) 
Chessa  è  la  parma  si  vuo'  fa  pace.  (") 

xLiii.     Che  domin  ho  fatt'  io  a  questo  ingrato, 

Che  abbassa  gli  occhi  per  non  mi  vedere?  (^) 
Chi  t' haju  fattu,  miu  dulci  confortu, 

Ca  cali  l'occhi,  e  nun  mi  poi  vidiri  ?  (^) 

XLiv.      E  se  tu  stavi  un'ora  e  'n  mi  vedevi. 

Con  gli  occhi  riguardavi  fra  la  gente.  (") 

Se  stavi  un'ora  che  non  mi  vedevi, 

CoU'occhi  fra  la  gente  mi  guardavi.  (^') 

Un  giorno,  biela,  cu'  i'  nu'  me  vedivi, 

Cu'  i'  noci  in  fra  la  zento  i'  me  9erchivi.  (^^) 

Passava  un  giorno  che  non  me  vedevi, 
Cu'  occi  per  le  genti  mi  cercavi.  (^^) 

XLv.  Che  hai,  che  hai,  che  ti  lamenti  e  lagni? 
Chi  te  r  ha  data  questa  doglia  al  core  ? 
Tu  fai  il  male  e  poi  te  lo  compiangi.  ('*) 


(I)  Tigri,  n.  755;  efr.  Stornelli,  n.  2SL 
!-)  PiTEÈ,  C.  pop.  sicU.,  I,  n.  250. 

(3)  Fereaeo,  C.  pop.  motiferr.,  Strami),  n.  45. 

(4)  Tigri,  n.  789. 
('■>)  IvE,  p.  274. 
(«)  Tigri,  n.  811. 

(■)  Imhriani,  C.  pop.  prov.  merid.,  II,  57. 

(8)  Tigri,  ii.  88r,. 

(s>)  Vigo,  n.  103.3;  cfr.  Piteì:,  C.  pop.  sicil.,  I,  n.  326. 

(10)  Tigri,  n.  887. 

(II)  Nannarelli,  p.  48. 
('=)  IVE,  p.  205. 

('3)  AlveiìÀ,  II.  85;  cfr.  lezione  veneziana  in  Bernoni,  punt.  I,  n.  30; 
Dal  Medico,  p.  128. 

('<)  Tigri,  n.  900.  Erroneamente  nel  primo  verso  :  languì;  forse:  piangi. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  279 

Che  adki,  che  adài  che  ti  lamenti  tanto? 
Chi  te  r  ha  messa  la  pena  nel  core  ? 
Da  te  facesti  il  male,  e  tu  lo  i^iangi.  (') 

XLVi.      È  morto  lo  mio  amore,  e  non  ho  pianto; 
Credevo  ben  che  fusse  altro  dolore  ; 
È  morto  il  Papa  e  se  n'ò  fatto  un  altro.  (^) 

Xè  morto  lo  mio  bene  e  no  gò  pianto  ; 
Credeva  de  sofrire  piìi  tormento  ; 
Xè  morto  un  Papa,  e  i  ghe  n'à  fato  un  altro.  (^) 

XLVii.     Tu  vai  dicendo  eh'  io  non  son  Eegina, 

Né  anche  tu  se'  figliuol  del  Re  di  Spagna.  ('') 

Tu  nen  gì  ffijge  de  ju  Re  de  Spagne, 

Nemmeno  pe'  ddot'avete  qualeche  rregne.  (^) 

Che  ra  toi  mania  nun  è  la  Regina, 

E  lo  toi  padre  nun  è  il  Re  di  Spagna.  (^) 

xLviii.   E  lo  mio  amor  me  1'  ha  mandato  a  dire 

Che  mi  provveda,  che  mi  vuol  lasciare.  C) 

Lo  mio  amore  me  1'  ha  mando  a  dire 

Che  m'ho  da  provvede',  che  vói  lassarme.  C^) 

El  mio  moroso  m'à  mandato  a  dire 

Che  me  proveda,  che  '1  me  vò  lassare.  (^) 

XLix.      Sono  stata  sett'anni  con  la  golpe 

E  m'ha  insegnato  tutti  i  suoi  costumi.  (") 

Gei'sera  so'  andà  in  casa  da  la  volpe. 
La  m'à  insegna  tute  le  volperie.  (^^) 


(1)  Nannaeelli,  p.  19. 

(2)  Tigri,  n.  1009;  cfr.  n.  1060,  e  Mazzatinti,  ii.  97. 

(3)  Beenoni,  punt.  II,  11.  48. 
{*)  TiGKi,  11.  1018. 

(^)    FlNAMOKE,    p.    320. 

(«)  Ferkaro,  C.  pop.  monferr.,  Str.amb.  n.  77. 
(')  Tigri,  n.  1001.  Ridotta  a  Stornello,  ii.  178,  3G4. 
(8)  Mazzatinti,  n.  146. 

('■')  Dal  Medico,  p.  113, 120;  Caliaei,  p.  10,  130.  Il  solo  primo  verso 
in  Beenoni,  punt.  II,  n.  1  ;  Dal  Medico,  p.  141  ;  Feeeaeo,  C.  pop.  monf.,  ii.  84. 
(W)  Tigri,  n.  1074. 
(11)  Beenoni,  punt.  II,  n.  89. 


280  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

L.  Ohimè,  che  ho  perso  tutto  il  ben  che  avevo 

Ho  perso  la  sedina  (')   ove  sedevo, 
E  la  colonna  dove  mi  appoggiavo!  (^) 

Ho  perso  il  praticello  ove  pascevo, 
E  la  colonna  dove  m'appoggiavo.  (^) 

0  perso  '1  mio  pozol  che  me  pozava, 
Quela  coIona  che  su  me  tegniva  !  (^) 

LI.  Una  stella  vi  lasso  per  segnale, 

Quando  s'oscurerà,  bella,  piangete.  (^) 

La  stidda  vi  la  lassù  pri  signali, 

Quannu  nu  luci  cchiìi,  mi  cianciriti.  C") 

E  per  signalo  el  purterà  oùna  stila 
La  nu'  se  scurirà,  se  no  mor'eìo.  (') 

Lii.  Oh  quante  volte  mi  ci  fai  venire. 

Sotto  le  tue  finestre  a  sospirare  !  (^) 

E  cquande  voidde  me  c-i-ù  fa'  meni' 
Sott'a  'ssa  to  feuestr'  a  susperà?  (^) 

D'  giorno  e  d'  notte  me  ce  fai  veni'. 
Sotte  la  tu'  finestra  a  sospira'!  (") 

mi.        Sento  la  Morte,  e  la  vedo  venire.  (") 
Sentu  la  Morti,  la  sentu  veniri.  ('-) 

XLiv.      Se  teco  dovess'  ire  in  Paradiso, 

Per  non  vederti  accetterei  l'Inferno.  (^^) 


(1)  Un  poeta  noto  al  popolo,  e  della  maniera  del  popolo  imitatore, 
Olimpo  da  Sassofekrato,  cosi  scrive  nella  l'henice:  Voi  siete  un  gentil 
letto  da  posare,  Siete  una  gentil  sedia  da  sedere. 

(2)  TiGHi,  n.  1120. 

(3)  Kannarelli,  p.  20. 
(<)  Dal  Medico,  p.  120. 
(6)  Tigri,  n.  1141. 

(0)  Vigo,  n.  2G.")8.  Cfr.   Imbriani,  C.  2>op.  prov.  merid.,  II,  280;  Mar- 
COALDi,  C.  pop.  umbri,  n.  73;   Gianandrea,  p.  58. 
(')  IvE,  p.  195. 
(8)  Tigri,  n.  lUfi;  Mazzatinti,  il  274. 

(0)    FlNAMOKE,  p.   295. 

(10)  Gianandrea,  p.  125. 

(11)  Tigri,  n.  1155. 

(12)  Vigo,  n.  2991. 

(13)  Tigri,  n.  1162. 


LA   POESIA   POPOLAKE   ITALL^.KA.  281 

E  se  andassimo  insieme  in  Paradiso, 
Per  non  vederti  accetterei  l' Inferno.  (^) 

S'  iu  vaJLi  'mparadiso  e  tu  a  hi  'nferiui, 
Vegnu  a  lu  'iifernu  pri  vidiri  a  tia.  C^) 

E  ci  muresse,  e  scesse  a  'u  Paradiso, 
Bella,  non  ci  si'  tu?  Ju  uu'  ci  trasu.  (^) 

S'  intrassi  in  Paradisa  santu  santu, 
E  iiun  truvacci  a  tia,  mi  n'esciria.  {*) 

In  Paradise  je  a  ce  vad',  o  cara, 
Se  no  a  ce  sì  vo',  a  tome  fora.  ('") 

Fior  d'erba  mora 

Io  me  no  vado  in  Paradiso,  o  cara, 
Se  non  ci  trovo  te,  ritorno  fora.  (^) 

Sa  jji   me  mor'  e  vvajje  'm  baradise. 

Se  non  gè  trov"  a  tte,  nemmene  ce  frase.  (^) 

Si  lesse  'mparaviso  cu'  li  sante 

E  min  truvesse  a  te,  me  n' isciarria.  (^) 

E  quando  moro,  vado  iu  Paradiso, 

Se  non  ti  trovo  mi  ritorno  indietro.  (^) 

Quando  passi  di  qua,  passi  cantando.  (") 
Quannu  passu  di  cà,  passu  cantannu.  ("j 


(I)  Nannarelli,  pag.  36. 

(■2)  Vigo,  n.  1718.  Forse  di  origine  letteraria:  v.  Pitek,  StHiJJ,i>.  194. 

(3)  Imbriani,  C.  pop.  prov.  merid.,  I,  34-.3Ò. 

(*)  Viale,   C.  pop.  corsi,  Bastia,  Fabiani,  1855,  p.  235. 

(5)  GlANANDREA,    p.    100. 

(6)  Lezione  toscana  presso  di  me. 
(■)  FiNAMORE,  Vocab.,  p.  274,  n.  13. 
(8)  Moi.iNARO,  p.  134;   e  cfr.  268. 

(0)  MuELLER-WoLFF,  p.  5.  L'immagine  è  anche  della  poesia  letteraria. 
Jacopo  da  Lextino  :  Io  m'aggio  posto  in  core  a  Dio  sei'vire  Cam' io  potessi 

gire  in  Paradiso  :  Seirza  Madonna  non  vi  vorria  gire Ch'el  mi  terria 

in  gran  consolamento  Veggendo  la  mia  donna  in  yioja  stare:  v.  Nannucci, 
Mannaie,  I,  12.3-5.  Nel  romanzo  di  Partenopeiis  :  Ciiite  li  clam  (a  Dio)  son 
Faradis,  Se  Dani  ni  entre  od  dar  vis.  Per  altri  raffronti,  vedi  Nannucci, 
Manuale,  I,  124.  Aggiungi  che  il  poeta  tedesco  Rììckekt  imitò  il  sonetto 
del  Da  Lentino,  dicendolo  nach  eineni  ultitalianischen  iionctt:  Mir  in  Uerzen 
vorgenotnnien  ecc. 

(10;  Tigri,  Stornelli,  n.  11. 

(II)  Vigo,  n.  1001. 


282  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

LA'i.        In  mezzo  al  mare  c'era  una  colonna, 
Quattordici  notari  a  tavolino 
Scrivevan  le  bellezze  d'una  donna.  (^) 

In  mezo  al  mar  glie  xe  'na  coIona, 
Con  dodese  nodari  a  tavolino.  (') 

Fiore  de  lemone, 

Quattordece  nutare  'n  davuline 

Scrivene  le  bbellezze  d'ju  mij  Amore.  (^) 

Lvii.       In  Paradiso  senza  scale  andate. 

Parlate  con  i  Santi,  e  poi  scendete.  (^) 

E  vui,  signnra,  hi  celu  accliianati, 
Parrati  cu  li  Santi,  e  po'  scinniti.   (=) 

LViii.      All'erta,  all'erta,  che  il  tamburo  suona, 
I  Turchi  son  armati  a  la  marina.  (^) 

All'armi,  all'armi,  la  campana  sona, 
Li  Turchi  sunu  junti  a  la  marina.  (') 

Ma  sora  mare,  le  campane  sona, 
I  Turchi  xe  rivati  a  la  marina.  (*) 

A  Roma,  a  Roma  le  campane  sona. 
Li  Turchi  so'  arrivati  alla  marina.  (^) 


(')  Tigri,  Stornelli,  n.  19.  Una  miglior  lezione  presso  di  me:  In  mezso 
dello  mar  c'è  una  colonna,  Quattordici  notari  colla  penna  Scrivevan  le  bel- 
lezze d'una  donna.  A  Venezia  si  contentano  di  dodexe  (Garlato,  p.  265), 
ma  a  Cento  (Ferraro,  n.  7)  ce  ne  vogliono  trentasia.  Ai  più  bastano  quat- 
tordici. 

(-)  Bernoni,  puiit.  IV,  n.  SI;  Caliari,  p.  37. 

(3)  FlNAMORE,    p.    321. 

(4)  Tigri.  Stornelli,  n.  9G. 

(=)  PiTEÈ.  e.  pop.  sicil.,  I,  n.  25. 

(6)  Tigri,  Stornelli,  n.  157. 

(■)  Vigo,  n.  5177.  Cfr.  Piteìs,  C.  popol.  sicil.,  I,  pag.  108. 

(8)  Bernoni,  pnnt.  IV,  n.  73.  Cfr.  Gaelato,  p.  200. 

('-')  Gianandrea,  p.  211.  Il  primo  verso  è  sempre  simile:  il  secondo 
identico  :  varia  il  terzo.  Nella  versione  toscana,  il  terzo  verso  accenna  a 
rapimenti  di  donne:  nella  sicuLa,  concorde  con  altra  meridionale  (Im- 
BRiANi,  lì,  73),  segue  un  consiglio  sarcastico,  che  clii  ha  lo  scarpe  vecchio 
le  rinnovi;  la  monferrina  (Ferrako,  n.  47)  e  l'istriana  (Ive,  p.  -27)  ag- 
giungono l'osservazione  che  chi  lia  la  moglie  vecchia  la  rinnovi,  o  chi  ha 
moglie  bella  se  ne  innamori;  la  lezione  veneta  conchiude:  /  Turchi  .re 
rivati  ai  do  castei.  Dove  che  fa  la  Irata  i  lìnranei.  Questo  serva  di  saggio, 
e  faccia  vedere  a  quante  diverse  significazioni  si  prestino  comuni  priucijij 
di  Canti. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  283 

Lix.        Quante  pietre  ci  vuole  a  fare  un  ponte! 

Quanto  ci  vuole  a  farsi  un  fido  amante!  (') 

Quantu  petri  ci  vonnu  a  fari  un  ponti, 
Tanni  saluti  mannu  a  la  me  amanti.  (^) 

Quant'  mattune  ci  vo'  pe'  fa'  'nu  pont', 
Tant'  suspir'  pe'  te  agge  'ittat'.  (") 

Lx.  0  caro  amuri,  purtinii  dir  pummi.  (*) 

Moi'oso  belo,  portime  dei  pomi.  (^) 

Lxi.        In  mezzo  dello  mar  c'è  una  tartana, 

I  Turchi  se  la  giuocano  a  primiera.  (^) 

'Mmiezzo  a  lo  mare  è  nata  'na  scarola, 
Li  Turchi  sse  la  jocano  a  primera.  C) 

E  nata  'na  scarola  'mmiez'  ó  mare, 

Li  Turche  se  la  locano  a  tressette.  (^) 

LXii.       Se  ben  che  canto  non  son  cantarina. 

L'amor  l'è  grande,  e  io  son  piccolina.  (') 

r  canto,  i'  canto,  e  i'  nu'  son  cantareìna. 

L'amor  xi  grande,  e  mei  son  pichineìna.  (^°) 

Lxiii.      Quantu  sì  bella,  Dio  te  benedica. 

Pare  che  t'abbia  pinto  Santo  Luca!  (^') 

Quantu  sì  bella.  Dio  te  benedice. 
Pare  ca  santo  Luca  t'ha  pittato  !  C'') 

Ma  qui  facciam  punto,  sembrandoci  clie  il   già 
detto  possa  bastare  al  nostr'uopo.  Concliiuderemo, 


(1)  TiOKi.  Storn.,  n.  213.  Cfr.  n.  152. 

(2)  Vigo,  n.  1426.  Cfr.  Purè,  C.  popol.  sicil.,  I,  657. 

(3)  Imbriani,  C.  popol.  proe.  merid.,  II,  28. 

(■*)  Ferearo,  C.  popol.  ìììonferr.,  Stramb.  n.  86. 
(  )  Beknoni,  punt.  I,  II.  40. 
(  )  Tigri,  Storn.,  il.  125. 
C)  Imbriani,  C.  popol.  avelliti.,  p.  35. 
(8)  MoLiXAEO,  C.  p.  napolet.,  p.  187. 

(0)  Marcoaldi,  C.  popol.  piemont.,  n.  24.  Ma  la  deiivazioiie  toscana  è 
evidente. 

(1»)  IvE,  p.  9. 

(11)  De  Nino,  p.  12. 

(12)  Imbriani,  C.  popol.  avellin.,  p.  70. 


284  LA  POESIA  POPOLARE  1TALLA.XA. 

adunque,  questi  raffronti  fra  componimenti  d'ogni 
parte  d'Italia,  affermando  che  non  si  tratta  di  rasso- 
miglianze generiche  prodotte  da  conformità  di  sensa- 
zioni e  di  vicende,  come  sembra  opinare  il  Pitrè,  C) 
o  da  special  esaltamento  intellettuale  e  bollor  di 
passioni,  come  pensa  il  Lombroso,  (")  o  da  spontanea 
tendenza  all'idealità,  secondo  la  sentenza  dell' Im- 
briani;  (^)  bensì  di  sostanziale  identità  del  componi- 
mento stesso,  modificato  qua  e  là  variamente  in 
alcuni  particolari  col  passar  di  bocca  in  bocca  e 
migrar  di  luogo  in  luogo,  e  derivato  da  una  sola 
fonte,  che  nel  pili  dei  casi,  è  sempre  la  medesima. 


Vili. 

I  raffronti  fatti  fra  le  versioni  insulari  e  penin- 
sulari dei  Canti  del  popolo  nostro  ci  menerebbero 
dritti  ad  una  plausibile  congettura  sulla  origine  e 
le  trasmigrazioni  di  quelli,  e  sulle  varie  fermate  di 
provincia  in  provincia,  se  in  molti  casi  non  man- 
casse la  serie  intera  e  continuata  dei  paralleli.  Il 
lettor  nostro  già  forse  ormai  intravede  la  conclusione 
alla  quale  vogliamo  giungere  rispetto  alla  patria 
della  maggior  parte  dei  Canti  popolari;  ma  sin  d'ora, 
e  prima  di  porre  la  regola  e  dimostrarla,  dobbiamo 
mettergli  innanzi  agli  occhi  le  eccezioni  ;  le  quali 
vedremo  poi  se  siano  di  natura  tale,  da  infirmare  o 
da  confermare  la  regola  stessa.  Non  pochi  Canti  vi 


(•)  e.  popul.  sicil.,  voi.  I,  Profaz.  p.  19. 

(-)  Tre  mesi  in  Calabria,  nella  liiviata  ConteDiporanea  del  1863,  fa- 
scicolo 121,  voi.  XXXV,  p.  415-ie. 

(3)  C.  popol.  di  Somma  Lombarda  e  Varese,  nella  Nuova  Antologia 
del  1867.  voi.  V,  p.  190. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALLA.NA.  285 

ha  dunque,  dei  quali  i  ragguagli  possono  farsi  tra 
versioni  di  diverse  provincie,  salvo  tuttavia  o  la  Si- 
cilia, secondo  i  casi,  o  la  Toscana:  la  patria,  cioè, 
di  origine  e  quella  di  adozione.  Qualche  volta,  per- 
tanto, dalla  versione  toscana  non  si  risale  alla  si- 
cula,  ma  i  riscontri  si  trovano  in  altre  provincie  ; 
qualche  altra,  non  manca  soltanto  la  lezione  insu- 
lare, ma  anche  la  mediana.  Anche  per  questo  ri- 
spetto ci  sia  concesso  di  procedere  per  via  di  esem- 
plificazioni. 

Un   notissimo   Canto  toscano   cosi   enumera  le 
bellezze  della  donna: 

Sette  bellezze  vuol  aver  la  donna 
Prima  che  bella  si  possa  chiamare; 
Alta  dev'esser  senza  la  pianella, 
E  bianca  e  rossa  senza  su  lisciare; 
Larga  di  spalle  e  stretta  in  centurella, 
La  bella  bocca  e  '1  bel  nobil  parlare; 
Se  poi  si  tira  su  le  bionde  trecce, 
Decco  la  donna  di  sette  bellezze.  (') 

Se  in  qualche  modo  si  riduca  alla  terminazione  in 
ella  il  primo  verso,  e  trecce  si  legga  all'antica  trezze, 
avremo  una  perfetta  ottava,  con  certo  sentore  di 
antichità.  Non  molto  diverso  ci  si  mostra  il  Canto 
marchigiano  : 

Sette  bellezze  l'ha  da  ave'  la  donna, 
Prima  che  bella  se  possa  chiamare: 
Dev'esse'  alta  senza  la  pianella, 
Bianca  e  rossetta  senza  fasse  bella; 

La  deve  avere  'na  bella  statfira, 
Larga  de  petto  e  stretta  de  centura: 

Du' occhi  neri  con  da' bionde  trecce: 
Queste  se  po'  chiama'  sette  bellezze.  {'^) 


C-':  Tigri,  n.  78,  G.  Giannini,  C.  p.  tose,  n.  IS')  e  Xieri,  n.  725.  Cfr.,  ma 
senza  renunierazione  intera,  Maesiliani,  n.  90. 

(^)    GlANANDREA,   pag.    199. 


286  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

A  Venezia: 

Sete  belezze  glie  vovia  a  una  dona, 
Perchè  la  se  podesse  ciamar  bela; 
Larga  de  spale  e  streta  de  sentura,  (') 
Carta  de  passo  e  'na  bela  statura: 

E  ghe  vorave  dò  bei  oci  in  testa, 
Nel  so  parlar  che  la  fosse  modesta: 

E  ghe  vorave  quatro  bionde  trozze: 
Allor  se  poi  clamar  sete  belezze.  (^) 

A  Vicenza  : 

Sete  belezze  ghe  volo  a  una  dona, 
Avanti  la  se  fa^a  clamar  bela: 
Piinia  de  tuto  una  bela  andatura, 
Larga  de  spale  e  streta  in  la  cintura.  (^) 

Prima  de  tuto  un'andatura  bela, 
Larga  de  spale  e  streta  in  centurella; 

Prima  de  tuto  de  un  bel  cao  de  drezze: 
E  quele  se  ciama  le  sete  belezze.  (*) 


In  Lio'uria 


Sette  bellesse  a  deve  avoi  'na  fija, 
Prima  che  bella  si  possa  chiamare  ; 
A  deve  esse'  bella  e  galantin-na, 
Gras'iusetta  nel  so  raxunare: 

Larga  di  s'palie,  s'treita  di  sentura; 


(1)  Questo  solo  verso,  eonixino  a  quasi  tutte  le  lezioni,  è  rimasto  in 
un  canto  napoletano  (Moli.n'aro,  C.  pop.  napoìet.,  p.  257): 

Si  t'he'  a  'nziirare,  pigliatella  bella, 
Kn' tanto  bella  eli  e  te  fa  paura; 
Pigliatella  nu  poco  schiavnttella. 
Larga  do  spalle  e  strotta  do  centura, 
Ca  quannu  The'  a  fare  'na  vunnella 
Sparagno  seta,  fil'  e  cusetura, 
E  quannu  l' he"  a  fa'  'n'abbracciatella, 
Pare  ch'abbracce  nu  mazzo  de  sciure. 

{-)  Bekkoni,  punt.  I,  n.  L  Cfr.  Cai.iaki,  p.  42,  e  lezione  istriana  in 
IvE,  p.  39. 

(3)  Meglio,  altra  lezione  vicentina:  Alta  da  fera  .teiua  la  pìniiela. 

(*)  AlveiìÀ,  n.  <S6,  87  :  Pasqualigo,  C.  p.  vicent.,  n.  20.  Una  monca 
lezione  veronese  è  in  Righi,  ii.  57, 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  287 

Quella  si  chiama  bella  di  iiatiira; 

E  gli  occhi  neri  colle  bionde  tresse: 
Quelle  si  chiama  le  sette  bellesse.  (^) 

Or  qui  non  soccorre,  come  nei  casi  addietro  visti, 
ninna  versione  sicula,  sebbene  le  sette  bellezze  della 
donna  non  sieno  ignote  al  Canto  popolare  dell'isola, 
trovandosi  in  un  d'essi: 

Veni  la  donna  di  setti  bellizzi.  (-) 

Ma  le  versioni  centrali  e  settentrionali  mostrano 
evidente  la  loro  derivazione  da  quella  toscana,  che 
perciò,  fino  a  prova  in  contrario,  terremo  per  ma- 
dre delle  altre.  Però  questa  versione  toscana  altro 
forse  non  è  se  non  un  compendio  di  poesie  anticlie, 
del  Tre  o  del  Quattrocento,  che  trattano  lo  stesso 


(1,  BIarcoaldi,  C.  popol.  ligia-i,  n.  18:  e  con  qualche  diversità,  in 
Celesia,  Savignone  e  Val  di  Scrivia,  Genova,  1874,  p.  94.  Cfr.  lezione  bo- 
lognese in  Cokazzini,  192. 

{-)  Vigo,  n.  147,  4.30.  Cfr.  un  Cinto  marchigiano  in  Giaxasdeea,  p.  72: 
L'avete  tutte  sette  le  bellezze.  Ma  in  alti'o  di  Cento  (Feebaro,  n.  7.  p.  81) 
le  bellezze  femminili  sono  nove  :  e  in  un  Canto  siculo  recato  dal  Salo- 
mone-Maeixo,  n.  18,  esse  salgono  a  trentatre:  vero  è  che  non  vi  sono  enu- 
merate :  ma  però  si  leggono  tutte  ben  distinte  e  raggruppate  nelVEijloga 
(li  Fileho  e  Dinarco  pastori,  che  trovasi  fra  le  rime  di  V.  Calmeta  (C'iii- 
vasso,  GaiTone,  1529}  riprodotta  da  S.  Mokpurgo  insieme  al  Costume  delle 
f?o«»e  (Firenze,  libr.  Dante,  1889).  Il  numero,  come  si  vede,  cresce  e  cala: 
per  Jacopo  di  Dante  sono  dieci;  in  alcuni  testi  francesi,  sessanta  o  set- 
tantadue; pel  BRAjrrÓME  trenta;  ma  per  Hans  Sachs,  diciotto.  Una  frot- 
tola del  sec.  XIV  (in  t-ropugnatore,  XIV,  2,  289)  ne  accenna  nove  :  mentre 
A.  Pucci,  esposte  "le  bellezze  che  suole  avere  una  donna,,  nonne  dà  il 
preciso  numero.  Ti-entatre,  disposte  al  solito  modo,  sono  anche  per  I'Alunxo 
nella  Fabbrica  del  mondo  (v.  Mokpurgo,  op.  cit.,  p.  34).  In  un  libro  raro  e 
curioso  intitolato  Idea  del  giardino  del  mondo  di  Mess.  Tommaso  Tojiai  da 
liavenna,  fisico  ed  acccdeniico  Innominato,  Bologna,  1742,  è  detto  a  pag.  94 
che  "  bellezza  di  donna  vuol  trenta  cose,  distinte  a  tre  per  tre  „.  e  dopo 
averle  enumerate,  si  allega  l'autorità  di  Giovanni  Xevizzani  nel  suo  Xiqj- 
tiale,  lib.  II,  n.  93,  per  asserire  che  Elena  le  possedeva  tutte  quante.  Ma 
per  maggiori  ragguagli  sulTargomento  si  veda  la  nota  del  Kohlee  in  Im- 
BKIANI,  La  Posileclieata  di  I\  Sarnelli,  Xapoli,  Morano,  1885,  p.  120;  Kenier. 
Il  tipo  estetico  della  donna  nel  medio-evo,  Ancona,  Morelli,  1885,  p.  119;  e 
V.  Rossi,  Lettere  del  Calmo,  p.  292.  —  Per  Tenumerazione  delle  bellezze 
dell'uomo,  vedi  G.  Volpi,  Note  di  varia  erudizione,  Pistoia,  1903,  p.  G3. 


288  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

argomento  delle  bellezze  della  donna,  recandole  però 
fino  a  diciotto.  Noi  ne  abbiamo  dinnanzi  due  ver- 
sioni, alquanto  divergenti  fra  loro,  ma  in  am1)ediie 
le  quali  si  riscontra  qualche  verso  o  frase  del  Ri- 
spetto. In  una  già  a  stampa  : 

Prima  esser  lunga  senza  la  pianella.... 
Efc  vuole  esser  sottile  in  centureila.  (') 

Di  quella  inedita  riferiamo  quanto  la  decenza  con- 
sente : 

Se  per  ventura  à  diciotto  bellezze 

Ciascuna  donna,  è  ben  perfetta  e  bella; 
Prima  vuol  esser  lunga,  e  no'  in  pianella, 
Le  braccia  e  '1  collo;  e  queste  è  tre  lunghezze. 

La  bocca  e  'I  mento  e  '1  pè  son  tre  cortezze, 
E  assai  ben  compresa  in  centureila; 
]je  dita  di  sua  man  vói   aver  ella 
Col  naso  e  colla  bocca  in  sottigliezze  .  .  . 

La  gamba  e  '1  braccio  e  l'occhio  grosso  a  sponda, 
Bianco  il  dente,  e  l'occhio  suo  bianco, 
Negre  luci,  le  ciglia  aperte  in  fronda. 

...  Se  cotal  donna  ara  la  trezza  bionda, 
Di  le'  mirar  no'  mi  vedrò  mai  stanco. 

Fra  tutte  donne  Amor  vole  e  comanda 
Che  di  beltà  costei  porti  ghirlanda.  (^) 

Ecco  altri  casi  ancora,  ne'  quali  il  Ivispetto  to- 
scano non  si  raffronta  a  lezioni  siciliane,  ma  sì  ad 
altre  del  mezzogiorno.  Dice,  dunque,  il  cantore  to- 
scano: 

La  lepre  va  pascendo  rv?rbe  fresche. 
Non  vede  il  cacciator  che  l'imprigiona; 
Il  tordo  se  ne  vien  dalle  foreste, 
E  quando  sente  il  fìstio  s'alibandona; 


(1)  Wesselofsky,  KoveUa   ileìla   figlia  del  Re  di  Dacia,  Pisa,  Kistri. 
ISfiC,  p.  XXV. 

(,2)  Codice  lidia  Bibl.  Comunale  di  Perugia,  C.  4.1,  cart.  37. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  289 

Il  pesce  in  mare  nota  per  dolcezza; 
Così  face' io  della  vostra  pei'sona. 

Cosi  face' io,  bellina,  e  tanto  t'amo, 
Che  son  rimasto  al  fistio,  al  canto,  all'amo; 

Così  face' io,  bellina,  e  t'amo  tanto. 
Che  son  rimasto  al  fistio,  all'amo,  al  canto.  (') 

La  lezione  di  Terra  d'Otranto  presenta  maggior 
perfezione  di  rime,  ma  vi  si  nota  la  ripresa  finale 
all'nso  toscano  :  sicché  per  qnesto  fatto  si  potrebbe 
conchiudere  che  il  Canto  sia  nato  nel  mezzo  d'Italia, 
anziché  nello  stremo: 

Lu  turdu  vae  vulandu  alla  fnresta, 
Sente  lu  fiscu,  e  ratta  sse  'bbanduna; 
La  cerva  vae  pascendu  l'erva  'resta, 
Nu' bidè  lazzu,  e  sula  sse 'impriginna  ; 
Lu  pisce  vae  natandu  all'acqua  fresca, 
Nun  bidè  l'amu  ci  morte  li  duna: 
Cussi  'ccappai  cu'  tie,  ci  tantu  t'amu, 
Tie  si'  la  pescatora,  e  puerti   l'amu  ; 
Cusì  'ccappai   cu'  tie,  frunti  de  fata, 
Jeu  su'  la  cerva  ci  stau  'mprigiunata  ; 
Cussi  'ccappai  cu'  tie,  stiddha  lucente, 
La  prima  fiata  ci  te  tinni  mente.  (-) 

Di  questo  che  segue  abbiamo  riscontro  perfetto 
con  altre  lezioni  : 

Bella,  bellina,  se  vieni  alla  vigna,  (") 
Ti  ce  l'ho  fatta  una  gentil  capanna: 
Il  letto  te  l'ho  fatto  di  gramigna, 


('^  Tigri,  n.  276  e  Xieri,  n.  4.  Un'.iltra  lezione  A'vie: 

Il  pesce  in  mare  nota  per  dolcezza, 
Xon  vede  l'amo  che  morte  gli  dona. 

E  così  faccio  io  da  che  vi  ho  visto, 
Come  fa  il  pesce  all'amo,  il  tordo  al  fistio: 

E  così  faccio  io.  che  tanto  v'amo 
Come  fa  il  tordo  al  tistio,  il  pesce  all'amo. 

(-)  Imbriaxi,  C.  popol.  prov.  inerirl.,  II,  425. 

'■')  Xella  forma  tetrastica  umbra  (.Mazzatinti,  n.  27)  qui  erroneamente  : 
aJIa  guerra, 

D'Ancosa,  La  poesia  pop.  Hai.  —  19 


290  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAKA. 

E  le  lenzuola  di  foglia  di  canna: 
In  questo  letto  tutto  gentilezza, 
Vieni,  riposerai   con  dolcezza.  (') 

Esclusi  questi  due  ultimi  versi,  la  cui  leziosaggine 
è  patente,  sicché  sanno  d'apocrifo,  abbiamo  il  se- 
guente ragguaglio  in  vernacolo  abruzzese  : 

Care,  si  voi  venir  cu  nime  a  la  vigne, 
Te  U'aggiu  fatte  na  bbella  capanne; 
T'aggiu  fatte  nu  lette  de  gramigne, 
Lu  capezzale  de  fronna  de  canne.  (^) 

E,  sebbene  un  po'  malconcio,  è  facile  riaccostarvi 
anche  il  seguente  Sfraììioffo  (^)  monferrino  : 

0  caro  aniuri,  andumnia  a  ra  me  vigna. 
Si  farumma  ì'n  lettu  di  gramigna; 
Pir  lensoi  farumma  ina  foja  di  cana, 
E  pir  cuerta  ra  steira  diana.  (*) 

Medesimamente  un  semplice  tetrastico  teramano 
corrisponde  al  Rispetto  colla  ripresa,  che  cosi  suona: 

Che  giova  dir:  ci  amiamo,  sì,  ci  amiamo? 
Che  giova  lo  volerci  tanto  bene? 
Che  giova  che  a  una  tavola  mangiamo, 
Se  poi  di  casa  non  istiamo  insieme? 

Che  giova  del  limone  avere  il  gambo, 
E  non  poterne  avere  al  suo  comando? 


(1)  Tigri,  ii.  49.3.  Vengono  a  mente  a  questo  propo.sito  certi  versi  del 
EoNSAED  (ediz.  Blancliemain,  Paris,  .Tannet,  1857,  I,  190): 

Je  veiix  faire  un  beau  liet  d'une  verte  joncliée, 
De  parvanclie  fucilluo  encontro  bas  couchée. 
De  tbym  qui  fleure  bon  et  d'aspic  porte-epy, 
D'odorant  poliot  contre  terre  tapy. 
De  neufard  tousjouis-verd  qui  Ics  tal)les  imite. 
Et  de  Jone  qui  les  bords  des  rivières  liabite  ecc. 

(")  Molina  RI  DEL  Chiaro.  C.pnpol.  tercnnesi,  n.  26:  cfr.  Fin  amore,  11,22; 
SCHERILLO,   11.   11;   SeVERINI,  p.    189. 

(3)  Cos\  scrive  il  Ferrako.  C.  popol.  ìiionf evi-ini,  Stramb.  n.  5G,  64: 
(ma  al  n.  112:  Strambot).  —  Cfr.  per  la  forma  veneta,  Garlato,  p.  349  e  Ca- 
LIARI.  p.   144. 

{*)  Ferrako,  ibid.,  n.  t>'  :  Nk;ra,  p.  577. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  291 

Che  giova  del  limone  avet  la  foglia, 
E  non  poterne  aver  quand'un  n'ha  voglia?  (') 

E   in    Abruzzo ,    con    più    perfetta    rispondenza   di 
rime  : 

Che  sserve  che  ti;a  mnie  gam'  e  i'  te  game? 
Che  sserve  cusctu  bben  che  nce  vnleme? 
Che  sserve  c'uniti  a  ttaula  mangiarne, 
Quande  la  notte  nnu  ddurniini'assieine?  (^) 

Versioni  mediane,  settentrionali  e  meridionali, 
escluse  però  sempre  le  insulari,  offre  il  seguente  Ri- 
spetto : 

Non  posso  più  di  notte  camminare, 
Che  ni'è  contrario  il  lume  della  luna; 
Non  posso  più  le  gente  praticate, 
Che  non  ci  trovo  fedeltà  nessuna: 

Non  posso  praticar  più  colla  gente, 
Che  non  ci  trovo  fedeltà  di   niente.  (^) 

A  Lecce  : 

Nun  bogghiu  cchiù  de  notte  camenare, 
Percè  de  notte  nce  luce  la  luna: 
Nun  bogghiu  cchiìi  co'  donne  pratecare, 
Ca  culle  donne  nun  ci  aggiu  furtuna: 
Nun  bogghiu  cchiù  la  rete  minu  'mniare, 
Ca  nim'ae  centra  lu  'jentu  e  la  fortuna.  (*) 

Ma  il  tetrastico  veneto  deriva  verisimilmente   dal 
Canto  toscano: 

No  posso  più  de  note  andar  a  spasso, 
Perchè  al  contrario  gò  sina  la  luna: 
Fava  l'amor,  no  lo  vogio  più  fare. 
Perchè  non  trovo  fedeltà  in  nissuna.  (^) 


(1)  Tigri,  ii.  145. 

(2)  MoLiNARi  DEL  CHIARO,  C.  pop.  terain.,  11.  25. 

(3)  Tigri,  ii.  1127. 

(•t)  Imbriani,  C.  popol.  proi'.  mei-idinn.,  I.  183. 
(6)  Dal  Medico,  p.  115;  Bernoni,  punt.  II,  ii.  41. 


292  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

E  similmente  il  Canto  istriano,  che  aggiunge  altri 
quattro  versi  : 

Nun  posso  pioùii  de  nuote  camiiiare, 
Perchè  vago  al  cuii travio  de  la  loùna: 
Nun  posso  né  cun  ponte  raginnare, 
Cameino  incontro  al  vento  e  la  Fortonna. 
La  Fortoiìna  m'à  ciulto  per  filgiolo, 
E  mei  ra(;ieto  cnine  mare  meìa  ; 
E  per  mnjer  i'  prenderò  la  loùna, 
Dirò  ch'i'  son  tilgiol  de  la  Fortoùna.  (') 

Lo  stesso  caso  è  da  notare  pel  seguente  Ri- 
spetto: che,  cioè,  non  soccorra  niun  ragguaglio  di 
lezione  sicula  : 

Bella,  che  censessanta  ne  chiamate, 
E  centottanta  innamorati  avete, 
E  quando  alla  finestra  v'affacciate 
Come  un  branco  di  storni  li  vedete; 

Amane  uno,  agli  altri  dagli  bando: 
Se  toccherà  a  me,  sarà  mio  danno; 

Amane  uno,  e  agli  altri  dai  licenza: 
Se  toccherà  a  me,  avrò  pazienza.  (-) 

Nell'Umbria,  al  tetrastico  si  aggiunge  soltanto: 

Chi  con  un  sguardo,  e  chi  co'  un  baciamano. 
Tutti,  bellina,   ve  li  mantenete;  (^) 

e  nelle  Marche  invece: 

Quanno  dalla  finestra  t'affaccerai 

Come  un  branco  de  storni   li   vedrai.  (■*) 

Ma  in   Terra   d'Otranto,   con   forma   più   compinta 
delle  altre: 


(1)  IvE,  p.  105. 

ip)  TiciRr,  11.  009:  olV.  Cìiannini.  ('.  pop.  pis.,  ii.  S. 

(•')  Marcoai.di,  C.  lìupol.  umbri,  il.  HO.  In  .iltr.i  lezione  miilirii  plAZ- 
ZATINTI,  n.  240):  Bella,  che  cinquecento  vi  chiamale  E  cinquecento  'nnaniovati 
avete.  Quando  sarete  per  prende' marito,  De  cinquecento  'n  ce  n'hai  tino  amanti'. 
Cfr.  Marsiliant,  n.  712. 

(»)    GlANANPREA,    ]).    130. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA,  293 

'Na  donna  Cinquecentu  sse  chiamava, 
Ca  cinquecentu  'nnamuiati  avia: 
Quandu  de  la  fenescia  sse  'nfacciava 
Conni 'nu  sciamu  d'api  li  vidia; 
A   ci  'nu  lisu,  a  ci  'na  basanianu, 
Tutti  cori  contenti  li  facia; 
'Rriau  Tura  de  In  'nimaretare, 
Nuddlui  de  cinquecentu  la  'nlia.  (') 

Infinite  varianti,  ma  sempre  nessuna  insulare,  ci 
dà  il  Canto  che  in  Toscana  suona  così: 

]1  primo  giorno  di  Calen  di  Maggio 
Andai  nell'orto  per  cogliere  un  fiore; 
E  vi  trovai  nn  uccellin  selvaggio,  (^) 
Che  discorreva  di  cose  d'amore: 

—  0  uccellin  che  vieni  di  Fiorenza, 
Insegnami  l'amor  come  comincia.  — 

—  L'amor  comincia  con  suoni  e  con  canti, 
E  poi  finisce  con  dolori  e  pianti  ; 

L'amor  comincia  con   canti   e  con  suoni, 
E  poi  finisce  con  pianti   e  dolori.  —  (^) 

Talvolta  altri  prende  il  posto  dell'uccellino,  e  altri 
luoghi  sono  surrogati  a  Firenze,  che  però  predomina 
sui  diversi  paesi.  Così,  a  Bergamo: 

—  0  piacenti,  che  vien  da  la  Piacenza, 
Disimi   un  po'  l'amor  dov'el   comenza  ?  — 


(1)  IjiBRlANi,  C.  popol.  2)rov.  meriflion.,  II,  235:  Mandalaki,  p.  19"); 
FiNAMORE,  Vocab.,  p.  333;  ima  lez.  napol.  (Molinaro,  p.  226):  'Xa  ronna 
Setteciento  se  chiammava  E  setteriento  'naminuvati  aveva  ecc.  Eidotto  a  Stor- 
nello, in  Blessig,  part.  II.  ii.  22. 

(-)  In  un  canto  popolare  francese  (Rolland,  Herueil  de  Ch.  popid. 
frani;.,  Paris,  1882,  IV,  39)  è  un  usignuolo  : 

Darrié  clieu  nous  lui  a-t-un  vert  bocage, 
Le  rossignol  y  chante  tous  les  jours. 
En  y  disant  dans  son  charmant  langage: 
Les  amoureux  sont  mallieureux  toujours! 

(3)  Dalla  mia  Raccolta  ms.  ;  il  Tigri,  n.  322,  finisce  col  verso  8»: 
altra  lezione  toscana,  in  A.  Giannini,  C.  pop.  pis.,  n.  41-2.  Cfr.  per  r  Um- 
bria, Mazzatinti,  n.  98  ;  pel  Veneto,  Garlato.  p.  414  ;  pel  Piemonte, 
NiGRA,  p.  578. 


294  LA   POESIA   POPOLARE   ITALLWA. 

—  L'amor  comenza  a  ridar  e  a  scherza, 
E  po'  el  finisse  a  pianz  e  sospira.  —  (') 

In  Avellino  con  forme  non  veramente  vernacole: 

—  Bella,  elle  vai  e  vieni  da  la  Francia, 
Dimmi  l'amore  come  ss'accomincia? 

—  Ss'accomincia  co'  suoni  e  co'  canti, 
E  sse  finisce  co'  pene  e  tormenti.  —  (^) 

Altrove  chi  parla  è  nn  confessore,   come  in  questa 
lezione  marchigiana: 

La  prima  volta  che  passai  lo  mare. 
Trovai  una  cliiesola  bella  e  fatta; 
Drento  ce  stava  un  frate  confessore, 
Che  confessava  le  donne  d'amore; 
E  '1  confessore  era  de  Firenza, 
Volea  sape' l'amor  come  comenza: 

L'amor  comenza  con   soni  e  con  canti. 
Poi  finisce  con  lagrime  e  con  pianti; 

L'amor  comenza  con  canti  e  con  soni, 
E  po'  finisce  con  lagrime  al  core.  (^) 

Altro  principio,  per  agglomerazione  in  uno  di  due 
Canti  diversi,  ha  la  lezione  istriana: 

E  mei  ch'i  iè  fato  gniera  cui  meio  Amure, 
E  loù  m'uù  cundanato  in   la  sentenzia. 
Andaremo  davanti  li  duturi; 
Guiera  de  amur  a  nu'  se  tien  ndienzia. 


(1)  Imbriani,  C.  popol.  proi\  lìierìdion.,  I,  43. 

(-)  Imbriani,  C.  popol.  avellinesi,  p.  15:  Molinai;»,  C.  pop.  napolet., 
p.  2G9. 

(3)  GiANANDREA,  p.  162;  FiNAMORE,  II,  67.  Cfr.  coii  Li  lezioiie  vicentina 
(Pasquai-igo,  C.  p.  vicent.,  n.  25),  in  Imbriani,  C.  popol.  prov.  merid.,  I,  45: 
e  vedi  ivi  T ipotesi,  alla  quale  non  consento,  die  nel  predicatore  men- 
zionato dalla  sola  lezione  vicentina  sia  indicato  il  Savonarola.  E  nemmeno 
consentirei  con  C.  Tenoa  ij'roxe  e  poesie  sceUe,  II,  255),  clic  a  causa  del 
comenza,  l'origine  del  canto  fosse  lombarda,  e  anclie  perchè  i  suoni  o 
canti  della  forma  toscana  appaiono  "  amplificazione  rettorica  „  di  rider 
e  scherza.  In  altra  lezione  vicentina  (AlverX,  n.  40)  clii  rispondo  al 
dubbio  è  rAmore:  in  una  toscana  da  me  raccolta:  L'n  mnralor  venuto  da 
Venezia.  Il  Dai,  Medico,  p.  165,  riferisce  questo  Canto  inoastrato  in  una 
Ninna-Wanna. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  295 

Guiera  de  amur  e  guiera  d'InfiureiiTia: 
Deìmela  a  mei,  cume  la  se  scumenzia? 
—  La  se  scumenzia  cun  soni  e  cun  canti, 
La  se  furneìsso  cun  lagreme  e  pianti; 

La  se  scumienza  cun  zoghi  e  cun  reidi. 
La  se  furneìsso  cun  pianti  e  suspeiri.  —  (') 

Il  Canto  ci  sembra  più  perfetto  nella  forma  toscana, 
che  non  nelle  rimanenti,  clov'anclie  abbondano  i  to- 
scanesimi ;  né  ci  farebbe  ostacolo  la  voce  comenza 
che  dovrebbe  porsi  al  v.  6  sull'esempio  delle  va- 
rianti di  altre  regioni,  perchè  anticamente  così  di- 
cevasi  anche  in  Toscana,  e  il  noto  poema  del  fioren- 
tino ser  Brunetto  comenzava  appunto  così  : 

Lo  Tesoro  comenza: 
Al  tempo  che  Fiorenza 
Fiorìo  e  fece  frutto  ecc.  (-) 

Questi  che  ora  registreremo  sono  Canti  toscani 
con  rispondenza  di  altri  del  Lazio: 

Bella,  bellina,  quando  vai  per  acqua 
La  via  della  fontana  ti  favella; 
E  '1  rusignol  che  canta  per  la  macchia, 
E'  va  dicendo  che  sei  la  più  bella: 

Sei  la  più  bella  e  la  più  graziosina. 
Sembri  una  rosa  colta  sulla  spina; 

Sei  la  più  bella  e  la  più  graziosetta. 
Sembri  una  rosa  in  sulla  spina  fresca.  (^) 

In  Arlena  si  canta  il  solo  tetrastico: 

E  quando  Maddalena  va  per  l'acqua 
Il  fresco  della  fonte  le  favella: 
Gli  uccellini  che  stanno  per  la  macchia 
Vanno  gridando:  Maddalena  bella.  [*) 


(1)  IvE,  p.  244. 

('-)  V.  altri  esenipj  di  comenza  anclie  fuori  di  rima  in  antiche  scrit- 
ture toscane  presso  il  Nannucci.  Voci  derivate  dal  Provenzale,  Firenze,  Le 
Monnier.  1840,  p.  104. 

(.3)  Tigri,  n.  1G6. 

(*)  Nannarelli,  p.  34. 


296  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

In  Toscana  : 

Ti  possa  intravvenir  come  a  quel  cane 
Che  andò  alla  riva  di  quel  dolce  fiume; 
In  bocca  aveva  un  pezzolin  di  pane, 
Allo  snieriggio  gli  parevan  due; 

E  lassò  quello  per  aver  quell'altro, 
Rimase  senza  l'uno  e  senza  l'altro; 

Così  potesse  intravvenire  a  te, 
Rimaner  senza  lei  e  senza  me.  (') 

In  Arlena  : 

Bella,  non  fate  come  fece  il   cane. 

Che  camminando  alle  prode  del  fiume, 
Ci  aveva  in  bocca  'na  fetta  di  pane. 
Dentro  dall'acqua  gli  parevan  due; 
Lassò  quell'nna  per  pigliar  quell'altra. 
Rimase  senza  l'una  e  senza  l'altra.  (") 

In  Toscana  : 

E  ti  credevi  colie  tue  parole 

Di  un  tigre,  di  un  leon  fare  un  agnello, 
E  ti  pensavi  di  aver  fermo  il  sole, 
L'acqua  del   mare  di  farne  un  vasello. 

Ti  pensavi  d'avermi  alla  catena, 
M'avevi  per  un  filo  a  mala  pena  ; 
Ti  pensavi  d'avermi  incatenato, 
M'avevi  per  un  filo,  e  s'è  strappato.  (^) 

In  Arlena,  accodandovi  uno  Stornello: 

Che  te  credevi  co  le  tue  parole 

Da  serpi  e  da  leon  formarci  agnelli? 
Che  te  credevi  d'incantarlo  il  sole? 
Metter  l'acqua  del  mar  dentro  un  vascello? 
Te  voglio  mette'  nome  Spreca-amore, 
Che  fermo  non  ce  stai  col  tuo  cervello  ; 
Te  voglio  mette'  nome  Va-e-vieni, 
Te  metti  a  fa'  l'amore  e  non  sai  fare. 
Te  metti  a  fa'  l'amor,  non  lo  mantieni.  ("•) 


(i)  Tigri,  n.  736.  Lezione  iimlua  in  Mazzatinti.  n.  320. 

(")  Nannarei.i.i,  p.  41. 

(3)  Tigri,  n.  102r,. 

(*)  Kannabeli.i,  p.  18. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIAXA.  297 

In  Toscana: 

E  sono  stato   in  fino  in   Bettelemme  ! 
Eccomi,  caro  amor,  son  ritornato: 
L'albero  va  dove  la  cima  pende, 
L'uomo  ritorna  dov'è  innamorato. 

L'albero  va  dove  pende  la  cima, 
L'uomo  ritorna  dalla  dama  prima: 

L'albero  va  dove  pende  la  rama,  (') 
L'uomo  ritorna  dalla  prima  dama.  (^J 

Nel  Lazio  : 

Mi  son  partito  da  Gerusalemme, 

Ecco  che  avanti  a  voi  sono  arrivato. 
L'albero  va  dalla  parte  che  pende. 
L'uomo  ritorna  do'  s'è  innamorato; 
La  fronda  va  dove  lo  vento  vuole. 
L'uomo  ritorna  do'  ha  lasciato  il  core.  (^) 

Nel  seguente  la  forma  toscnna,  appunto  per  l'in- 
tenzione di  localizzare  il  Canto,  si  direbbe  meno 
perfetta  nelle  rime,  e  perciò  non  primitiva: 

0  bello,  che  di  maggio  rivenisti. 
Passasti  per  lo  mezzo  alla  Toscana, 
Dove  passasti  gli  alberi  fioristi. 
D'oro  e  d'argento  portasti  la  rama: 
Poi  alla  sera  dove  tu  dormisti 
Rose  e  viole  il  tuo  fiato  spirava  : 
Alla  mattina  quando  gli  occhi  apristi, 
Allora  appunto  il  sole  si  levava: 
Bello  d'amor  vi  possono  chiamare; 
Vostri  begli  occhi  fanno  il  sol  levare.  ("') 


(1)  Rama  è  voce  clie  ritorna  spesso  ne'  Canti  toscani,  specialmente 
in  rima  con  dama,  ma  non  è  forma  soltanto  toscana,  e  nell'uso  del  con- 
tado, pur  fuori  di  canto  e  di  rima.  s"i  anche  sicnla:  cfr.  Vigo,  n.  1864:  rama 
di  fimi;  lì.  10tì9:  Di  gilusia  n'havi'na  rrania ;  n.  2346:  Chista  è  la  riama 
di  la  gilusia  ;  n.  2465:  Una  rrama  d'Amiiri  mi  manteni ;  n.  2381:  Veni  a 
pusari  'nta  la  megghitt  rama  ;  n.  2384  :  Ardi  hi  ziirfu.  e  cunsuina  la  rrama, ecc. 

(2)  Tigri,  n.  719. 

(3)  Marcoaldi,  C.  popol.  latini,  w.  19. 

(4)  Tigri,  n.  704. 


298  LA   POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

Lievi  variazioni  mostra  la  lezione  picena,  che  per 
aver  rime  perfette  clirebbesi  più  presso  alla  forma 
originale  : 

0  bello,  che  de  Maggio  rivenisti, 
Pe'  rivedere  la  tua  cara  dama; 
'Ndo'  che  passasti  l'alberi  fioristi. 
D'oro  e  d'argento  portasti 'na  rama: 
Da  po'  alla  sera  'iidove  tu  dormisti. 
Rose  e  viole  il  tuo  fiato  spirava, 
E  alla  mattina  quanno  l'occhi  apristi, 
Allora  appunto  '1  sole  se  levava: 
Bello  d'amor  te  se  puole  chiamare. 
Ch'i  tua  bell'occhi  fanno  '1  sol  levare.  (') 

Dalla  media  Italia  passiamo  alla  superiore,  e 
registriamo  Canzoni  toscane  che  hanno  raffronto 
solo  con  venete.  Ecco  un  lamento  cFamore  in  forma 
di  Rispetto: 

Ho  visto  per  pietà  movere  un  sasso. 
Un  legno  trasmutarsi  dal  suo  loco  : 
Bella,  per  me  non  movereste  un  passo,  (^) 
Ed  io  per  voi  starei  sempre  nel   foco. 

Sto  nel  foco,  e  consumo  la  mia  vita; 
Vo'  siete  un'ambra,  sole  e  calamita; 

Sto  nel  foco,  e  consumo  lo  mio  core: 
Vo'  siete  un'ambra,  calamita  e  sole.  (•') 

Il  solo  tetrastico  è  passato  ai  Veneti  : 

Go  visto  per  amor  spessarse  un  sasso, 
Un  albaro  partirse  dal  so  loco: 
Toni  per  me  no  movarave  un   passo, 
E  mi  per  lu'  anderìa  in  ardente  fogo.  (■*) 


v'I)    GlANANDREA,   p.   20. 

i")  Serafino  dell'Aquii,a  in  ino  Stiaiuliotto: 

E  tn,  ciiuiele.  iioii  fare.sti  mi  passo. 

(3)  TitìRi,  11.  527.  Cfr.  Livi.  i>.  l«. 

(*)  Bernoni,  punt.  VL  ".  U.  Cfr.  I>al  Medico,  p.  7.">,  84. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  299 

Parrebbe  pertanto  originale  la  forma  toscana, 
della  quale  troppe  vestigia  restano  nella  dizione  ve- 
neziana :  e  così  nel  caso  seguente  : 

A  Napoli  s'è  fatto  lo  consiglio, 

Che  non  si  piange  l'uomo  quando  muore: 
Piange  la  madre  quando  alleva  un  figlio, 
Che  lo  fa  schiavo  e  servitor  d'amore  : 

Piange  la  madre  quando  il  figlio  alleva, 
Che  lo  fa  servo  e  schiavo  di  galera; 

Piange  la  madre  quando  il  figlio  allatta, 
Che  lo  fa  schiavo  e  servitor  di  piazza.  (') 

E  a  Venezia  : 

A  Napoli  xe  sta  fato  un  consegio. 

Che  no  se  pianza  l'omo  quando  el  more: 

Cussi  la  dona  quando  la  fa  un  filgio 

Sa  dove  el  nasce,  e  no  dove  eh'  el  more.  (-) 

Anche  da  quest'altro  è  stata  stralciata  la  ri- 
presa toscana  : 

Giovanottina,  chi  v'ha  fatto  gli  occhi. 
Chi  ve  gli  ha  fatti  tanto  innamorati? 
Di  sotto  terra  cavereste  i  morti, 
Del  letto  levereste  gli  anjmalati  ;  (^) 

Di  sotto  terra  cavareste  mene: 
Mi  son  cavato  '1  cor,  l'ho  dato  a  tene.  (^) 

A  Venezia: 

Sia  henedeto  chi  t'à  fato  i  ochi, 
Chi  te  l'à  fati  cussi  inamorati. 
Che  de  la  terra  resussita  i  morti, 
E  dal  Ietto  risana  i  ammalati.  (^) 


(1)  Tigri,  n.  537. 

(2)  Beenoni,  piint.  IV,  n.  88.  Cfr.  lezione  istriana  in  Ive,  p.  120. 

(3)  Cfr.  Vigo,  n.  188:  Tanti  malati  cc'è,  Canti  ni  sana. 

(4)  Tigri,  ii.  108:  cfr.  Rondini,  p.  46. 

(5)  Dal  Medico,  p.  27.  II  primo  verso  di  questa  lezione  è  più  simile 
a  quello  della  lezione  marchigiana  raccolta  già  dal  Leopardi  in  Recanati: 

Io  benedico  chi  t"  ha  fatto  gli  occhi. 


300  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

E  qui  pure  il  Canto  veneziano  ha  tolto  via  la 
ripresa  del  corrispondente  toscano  : 

Era  una  volta  clie  t'amavo  tanto, 
Ora  non  me  ne  fa  più  fantasia: 
S'  i'  ti   vedessi  mettere  all'incanto 
Per  un  quattrin  non  ti  ricomprerìa: 

S'  i'  ti  vedessi  mettere  alla  tromba, 
Non  ti  ricomprerìa  dalla  vergogna. 

S'  i'  ti   vedessi  iscritto  su  d'un  foglio. 
Amici  più  di  prima,  e  non  ti   voglio: 

S'  i'  ti   vedessi  iscritto  in  sulle  carte, 
Amici  più  di  prima,  amor  da  parte.  (') 

A  Venezia: 

Gèra  una  volta  che  te  amava  tanto, 
Adesso  m'è  passa' la  fantasia: 
Mi  te  vorrìa  veder  in  t'  un  incanto, 
Che  per  un  bezzo  no  te  scoderia.  {-) 

In  quest'altro  caso  la  ripresa  e  rimasta,  ma  va- 
riandone le  parole: 

Cara  compagna,  non  ti  sgomentare, 
Che  degli  amanti   n'è  tanti  per  via; 
E  n'è  sbarcati  una  barchetta  in  mare. 
Di  que'  più  belli  che  nel  mondo  sia;  (^) 

E  n'è  sbarcati  una  barchetta  al  porto: 
Per  un  sol   bolognin  ne  dan  diciotto. 

E  n'è  sbarcati  una  barca  a  Piombino: 
Ne  dan  diciotto  per  un  bolognino.  C) 

Sarebbe  però  difficile  assei-ire  che  la  lezione  veneta 
non  possa  esser  l'originale: 


[^  Tioiìi,  11.  losi. 

(-)  Dai,  Mkdico,  p.  V22.  CIV.  Bi:nNOxi.  juuit.  Il,  ii.  :!8,  E  lezione  i.stiiaiia 

in  IVE,   p.    ItU. 

(^)  Questi  duo  versi,  ma  in  bocca  di  donna,  si  fiovano  anche  in  un 
Cauto  presso  Makcoai.di,  C.  popol.  Hi).,  u.  'ìì. 

0)  Ticinr,  n.  1108.  Cfr.  n.  1014  e  lOól  ;  Giannini,  p.  l'JS.  Ma  ora  w'h 
venuta  fuori  una  lozione  uapolot.nna  in  Mólinaro,  e.  j'op.  >i<ipo!el.,  j).  100, 
e  altro  uieridionali  .sono  notate  in  (ìahi.ato.  p.  27-. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  301 

Amore,  aiiioie  no  te  tliibitare, 
Cile  de  le  (Ione  no  glie  ciirestia: 
Glie  n'è  rivato  una  barcìieta  in  mare, 
De  le  più  bele  che  al  mondo  glie  sia. 

De  le  più  bele  e  de  le  più  galante, 
Anzola  bela  supera  la  parte: 

La  supera  la  parte  e  la  partia: 
Anzola  bela  xe  l'anema  mia.  (') 

Il  seguente  artificiosissimo  Rispetto  trovasi  in 
Toscana  e  a  Venezia:  ma  nel  dialetto,  pur  serbando 
intatte  le  rime,  sembra  quasi  star  a  disagio.  In  To- 
scana, adunque,  si  dice: 

Voglio  fare  un  invito  d'amatori, 

Voglio  invitar  gli  sfortunati  amanti;  ('-) 

Da  mangiare  vo'  dar  pene  e  dolori, 

E  da  bere  darò  lagrime  e  pianti. 

I  sospiri  saranno  i   servitori 

Glie  serviranno  a  tavola  gli  amanti: 

Poveri  amanti,  a  che  siete  ridutti. 

Per  un  amante  avete  a  morir  tutti!  (^) 

A  Venezia  la  chiusa   è   variata   e   senza   nesso   col 
resto  : 

Vogio  far  un  iiivido  di  amatori,  (^) 
E  invidar  vogio  i  sconsolati  amanti: 
Da  magnar  ghe  darò  pene  e  dolori. 
Da  bever  ghe  vói  dar  lagreme  e  pianti. 


(1)  Dal  Medico,  p.  153,  e  C.  popol.  di  Chio<)i)iii,  n.  5.  Cfr.  Alverà, 
11.  56:  Ciarlato,  p.  220.  Il  solo  tetrastico  in  Bernoni,  pimi.  VII,  ii.  2;  Ive. 
p.  166.  Una  lezione  ligure,  ma  di  evidente  origine  toscina,  in  Marcoaliii. 
C.  popol.  lì(j.,  n.  57.  Cfr.  pel  Friuli  Gortani,  n.  12  e  Arboit,  n.  65:  per  Roma, 
Blessig,  I,  .321. 

(-)  In  una  lezione  consimile,  al  ii.  1110.  il  Tigiu.  ha  lasciato  correre: 
rtffoitunuti. 

ts)  Tigri,  n.  1117. 

(■•)  Questo  verso  ritorna  in  un  Canto  veneziano  del  Bertoni,  pun- 
tata VII,  n.  81: 

Vogio  fare 'na  ^ena  de  amatori; 
E  vói  invidare  tutti  i  tartanari: 
In  tola  glie  sarà  stogi  e  barboni  ; 
Vogio  fare  'na  (^ena  de  amatori. 


302  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

E  li  sospiri  sarà  i  servitori 
Che  servirano  le  tele  d'i  amanti: 
E  sta  mia  vita  te  la  lasso  in  pegno, 
Sto  cor  incatena  sina  che  vegno.  (') 

Una  buffonesca  discesa  all'inferno  è  così  nar- 
rata in  un  Canto  toscano: 

Andai  all'Inferno  e  vidi  l'Anticristo, 
E  per  la  barba  aveva  un  molinaro, 
E  sotto  i  piedi  ci  aveva  un  tedesco, 
Di  qua  e  di  là  un  oste  e  un  macellaro  : 
Gli  domandai  quale  era  il  più  tristo, 
E  lui  mi  disse:  Attento,  or  te  l'imparo. 

Riguarda  ben  chi  con  le  man  ranipina: 
E  il  mulinar  dalla  bianca  farina. 

Riguarda  ben  chi  con  le  mani  abbranca  : 
E  il  mulinar  dalla  farina  bianca.  (*) 

Dalla  quartina  se  ne  va  allo  stajo; 
Il  più  ladro  fra  tutti  è  il  mulinajo.  i;^) 

E  a  Venezia: 

So  stato  a  Roma  e  ò  visto  l'Anticristo, 
Soto  la  barba  el  gaveva  un  tedesco: 
E  soto  i  pie  el  gaveva  un  mulinaro, 
Quelo  che  pesa  giusto  e  vende  caro.  C) 

Qui  sarebbe  difficile  l'asserire  che  la  forma  nioìinaro 
o  Dìolinajo  non  sia  toscana,  e  perciò  offra  indizio  di 
derivazione  aliena  del  Canto,  quando  la  veggiam  pure 
adoperata  qualche  secolo  addietro  dal  Barberino  e 
dal  Sacchetti.  E  se  anche  in  altri  casi  volessimo  da 
parole  o  desinenze  trarre  induzioni  circa  alla  prima 


(1)  Dal  Medico,  p.  71. 

('-)  Questi  iiltinii  quattro  versi  sono  innostnti  in  un  Rispetto  ni.irolii- 
giano  di  altro  aigoiuento,  presso  Gianasdrea.  ]i.  1"i7. 

(3)  TiGKi,  n.  1184. 

{*)  Bernoni,  punt.  I,  n.  04:  Gari.ato,  p.  459;  Caliari,  p.  124;  ag- 
giuntivi altri  due  versi,  in  IJal  Medico,  p.  188.  Lezione  istriana  in  Ive, 
p.  228;  di  Lagoscuro,  in  Feriìaro,  ii.  61.  piemontese  in  Nioea,  p.  582:  ro- 
mana, in  Sabatini,  in  Jiii>.  lett.  popol.,  I,  2G  e  in  Menohini,  n.  247. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  303 

origine  dei  Canti,  non  andremmo  maggiormente  sul 
sicuro.  Ad  esempio  questo  Rispetto,  ciie  va  fra'  To- 
scani : 

Oh  quante  me  ne  fa  questa  puttella,  (') 

potrebbe  farci  supporre  una  prima  forma  veneziana: 
eppure  il  Forteguerri,  scrittore  toscanissimo,  ado- 
pera putteììi  per  giovanetti  I 

É  noto  il  bel  Rispetto  toscano,  che  dice: 

Questa  partita  la  vo'  far  piangendo 
E  sospirando  per  tutta  la  via: 
E  gli  ocelli  bassi  e  la  niente  dicendo: 
Ove  ti  lascio,  dolce  anima  mia? 

Ove  ti  lascio,  mazzo  di  be' fiori? 
Alla  partita  mia  pianti  e  dolori.  (-) 

Nella  forma  veronese  ci  pajono  evidenti  le  remini- 
scenze dell'esemplare  toscano: 

La  bona  sera  te  la  do  piangendo 
E  lagrimando  par  tuta  la  via: 
Le  mane  al  peto,  e  la  boca  dicendo: 
Andò  se  vedarenti,  anima  mia? 

Anima  mia,  anima  mia,  che  fètu, 
Le  to  belezze  a  ci  le  lassaretu? 

—  Le  mie  belezze  no  jè  da  lasciare. 
Parche  soto  tera  jè  da  portare — .  (^) 

A  Chioggia  questo  Canto  è  divenuto  l'addio  della 
sposa  alla  casa  paterna: 

Tiogo  partenza,  la  tiogo  pianzendo 
E  lagrimando  per  tuta  la  via. 
La  mano  al  peto,  e  la  boca  disendo: 
A  rivederse,  cara  mania  mia  !  (^) 


(li  Tigri,  n.  1016. 

(-)  Tigri,  li,  590.  Cfr,  Imbriani.  C.  popul.  avellhi.,  p,  29.  Cfr.  con  una 
antica  Canzone  di  partenza  pubblicata  dal  Gian,  in  Giom.  stoi:  leti,  ital,, 
IV,  48. 

(3)  Righi,  u.  79.  Gli  ultimi  quattro  versi  appartengono  al  Canto:  M'h 
stato  detto  che  ne  rien  la  morte,  di  cui  a  p.  198;  cfr,  Caliari,  p.  195, 

(*)  Berjìoni,  Tradizioni  popolari  veneziane,  Venezia,,  Antonelli,  1S59, 


304  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Invece  nel  vicentino  il  primo  tetrastico  toscano  serve 
di  chiusa  ad  altro  Canto: 

Dago  la  bona  sera  in  questa  casa 

Prima  dai  copi   infina  al  fondamento: 
Prima  la  dago  a  in',  patron  de  casa, 
E  po'  a  la  gioventù  che  glie  sta  drento: 
E  se  '1  patron   de  casa  no'  glie  fosse, 
Dago  la  bona  sera  a  le  so'  piite: 
La  bona  sera  a  la  dago  piangendo, 
E  lagrimando  per  tuta  la  via. 
Le  mani  al  peto  e  la  boca  disendo: 
Quando  se  vedaremo.  anima  mia?(') 

Osserva  lo  Sclmcliardt  (")  che  la  menzione  del 
mare  in  un  Canto  del  popolo  non  può  essere  sufficiente 
argomento  dell'origine  di  quello  presso  popolazioni 
marittime,  essendo  l'idea  del  mare  comune  anche  a 
genti  abitanti  dentro  terra:  cosicché,  se  ciò  fosse, 
non  potremmo  dire  posteriore  e  derivata  rispetto 
alla  veneta,  la  lezione  toscana  del  Canto  che  segue; 
senza  che,  poi,  anche  la  regione  nostra  è  bagnata 
dal  Tirreno: 

Tu   sei   di   là  dal   mare,   e   non   m'intendi; 
Passa  di  qua,  e  tn  m'intenderai: 
Tu  m'hai  rubato   il   core  e  non  lo  rendi. 
Va  a  confessarti  e  me   io  renderai. 

Va  a  confessarti,  e  confessati  bene. 
Che  la  roba  degli  ali  ri   non  si  tiene; 

Va  a  confessarti,  e  confessati  giusto, 
Che  la  roba  degli   altri   non  fa  frutto.  {^) 

La  lezione  veneta  ha  ([iia  o  hi  deiraulico: 

0   tu   di   là   dal    mar   che   non   m'intendi, 
Vieni    de   ((ua   clic    tu   ni' iiitcnderiii. 


p.  Ili;  Wiutkiì-Woi.i'.  m.  4.').  In  (iAh-i.ATo,  p.  :!!)'.»,  lia  osiii-essaniciite  il  ti- 
tolo (li   "  Canto  della  sposa  unaiuio  aliliamluiia  i  genitori  „. 
(1)  AlverÀ,  n.  1. 

-')  <>i>.  cit.,  p.  11,';. 

(3)  Tnuìi.  11.  «."iti. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  305 

Tu  m'ki  rubato  '1  cuor,  vien,  me  lo  rendi, 
Cagna,  sassina,  noi  credeva  mai. 
Cagna,  sassina,  prendi  sto  pugnale, 
Ferissi  '1  peto  mio,  ch'io  vo'  morire: 
Per  quante  stiletàe  che  tu  mi  dai, 
Damene  un'altra,  che  morir  mi  fai.  (') 

Anche  in  quest'altro  ov'è  ricordato  il  mare,  po- 
trebbero le  Marche,  la  Venezia  e  la  Liguria  conten- 
derlo alla  Toscana: 

Fossi  sicuro  di  poterti  avere, 
L'arte  del  marinajo  vorrei  fare  : 
Dipinger  ti  vorrei  nelle  mie  vele. 
Dipinger  ti  vorrei  nella  mia  nave. 

Oh  che  diranno  la  gente  che  vede. 
L'amor  del  marinar  dipinto  in  vele  ! 

Oh  che  diranno  la  gente  che  passa, 
L'amor  del  marinar  dipinto  in  barca!  (-) 

Fra'  Piceni  : 

Se  fossi  certo  di  poterti  avere. 
L'arte  del  marinaro  vorria  fai-e: 
Dipinge'  te  vorrìa  nelle  mie  vele. 
In  Francia  bella  te  vorria  portare: 
E  te  vorria  mena'  do'  se  fa  guerra. 
Dove  se  tira  li  colpi  d'amore; 
Dove  se  tira  li  colpi  mortali: 
Bella,  sei  nata  per  farmi  penare. 
Dove  se  tira  li   colpi  più  forte; 
Bella,  sei  nata  per  darmi  la  morte. 
Dove  se  tira  li  colpi  gentili  ; 
Bella,  sei  nata  per  famme  morire.  (^) 


(1)  Dal  Medico,  p.  101  ;  cfr.  Gaelato,  p.  356.  Il  solo  tetrastieo  in 
Beknoni,  punt.  IV,  n.  49,  e  in  Gianandrea,  p.  17.  Nella  lezione  veronese 
.presso  Righi,  n.  60,  e  Caliaei,  p.  189,  il  3"  v.  dice:  non  me  lo  rendi,  e  no 
me  'l  »•.,  e  la  ripresa  varia.  Lezione  istriana,  in  Ive,  p.  194. 

(-)  Tigri,  n.  823.  Ridotta  a  Stornello,  in  Nerucci,  p.  165,  e  Ferkaeo, 
C,  popol.  di  Lagoscitro,  n.  54. 

(3)  Marcoaldi,  C.  popol.  i}iceni,n.  28;  Gianandrea,  pag.  60;  Rondini, 
pag.  23. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  20 


306  LA   rOESIA   POPOLARE   ITALIAXA. 

A  Venezia  : 

Sei  nata  bela  e  no  te  posso  amare, 
L'arte  del  marinar  me  meto  a  fare; 
Depenzar  mi  te  vói  su  le  mie  vele, 
E  in  alto  mare  te  vogio  portare: 
I  me  dirà:   Che  insegna  la  xè  questa? 
Amor  di  dona  me  la  fa  portare. 

Amor  di  dona,  e  amor  di  donzela: 
Altro  non  amo,  se  non  amo  quela.  (') 

E  in  Liguria: 

Prima  clie  t'abbandun-ne,  o  faccia  bella. 
L'arte  do  marina  la  vogliu  fare. 
Te  voi  dipenze'  'ut'  iiiia  nave  bella. 
In  Cartagena  ti  voglio  menare. 
Tutti  me  diran:  Coni' a  l'è  bella! 
Duve  la  men-ni  'sta  faccia  reale? 
Mi  ghe  dirò  ca  l'è  la  mia  surella. 
La  mennu  in  Franza  per  nu  l'abbandunare.  (-) 

Siamo  sempre  a'  viaggi  di  mare  con  questo  Canto: 

Me  ne  vo'  vire,  Amor,  me  ne  vo'  vire. 
Questi  paesi  li  vo'  abbandonare: 
Me  ne  vo'  vire  verso  il  levantino, 
Yo'  fa'  un  viaggio,  e  non  vo'  più  tornare. 
E  tutti  mi  diranno:  Poverino, 
Questo  viaggio  chi  te  lo  fa  fare? 

Me  lo  fa  fare  un'amante  infedele, 
Che  m'ha  lasciato,  e  non  mi  vuol  piìi  bene; 

Me  lo  fa  fare  un'amante  sleale, 
Che  m'ha  lasciato,  e  non  mi  vuol  piii  amare.  (^) 

La  lezione  picena  dice  : 

Vado  cercando,  e  non  posso  trovare 
Un  fiume  che  ribocchi  alla  marina; 


(1)  Bernoni,  piint.  ITI.  ii.  17.  Varia  lozione  in  Dai.  Medico,  p.  124. 
Meglio  in  Garlato,  p.  290:  Xo'  t'ò  puodesto  avere  ti,  domela,  L'arte  del 
marinar  m'ò  messo  a  fare  ecc. 

(2)  Marcoaldi,  C.  popol.  liguri,  ii.  60. 

(3)  Tigri,  n.  784.  Cfr.  ii.  54G.  Ma  in  una  lezione  del  Tommaseo,  p.  25G, 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  307 

E  se  lo  trovo,  mi  ci  vo'  buttare, 
L'acqua  me  menerà  contro  rovina; 
I  pesci  me  verranno   a  visitare, 
E  mi  diranno:  Povera  meschina! 
'Sta  penitenza  chi  te  la  fa  fare? 

Me  la  fa  fare  un  giovine  crudele, 
Che  m'ha  lasciato,  e  non  mi  vuol  piii  bene: 

Un  giovine  crudel  me  la  fa  fare, 
Che  m'ha  lasciato,  e  non  me  vuol  più  amare.  (') 

Né  diversamente  i  Liguri  : 

Me  vojo  'nbarca  'nt  ques'tu  brigantinu, 
L'èva  del  ma'  sarà  lu  miu  giardinu: 
Li  pesci  mi  venranu  a  ritruvare, 
Me  ne  diran:  Che  fai,  oh  li  mes'chinu? 
E  questa  vita  chi  te  la  fa  fare? 
Mi  glie  dirò,  eh'  l'è'na  donna  crudele, 
Cli'a  l'ha  'na  fija,  no'  me  la  vuol  dare. 
Se  nun  me  la  vuol  dare  'n  cortesia, 
'Na  seira  o  'na  mattin  ra  menrij'  via.  (^) 

La  varietà  apparente  non  distrugge  l'identità 
di  questo  Canto  toscano  con  varie  lezioni  venete  : 

Son  stato  a  Roma  e  sou  stato  in  battaglia, 
Son  stato  al  corpo  dell'artiglieria; 
Non  ho  trovato  spada  che  mi  taglia, 
Se  non  le  grazie  di  tua  signoria: 

Non  ho  trovato  spada  né  coltelli. 
Se  non  la  grazia  de'  tuoi  occhi  belli. 
E  non  ho  trovo  spada  né  lancette. 
Se  non  la  grazia  di  vostre  bellezze.  (^) 

Il  corpo  deir artiglieria  è  forse  moderna  modificazione 
della  forma  antica,  meglio  rappresentata  nel  Canto 
veneto  : 


e  cos'i  in  una  pisana  (A.  Giannini,  n.  3C)  sono,  come  nel  Canto  piceno  e 
ligure,  i  pesci,  non  le  genti  che  vengono  a  salutare. 

(1  Makcoaldi,  C.  po])Ol  piceni,  n.  77;  Gianandeea,  p.  27:  lezione 
beneventana  in  Cokazzini,  p.  18.3,  umbra  in  Mazzatinti,  n.  218  ecc. 

{-)  Makcoaldi,  C.  pcpol.  liguri,  n.  14. 

(3)  Tigri,  n.  290. 


308  LA  P0ESL4.  POPOLARE  ITALTAXA. 

Su'  stato  in  Cipro,  su'  stato  a  la  bataglia, 
O  combatudo  el  fior  de  la  Turchia; 
Non  ò  trovato  arme  che  me  taglia, 
Noma  le  to'  belezze,  anema  mia.  (') 

Notiamo  adesso  talune  rassomiglianze  pili  o  meno 
strette  di  Canti  toscani  ed  istriani.  In  Toscana: 

Ch'hai  meco,  brutta,  che  mi  miri  in  torto? 
Mirami  dritta,  tu  possa  accecare  ! 
E  m'hai  mandato  le  capre  nell'orto, 
E  l'insalata  m'hai  fatto  mangiare. 

E  m'hai  fatto  mangiare  l'insalata, 
Civetta  che  civetti  fuori  e  in  casa. 

E  m'hai  fatto  mangiare  il  pitorsello, 
Civetta  che  civetti  questo  e  quello. 

E  m'hai  fatto  mangiare  l'erba  mora, 
Civetta  che  civetti  in  casa  e  fuora.  ('"') 

0  come  lo  cantano   a  Casale  in  vai  di  Cecina  (le- 
zione inedita)  : 

0  che  t'ho  fatto,  che  mi  guardi  torto? 
E  guardami  diritto  come  prima  ! 
Non  t'ho  mandato  le  capre  nell'orto; 
Nemmeno  i  bovi  a  pascer  la  saggina. 
Se  t'ho  fatto  del  male,  vammi  a  accusa, 
E  guardami  diritto  come  s'usa. 
Se  t'ho  fatto  del  male,  vall'a  stima,  (^) 
E  guardami  diritto  come  prima. 

Cosi  nell'Istria: 

Vardame  drito  e  nu'  me  varda  stourto; 
Frigo  lo  (^jil  che  ti  te  puossi  urbare  ; 
E  s' i'  t'ò  fato  dagno  in  tei  tu'  uorto, 
Clama  lu  cataver,  manda  a  stimare. 


(1)  Garlato,  p.  260;  Dal  Medico,  p.  187,  e  Rondini:  co»fìn  de  Bar- 
barla; Bernoni,  punt.  VI,  n.  7:  confini  de  Turchia;  Pasqualigo,  n.  28: 
so' stato  in  Italia.  €fr.  Canto  simile  in  Marcoaldi,  C.  popol.  piceni,  n.  80. 

(2)  Tigri,  n.  798. 

(3)  Accusa  e  stima  son  di  quegV  infiniti  con  apocope  e  accento  ritratto, 
che  s'usano  assai  nelle  nostre  campagne,  specialmente  dopo  gl'imperativi 
dei  verbi  andare  e  venire.  Cosi  p.  es.  vienl'a  piglia,  vall'a  pesca  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  309 

E  s'  i'  t'ò  fato  dagno  in  la  tu  veigna, 
Ciama  lu  cataver,  manda  la  steima.  (') 

Direttamente  dalla  Toscana  sembra  provenire 
quest'altro  Canto  istriano  fra  noi: 

Ti  vantarai  d'avermi  lasciato, 
Ma  io  mi  vantarò  d'un'altra  cosa: 
Mi  vantarò  d'averti  vagheggiato, 
Nel  bel  giardino  aver  colta  la  rosa. 

Mi  vantarò  d'avesse  stato  il  primo 
D'aver  colto  la  rosa  al  tuo  giardino; 

Mi  vantarò  d'avesse  il  primo  stato 
D'aver  colto  la  rosa  e  vagheggiato.  O 

Nelle  Marche  varia  alquanto: 

Te  vai  vantenno  per  lo  vicinato 

Che  me  potevi  ave',  non  m'ài  voluto; 

Io  me  vantarò  d'un'altra  cosa, 

Dirò  ch'all'occhi  mia  non  sì  piaciuto; 

E  io  me  vantarò  d'un'altra  mia 
Dirò  che  'n  sai  piaciuto  all'occhi  mia.  (') 

Pili  aderente'  alla  lezione  toscana  è  pertanto  quella 
delle  coste  adriatiche: 

Tu  vai  disando,  amor,  che  m'ki  lassato, 
E  mei  me  guanterò  d'un'altra  cuossa: 
1'  t'uò  tucà  li  man,  i'  t'uò  basato, 
E  drento  del  giardeiu  frisca  la  rusa.  (■*) 


(1;  IvE,  p.  154. 

(-)  Tommaseo,  p.  299.  Cfr.  variante  in  Tigei,  ii.  1104. 

(3)    GlANANDREA,    p.    215. 

(*)  IvE,  p.  178.  Non  si  potrebbero  però  dissimulare  le  rassomiglianze 
di  parole  e  di  immagini  con  questo  Canto  di  Bagnòli  Irpino  .Imbkia.vi,  C. 
popol.  prov.  meridion.,  II,  101): 

Donna,  non  t'avvanta'  ca  mm'  hai  lasciato. 
So'  stato  io  che  non  faggio  voluta. 
Rinto  càseta  tua  gè  so'  stato, 
Gè  aggio  mangiato,  e  bippeto  e  dormuto. 
E  'ssi  frutticielli  tui  l'aggio  mangiati, 
Re  tutti  tiempi  che  l'aggio  voluti; 
Porte  e  finestre  faggio  sconquassate, 
Entra  chi  vo'  entra',  ca  io  ne  songo  assuto  ecc. 

Cfr.  anche  Fekeako,  C.  popol.  monferi:,  Stramb.  n.  SO. 


310  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Uu  canto  di  vitupero  suona  così  nell'Abruzzo  : 

Bbrutta,  tu  sci  'na  pomadora  sfatta, 
Abbad'  ai  fatti  tije,   ca  n'aji  bbisogno  : 
Tu  sci  cchiù  nnera  de  carvone  muorto, 
Tu  puzzi  come  l'acqua  puzzulende; 
Che  jjuvare  te  po'  la  lavatura, 
Bbiauga  pe'  fforza  e  nnera  pe'  nnatura?  (') 

E  certamente  risale  a  un  originale  toscano: 

0  biuuettaccia  dalla  ghigna  sfatta, 

Attendi  a'  fatti  tuoi,  che  n'hai  bisogno. 
Tu  sei  più  nera  che  un  corvo  di  macchia 
E  dove  passi  tu,  l'acqua  c'intorba. 
Giovare  che  ti  può  la  lavatura. 
Bianca  per  forza  e  nera  di  natura?,  (^) 

ed  è  un  Rispetto  letterario  popolarizzato,  che  ci  resta 
in  forma  assai  guasta,  ma  risale  al  sec.  XV  e  forse 
ebbe  l'Umbria  per  patria: 

Tu  se'  più  nera  che  mora  di  macchia. 
Per  te  si  perde  tanta  lavatura: 
Quando  ti  lavi  il  viso  inganni  l'acqua. 


Perchè  ti  lavi  il  viso  col  sapone? 
Più  nera  se'  che  uno  calabrone. 
L'acqua  che  il  fiume  di  Viterbo  niena 
Non  ti  laverebbe,  tanto  se'  nera.  (^) 

Del  seguente   Canto  toscano  la  piìi  stretta  ri- 
spondenza è  con  un  monferrino: 

E  pure  un  bel  seren  con  tante  stelle,  (■•) 
Fatti  di  fuori  se  lo  vuoi  contare: 


(1)  FiSAMOEE,   Vocab.,  n.  234. 

(2)  Tigri,  n.  1102. 

(5)  L.  Gentile,  Cinque  Rispetti  ined.  del  sec.  XV,  Firenze,  Arte  dclLi 
Stampa,  1881,  :i.  1.  Ma  veramente  non  era  inedito:  era  stato  pubbl.  nel 
Mure  di  Livorno  (n.  4;  18  luglio  1872)  col  2"  verso  letto  cos'i:  l'er  te  si 
perde  tutta  lavatura:  e  i  due  ultimi  così:  i'  fulla  l'acqua  che  Viterbo  mena 
Xon  ti  lavrebbe,  tanto  tu  se'  nera. 

(*)  Verso  che  nella  raccolta  dell'Ai.vERÀ,  n.  55,  dice:  Vardè  che  bel 
seren  con  tante  stelle,  ma  il  resto  varia  a  seconda  di  altro  Rispetto  toscano 


LA  POESIA   POrOLAEE   IT.VLIAXA.  311 

Le  pene  che  mi  dai  son  più  di  quelle, 
Quando  ti  vedo  con  altri  parlare.  (') 

E  nel  Monferrato,  con  mal   dissimulate  sembianze 
toscane: 

Signura,  quante  stelle,  quante  stelle  ! 
Sorti  di  fora,  venile  a  contare: 
Le  peni  che  mi  dai  son  più  di  quelle. 
Quando  ti  veg  cuu  li  altri  a  parlare.  ('^) 

In  tutti  i  casi  sopra  riferiti  si  può  facilmente 
ammettere  la  precedenza  del  toscano  sulle  lezioni 
dialettali,  le  quali  quasi  sempre  ritengono  qualche 
traccia  di  letterario.  Ma  che  dire  quando  di  Canti 
comuni  a  varie  regioni  manca  non  solo  ogni  riscontro 
siciliano,  come  nei  casi  finora  esaminati,  ma  pur 
anco  la  lezione  toscana  ?  Le  probabili  ragioni  del 
fatto  discorreremo  in  appresso:  intanto  rechiamo 
alcuni  esempj. 

Si  confrontino  dunque  fra  loro  due  Canti  di  re- 
gioni assai  lontane.  A  Mercogliano  nel  Principato 
ulteriore  si  canta  così: 

Qnanno  Locia  mmia  da  qua  cadivo, 
'Nterra  si  vedde  e  l'ajuto  chiamava; 
Lo  suo  amante  che  c'era  vicino, 
Come  a  lo  pesce  all'acqua  ssi  menavo. 
Lo  pesce  dint'a  l'acqua  e  puro  fete; 
Chi  fa  l'amore  a  luongo  pena  paté.  (^) 

I  due  ultimi  versi  sono  evidente  appiccatura,  occa- 


^ToMMASEo,  p.  365,  n.  11;  cfr.  anche  Fekraro,  C.  popol.  monferi:,  n.  97  e 
C.  popol.  di  Lagose,  n.  17;  Mabcoaldi,  C.i3opol.  liguri,  n.  97;  Muller-Wolf. 
p.  11;  IvE,  p.  19).  Jfel  Bernoni,  punt.  VI,  n.82,  e  punt.  X,  n.  38:  Varda  che  hd 
seren  con  quante  stelle.  I  due  primi  versi  in  un  canto  istriano  dell'  Ive,  p.  G, 
L'ultimo  in  un  siciliano:  Qicannu  eie  autri  vi  viju  parrari  (Pitkè,  C. popol. 
sicil.,l,  n.  250)  e  in  uno  veneto:  Quando  ti  vedo  co  i  altri  a  parlare  (Dal 
Medico,  p.  116). 

(1)  Tigri,  n.  755. 

(2)  Ferkaro,  Stramb.,  n.  45. 

(3)  liiBRIANI,  C.  popol.  di  Mercogliano,  n.  18. 


812  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  / 

sionata  dalla  menzione  del  pesce;  ma  nell'Istria  aò- 
biamo  intero  il  Canto  a  questo  modo: 

Quando  la  biela  in  acqua  la  cadìa, 
E  per  sucurso,  agioùto  la  ciamava; 
Quando  che  lu  su'  amante  la  vedìa, 
Come  lo  pisso  in  acqua  el  se  butava; 
E  per  la  man  sineìstra  el  la  prendiva, 
E  pioùn  de  meìle  basi  el  ghe  dunava, 
E  la  ghe  deìse:  Dul(je  inamorato, 
M'avV  vussoùdo  ben,  ni'avi'  ciapato.  (*) 

Quest'altro  è  comune  ai  Liguri  ed  ai  Veneti.  La 
lezione  ligure  è  la  seguente: 

Mi  sun  annamura'  di  quattru  vegie, 
E  tiitte  quattru  le  vogliu  s'pusare; 
La  primma  che  la  voi  cacce'  'nt  iin  saccu, 
Ra  voi  mandè'  ar  murin  a  maxinare; 
A  la  secunda  a  j  voi  de  tante  botte, 
Che  ra  niattin  se  riorda  di  levare; 
La  terza  a  vòju  fene  d'iin  bel  giocu, 
Mettra  'simma  a  'n  paje',  e  piji  deje  'r  focu; 
La  quarta  voju  lene  d'un  cucosu, 
D'iin  bel  cucosu  pr'  is'tu  carlevavi.  (-) 

E  così  si  canta  a  Venezia: 

Me  vogio  m aridar  co  quatro  vece, 
E  tute  quatro  le  vói  contentare; 
E  co  la  prima  vogio  far  un  pato, 
Dormir  con  eia  e  mai  no  la  tocare; 
De  la  seconda  vói  far  un  barato, 
Far  tanta  carne  per  sto  carnovale; 
E  de  la  terza  vogio  far  un  zogo, 
Meterla  s'un  bari),  e  darglie  fogo; 
E  de  la  quarta  tante  bastonae, 
Coparle  tute  ste  vecie  rapae. 
—  Dopo  che  ave  copà  tute  ste  vecie, 
Ma  cessa  volèu  far  de  tanta  pele? 


(1)  IVE,  p.  85. 

(-}  Marcoaldi,  C.  2>02>o1.  Hijuvi,  n.  48. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALL\XA.  313 

—  Faremo  de  le  corde  da  violili, 

Per  darghe  spasso  a  ste  ragazze  bele.  (') 

Altre  concordanze  di  Canti  piemontesi  e  veneti. 
In  Piemonte: 

lera  auti  l'ortu  ca  basava  ir  gatta, 
L'urturanin-nha  mi  stava  a  videri; 

—  Cosa  ti  fai?  ti  smije  mezu  niattu, 
Basarne  mi,  e  lassa  stèe  lu  gattu.  —  {^} 

E  nel  Veneto: 

Gera  in  te  l'orto  che  basava  el  gato, 
L'ortolanela  me  dasèa  da  mente; 
E  la  me  dise:  —  Cosa  fetu,  mate? 
Baseme  mi,  e  no'  basare  el  gato.  —  (^) 

Medesimamente  a  Venezia: 

Misericordia,  ch'el  mondo  è  finio, 
Che  preti  e  frati  se  voi  maridare: 
E  muneghe  de  Cioza  tol  marie: 
Misericordia,  ch'el  mondo  è  finìo  !  (^) 

E  in  Piemonte: 

Misericordia!  il  mondu  l'è  finita. 
Fina  li  previ  voglion  maridarsi: 
Fina  le  manie  voglion  tor  marita: 
Misericordia!  el  mondu  l'è  finitu.  (^) 


(1)  Beenoni,  punt.  X,  n.  78.  Cfr.  lezione  istriana  in  Ive,  p.  152.  Ma  ora 
M.  Bahbi  (Poes.  popol.  pistoiese,  Firenze,  Carnesecclii,  1895,  p.  121)  ci  dà 
una  lezione  toscana;  però  il  primo  verso:  Mi  sono  innamotà  di  quattro  vec- 
rliie,  con  codesto  innamora  parrebbe  tradire  la  derivazione  veneta.  Il  B.arbi 
stesso  indica  una  forma  letteraria,  primitiva  o  imitata  che  sia,  contenuta  in 
una  stampa  del  Quattrocento  di  Strambotti  e  Barzellette:  Quattro  de  queste 
regie  voglio  amare,  dove  pure  il  vegie  sa  di  veneziano. 

(-)  Feeraho,  C.  x>oi>ol.  monferr..  Stramb.,  n.  42.  Monca,   è  ancbe  in 

GlANANDEEA,   p.    183. 

i?)  Alverà,  n.  28.  Cfr.  Bernoni,  punt.  I,  n.  4.3;  Righi,  n.  7;  Maeson, 
Villotte  dell'alto  trevisano,  Treviso,  Zoppelli,  18'J9,  n.  11;  IvE,  p.  134. 

(*)  Beenoni,  punt.  I,  n.  53:  Caliaei,  p.  218.  Cfr.  Feeraeo,  C.  popol.  di 
Lagoscuro,  n.  31. 

(5)  Maecoaldi,  C.  x'opol.  xìiemont.,  n.  13:  Nigea,  p.  578.  In  un  Canto 
di  Airolo  e  di  Napoli  (Imbeiani,  C.  popol.  prov.  merid.,  I,  97  e  Molinaro, 
p.  121):  Le   monache  sse  vonno  maritare. 


314  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Ultimo  raffronto  sarà  questo  fra  un  Canto  pie- 
montese ed  un  istriano,  senza  intermedio  conosciuto 
di  lezione  toscana: 

Sappi,  0  signiiia,  cli'a  sun  Romagnolo, 
E  son  venuta  d'in  siilla  Romagna: 
Tiitti  me  disu  ch'a  suu  brav  figliolo, 
Cli'a  nieiitreiva  'na  brava  compagna.  (^) 

E  nell'Istria,  con  evidente  aggiunzione  di  altro  fram- 
mento : 

Sapì,  niadona,  ch'i'  son  Rumagnolo 

E  gioùsto  adiesso  i'  viegno  de  Rumagna: 
Sapì,  madona,  ch'i' son  bon  filgiolo, 
Drento  de  mei  nu'  se  truva  magagna. 
Cu'  la  pazienza  i  santi  acqueista  el  9ÌI0, 
Cu'  la  pazienza  i  guobi  va  in  muntagna. 
Che  ne  darenno  un  suoldo  a  la  bussita. 
Chi  gà  guoba  stuoita  se  la  drissa.  (^) 

Qualche  volta  a  prima  vista  non  si  intravede  la 
relazione  de'  varj  canti  fra  loro.  Giacomo  Leopardi 
notava  nel  1820  alcuni  frammenti  di  Canzoni  popo- 
lari, ch'ei  sentiva  cantare  dai  contadini  delle  Mar- 
che, (^)  e  questo  fra  gli  altri: 

Una  volta  mi  voglio  arrisicare, 
Nella  camera  tua  voglio  venire. 

Il  canto  intero  recato  a  forma  vernacola  dice  così  : 

L'ho  ditto,  bella,  e  te  ro  vojo  fare: 
Ne  ra  cammora  tua  vojo  venire: 
Te  vojo  tanto  stringere  e  'bbracciare, 
E  nelle  braccia  tua  vojo  morire: 
Te  vojo  tanto  stringe'  e  'bbraccià'  forte, 
Ne  ri  braccetti  tua  vojo  ra  morte.  ('') 


;i)  Makcoai-DI,  C.  popol.  piemont.,  n.  21. 

(2)  IvE,  p.  58. 

(3)  Teza,  Artic.  nell.a  Rivista  italiana   di  scienze,  lettere  ed  arti,  To- 
rino, 1863,  anno  IV,  n.  145. 

(*)    GlANANDKEA,   p.    59. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  315 

Cercando  fra  i  canti  veneti,  ben  troveremo: 

Sangue  de  mi,  la  vogio  risegare  ! 
Ne  la  camara  tua  mi  voi  vegnire; 
Voi  tanto  strensarte  e  tanto  braziare, 
Che  ne  le  brazie  tue  mi  vói  morire.  (') 

Può  invece  sfuggire  l'analogia  con  un  Canto  napo- 
letano, dove  questo  tema  è  un  secondo  tetrastico 
accodato  ad  altro,  ma  tale,  che  forse  tutt' insieme 
dà  più  intera  lezione  : 

Quanto  ch'è  bella  l'aria  de  lo  mare! 
Core  non  mme  ne  dice  de  partire. 
Nce  sta  'na  figlia  de  'no  marenare, 
Tanto  ch'è  bella  che  mme  fa  morire.  (^) 
'Nu  giorno  mme  nce  voglio  arrisicare, 
'Ncopp'a  la  casa  soja  voglio  saglire; 
Tanto  la  voglio  stregnere  e  vasare, 
Mentre  mme  dice:  Ammor,  lassarne  ghire.  (^) 

Ma  quanto  abbiamo  finora  notato  non  è  prova 
concludente  contro  quella  probabile  genealogia  dei 
Canti  popolari  italiani,  della  quale  già  demmo  al- 
cun indizio,  e  che  meglio  esporremo  in  appresso. 
Imperciocché  noi  non  possediamo  intero  il  tesoro 
dei  Canti  di  ciascuna  provincia;  ed  è  mera  conget- 
tura, la  quale  può  tuttavia  cangiarsi  in  affermazione, 
che  molti  Canti  sieno  qua  e  là  caduti  dalla  memoria, 
sicché  necessariamente  manchi  qualche  anello  inter- 
medio della  catena.  Giova  intanto  osservare  un  altro 
fatto  assai  rilevante.  Se  noi  esaminiamo  le  Raccolte 
fatte  nelle  provincie  non  soltanto  venete,  ma,  che  è 


(1)  Bebnoni,  punt.  II,  n.  24.  Cfr.  Ive,  p,  129. 

(-)  Notisi  anche  che  questo  tetrastico,  appiccatagli  la  ripresa  alla 
toscana,  è  diventato  nelle  Mai-che  un  Rispetto  a  sé  (Gianandbea,  p.  57), 
che  alla  sua  volta  riconduce  al  Canto  siciliano:  Guarda  ch'è  beila  l'unita 
di  lu  mari  ecc.:  Pitrè,  C.  popol.  sicil.,  I,  n.  6.5i. 

(3)  Imbkiani,  C.  popol.  prov.  ineri(ì.,ll,  .398.  Cfr.  C. popol.  aveUin.,p.iì, 
e  C. popol.  di  Marigliano,  n.  24;  Molinako,  p.  206;  Amalfi,  C.  p.  di  Sor- 
rento, n.  48;  CoRAZZiNi,  p.  184. 


316  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAIn'A. 

più,  liguri  e  gallo-italiche,  del  Piemonte  cioè,  della 
Lombardia  e  dell'Emilia,  sarà  agevole  il  vedere  che 
una  parte  dei  Canti  è  in  dialetto  locale  abbastanza 
puro,  ma  un'altra  parte  è  in  forma  mescklata  di  to- 
scano, presso  a  poco  come  il  parlare  di  Donna  Fabia 
Fabron  de  Fabrian  del  Porta;  e  altri  non  pochi  sono 
in  toscano,  punto  o  sol  lievemente  alterato.  Apriamo 
la  raccolta  ligure,  (^)  e  troveremo  scritto: 

0  bella  giovili,  che  al  balcon  vi  state, 
Il  fresco  della  sera  vi  godete, 
Il  petto  del  balcon  voi  lo  frustate.  (-) 

In   mezzo  del  mio  core  e'  è  una  spina. 
Non  c'è  barbier  che  la  possa  levare; 
Solo  il  mio  amore  colla  sua  manina.  (') 

0  bella  figlia,  o  bella  garzona 

Baciate  me,  che  il  Papa  vi  perdona; 

Baciate  me,  che  io  bacerò  vui, 

Che  il  Papa  ci  perdona  tutti  e  dui.  (■*) 

Prima  d'abbandonarti,  o  faccia  allegra, 
Quattro  castighi  avrai  da  rimirare; 
Prima  vedrai  cader  la  neve  negra, 
E  vedrai  le  montagne  camminare; 
E  ritornar  vedrai  li  morti  in  terra, 
E  gli  uomini  campar  senza  mangiare: 
Allora,  0  bella  ti  vo'  abbandonare.  (^) 


(1)  Su  questo   carattere   del  canto  popohuo  ligure   vedi  anche  Ku- 
BIEEI,  p.  421. 

(-)  Makcoaldi,  Canti  popol.  liguri,  n.  12. 

(3)  Id.,  ihid.,  n.  IG. 

(4)  Marcoai.di,  ihid.,  11.  29. 

(5)  Id.,  ibid.,  11.  31.  Cfr.  quanto  al   concetto   col   n.  IS  della  raccolta 
Visconti  : 

Prima  ch'io  lasci  te,  gentil  signora, 

I  duri  sassi  si  faranno  cera; 
Madre  dell'ombro  diverrà  l'aurora, 

II  mezzo  giorno  sonerà  la  sera; 
Saranno  il  foco  e  l'acqua  uniti  ancora, 
Eterna  durerà  la  Primavera. 

I  nostri  amori  finiranno  allora 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALLVXA.  317 

Stella  diana,  fammi  tanta  grazia 
Saluta  lo  mi'  amore  quando  passa; 
Quando  ci  passa,  ci  passa  cantando, 
Cogli  occhi  bassi,  e  in  core  sospirando: 

Sospira,  core,  che  ragion  ce  n'ài; 
Mi  fai  morire,  poi  mi  piangerai; 

Sospira  core,  che  ragion  ne  mena; 
Mi  fai  morire:  porterai  la  pena.  (') 

Nessuno  dirà  che  questo  sia  dialetto  genovese,  (")  né 
che  assomigli,  per  conseguenza,  al  dettato  di  questi 
altri  Canti: 

0  bella  fìja,  che  '1  frunte  ve  liixe, 
Ch'u  pa'  ch'i  j'  aggi  sentu  ciarabelle; 
Sciarti  di  fora  quand'a  l'iui-na  a  luxe, 
Pijrte'  l'avantu  sii  tiitt'er  ciil'  belle.  (^) 

S'telle  del  cielu,  femi  d'iin  favure, 
Fé  cresce'  ques'ta  notte  sciiisant'ure; 
Pregate  n'augerin  si  metta  j'are, 
Ch'u  vagga  'n  cielu  a  trattener  le  ure.  {*) 


Quando  il  mondo  ritorni  a  quel  che  era. 
Prima  ch'io  lasci  te,  gentil  signora, 
I  duri  sassi  si  faranno  cera. 

Cfr.  anche  i  n.  818,  820,  821,  834,  8:35,  836  (varie  lezioni  del  cit.  romane- 
sco), 837,  838,  856,  860  del  Tigki,  e  due  Rispetti  pur  toscani  nel  Gii-liani. 
Lett.  sul  vivente  linguagg.tosc.,Tp.ìO\.  Cfr.  anche  De  Nino,  p.  28,  30;  Mar- 
co aldi,  C.  popol.  piemont.,  Ti.  7,  e  C.  popol.  latini,  n.  24;  Morosi,  n.  79  ecc. 
n  NxGRA,  p.  XXV,  opportunamente  ricorda  a  questo  proposito  il  virgiliano  : 

Ante  leves  ergo  pascentur  in  aethere  cervi, 
Et  freta  destitiient  nudos  in  litore  2^'sces  etc. 

(1)  Makooaldi,  C.  popoJ.  liguri,  n.  74. 

(2)-  E  COSI  pure  pei  n.  38,  44,  45,  50,  55,  57,  67,  68,  73,  81,  ecc. 
(3)  Marcoaldi,  C.  popol.  liguri,  n.  32. 

*)  Marcoaldi,  ib!d.,n.i1;  Rondini,  p.  49;  Caliari,  p.  55.  Cfr.  Pigo- 
kini-Beki,  C.  popol.  marchig.,  p.  37  : 

O  sole  0  luna,  non  mi  abbandonare. 
Fame  questa  notte  a  sessant'ore; 
Cliiamo  Cupido  che  si  metta  l'ale, 
E  vada  su  in  cielo  a  fermar  l'ore. 

Ognuno  conosce  quel  che  dice  il  Petrarca: 

Con  lei  potessi  stare 

Solo  una  notte,  e  mai  non  fosse  l'alba. 


318  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Pretto  piemontese  sarà,  ad  esempio,  il  seguente  : 

0  fia  bela,  da  la  cà  di  fanga, 

La  cà  l'è  pcita,  l'ambisiun  l'è  granda; 
L'è  pi  i  biudei  eh'  parte'  giii  per  le  spale, 
die  la  dota  ch'a  voja  de  vost  pare.  (*) 


Anche  le  diansoìis  dit  XJ'  siècìe  (pag.  63): 

Et  le  soìeil  fiist  conche 

El  le  joiir  n'adjoicrnast  jà, 
Et  Je  voiis  tensisse,  belle, 
Xite  a  mi  enire  mes  hras  ! 

Kei  Canti  siciliani  si  legge  (A'igo,  n.  517;  cfr.  n.  674": 

Vi  addimannu  'na  grazia  e  fnssi  ora. 
Di  starimi  ccu  vui  quattru  nuttati, 
E  clii  li  notti  fussinii  quant'ora. 
Lunghi  qnantn  li  jorni  di  la  stati: 

Medesimamente    un    Canto   napoletano   (Isibiìiani.    C.  popol.  prov.  merid. 
II.  177): 

Vorria  dormV  'na  notte  a  'sto  tuo  lato. 
Non  facesse  mai  ghiorno  la  mattina  : 


Uno  leccese: 


0  stelle,  a  bui  m'aggiu  raceuniandare. 
Sta  notte  ca  mme  sia  di  nocient'ore. 


E  uno  avellinese  (Imbriani,  C.  popol.  avellin.,  p.  41): 

Lasciatemi  dormi  'sta  notte  co'  vui  ; 

Domani  quannu  è  juorno  nime  ne  vavo: 
E  mo'  che  accanto  a  voi  nee  so'  venuto. 
Notte  pozza  fa'  'mpressa  e  .iuorno  mai  : 

A  Napoli  quest'i;  l'augurio  dell'amante  (Molinaeo,  p.  1.56': 

r  rent'  a  buie  me  farria  nu  suolino: 
'Sta  notte  che  ce  fusse  nuvanti  anne. 

Un  Canto  romano  (Mueller-Wolf,  p.  12): 

Questa  notte  per  me  duri  cent'anni: 
In  Umbria  (Mazzatinti,  n.  .301): 

£  de  sta  notte  min  se  faccia  mai  dine. 
E  con  più  discrezione,  per  solo  intento  di  discorrere  (ibid.): 

Vorrei  discorre'  col  mi'  amore  un'ora; 

Che  un'ora  fosse  una  gbioruata  intera. 

E  finalmente  nelle  Villotte  friulane  (Arboit,  n.  93): 
Se  dos  noz  fussin  in  fune 
Che  mai  plui  a  vigniss  dì, 
Cile  bambine  di  che  scune 
Jo'  nicciàlle  e  iè  durmì  ! 

(1)  Marc-caldi,  C.  popol.  piemont.,  n.  38. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALL'^KA.  319 

Ma  meno  piemontese  è  quest'altro: 

Mi  vada  in  lettu  e  non  possu  dnrmire, 
E  li  lensoi  mi  disti:  Cosa  t'iiai? 
Risponde  la  coverta  de  In  letta: 
Spasa  'na  dona  bela,  e  't  durmiiai.  (') 

E  toscano,  salvo   nel  troncamento   di   una  voce,  è 
quest'altro,  pur  raccolto  in  Piemonte: 

E  lo  mi'  amove  l'ha  nome  Francesco, 

E  l'è  un  bel  noni'  che  si  domanda  presto: 
L'è  come  un  uccellin  sovra  'na  rama: 
Francesco  l'è  un  bel  noni',  presto  si  chiama.  (^) 

Anche  quest'altri  sono  nulla  piìi  die  letterali   tra- 
duzioni da  un  primitivo  originale  toscano: 

Uarda  là  an  po'  se  ti  la  voi  vedere. 
Si  fa  alla  finestra  poco  a  poco: 
Ra  fa  come  lo  pess,  che  l'è  ant  l'algua, 
Si  fa  alla  finestra,  e  poi  u  scappa.  (^) 

Pensi  che  t'ama,  e  che  ti  voja  bene? 
Mi  t'amerò,  se  la  fartin-nha  viene; 
Quandi  chi  ra  fiutin-nha  sia  avnija, 
Pruvedte,  amar,  che  mi  san  pruvedija.  {*) 

A  Somma  Lombarda  si  canta  : 

M'è  stato  detto  dall'ortolani  na 

Che  l'insalata  la  rinfresca  il  cuore; 
Ma  tanto  più  mangiarla  alla  mattina, 
In  compagnia  dell'ortolanina.  {°) 

Questo  è  pretto  toscano;  ma  in  altre  Canzoni  la  dia- 
lettizzazione  è  appena  cominciata: 

Yorria  vess  lina  gallina  nana 

Per  andar  nel  c;iardin  dell'ortolana; 


(1)  Makcoai.di,  ihid.,  n.  26;  cfr.  Gianandrea,  p.  104  ;  Mazzatinti,  n.  96. 
(3)  Marcoaldi,  ìhid.,  n.  29.  Cfr.  anche  i  n.  6,  16,  24. 
(3)  f  EEEARO,  C.  popol.  lìioiiferr.,  Stramb.,  n.  50. 
(■>)  Feeraro,  ibid.,  n.  79. 

(5)  Imbriani,  in  Nuova  Antolog.,  p.  191.  Cfr.  Bernoni,  punt.  IV,  n.  12; 
Dal  Medico,  p.  54;  Alverà,  n.  65;  Righi,  n.  43:  Ive,  p.  84. 


320  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

Favìa  finta  de  beccar  i  fiori, 

E  all'ortolana  mi  farla  l'amorre.  (') 

M'è  stato  detto  e  poi  m'è  sta'  conta 
Che  a  far  l'amur  in  chiesa  l'è  peccàa  : 
E  mi  che  sont  iina  brava  figliola, 
Quand  voi  far  l'amur,  vengo  de  fora.  (^) 

Sulle  rive  del  Po  abbiamo  lo  stesso  fatto  di  evi- 
denti vestigia  toscane  nei  Canti  del  popolo: 

Dove  spasseggi  tu,  l'erba  vi  nasce, 
La  primavera  tutta  vi  fiorisce: 
Fiorisce  d'ogni  erba  e  d'ogni  fiore: 
Bello,  tu  ami  d'uno  vero  amore.  (') 

Al  mie  amor  l'è  un  mancator  di  fede: 
Lu  s'innamora  in  quanto  donne  vede: 
Se  ne  vedesse  venticinque  l'ora. 
Di  tutte  venticinque  s'inamora.  (*) 

Oh  quanto  tempo  che  desiderava 
D'aver  per  mio  amante  un  sonatore  ! 
Al  sona  cusì  ben  su  la  chitara, 
E  colla  bocca  fa  i  versi  d'amore.  ('") 

E  mi  vurrìa  andar  alla  salita 
Duv'è  quella  casetta  rovinata, 
Duv'al  mio  ben  al  gh'lia  lassa  la  vita.  (^) 

Bella,  se  tu  vedessi  al  mie  ritratto. 
Apri  la  sepoltura  e  mira  il  morto. 
Bella,  tu  mi  vedrai  tutto  disfatto.  C) 

Odansi,  per  ultimo,  questi  versi,  pretti  toscani, 
che  mischiati   ad   altri  in   dialetto,  si  trovano   nei 


(1)  Imbeiani,  ihif?.,  p.  190:  cfr.  Giannini,  C.  p.  ìucch.,  p.  230. 

(-)  Imbriani,  ibiil. 

(i)  Ferraro,  C.  popol.  di  Lagose,  il.  .37.  Pei  due  primi  versi,  cfr.  Bles- 
siG,  n.  105;  Tigri,  Stoi-nelL,  n.  100. 

(*)  Ferraro,  ibid.,  n.  43. 

(•'>)  Id.,  ibid.,  n.  56. 

(«)  Ii>.,  n.  06.  E  tale  e  quale,  salvo  le  poche  forme  dialettali,  nella 
mia  raccolta  manoscritta. 

(7;  Id.,  n.  G8. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  321 

Canti  veneti,  e  che  fanno  testimonio  di  una  primi- 
tiva forma  toscana  di  tutto  il  componimento: 

Perchè  la  lingua  mia  parlar  non  pole;  (') 
Vedo  l'amante  mio  spiegar  le  vele;  (-) 
La  voce  bassa  al  mio  parlar  somiglia;  (^) 
Alza  la  bionda  testa  e  non  dormire;  (^) 
Lo  giuro  per  quel  Dio  che  m'ha  creato;  (^) 
Sospira,  cuore,  che  ragion  tu  ài;  (®) 
Dove  ch'el  ferma  el  pie,  l'erba  s'inchina;  C) 

e  COSÌ  all'infinito,  per  non  recare  interi  Canti,  dove 
le  forme  toscane  sono  pari,  o  anche  maggiori  delle 
venete,  (®)  Né  altrimenti  si  dica  pei  Canti  umbri  e 
piceni. 

IX. 

Uno   Strambotto  siciliano   così  descrive  le  pe- 
regrinazioni dell'amata  fanciulla,  ancor  nelle  fasce: 

Bella  ca  a  Taormina  fusti  nata. 

Scritta  a  Palermu,  e  crisciuta  a  Missina, 

A  la  fonti  di  Rroma  vattiata 

E  in  faccia  frunti  di  Santa  Cristina.  (^) 


(1)  Bertoni,  punt.  II,  ii.  15. 

(2)  Id.,  punt.  Ili,  B.  11. 

(3)  Id.,  punt.  IV,  n.  5. 

(4)  Id.,  punt.  IV.  n.  45. 

(5)  Id.,  pujit.  IV,  n.  58. 

(6)  Id.,  punt.  VI,  n.  45. 
(")  Id.,  punt.  VII,  n.  16. 

(^)  L'AlveeÀ.  nelLi  Prefazione  ai  Canti  vicentini,  dice:  "E  mia  cre- 
denza che  si  gentile  maniera  di  poesia  possa  esserci  venuta  di  Toscana, 
anziché  d'altrove,  per  la  grande  rassomiglianza  che  tali  Canzoni  tengono 
sì  pel  genere  che  per  le  voci,  con  gli  Stornelli  cantati  in  quella  magica 
contrada  „.  Lo  stesso  dice  per  quelli  raccolti  nel  Parmigiano  il  Basetti, 
presso  il  Tommaseo,  p,  16;  il  Kighi  pei  veronesi,  p.  xx.  Altri  consimili 
giudizj  di  raccoglitori  di  canti  delle  diverse  regioni  italiane,  vedili  in  Ru- 
BIERI,  p.  226. 

(9)  Vigo,  n.  389.  Cfr.  n.  129. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  21 


322  LA  POESIA   POPOLARE   ITALLA_XA. 

Uno  di  Terra  d'Otranto: 

Fice  gran  festa  Napoli  e  Messina, 
Genova,  Siena  e  la  Papa  de  Roma; 
Nata  a  Venezia,  cresciuta  a  Melami, 
Dimme  ci  mo'  a  Firenze  'nei  stai  bona; 
0  ci  te  piace  niegghiu  dtlai  la  mani 
A  ci  nascili  a  Bulogna  o  a  ci  d'Ancona;  (') 

ed  altro  del  Lazio: 

0  bella  clie  da  Napoli  venite, 

E  poi  passaste  in  mezzo  alla  Toscana;  (^) 

e  finalmente  nn  Rispetto  toscano: 

Bella,  che  sei  di  Napoli  padrona.... 
Nata  a  Firenze,  allevata  in  Verona, 
E  battezzata  a  una  cliiara  fontana; 
A  una  chiara  fontana  battezzata. 
Nata  a  Firenze,  in  Verona  allevata   (^) 

Altrettanto  può  dirsi  di  qnesti  Canti,  che  in 
ogni  parte  d'Italia  appariscono,  ma  de'  qnali  è  in- 
certa la  vera  patria  e  il  fonte  battesimale:  che  sem- 
brano cittadini  d'ogni  città,  e  in  nessnna  stabilmente 
dimorano:  siciliani  ad  nn  tempo  e  toscani,  napole- 
tani e  veneti,  veronesi  e  genovesi  :  ma,  ad  ogni  modo, 
essenzialmente  italiani.  La  cìiiara  foniana  alla  qnale 
furono  battezzati,  e  di  che  parla  il  Rispetto,  è,  nel 
caso  nostro,  quell'onda  sotterranea,  sempre  fresca 
e  vivace,  che  scorre  da  un  capo  all'altro  della  Pe- 
nisola; è  quella  misteriosa  Aretusa,  che  sgorga  nel- 
l'Isola ed  attraversa  lo  stretto,  e  nella  quale  fa  suo 
lavacro  la  Musa  del  popolo:  e  quando  n'esce  fuori. 


(1)  Imbriani,  C.  pnpoì.  prnr.  nieridion.,  1,  06.  Cfr.  .TiK-he  H,  150;  De 
Nino,  p.  2.3;  Fbkraro.  Cpopol.  monferr.,  Stramb..  n.  13;  MAitcoALur.  C.po- 
X>ol.  liguri,  li.  54. 

{-)  Maesii.tant,  11.  .30. 

(3)  Tigri,  ii.  70.  Cfr.  ii.  C9  ;  Maiìcoaldi,  C.  popul.  umbri,  ii.  58;  Ca- 
LIAEI,  p.   157. 


LA  POESIA   POPOLARE    ITALIANA.  323 

le  stille  che  le  cadono  ai  piedi  sono  come  dolce 
pioggia  di  perle  e  di  rubini,  sciutilìanti  a'  vividi 
raggi  del  sole  d'Italia. 

Ma  a  noi,  dopo  aver  notato  e  provato  la  iden- 
tità del  Canto  popolare  nelle  diverse  parti  della 
Penisola,  giova  indagare  qual  è  veramente  il  suo 
luogo  d'origine,  e  come  e  quando  e  in  qual  forma 
siasi  sparso  in  ogni  provincia,  e  cosi  abbia  in  ogni 
provincia  posto  radice,  da  parervi  fiore  nativo. 

Noi  crediamo,  e  il  lettore  cortese  ed  attento  deve 
aver  già  più  volte  intraveduto  quel  che  diremo,  che 
il  Canto  popolare  italiano  sia  nativo  di  Sicilia.  (^) 
Né  con  questo  intendiamo  asserire  che  le  plebi  delle 
altre  provincie  sieno  prive  di  poetica  facoltà,  e  che 
non  vi  sieno  poesie  popolari  sorte  in  altre  regioni 
italiane,  ed  ivi  cresciute  e  di  là  anche  diramate  at- 
torno. Ma  crediamo  che,  nella  maggior  parte  de'  casi, 
il  Canto  abbia  per  patria  di  origine  l'Isola,  e  per  pa- 
tria di  adozione  la  Toscana:  che,  nato  con  veste  di 


(1)  Carlo  Tenca,  in  un  suo  bell'articolo  sulla  pubblicazione  dei  Canti 
popolavi  toscani  del  Tigri,  già  inserito  nel  Crepuscolo  dell'Aprile  e  Mag- 
gio 1857.  e  ora  riprodotto  nelle  sue  Prose  e  Poesie  (il.  240^,  aveva  toccato 
già  di  questa  ipotesi  della  derivazione  dalla  Sicilia,  e  addotto  per  esempio 
il  Rispetto  della  Campania  :  Cupido  cTte  slei  giudice  d'Amore,  ponendolo  a 
confronto  con  uno  siciliano,  die  vi  aggiunge  due  versi  come  risoluzione 
del  dubbio  amoroso  esposto  nei  primi  quattro,  e  ritrovando  nel  componi- 
mento una  specie  di  temone,  che  ai  siciliani  avrebbe  potuto  venire  dalla 
poesia  provenzale.  Vide  egli  adunque,  l'acuto  critico,  l'importanza  della 
ricerca  e  ne  intravide  la  soluzione,  ma  con  scarsa  copia  di  prove  :  senza 
che  poi,  la  tenzone  su  casistica  amorosa  è  essenzialmente  propria  della 
poesia  cortigiana.  E  il  dire,  com'egli  dice,  elie  '  la  poesia  dei  trovatori  può 
aver  dato  ai  Rispetti  il  tema  e  quasi  diremmo  l'intonazione,  la  nota  fon- 
damentale del  canto  ,,  ci  par  che  confonda,  anzi  che  schiarire  il  difficile 
problema.  Ad  ogni  modo,  per  via  non  diritta  e  con  deduzioni  storiche  non 
esatte,  egli  giunge  alla  conclusione  che  la  culla  del  Rispetto  più  che  in 
Toscana,  ha  da  rinvenirsi  nel  volgo  siciliano  (p.  209);  e  in  ciò  consentiamo. 
Dobbiamo  però  aggiungere  che  l'articolo  del  Tenca,  in  che  si  rinvengono 
queste  divinazioni,  lo  abbiamo  letto  soltanto  nella  raccolta  dei  suoi  scritti 
fatta  dal  Massarani  (Milano.  Hoepli,  1S88)  e  che  alla  stessa  conclusione  ci  ha 
condotto  soltanto  un  ampio  studio  comparativo  dei  canti  popolari  italiani. 


324  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

dialetto  in  Sicilia,  in  Toscana  abbia  assunto  forma 
illustre  e  comune,  e  con  siffatta  veste  novella  sia 
migrato  nelle  altre  provincie.  Però  se  questo  è  il 
caso  più  generale,  esso  non  esclude  punto  le  ecce- 
zioni. Abbiamo  visto  che  di  taluni  Canti,  diffusi  in 
molte  parti  d'Italia,  manca  il  corrispondente  siculo: 
se  non  clie,  prima  di  sentenziare  ricisamente  che 
una  lezione  insulare  primitiva  non  sia  mai  esistita, 
può  dubitarsi  che  sia  o  del  tutto  perduta,  o  soltanto 
smarrita.  Medesimamente  abbiamo  visto  che  parec- 
chi Canti  qua  e  là  sparsi  per  varie  regioni  non  tro- 
vano ninna  rispondenza  fra'  toscani  ;  e  anche  qui 
può  ripetersi  lo  stesso  dubbio;  ma,  dato  l'impulso, 
può  ben  ammettersi,  che  e  in  Toscana  sieno  nati 
Canti  senza  anteriore  esemplare  siciliano,  e  altrove 
ne  sieno  germogliati  senza  particolar  prototipo  to- 
scano. E  neanche  negheremmo  che,  ad  un  dato  mo- 
mento, il  corso  regolare  della  trasmissione  non  possa 
essersi  rimutato,  avvenendo  un  rimescolamento  di 
Canti  d'ogni  regione,  coììie  di  rena  quando  a  turbo 
spira.  (')  Questo,  però,  ripetiamo  che  la  maggior 
parte  dei  Canti  popolari  è  evidentemente  nata  nel- 
l'Isola, e  poi  venuta  su  su,  più  o  meno  moditican- 
dosi  per  via,  finché  giunta  nel  mezzo  d'Italia,  ha 
spogliato  la  veste  originaria,  O  e  per  l'efficacia  della 
nuova  forma  toscana,  così  simile  al  linguaggio  co- 


(1)  Qualclie  esempio  di  Canti  originariamente  napoletani  in  Sicilia 
nota  anche  il  Vigo:  ad  esempio  n.  566  (Vtirria  fari  'na  casa  'mmemu  mari); 
e  vedi  anche  nel  PrrBÈ,  SliulJ  ecc.,  p.  287  e  segg.  rarticolo:  Canti  popol. 
non  siriliani  in  Sicilia.  Tuttavia  (>  da  notarsi  che  del  Canto  che  ambedue 
registrano  come  napoletano,  il  Salomone-Maeino,  n.  527  in  nota,  offre  una 
lezione  siciliana:  forse  però  derivata  e  secondaria. 

(-)  Forse  nel  lo  invece  dell' i7  dinanzi  a  parola,  la  quale  cominci  per 
consonante  che  non  sia  s  impura,  e  che  è  cos'i  frequente  nei  canti  popolari 
(lo  mio  amore,  lo  mio  damo  ecc.)  può  rinvenirsi  con  segno  originario  del 
Volgare  siciliano,  in  che  lu  è  unica  forma  dell'articolo  di  genere  mascliile. 


LA   POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  325 

mune,  ha  raggiato  all' intorno.  E  se  nelle  Marche, 
nel  Lazio,  nell'Umbria  si  trovano  Canti,  ne' quali 
parrebbe  di  prima  mano  il  vernacolo  locale  essersi 
sostituito  al  nativo,  molti  più  ve  n'ha  che  mostrano 
venire  piuttosto  dal  centro,  che  dall'estremo  raggio 
della  circonferenza.  Essi  in  certo  modo  sarebbero 
tornati  un  po'  addietro  dopo  essere  andati  avanti  : 
ma  quanto  alle  regioni  di  là  dal  Po  e  dall'Appen- 
nino è  chiaro,  per  quello  che  abbiamo  mostrato,  che 
il  più  dei  Canti  abbiano  passato  il  fiume,  il  monte 
e  il  mare  partendo  dalla  Toscana,  e  conservandone 
al  possibile  la  forma  del  linguaggio.  Quel  poco  di 
nuovo  che  ivi  si  produce,  tiene  tuttavia  lo  stampo 
aulico  e  toscano:  anzi,  ed  è  ben  notevole,  il  dialetto 
del  luogo  in  niuna  manifestazione  dello  spirito  po- 
polare meno  apparisce,  che  in  questi  che  se  ne  direb- 
bero spontanei  prodotti.  Anche  allorquando  predo- 
minano le  flessioni  del  dialetto  ne'  vocaboli,  ad  altro 
tipo  rispondono  il  giro  della  frase  e  la  struttura  del 
verso.  Potrebbesi  dubitare  che  ciò  derivasse  da  uno 
sforzo  di  riaccostare  la  forma  poetica  del  popolar  sen- 
timento alle  sembianze  proprie  della  poesia  dell'arte, 
se  qui  non  fosse  da  riconoscere  piuttosto  l'efficacia 
del  primo  esempio.  Le  fogge  del  parlar  comune  pre- 
valgono, perchè,  quando  l'origine  non  è  letteraria  e 
scritta,  i  Canti  sono  stati  oralmente  dedotti  dalla 
Toscana;  e  anche  lo  stampo  dei  nuovi  è  sempre  to- 
scano. E  se  sulla  riva  del  Po,  secondo  ne  avverte 
il  Ferrare,  (^)  questi  Canti  diconsi  Eomanelle,  non 
l'idioma  romano  vi  predomina,  sì  il  toscano;  e  tal 
denominazione  si  direbbe  null'altro  indicare  salvo  la 
notizia  confusa  dell'origine  da  altra  regione  posta  al 


(5;  e.  popol.  di  Ferrara,  Cento  e  Pontelagoscuro,  p.  10. 


326  LA   POESIA    POPOLARE   ITALIANA. 

meriggio,  e  con  quel  vocabolo  essersi  voluta  deno- 
tare soltanto,  per  la  menzione  di  Roma,  l'eccellenza 
della  forma  idiomatica. 

Ben  è  chiaro  certamente,  che  ai  Canti  privi  di 
rispondenza  in  altri  dialetti,  o  che  la  trovano  sol- 
tanto in  qualche  provincia  contermine,  non  è  da  pen- 
sare, anche  perchè  sono  la  minor  parte;  ma  bisogna 
trattare  e  risolvere  la  questione  rispetto  a  quei  mol- 
tissimi, dei  quali  abbiam  dato  solo  un  saggio,  che 
trovansi  diffusi  quasi  in  ogni  regione  d'Italia,  e 
hanno  forma  in  quasi  ogni  dialetto.  A  nessuno  po- 
trà mai  venir  in  capo,  dopo  le  prove  molteplici  da 
noi  addotte,  ch'e'  sien  nati  isolatamente,  spontanea- 
mente, pur  avendo  identiche  sembianze  dappertutto, 
né  altro  essere  le  differenze  se  non  modificazioni 
naturalmente  indotte  dal  passaggio  di  bocca  in  bocca 
e  di  paese  in  paese.  Or  noi  abbiamo  visto,  che  nella 
maggior  parte  de'  casi,  la  Sicilia  porta  innanzi  il  suo 
Canto,  al  quale  gli  altri  tutti  si  ragguagliano  diret- 
tamente 0  indirettamente,  e  che  esso  è  quasi  sempre 
privo  di  quelle  imperfezioni  nelle  rime,  che  altrove 
si  riscontrano,  e  meglio  dedotto  ed  unito  nelle  sue 
parti.  Senza  che,  se  modica  è  la  mèsse  dei  Canti 
popolari  nelle  provincie  superiori  della  Penisola  e  se 
ormai  può  dirsi  esaurita  in  Toscana,  via  via  aumenta 
avvicinandosi  all'Isola:  e  nell'Isola  i  raccoglitori, 
sol  che  vogliano,  hanno  sempre  le  pugna  piene  di 
nuovi  manipoli.  Le  condizioni  particolari  della  ci- 
viltà e  della  cultura  popolare  in  Sicilia  fanno  si  che 
la  produzione  del  Canto  vi  sia  sempre  in  fiore,  e 
gagliardissima  e  perenne  la  vena  poetica;  la  quale 
non  potrebbe  certamente  dirsi  essiccata  neanche 
nelle  provincie  peninsulari  del  mezzodì.  Ma  in  que- 
ste continui  sono  i  contatti  coli' Isola,  e  2;ià  antico 


LA    POESIA   POPOLARE   ITALIAXA.  327 

il  predominio  del  Canto  che  indi  proviene.  Né  è 
da  tacersi  che  ivi,  nelle  città  almeno,  la  melodia 
colla  novità  e  feracità  sua  tiene  in  bilancia  la  poesia, 
che  di  preferenza  si  manifesta  in  quelle  Ariette,  (^) 
le  quali  hanno  già  troppo  sentore  d'arte,  e  in  che 
il  motivo  musicale  è  da  piìi  del  poetico,  (')  Venendo 
poi  più  su,  s'incontrano  volghi  di  maggior  cultura, 
ne'  quali  la  forza  poetica  è  quasi  spenta  o  si  estrin- 
seca ormai  soltanto  in  improvvisazioni  sgarbate,  se 
non  in  semplici  rimpasti  dell'antico  tesoro  di  Canti; 
quasi  spiantati  nepoti  che  campino  sul  patrimonio 
degli  avi,  disperdendolo  e  sciupandolo.  E  chi  salisse 
ancor  piti  su,  ai  paesi  di  popolazione  celto-romana, 
troverebbe  la  strofa  sicula  scarsa  in  numero,  dimez- 
zata di  corpo,  mista  e  divisata  nel  linguaggio.  Ivi 
la  poesia  indigena  e  tradizionale  ha  relazione  non 
col  mezzogiorno  d'Italia,  ma  con  altre  popolazioni 
ed  altri  idiomi,  stendendosi  alla  Provenza,  alla  Fran- 
cia, alla  Catalogna,  al  Portogallo.  (^)  Invece  nel  ter- 
ritorio veneto,  per  conformità  di  razza  e  d'idioma, 
il  Canto  siciliano  si  è  diffuso  nella  forma  secondaria 


(1)  Sugli  Afii  o  Arietti,  non  molto  comuni  in  Sicili.a,  e  ivi  pure  di 
origine  letteraria  o  semiletteraria,  vedi  il  Pitrè,  C.  popol.  sicil.,  I,  34,  e 
gli  esempj  nel  voi.  U.  pp.  81-109. 

(2)  Fin  dal  secolo  XVI  e  XVII  erano  celebri  queste  Canzonette  del 
niezzod"!  d'Italia,  di  alcune  delle  quali  daremo  più  oltre  maggiori  indica- 
zioni, e  che  col  nome  di  Villanelle  o  di  Napoletane  o  di  Siciliane  si  span- 
devano per  tutta  la  Penisola.  Il  Costo  nel  suo  Fuggilozio  (v.  Ijibriani, 
C.  popol.  prov.  niericlion.,  II,  438),  le  cliiama  Napoletane:  il  Malispini 
fv.  Imbriani,  ihid.,  I,  56),  due  volte  le  dice  Napoletane,  una  volta  Siciliane. 
Più  costante  è  dunque  la  denominazione  di  Napoletane;  e  certo  è  soltanto 
che  venivano  dal  mezzodì.  Avverti  che  il  Malispini  qui  citato  è  il  novel- 
liere del  sec.  XVI,  non  il  dubbio  cronista  del  XIV,  come  sembrerebbe  cre- 
dere il  PiTRÈ,  Stìidj  ecc.,  p.  46.  —  Per  le  varie  raccolte  di  Napolitane, 
V.  Rossi,  Lett.  del  Calmo,  6,  394,  423,  426,  432.  Nella  mia  raccolta,  ho  un 
Giardino  di  Villanelle  napolitane  nuovamente  poste  in  luce  per  me  Paolo 
Ignaro  napolitano,  s.  n.  t.  —  P.er  quelle  accompagnate  da  musica,  che  del 
resto  sono  le  più,  vedi  la  Bibliothek  d.  gedruckten  Weltlichen  Vocalmusik 
Italiens  del  Vogel,  Berlin,  Haack,  1892. 

(3)  NiGKA,   p.    XXVII. 


328  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAXA. 

toscana,  servendo  di  modello  ad  altri  consimili  compo- 
nimenti poetici  ;  mentre  poi  una  piccola  gente,  chiusa 
nelle  Alpi  carniclie,  come  forma  gruppo  separato  nel 
parlare,  così  nei  suoi  Canti  serba  sembianze  proprie, 
e  fecondità  simile  a  quella  dell'estrema  Sicilia.  (') 

Lionardo  Vigo,  primo  e  benemerito  collettore 
dei  Canti  dell'Isola  nativa,  preludendo  alle  cinque 
migliaia  (")  di  Poesie  popolari  da  lui  pubblicate,  as- 
severa esserne  "  interminata  la  messe  ,,,  e  che  "  la 
prima  e  la  seconda  sua  collezione,  e  quelle  di  Salo- 
mone e  di  Pitrè  non  sono  un  vigesimo  di  quanto  se 
ne  può  adunare  „.  (^)  E  già  altri,  l'Avolio,  (*j  il  Gua- 
stella,  (°)  il  Cannizzaro,  (®)  hanno  fatto  o  preparano 
non  lievi  aggiunte  alla  ricchezza  messa  insieme  dal- 
l'operoso acitano.  Niun'altra  provincia  d'Italia  può 
neanche  per  questo  lato  stare  a  petto  dell'Isola,  dove 
la  produzione  del  Canto  popolare  è  antica,  continua, 
abbondante  ;  e  del  quale,  come  una  minima  parte 
soltanto  è  nota  per  le  stampe,  solo  una  minima  fra- 
zione ha  tragittato  lo  stretto.  Ivi  soltanto  sono  can- 
tori che,  componendo  di  vena  senza  cognizione  di 
lettere,  C)  sempre  rinnuovano  l'antico  repertorio  co- 


0)  Il  sig.  Akboit  (p.  9)  dice  esser  solo  una  terza  parte  della  sua 
raccolta,  il  migliajo  dei  Canti  friulani  ch'egli  ha  pubblicato.  E  larga  messe 
di  Villote  aggiunsero  poi  il  Gortani  e  il  Leicht,  ed  altri. 

(2)  La  somma  posta  in  fondo  al  voi.  porterebbe  alla  cifra  di  6068,  ma 
conviene  osservare  che  il  Vigo  ha  notato  progressivamente  tutte  le  ottave 
o  strofe  di  uno  stesso  componimento,  cosicché  effettivamente  si  passe- 
ranno di  poco  i  cinquemila,  oltreché  sono  da  togliersi  dal  novei'o  alcuni 
componimenti  non  popolari. 

(3)  Prefazione,  p.  88. 

(<)  I  Canti  dell'AvoLio  sono  656. 

(6)  Il  primo  voi.,  solo  uscito  finora  a  luce,  contiene  167  canti;  ma  è 
da  notare  che  la  Prefazione  occupa  gran  parte  del  volume  stesso,  cioè 
130  pagine. 

(<')  Da  gran  tempo  si  annunziano  di  questo  culto  poeta  due  volumi 
di  Canti  popolari  messinesi. 

(")   Varila  chi  scnzu  ch'appi  sin  viihlanii ! . . .  Xiin  appi  inga  e   niancii 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  329 

mune,  (^)  quando  invece  in  Toscana,  ad  esempio,  il 
più  valente  canterino  o  la  più  baliosa  canterina  del 
contado  è  quella  clie  sappia  maggior  numero  di 
versi  tradizionali  ;  e  la  nuova  ereazione,  come  già 
più  volte  notammo,  si  riduce  a  frapporre  o  intra- 
mettere,  o,  come  direbbero  i  drammaturghi  latini, 
a  contaminare  più  poesie  fra  loro,  e  dalle  mescliianze 
cavar  nuove  forme.  (") 

Al  prof.  Arboit  la  celebrata  Beatrice  di  Pian 
degli  Ontani  nella  montagna  pistoiese  dava  infatti 
per  suo  il  Rispetto: 

Bella,  bellina,  non  ti  par  peccato 

Rubare  un  cuore,  e  non  Io  render  mai,  (') 

e  l'altro: 

Se  gli  alberi  potesser  favellare. 

Le  foglie  che  c'èn  su  sarebber  lingue,  (*) 


calamaru   E  tutti  cosi  su  fatti  a  mmeinoria .' :  Guastella,  L'antico  Carne- 
vale nella  Contea  di  Modica,  Modica,  Secagno,  1877.  p.  65. 

(1)  Vedi  nella  prefazione  del  Vigo  il  §  X  sui  Ciechi  trovatori  e  Ku})- 
sodi,  p.  59;  negli  tS^Hrf/ del  Pitrè,  p.  81  e  seg.,  l'articolo:  I  Poeti  del  popolo 
siciliano,  e  nella  Prefazione  del  medesimo  ai  C.  popol.  sicil.,  I,  p.  40,  quello 
che  dice  dei  concorsi  poetici  di  Carini. 

(2)  Cfr.  ScHUCHARDT,  op.  cit.,  p.  114.  E  il  EuBiEEi,  p.  242:  "  Oggi  la 
vera  improvvisazione  è  assai  rara,  o  al  più  consiste  nel  dare  o  nuova  ap- 
plicazione o  diversa  forma  a  cose  ormai  vecchie  „.  E  altrove:  "Il  poeta 
popolare  fa  della  sua  memoria  un  universal  serbatoio  di  tanti  mescolati 
pezzetti,  tra  i  quali,  a  seconda  della  fantasia,  pesca,  sceglie,  innesta,  mo- 
difica quelli  che  gli  sembrano  piìi  acconci  a  formare  un  Rispetto  o  un  Di- 
spetto esprimente  l'idea,  e  per  lo  più  la  passione,  che  è  nell'animo  suo  ,. 
(p.  347).  E  anche  :  "  Nella  poesia  popolare  non  è  tutto  vecchio  ne  tutto  nuovo. 
non  tutto  inventato  ne  tutto  copiato,  non  tutto  improvviso  né  tutto  arti- 
ficiale; ma  mentre  sono  per  lo  più  vecchie  e  copiate  e  artificiali  le  parti 
separatamente  prese,  nuovo  e  inventato  e  improvviso  è  spesso  il  concetto 
che  ne  risulta,  considerato  nel  suo  tutto  „  (p.  407).  E  infine:  "La  miglior 
parte  e  la  più  legittima  della  poesia  popolare,  la  campestre,  sopravvive, 
ma  poco  o  punto  si  rinnova,  e  pub  considerarsi  ridotta  piuttosto  ad  un 
esercizio  di  memoria  e  di  passatempo,  che  ad  un  impeto  di  fantasia  e  di 
passione  „  (p.  680).  Vedi  anche  consimili  considerazioni  e  notizie  in  JVI.  Babbi, 
Poesia  popol.  pistoiese,  Firenze,  Carnesecchi,  1895,  p.  10  e  segg. 

(3)  Akboit,  p.  73. 

(1)  Id.,  p.  119.  Il  PiTEÈ,  Studj,  p.  87,  dice  che  i  poeti  del  popolo  "■  spesso 
non  si  fanno  scrupolo  di  dar  come  proprie  intere  ottave  tradizionali,.  E 


330  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

de'  quali  già  addietro  abbiam  discorso,  e  che  certa- 
mente sono  piti  antichi  della  vecchia  poetessa  mon- 
tanina. Ma  colla  mente  cosi  zeppa  di  versi,  e  pel 
continuo  rimescolarsi  ch'entro  vi  fanno  i  suoi  proprj 
con  quelli  degli  altri,  la  Beatrice  deve  aver  finito 
col  perdere  l'esatta  notizia  del  suo  e  del  non  suo, 
del  tradizionale  e  dello  spontaneo;  (^)  e  del  resto,  i 
Canti  sono  come  la  moneta,  eh' è  di  tutti,  ma  più  di 
chi  l'adopera  e  la  spende,  C)  All'udire  la  Beatrice 
ed  altre  sue  pari,  si  può  esclamare  come  il  Pietro 
della  Tancia  : 

Può  fare  il  cielo,  coni'ella  sta  in  tuono  ! 
Come  le  voci  ella  sa  ben  portare  ! 
Ma  que' Rispetti  detti  a  mente  sono; 
Credo  avergliene  uditi  già  cantare; 


a  p.  205:  "  M.  di  Martino  mi  mandò  come  composto  da  campagnolo  vi- 
vente in  Noto,  V.  Cilestri,  il  canto  che  si  sa  più  antico  del  Cilestii  :  Cc'è 
malata  una  bedda 'nfa  ati  parti . . .  E  il  canto  dianzi  citato  per  poesia  del 
Veneziano:  Bedda,  la  to  bidd.izza  mi  manteni,{n  mandato  al  Vigo  e  stam- 
pato da  lui  come  composizione  di  A.  Billecci  „. 

(ij  Vedi  in  tal  proposito  anche  M.  Barbi,  Poes.  popol.  pisi.  (Nozze 
Bacci-Del  Lungo),  p.  11-12.  —  Su  Beatrice  veggasi,  oltre  ciò  che  ne  scris- 
sero il  Tommaseo,  il  Giuliani,  lo  Zumbini  ed  altri,  A.  Chiappelli,  Una  pa- 
stora poetesifu ;  nel  centesimo  anno  dalla  sua  nascita,  Firenze.  Seeber,  1902. 

(2)  Il  prof.  Nanxakelli  credè  che  la  Teresa  di  Arlena,  dalla  quale 
ha  avuto  i  Canti  ch'egli  ha  stampato,  non  sia  semplice  "  ripetitrice  „  ma 
autrice  dei  Canti  stessi,  e  invoca  su  di  ciò  l'opinione  che  di  lei  si  ha  in 
Arlena  (p.  35).  Ma  parmi  che  la  maggior  parte  sieno  Canti  tradizionali  e 
assai  più  antichi  della  Teresa,  che  ci  è  descritta  come  donna  di  29  anni. 
Cos'i,  ad  esempio  il   Canto  : 

Dov'  è  tutto  quel  ben  che  mi  volevi. 
Dov'è  tutto  l'amor  che  mi  portavi  ecc. 

è  detto  esser  della  Teresa  (p.  64).  Ma  poiché  lo  trovo  anche  nei  Canti  vi- 
centini dell' Alveka  (n.  85): 

Dov'è  quel  tanto  ben  che  mi  volevi, 
E  qnele  carezine  che  me  favi  ecc.; 

e  l'opuscolo  dell'ALVEKÀ  è  del  1844,  risalendo  addietro  dal  1871,  data 
dell'opuscolo  del  Nannakelli,  si  dovrebbe  concludere  che  la  Teresa  com- 
ponesse il  Pispetto  all'età  di  duo  anni,  e  che  subito  esso  si  diffondesse  nel 

Veneto  1 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  331 

uè  va  creduto 

Ch'ella  gli  improvvisasse  per  di  buono.  (') 

Anche  noi  abbiamo  udito  improvvisatori  ed  improv- 
visatrici del  Contado  toscano  ;  ma  i  loro  canti  sono 
altra  cosa  dai  Rispetti,  i  quali  sin  dal  primo  aprirsi 
dell'anima  e  dell'intelletto,  sin  da  quando  la  me- 
moria ebbe  forza  recettiva,  furonvi  conservati  sen- 
z'accrescimento e  quasi  come  intangibile  deposito: 
e  sono,  perchè  tradizionali,  la  sola  cosa  buona  che 
esca  di  bocca  ai  presenti  poeti  campagnuoli. 

Se  il  lettor  nostro  fosse  così  persuaso  come  noi 
siamo,  di  quanto  sopra  dicemmo,  potrebbe  passarsi 
adesso  a  ricercare  il  tempo  in  che  i  Cauti  siciliani 
si  diffusero  nella  penisola,  le  vie  per  le  quali  vi  giun- 
sero, la  forma  che  avevano  quando  uscirono  dalla 
terra  nativa. 

Sarebbe  ridicolo  il  supporre  che  dovessero  es- 
serne usciti  tutti  in  una  sola  volta,  come  un  carico  di 
merci,  e  tutti  in  tempo  remoto,  quando  ai  dì  nostri 
e  sotto  i  nostri  occhi  vediamo  le  Ariette  napoletane 
una  dopo  l'altra  spargersi  in  un  momento  per  tutta 
Italia.  O  Ma  senza  negare  risolutamente  che  i  pro- 
dotti poetici  dei  cantori  siciliani  vengano  anche 
adesso  ad  accrescere  il  patrimonio  dei  cantori  pe- 
ninsulari, noi  crediamo  che,  quanto  agli  Strambotti, 
ciò  debba  al  presente  accadere  assai  di  rado  e  in 


(1)  Buonarroti,  Tancia,  att.  I,  se.  4. 

(-}  La  trasmissione  è  antica.  Da  un  cod.  scritto  verso  il  l-t'O  da  un 
fiorentino,  i  proif.  Novati  e  Pellegrini  (Nozze  Venturi-Fanzago,  Ancona, 
Morelli,  188-1)  trassero  e  pubblicarono  una  Canzone  siciliana,  una  calabrese, 
una  che  vien  dalla  Puglia.  Nella  raccolta  di  C.  Volpi,  Poesie popul.  ital.  del 
sec.  XV  (Verona,  Tedeschi,  1891)  si  trova  una  Canzona  calahi-ese  e  una 
siciliana.  Poesie  popolari  contiene  cxuel  codice  magliabechiano,  che  T.  Ca- 
sini chiamò  Canzoniere  popolare  ragionandone  nella  Rassegna  settimanale, 
Vn,  3,  13. 


332  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

scarsa  misura.  Altra  cosa  è  invece  per  le  Ariette  o 
Canzonette  del  mezzodì,  nelle  quali  le  parole  corrono 
dietro  al  motivo  musicale,  senza  il  cui  ajuto  proba- 
bilmente non  uscirebbero  donde  son  nate:  ma  per 
c|uel  cli'è  degli  Strambotti  non  ci  pare  che  da  un 
lustro  all'altro,  in  Toscana  almeno,  vi  sieno  notevoli 
accrescimenti  per  importazione  estrinseche. 

Resta  adunque  che  la  migrazione  sia  più  antica. 
E  noi  abbiamo  il  fatto  della  Serenata  del  Bronzino, 
che  ci  insegna  dover  essere  alcuni  Canti  siciliani  già 
arrivati  in  Toscana  prima  della  metà  del  cinque- 
cento. Ed  anteriormente  abbiamo  il  Poliziano  ed 
altri,  che  evidentemente  appellano  ad  una  forma  non 
dissìmile  da  quella  menzionata  un  secol  dopo  dal 
Bronzino,  già  largamente  diffusa  nel  popolo,  e  non 
ignota  ai  più  culti.  Crediamo  perciò  che  debbasi  ri- 
salire più  addietro,  e  congiungere  fors'anco  il  fatto 
con  altra  migrazione  poetica  dall'isola  al  continente. 

E  generalmente  noto  che  alla  Corte  di  Fede- 
rigo II  e  di  Manfredi  si  poetò  d'amore  in  volgare 
seguendo  l'esempio  e  le  forme  dei  trovatori  proven- 
zali; ma  checché  ne  dicano  il  Perticari  e  certi  suoi 
antichi  e  nuovi  seguaci,  la  lingua  adoperata  nelle 
rime  del  secolo  XIII  altro  non  fu  se  non  l'idioma 
nativo  degli  autori  di  quelle.  Né  altro  potevano 
usarne;  se  anche  cercassero  di  ripulirlo  ed  ador- 
narlo, non  già  a  ragguaglio  di  altro  idioma  italico, 
ma  secondo  una  capacità  sua  propria  di  perfezione, 
e  al  possibile  avvicinandolo  al  provenzale,  donde 
traevano  e  voci  e  desinenze  e  frasi  ed  immagini. 
Quanta  fosse  la  celebrità  di  questa  scuola  poetica, 
che  sorgeva  col  merito  di  esser  prima,  irradiata  dalla 
luce  che  su  di  lei  riflettevano  i  Trovatori,  accom- 
pagnata da'  trionfi  del  ghibellinismo,  e  sorretta  dalla 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  333 

potenza  degli  Svevi,  si  vede,  non  foss'altro,  dalla 
pi'ofezia  di  Dante:  che,  cioè,  alla  poesia  volgare  ri- 
marrebbe l'epiteto  di  Siciliana,  né  i  posteri  avreb- 
bero potuto  mutarlo.  O  Per  tutta  Italia  si  cominciò 
allora  a  rimare  sull'esempio  di  Federigo  e  de'  suoi 
cortigiani;  e  quando  in  Bologna  ed  in  Firenze  sor- 
sero altre  e  diverse  fogge  di  poesia,  al  nascer  di 
queste  fu  impulso  efficace  non  solo  la  civiltà  o  cul- 
tura propria  di  quei  Comuni,  ma  anche  l'esempio  che 
veniva  giìi  dal  fondo  della  Penisola.  I  poeti  siciliani 
e  pugliesi  furono  riveriti  come  precursori,  anche  da 
coloro  che  ne  disertarono  le  orme  :  e  Dante  che  ha 
severe  parole  pei  toscani,  come  Guittone,  Buona- 
giunta,  Mino  e  Gallo,  i  quali  servilmente  si  posero 
ad  imitare  quegli  imitatori  dei  Provenzali,  non  ha 
se  non  parole  di  encomio  per  Federigo,  per  Man- 
fredi, per  Guido  Giudice.  E  le  poesie  di  costoro  ven- 
nero festosamente  accolte  in  Toscana,  e  specialmente 
in  Firenze:  e  quando  cadde  la  potenza  sveva,  quando 
la  giojosa  corte  di  Manfredi  cedette  il  posto  a  quella 
tutta  militare  del  conquistatore  angioino,  che,  se- 
condo la  pittrice  frase  del  Villani,  quasi  non  ridea, 
se  «o/i  poco;  allora,  interrotto  il  lieto  corso  dell'arte 
erotico-cavalleresca,  si  spense  ogni  memoria  di  quelle 
rime  e  di  quei  rimatori  nella  terra  nativa,  e  invece 
le  une  e  gli  altri  ebber  dritto  di  cittadinanza  in  Fi- 
renze. Fin  da'  primi  anni  del  secolo  XIV  e  giù  giìi 
fino  all'età  del  Magnifico,  quando  a  lui  quelle  antiche 
rime  furono  dimandate  da  un  principe  napoletano, 
noi  troviamo  cotesto  poesie  copiate  in  Toscana  da 
Toscani  e  specie  da  Fiorentini  :  e  se  queste  raccolte 
non  fossero,  poco  o  nulla  sapremmo  di  quanto  venne 


(1)  De  VHÌg.  eloq.,  I,  12. 


334  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

composto  e  cantato  nelle  regali  residenze  del  mez- 
zodì. Ma  poicliè  siffatte  poesie,  entrando  a  far  parte 
del  patrimonio  poetico  Toscano,  dovetter  esser  can- 
tate e  lette,  a  poco  a  poco  andarono  smettendo  la 
loro  veste  primitiva,  per  assumere  altre  sembianze, 
proprie  al  paese  di  adozione.  Questo  toscaneggia- 
mento  trovava  naturalmente  ostacolo  nella  strut- 
tura delle  strofe  e  nelle  consonanze  finali  de'  versi: 
SI  che  spesso  l'una  e  l'altre  furono  alterate:  non 
però  tanto  che  l'occhio  esperto  non  possa  ancora  ri- 
trovarle sotto  al  posteriore  raffazzonamento,  come 
si  riconoscono  i  tratti  originali  di  un  quadro  sotto 
nn  mal  fatto  restauro.  Quando,  ad  esempio,  vediamo 
fra  loro  rispondere  in  fin  di  verso  amoroso  ed  uso, 
nutrisce  ed  accresce,  audivl  e  vive,  noi  pensiamo  fa- 
cilmente ad  un  amxtrusu  ed  iisu,  accrisci  e  vici,  che 
debbono  essere  spariti  nel  travestimento  toscano,  e 
che  è  facile  rimettere  al  posto  che  loro  spetta.  (^) 
La  cittadinanza  toscana  conferita  alle  poesie 
antiche  siciliane  nel  sec.  XIY,  si  agguaglia  al  tosca- 
neggiamento  che  abbiamo  veduto  essersi  fatto  anche 
rispetto  alle  poesie  popolari,  e  ci  riporta  all'età  stessa 
€  poco  appresso.  Lo  scambio  intellettuale  e  poetico 
tra  gli  ordini  culti  delle  due  provincie  e  per  la  poesia 
letteraria,  se  non  è  contemporaneo,  dovette  di  poco 
precedere  lo  stesso  scambio  fra  le  classi  piìi  umili 
€  per  la  poesia  dei  volghi.  In  questa  faccenda  noi 
dobbiamo  procedere  per  induzioni;  ma  se  hi  nuova 


(1)  Qnest.a  questione  ho  tratt.ita  più  diffusamente  nel  mio  L-ivoro  cri- 
tico su  Cielo  dal  Camo,  inserito  nelle  Anticìie  i-inie  roUiari,  secinuin  ìa  le- 
zione  del  cod,  vellicano  3793,  Bologna,  Romagnoli,  187.">,  voi.  I,  p.  288-295, 
e  poi  riprodotto  nel  voi.  SI udj  sulla  letter.  ital.  ne' primi  sec,  p.  295  e  segg. 
—  Vedi  a  questo  proposito  C.  Avolio,  La  qne^^tione  delle  rime  nei  poeti  si- 
<iliani  (ì(l  nei:  XIII,  in  Miscellanea  Caix-Canello,  p.  2.)7.  e  I.  Sanesi,  Il  to- 
■scaneggiaiìiento  della  poesia  siciliana,  in  Giorn.  stui:  leti.  iVmZ.,  XXXIV,  354. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  335 

veste  data  alle  poesie  illustri  evidentemente  appar- 
tiene allo  scorcio  del  Dugcnto  e  ai  primordj  del  se- 
colo successivo,  l'ugual  tramutamento  delle  poesie 
popolari  non  dovrebbe  esser  più  in  qua  del  mezzo 
del  secolo  XVI,  quando  certamente  esse  eran  già 
note  e  diffuse  in  Toscana. 

E  come  a  rincalzo  dei  fatti  già  addotti  com- 
mentando il  temale  del  Bronzino,  donde  rilevasi 
che  nel  Cinquecento  già  fra  noi  si  conoscevano  al- 
cuni Canti  Siciliani,  un  altro  qui  ne  soggiungiamo, 
che  ci  riconduce  alquanto  più  addietro,  e  perciò  fa 
assai  al  caso  nostro.  In  un  codice  conservato  nella 
Biblioteca  di  Modena  e  scritto  nel  1495,  leggesi  que- 
st'ottava: 

Come  ti  puote  uscire  dalla  mente, 
Come  non  ti  ricordi  più  di  mia? 
Come  non  pensi  quanto  dolcemente 
Son  state  mille  cose  fra  me  e  tia? 
Bastiti  l'alma  di  non  dirmi  niente, 
Quando  mi  vedi  afflitto  per  la  via? 
Se  me  '1  dicesse  tutta  umana  gente 
Che  non  m'amassi,  non  lo  crederla.  (^) 

Basterebber  la  quadrupla  alternazione  delle  due 
rime  e  le  forme  iiìia  e  tia  per  isvelare  una  primitiva 
origine  siciliana,  sotto  una  veste  nel  rimanente  to- 
scanizzata: ma  non  senza  ragione  il  Lizio-Bruno  ("') 
ha  fatto  notare  la  rispondenza  fra  questo  Bispetto 
e  un  Canto  siciliano,  il  quale  in  un  luogo  dice: 

Si'  barbara,  crudili  ed  incnstanti  ; 
Ccu  quali  cori  tu  lassasti  a  mia? 


(')  Pubblio,  dal  Cappelli,  Brillate,  Rispetti  d'amore  e  Poesie  varie 
tratte  da  cod.  musicali  dei  secoli  XIV,  XV  e  XVI,  Modena,  Cappelli,  1886. 
pag.  27. 

(-)   C-  X>opol.  Isol.  Eoi.,  p.  131. 


336  LA   POESIA   POPOLARE   ITALLIXA. 

e  anche: 

Ti  hi  scardasti  e  ti  nisciii  di  menti, 
Comu  un  jornu  t'amai  fida  e  distanti? 

E  altrove  in  altro  modo;  ma  mantenendo  sempre 
qualche  cosa,  specialmente  per  le  rime  in  ia  ed  in 
enti,  di  un  archetipo,  al  quale  recare  la  lezione  let- 
teraria e  insieme  la  popolare. 

Se  non  che,  ci  si  dirà,  in  qual  modo  le  poesie 
popolari  dell'Isola  poterono  giungere  in  Toscana? 
Le  relazioni  fra  popolo  e  popolo  della  Penisola  si 
sono  andate  per  modo  rallentando  in  questi  ultimi 
secoli  di  divisione,  di  servaggio,  di  inoperosità,  di 
letargo,  e  dal  secolo  XVI  in  poi  siamo  stati  tanto 
estranei  gli  uni  agli  altri,  e  il  muoversi,  e  il  cono- 
scere le  varie  regioni  del  nostro  paese  è  stata  im- 
presa così  ardua  e  rara,  ch'e'  ci  sembra  debba  esser 
sempre  stato  così,  anche  ne'  secoli  anteriori.  Nel 
1809  poteva  scrivere  il  Napione  che  "  in  Italia  di- 
stanti sono  i  paesi  vicini  „;  e,  fino  alla  metà  e  oltre 
del  secolo  XIX,  eran  più  prossimi  all'Italia  supe- 
riore e  centrale  la  Francia  e  l'Inghilterra,  che  non 
il  regno  di  Napoli.  Questo  un  tempo  non  era,  e  sin 
da  quando  si  destò  in  Italia  l'operosità  civile,  com- 
merciale ed  intellettuale,  fu  un  rimescolamento  con- 
tinuo di  idee  non  solo  e  di  prodotti,  ma  anche  di 
persone:  sicché  dal  secolo  XIII  al  XYI  si  può  dire 
che  non  vi  fosse  nativo  d'Italia  che  stesse  fermo  al 
suo  posto,  e  per  amore  o  per  forza  non  la  girasse 
per  lungo  e  per  largo.  Cominciata  la  tirannide,  nei 
personaggi  da  commedia  del  Cecchi  troviamo  chi, 
non  essendo  un  dappoco,  professa  e  si  vanta  di  non 
aver  mai  perso  di  vista  il  cupolone;  ma  anterior- 
mente, Messer  Nicla,  che  è  stato  sino  a  Prato  alla 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  337 

fiera,  anzi  sino  a  Pisa  e  a  Livorno  e  lia  visto  il 
mare,  è  personaggio  ridicolo,  del  quale  tutti  si  bur- 
lano. Qual  differenza  dai  tempi,  in  che  i  Fiorentini 
erano  il  quinto  elemento:  e  Dante  era  stato  per  le 
parti  quasi  tutte,  alle  quali  questa  lingua  si  stende, 
peregrino  ;  {^)  e  il  Petrarca  stava  in  moto  su  e  giù 
per  l'Italia,  anzi  pe '1  mondo;  e  il  Boccaccio,  nato 
in  Parigi,  amoreggiava  in  Napoli,  politicava  in  Avi- 
gnone, professava  in  Firenze,  villeggiava  in  Certaldo  ; 
e  Giovanni  Villani  governava  in  patria,  mercatava 
in  Fiandra,  e  a  Roma  concepiva  il  disegno  della  sua 
storia  I  Non  vi  era  uomo  operoso,  che,  almeno  una 
volta  in  vita  sua,  non  uscisse  dal  guscio,  o  per  ra- 
gione di  negozj  e  d'armi,  o  per  amministrare  la  cosa 
pubblica  qual  Potestà  o  Capitano,  o  per  studiare 
alle  Università  od  insegnarvi,  o  sbalestrato  dalle 
ire  di  parte  o  dalle  conquiste  o  ribellioni,  o  per 
semplice  vaghezza  di  nuove  cose  e  nuovi  costumi. 
Né  solo  Fiorentini,  ma  Genovesi  e  Veneziani  erano 
per  tutta  Italia,  anzi  per  tutto  il  mondo  :  e  per  ogni 
dove  eran  disseminati  i  Lucchesi,  che  più  di  molti 
altri  serbano  tuttavia  tale  usanza.  I  grossi  mercanti 
traevano  seco  i  più  umili  artieri,  per  piantare  qua 
e  là  le  industrie  della  seta  e  della  lana;  dalle  più 
lontane  provincie,  i  Santuarj  chiamavano  torme  di 
pellegrini  alle  feste  e  ai  perdoni;  correvano  soldati 
ove  fosse  preda  e  paga,  e  operaj  campagnuoli  alle 
mietiture  e  alle  vendemmie.  Altre  volte  erano  in- 
tere popolazioni,  che  cacciate  dalla  bufera  d'oltre- 
menti, a  frotte  a  frotte  fuggivano  lontano;  e  troppi 
esempj  ve  n'ha  senza  quello  del  sec.  XVII  narrato 
dal  Manzoni.  Fin  dal  1483  il  diarista  Landucci  ve- 


li, Convito,  I,  2. 
D'Ancona,  La  poesia  poj}.  Hai.  —  22 


838  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

deva  "  molte  famiglie  „  clie  la  guerra  e  la  fame  cac- 
ciava di  Lombardia:  "  passavano  e  andavano  in  quel 
di  Roma,  a  cinquanta  e  cento  per  volta,  intanto  che 
furono  parecchie  migliaia,  e  anche  per  la  Romagna 
ne  passava  assai  e  d'altri  paesi  :  dissesi  che  furono 
più  di  30  mila  persone  „:  ed  era  "  gran  compassione 
a  veder  passare  tanta  povertà,  con  un  asinuzzo,  colle 
loro  miserie  d'un  paioluzzo,  una  padella  e  simile  po- 
vertà, in  modo  che  facevano  lacrimare  chi  li  vedeva 
scalzi  e  ignudi  „.  (^)  I  grammatici  del  secolo  XY, 
come  i  letterati  del  successivo,  hanno  tutti  un  po' 
dello  zingaro,  e  vanno  qua  e  là,  tratti  dai  migliori 
stipendj,  ricercati  da  Principi  e  Repubbliche  come 
segretari  o  professori.  Le  provincie  inferiori  d'Ita- 
lia, O  separate  poi  dal  resto  della  Penisola  da  una 
muraglia  ad  uso  della  Cina,  erano  allora  apertissime: 
davano  e  ricevevano  ;  e  se  torme  di  genti  ne  esu- 
lavano per  le  frequenti  conquiste,  torme  di  genti 
vi  si  recavano  per  amor  di  guadagni.  Dei  casati 
pisani,  venuti  meno  in  patria,  gran  parte  si  ritrova 
anche  al  dì  d'oggi  in  Sicilia:  e  Ruggero  Settimo, 
per  dirne  uno,  era  di  pisana  discendenza:  che  fa- 
miglie di  qua  avevano  migrato  nell'Isola,  prima 
pe'  traffici,  poi  per  fuggire  la  soggezione  fiorentina. 
Tutti  si  movevano:  andavasi  per  mare  o  per  terra, 
a  piedi  0  a  cavallo,  a  dorso  di  muletto  o  colla  spe- 
ditezza del  cavallaro:  ma  si  viaggiava;  gli  individui, 
le  famiglie,  le   popolazioni   intere  si   tramutavano. 


(1)  Diario  fiorentino  dal  1450  al  lóJtì,  pubbl.  da  J.  Del  Badia,  Firenze. 
Sansoni,  1883,  p.  -16. 

{-)  Vedi  nel  Vigo  il  §  LVIII  contenente  i  Cauli  lombardi  di  S.  Fra- 
tello e  di  Piazza,  cioè  delle  Coionio  monferrine,  che  migrarono  nell'isola 
ai  tempi  normanni.  E  altrove,  n.  626,  riferendo  un  Canto  di  Novara  sicula, 
al  verso:  Ecri  dintra  di  mia,  evci  l'inferno,  annota:  "Ecco  un  altro  ita- 
lianismo. E  da  notare  come  i  popoli  lombardi  ancora  dopo  otto  secoli  por- 
tino vestigj  del  parlare  natio  ,. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAXA.  339 

s'incrociavano,  s'incontravano,  mescolandosi:  s'im- 
paravano i  varj  idiomi,  e  mentre  il  toscano  si  span- 
deva coll'efficacia  degli  esempj  letterarj,  degli  altri 
vernacoli  si  apprendevano  per  dimora  sui  luoghi  le 
forme  particolari. 

Non  è  quindi  da  far  meraviglia  se  diremo  aperte 
allora  tutte  le  vie  per  le  quali  i  Canti  del  volgo  di 
una  parte  d'Italia  potevansi  trasmettere  alle  altre. 
Li  imparava  il  toscano  che  soggiornava  in  Sicilia, 
e  poi  li  riportava  seco  in  patria,  come  memoria  de' 
giovani  anni  ;  (^)  li  portava  seco,  come  preziosa  e 
cara  suppellettile  domestica,  il  siciliano  che  abban- 
donava l'isola  natia:  il  cantore  girovago  li  diffon- 
deva per  tutte  le  città,  cantandoli  sulle  piazze.  Mille 
vie,  mille  modi  erano  pronti  alla  propagazione  loro: 
e  se  non  fosse  stato  altro,  questi  alati  prodotti  della 
fantasia  sarebbero  stati  recati  di  qua  dal  Faro  dal 
soffio  del  vento,  germogliando  coìne  gran  di  spelta 
dovunque  posassero:  dal  soffio,  dico,  di  vita,  di  opero- 
sità che  aleggiava  allora  su  tutta  la  Penisola,  prima 
che  v'incombesse  sopra  l'atmosfera  di  piombo  del- 
l'età dell'inquisizione  e  degli  Spagnuoli.  , 


X. 


Un  altro  quesito  resta  tuttavia  da  studiare;  (") 
rimane  da  sciogliere,  se  è  possibile,  uu  altro  groppo. 


(1)  Un  Giovanni  Alberto  Antognoli  lucchese  raccolse  poesie  siciliane 
nel  1631  stando  a  Messina,  e  le  trascrisse  in  un  eodicetto,  ora  posseduto 
dal  prof.  U.  A.  Amico,  che  dovrebbe  darne  ampia  notizia.  Altrettanto  fece 
un  Agostino  Cancellieri  pistoiese:  vedi  G.  Nerucci,  Mescolanza  ecc.  Pistoia, 
Fiori,  1905,  p.  5.  È  presumibile  che  prima  e  poi  altri  ancora  facessero  con- 
simili raccolte. 

(-;  Non  abbiamo  trattato  di  proposito  della  origine  e  significato  della 


340  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Ammessa  ia  identità  del  Canto  popolare  in  tutte  le 
Provincie  e  in  tutti  i  dialetti  d'Italia,  noi  troviamo, 
messe  da  parte  le  differenze  di  minor  conto,  tre  es- 
senziali tipi  di  strofa:  il  Siciliano,  il  Toscano,  e  quello 
dell'Italia  superiore.  Al  primo  consuonano  le  forme 
piìi  consuete  delle  provincie  meridionali  ;  al  secondo, 
quelle  umbre  e  marchigiane;  al  terzo,  le  emiliane, 
venete,  lombarde,  piemontesi  e  liguri.  La  poesia  po- 
polare del  Lazio  ci  presenta  indifferentemente  i  due 
primi  tipi.  Ciò,  s'intende,  in  regola  generale,  e  salvo 
le  eccezioni. 

Il  tipo,  adunque,  siciliano  sarebbe  la  strofa  di 
otto  versi;  (^)  il  tetrastico,  con  pili  o  men  lunga  ag- 
giunta, dà  proprio  carattere  alla  poesia  toscana;  e 
il  semplice  tetrastico  a  quella  della  terza  regione,  (^) 
Tali  sono  gli  schemi  piìi  costanti  della  metrica  po- 
polare nell'Italia  insulare  ed  inferiore,  nelhi,  media 
e  nella  settentrionale.  Le  altre  forme  sono  varie 
combinazioni  di  queste  tre,  e  su  di  esse  crediamo 


voce  Sti-an>botto,  clie,  come  è  noto,  ha  dato  origine  a  molte  e  varie  opinioni. 
In  argomento  cosi  discusso,  ci  pare  poterci  per  ora  accostare  alla  soluzione 
proposta  dal  Nigra,  C.  p.  Pieni.,  Prefaz.,  p.  xii,  secondo  la  quale,  prove- 
nendo daWestramps  provenzale,  Strambotto  non  significherebbe  però  verso 
non  appajato  col  rimanente  per  la  rima,  ma  strofa  a  sé.  non  legata  col  resto. 
11  diminutivo  Strambotto,  pur  derivando  dal  provenzale,  avrebbe  assunta  fra 
noi  diversa  appropriata  significazione,  come  il  diminutivo  Sonetto,  jtrove- 
niente  dalla  medesima  lingua,  designò  altra  cosa  che  il  Son.  "  L'appellativo 
che  in  Provenza,  ei  conchiude,  fu  applicato  al  verso,  in  Italia  si  applicò  alla 
strofa  „.  Su  questa  controversia  vedi  anche  T.  Ortolani,  Studio  riassnntiro 
sullo  Strambotto,  Feltre,  tipogr.  G.  Castoldi,  1896,  speei.almente  a  p.  24  e  segg., 
dove  è  riassunta  la  dottrina  del  Nigra,  son  ricordate  le  obiezioni  di  G.Paris, 
ed  esposte  le  proprie.  Questa  lis  è  sempre  sub  Jiidice. 

(1)  "  I  nostri  villani  dicono  che  la  Cnmuna  è  di  quattru  piedi,  che 
cos~i  chiamano  1  distici,  e  quando  non  ne  ricordano  qualcuno,  diranno: 
Manca  di  un  piede,  ma  V lio  dimenticato  ecc.  „  :  Guastella,  Prefaz.,  p.  cxxi, 

(2)  Avvertasi  però  che  parecchio  volte  nel  Veneto  il  tetrastico  è  di 
mera  apparenza,  non  altro  essendo  il  quarto  verso  se  non  ripetizione  esatta 
del  piimo:  v.  ad  es.  Bernoni,  punt.  I,  n.  14,  25,  53,  7tì,  78  ecc.  E  cos'i  anche 
nel  Piemonte:  v.  Ferraro,  C.  popol.  monferr.,  Stramb.  n.  24,  28,  92,  99.  Il 
che  è  riprova  che  la  forma  normale  ò  il  tetrastico,  se  ad  essa  vien  tratto, 
per  tal  modo  .allungandolo  e  compiendolo,  anclie  il  ternario. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  341 

inutile  fermarci,  tanto  più  che  lo  Schucliardt  e  il 
Nigra  lo  hanno  fatto  pazientemente  e  dottamente. 
Certo,  anche  in  Toscana  trovansi  ottave  perfette,  (^) 
che  però  spesso  sanno  di  letterario:  nel  Veneto  e 
in  Lombardia  si  rinvengono  tetrastici  colla  coda, 
all'uso  toscano:  0  nel  Napoletano  si  ha  l'uso  pro- 
miscuo di  varie  forme;  ma  nella  massima  parte  de' 
casi  le  diverse  fogge  metriche  rispondono  all'accen- 
nata distribuzione  topografica.  Degno  è  invece  di 
nota,  che  la  ripresa  toscana  non  apparisca  mai  nei 
Canti  siciliani,  (^)  e  raramente  nei  Napoletani.  (*) 

Studiamo  più  attentamente  lo  schema  di  queste 
tre  forme  principali.  La  strofa  siciliana  è  composta 
di  otto  versi  con  sole  due  rime,  che  quattro  volte 
si  alternano,  mancando  così  della  chiusa  propria  al- 
l'ottava letteraria.  Un  suo  quasi  costante  carattere 
è  l'uso  di  quella  che  il  Nigra  chiama  consonanza 
atona,  la  quale  colla  diversità  della  vocale  tonica 
finale  produce  una  particolare  omofonia,  che  potrebbe 
dirsi  dissonante  o  di  contrasto  (ad  es.:  uri,  ari;  iti, 
ati;  aru,  ari;  uri,  ari;  utu,  atu ;  aìiza,  enza ;  isti,  asti; 


(1)  Tigri,  ii.  133,  177,  346,  360,  562,  C50,  682,  691,  859,  993,  1132  ecc. 
Ma  ili  questi  casi  si  riconosce,  mal  dissimulata,  la  derivazione  letteraria. 
E  così  dicasi  delle  sestine  perfette:  ad  esempio  i  n.  461,  493,  519,  1138  ecc. 

(2)  Ad  esempio,  Beknoni,  punt.  I,  51  ;  VI,  22,  50  ;  VII,  41  ;  X,  28, 
86  ecc.;  Dal  Medico,  p.  29,  48,  52,  54,  55  ecc.;  Righi,  n.  60,  72,  73,  79  ecc.: 
AlverÀ,  n.  7,  8,  12,  15,  18,  21,  22,  23  ecc.;  Makcoaldi,  C.  popol.  liguri, 
11.  1,  24  ecc. 

(3)  Il  Salomone  Marino,  Baronessa  di  Carini,  p.  103,  sostiene  contro 
il  Vigo  che  le  ottave  caudate  sono  cosa  siciliana;  il  clie  può  esser  vero 
per  quel  che  spetta  alla  poesia  narrativa,  o  Storii  (v.  ad  es.  Pitrè,  C.  po- 
poK  siciL,  II,  265  ecc.),  non  alla  lirica.  Che  se  alle  poesie  non  narrative  è 
talvolta  aggiunto  un  seguito  di  due  o  più  distici,  manca  la  ripresa,  cioè 
lo  svolgimento  ampliato,  la  ripetizione  con  cangiamento  di  luogo  delle 
parole  dell'  ultimo  verso,  come  si  usa  in  Toscana.  Nella  raccolta  del  Vigo 
trovo  un  esempio  di  ripresa  (n.  12),  ma  l'alternazione  delle  rime  continua 
sino  a  sei  volte,  sicché  non  c'è  da  far  ragguaglio  col  Rispetto  toscano,  dove 
questa  coda  è  composta  di  distici  a  rima  baciata. 

(■1)  Imbriani,  C.  popol.  prov.  merid.,vo\.  I,  pag.  277;  II,  40,  49,  59,  79, 
127,  146,  237,  245,  250,  291,  317,  320,  425. 


342  LA  POESIA  POPOLARE  ITALU.NA. 

azzu,  izzu  ecc.).  Talvolta  anche  si  hanno  quelle  che 
i  trattatisti  chiamano  ottave  incatenate,  O  nelle 
quali  ogni  verso  comincia  coli' ultima  parola  dell'an- 
tecedente: (")  ma  questo  è  sfoggio  artificioso,  e  quasi 
vaghezza  della  Musa  popolare  di  superare  quelle 
difficoltà,  che  a  sé  stessa  pone  la  Musa  dotta. 

Il  tipo  del  Canto  settentrionale  corrisponde  a 
quello  della  prima  metà  del  siciliano  :  è  una  quartina 
nella  quale  rimano  fra  loro  il  primo  verso  ed  il  terzo, 
il  secondo  col  quarto.  Generalmente,  per  una  specie 
di  logoro,  addotto  dagli  anni  o  dalla  tradizione  orale, 
per  necessità  di  rima  o  di  travestimento  idiomatico, 
la  consonanza  atona  è  sparita  anche  in  quei  casi, 
ne'  quali  indubbiamente  v'è  corrispondenza  fra  due 
lezioni,  anzi  derivazione  certa  dell'  una  dall'altra  che 
la  possiede. 

La  stessa  organica  struttura  avrebbe  il  Canto 
toscano,  se  al  tetrastico  non  solesse  appiccare  una 
coda,  di  maggiore  o  minor  lunghezza.  Questa  però 
non  è  arbitraria  e  indipendente:  non  contiene  altri 
sensi,  0  liberi  ampliamenti  del  già  espresso:  ma,  in- 
tanto che  per  nuova  ragione  di  desinenze  e  nuovo 
annodamento  ritmico  si  scioglie  dal  tetrastico,  vi 
resta  in  ciò  connessa,  che  l'aggiunta  riprende  e 
svolge  novamente  e  variamente   un   concetto,   una 


(1,  QuAr>Rio,  St.  e  liagion.  ecc.,  I,  232. 

2)  Vedine  esempj  in  Vigo,  n.  732,  2360,  3006,  3014,  3111  ecc.  Re  ne 
trovano  esempj  frequenti  anche  negli  eleganti  strambottisti  del  Quattro- 
cento; e  valga  per  tutti  questo  di  Serafino  Aquilano: 

Volgi  gli  ocelli  pietosi  a'  miei  martire, 
Martir,  clie  per  te  porto,  o  car  Signore: 
Signor  dello  cor  mio  sino  al  morire. 
Morir  non  curerìa  per  vostro  amore, 
Amor  mi  ha  dato  e  insegnami  a  fuggire, 
Fuggir  non  ho  possuto  al  gran  dolore, 
Dolore  allo  cor  mio,  ch'io  sento  forte: 
Porto  per  te,  Signor,  domando  morte. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  343 

immagine,  ima  frase,  una  parola  dell' ultimo  verso, 
o  al  più  del  penultimo,  e  muta  soltanto  la  colloca- 
zione delle  voci:  né  questa  ripetizione  si  ferma  quasi 
mai  ad  un  solo  ritorno,  ma  va  anche  più  oltre,  seb- 
bene comunemente  si  contenti  di  due  volte.  Questa 
aggiunta,  che  noi  chiameremo  ripresa,  è  di  due  versi 
rimati  insieme,  e  la  rima  cangia  ad  ogni  distico. 

La  ripresa  è,  dunque,  forma  essenziale  e  carat- 
teristica del  Canto  popolare  toscano,  o  Rispetto:  (^) 
e  quando  si  rinviene  in  Canti  di  altre  regioni  si  può 
ben  dire  che  ciò  provi  derivazione  od  imitazione. 
Di  essa  può  trovarsi  qualche  imperfetta  immagine 
anche  nella  poesia  dell'arte,  alla  quale  probabilmente 
è  passata  pel  tramite  dei  Cantari  di  piazza,  e  certo 
è  forma  che  fa  molto  comodo  al  genere  narrativo. 
Lo  Schuchardt  (")  ne  ha  trovato  tracce  anche  nel- 
l'Ariosto, e  il  più  notevole  esempio  è  questo  : 

E  fa  crollar  si  il  mirto  ov'è  legato 
Che  delle  frondi  intorno  il  pie  gl'ingombra: 
Crollar  fa  il  mirto  e  fa  cader  la  foglia, 
Né  succede  però  che  se  ne  scioglia.  (^) 

Aggiungasi  quest'esempio  del  Bojardo: 

Cristiani  e  Saracin  fuggìan  smarriti, 
Come  fosser  quei  due  d'inferno  usciti. 
Siccome  due  demonj  dell'inferno 

Fossero  usciti  sopra  de  la  terra  ecc.  (■*) 


(1)  Il  CARDUf'Ci,  Stuclj  ìefterarii,  Livorno,  Vigo,  1874,  p.  418,  opina  clie 
la  ripresa  sia  venuta  al  Rispetto  toscano  dalle  coppie  finali  del  Madrigale. 
A  me  non  farebbe  serio  ostacolo  la  derivazione  da  una  forma  letteraria; 
ma  osservo  che  in  tal  caso  la  poesia  popolare  avrebbe  tolto  dalla  eulta 
soltanto  la  rima  accoppiata  o  baciata,  non  già  la  rijiresa,  cioè  la  ripetizione 
modificata  o  la  varia  collocazione  delle  ultime  parole  o  dell'ultima  im- 
magine, che  è  pur  la  cosa  più  caratteristica  del  Rispetto,  e  che  nel  Madri- 
gale non  v'è. 

(2)  Op.  cit.,  p.  120. 

(3)  Cant.  IV,  ott.  26. 

(4)  Ori.  innamor.,  II,  e.  14,  ott.  2-3. 


344  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

E  gran  numero  di  raffronti  ci  offrirebbero  gli  umili 
poemetti  popolari  del  Quattrocento.  Ma  qualche  cosa 
di  simile  ci  danno  anche  gli  Strambotti  letterarj  : 
questi,  ad  esempio,  del  Poliziano  : 

Ingrata,  se  tu  m'hai  furato  il  core, 

Non  sa'  tu  ben  che  render  te  '1  conviene? 
S'essere  isciolta  vuoi  del  tuo  errore, 
Rendimi  '1  cuore,  e  fa'mi  qualche  bene. 
Non  sa'  tu  che  t'è  infamia  e  disonore 
Tenere  il  servo  tuo  in  tante  pene? 
Rendimi  il  cuore,  e  non  mi  far  penare. 
Che  troppa  dura  cosa  è  l'aspettare.  (') 

Del  bel  campo  ch'arai  con  sudor  tanto 
Un  altro  ha  preso  le  ricolte  in  erba  : 
Della  vite  eh'  io  posi  all'alber  santo 
Un  altro  ha  vendemmiato  1'  uva  acerba  ; 
E  '1  frutto  eh'  io  ricolgo  è  doglia  e  pianto, 
Che  lo 'ngrato  terreno  al  cnltor  serba; 
Or  di  rabbia  si  strugge  '1  core  e  rode; 
Un  altro  ha  il  frutto  e  del  mio  stento  gode.  ('-) 

Tuttavia  ognun  vede  come  la  ripresa  popolare  non 
sia  la  stessa  cosa  di  questa  figura  di  ripetizione  ;  e 
come  ne'  due  esempj  del  Poliziano  manchi  la  imme- 
diata vicinanza  col  verso  da  rimutare. 

La  forza  della  consuetudine  è  tanta  nel  cantore 
toscano,  e  sì  caro  è  il  vezzo  della  ripresa,  ch'ei  l'ag- 
giunge anche  a  strofe  metricamente  perfette,  come 
a  questa  che  primitivamente  era  un'ottava  secondo 
le  norme  dell'arte: 

Non  so  se  fuori  sto,  se  dentro  torno, 
Sento  che  lo  mio  cor  brucia  e  dispera: 


0)  Ed.  cit.,  pag.  194. 

(2)  Ed.  cit.,  pag.  207.  È  con  lievi  varianti  lo  Strambotto  che  abbiamo 
riportato  qui  addietro  a  pag.  194  col  nome  dell'A^riLANO,  avvertendo  il 
frequente  scambio  dei  codici  e  delle  stampe  fr.a  i  comj)onimenti  di  questo 
autore  e  quelli  del  Poliziano. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  345 

A  tutte  l'ore  ho  l'assedio  d'intorno, 
Son  come  il  cacciator  con  cruda  fiera; 
0  mangi  o  beva,  o  sia  notte  o  sia  giorno, 
Sento  la  pena  mia  sempre  più  altera; 
Per  doglia  e  per  amor  son  qui  venuto, 
Non  son  dallo  mio  ben  riconosciuto; 

Per  doglia  e  per  amor  son  qui  arrivato, 
Mi  trovo  dal  mio  bene  abbandonato.  (') 

Ma  il  caso  più  singolare  è  quello  di  due  strofe 
di  dieci  versi  l'una,  che,  tratte  fuori  da  un  poema 
notissimo  al  volgo,  si  sono  indebitamente  introdotte 
nella  raccolta  del  Tigri,  (^)  a  far  serie  cogli  altri 
Rispetti  veri  e  proprj.  Appartengono  esse,  come  fu 
già  da  altri  avvertito,  (^)  al  poemetto  di  Paris  e 
Vienna,  e  sono  le  ottave  38"  e  39»  del  quinto  Canto: 

Parisse  per  volendosi  partire,  (*) 

E'  corse  Vienna  ad  abbracciarlo  stretto. 
Dicendo  :  Come  mai  potrò  soffrire 
Tanto  dolor  che  sì  m'affligge  il  petto  ? 
Meglio  che  adesso  non  potrei  morire. 
Che  mi  ritrovo  in  braccio  al  mio  diletto  ! 
Forse  che,  sposo,  non  ti  vedrò  pine! 
Morte,  fammi  morir,  che  aspetti  tue?  (^) 
Forse  che,  sposo,  non  ti  vedrò  presto  : 
Morte,  fammi  morir,  che  aspetti  adesso  ? 

Ditte  queste  parole,  andar  si  vede 
In  terra,  e  come  morta  s'abbandona  : 


(1)  Tigri,  n.  1159. 

{-)  Il  buon  Tigri  non  si  è  pur  neanche  avvisto  die  il  n.  956,  come  notò 
già  il  sig.  Stef.  Sindoni,  Sulla  jìoenia  popolare  italiana,  Treviso,  Friuli. 
1868,  pag.  19,  è,  malgrado  qualche  rima  di  semplice  assonanza,  un  Sonetto 
bell'e  buono. 

(3)  Imbriani,  Dell'Oì-ganisiìio  poetico  e  della  poesia  popolare  italiana, 
Napoli,  1866,  pag.  151. 

(4)  Se  il  Tigri  avesse  consultato  anche  la  più  dozziuale  ristampa  del 
poemetto  (io  mi  servo  in  fatti  di  una  edizione  in  carta  straccia,  di  Lucca, 
Baroni.  1858)  avrebbe  visto   che  invece  di  per  qui  dovevasi  mettere  poi. 

(5)  Varianti  della  stampa  citata:  v.  2:  Vienila  corse  —  4  che  mi  tra- 
fìgge —  5  Deh,  perchè  adesso  —  5  Ritrovandomi  —  7  S2JOSO  che  forse  non 
vedrò  mai  più  —  8  Amor. 


346  LA  POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

Più  nou  si  regge  la  meschina  in  piede 
E  da  sé  stessa  alla  terra  si  dona. 
Non  ode  0  pur  non  sente  ne  non  vede 
Qual  è  colui  che  per  pietà  la  sprona: 
Quando  si  pensa  esser  di  vita  priva, 
In  braccio  del  suo  amor  si  trovò  viva:  (') 

Quando  si  pensa  esser  di  vita  sciolta, 
In  braccio  del  suo  amor  si  trovò  tolta.  (^) 

Or  dunque,  se  il  passaggio  dei  Canti  di  regione 
in  regione  fu  quale  abbiamo  qui  dietro  descritto, 
dovrà  dirsi  che  l'ottava  sicula  giungesse  perfetta  in 
Toscana  e  fosse  smozzicata  dopo  il  tetrastico,  sosti- 
tuendovi la  ripresa,  e  che  poi,  passando  il  Po,  rima- 
nesse a  sua  volta  priva  dell'aggiunta  fattale,  tornando 
ad  un  semplice  quadernario  ?  A  noi  tutto  questo  la- 
voro di  scomposizione  e  ricomposizione  sembra,  a  dir 
vero,  un  po'  complicato.  Ammettiamo  che  nelle  tra- 
duzioni dal  siciliano  al  toscano  sparissero  il  più  delle 
volte  (^)  le  alterne  consonanze  afone,  per  la  ragione 
che  già  dicemmo  di  minor  vaghezza  di  tale  omofonia 
0  per  necessità  idiomatica;  ma  strano  è  che  di  ot- 
tave siciliane  un  solo  esempio  si  possa  osservare  fra 
i  Canti  toscani,  e  questo  di  probabile  derivazione 
letteraria  e  scritta.  {*) 


(1)  La  stampa:  v.  1.  Dette  —  b  E  pia  non  ode  non  parla  e  non  —  6  Chi 
sia  colili  che  sì  a  pietà  lo  —  1  Si  crede  al  tutto  —  8  E  in  braccio  del  suo 
ben  si  trova. 

(~)  Tigri,  n.  613.  Anche  nell'IvE.  p.Tg.  C2,  si  trova  un  frammento  di 
questo  Romanzo  popolare  : 

Se  ti  savissi,  Viena,  el  mio  dulure  ! 

di' i"  nel  pito  i' me  sento,  anema  mela; 
In  nel  pito  i'  me  sento  un  caro  afieto, 
Clic  ardo,  me  consoumo  doùta  vèia. 
(^1  Ma  non  di  rado  son  restate  :  v.  Tigri,  n.  28, 30,  43,  52,  70,  79,  88,  ecc. 
(<)  Giudiclii  il  lettore  : 

Per  confetti  m'hai  dato  il  sublimato, 
Pretendi  ch'io  lo  prenda  e  che  sia  quieto; 
II  magistrato  che  se  n'è  inquietato, 
Bandito  or  ha  per  te  questo  decreto. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  347 

Anche  è  degno  di  nota  che  dandosi  nei  Rispetti 
toscani  il  caso  di  consonanze  atone  alterne,  alla  si- 
ciliana, non  si  proceda,  salvo  rarissimi  casi,  (^)  oltre 
il  tetrastico.  O  Se  per  esempio,  il  siciliano  dice  : 

A  la  finestra  non  ti  cci  affacciavi, 
Ca  l'omini  di  pena  fai  murili  : 
Ssa  bruna  trizza  non  ti  la  'ntrizzari, 
Facci  'na  rrosa,  e  lassila  pinniri  ; 
Veni  In  ventu,  e  la  fa  spampinari, 
E  cchiu  di  l'oru  la  fa  straUicin  : 
Bedda.  quannu  t'affacci  e  sta'  a  filari, 
Cu  l'occhi  hi  to  amanti  ti  lu  tiri  ;  (^) 

il  toscano  si  contenta  di  cantare: 

Se  vuoi  vedere  il  tuo  servo  morire. 
Questi  capelli  non  te  li  arricciare. 
Giù  per  le  spalle  lasciategli  gire. 
Che  pajon  fila  d'oro  naturale:  (*) 

0,  se  vorrà  andar  più  innanzi,  ai  corrispondenti  versi 
siculi  sostituirà  la  solita  ripresa: 

Pajono  fila  d'oro,  oro  infilato: 

Son  belli  li  capelli,  e  chi  li  ha  in  capo  ; 

Pajono  fila  d'oro  e  seta  fina  : 

Son  belli  li  capelli  e  chi  li  striga.  (^) 


Pel  naso  non  son  stato  mai  menato, 

Manco  ho  bevnto  il  vino  per  aceto  ; 

O  campo,  che  da  me  sei  coltivato, 

Ti  vo'  cinto  di  gran,  non  di  canneto. 
Tigri,  n.  966:  ma  forse  è  unione  fortuita  di  due  diversi  tetrastici:  che  al 
primo  dovrebbe  seguire  il  tenore  del  decreto. 

(1.)  Esempj  di  tetrastici  con  consonanza  atona,  ma  seguiti  da  più  o 
men  lunga  ripresa,  v.  nel  Tigri  ai  n.  28,  29,  30,  43,  79,  142,  237,  286,  315, 
320,  330,  339,  348,  356.  395,  424,  437,  516,  532,  533,  576,  605,  619,  633,  651, 
690,  697,  748,  791,  792,  848,  909,  921,  926,  942,  1003,  1015,  1036,  1120,  1132  ecc. 
Altrove,  n.  196,  253,  345,  674,  721,  795,  1099,  1178  ecc.  Tassonanza  atona  dura 
per  un  esastico.  Altrove  ancora,  n.  254,  829  ecc.  dura  per  cinque  versi. 

{"-)  Vedi  ad  es.  Tigki,  n.  366,  525,  547,  648,  897,  1072,  1119  ecc.  che  sono 
meri  tetrastici  con  consonanza  atona  alterna. 

(3)  Vigo,  n.  428. 

(4)  Raccolta  della  stamperia  Gino,  e  Tommaseo,  pag.  78.  Altra  lezione 
pistojese  pur  di  quattro  versi,  ma  applicata  ad  uomo,  nel  Tommaseo,  p.  396. 

(5)  Tigri,  n.  122.  Vedi  una  lezione  alquanto  variata  in  Giuliani,  Mo- 


348  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Ne  meno  osservabile  si  è  che  le  lezioni  ultrapadane 
di  Rispetti  toscani  abbiano  ordinariamente  gettato 
via  la  ripresa  toscana,  conservandola  nel  minor  nu- 
mero de'  casi. 

Or  non  potrebbe  essere  che  i  Canti,  i  quali  si 
rinvengono  nell'Italia  settentrionale  senza  l'aggiun- 
zione toscana,  fossero  già  semplici  tetrastici  quando 
vi  giunsero,  e  gli  altri  colla  ripresa  rappresentassero 
una  posteriore  immissione?  E  non  potrebbe  anche 
essere  che  il  Canto  siciliano  arrivasse  in  Toscana, 
non  già  nella  sua  forma  presente  e  normale,  ma 
stretto  e  racchiuso  in  soli  quattro  versi,  i  quali  poi 
qua  ricevessero  l'ornamento  e  la  finitura  della  rima 
baciata,  (/)  e  in  Sicilia  l'appiccatura  del  secondo  qua- 
dernario? Sappiamo  bene  quanto  in  siffatta  materia 
debbasi  concedere  all'arbitrio  de'  cantori,  che  già 
fanno  assai  se  di  padre  in  figlio  e  di  secolo  in  secolo 
trasmettono  intatto  questo  lascito,  affidato  alla  sola 
memoria;  sappiamo  bene  che  abbiamo  dinnanzi  a 
noi  una  materia  scomposta,  e  quasi  diremmo,  inor- 
ganica, che  cangia  sempre  struttura  e  membra  per 
labilità  di  reminiscenze,  e  si  annoda  ed  ordina  va- 
riamente al  richiamo  di  una  immagine,  di  una  pa- 
rola, di  una  desinenza:  che  la  strofa  ora  è  ottava, 
ora  esastico,  ora  tetrastico,  ora  tristico,  or  distico, 
con  perpetua  vicenda,  secondo  luoghi  e  persone:  (-') 
che,  insomma,  il  sistema  della  metrica  popolare  ha 


ralità  e  Poesia,  ecc.,  pag.  244.  Cfr.  Marcoaldi,  C.  popol.  umbri,  n.  9,   199; 
Ferraeo,  C.  pop.  monfei-i:,  Stramb.  ii.   15  ;  Pigorini-Beri,  pag.  47  ;   GiA- 

NANDREA,   pag.    61. 

(1)  Anche  pel  Nigra  (C.  p.  ci.  Pieni.,  xxii),  i  versi  con  rime  baciate 
lianno  il  eaiattere  di  "  aggiunta  posteriore  al  primo  tetrastico  „. 

(2)  È  da  notarsi  anche  che  Io  stesso  Canto,  quando  vi  si  nominino 
luoghi  0  persone,  differisce  in  ciascun  paese,  con  visibile  intenzione  di  na- 
turarsi là  dove  si  canta.  Dal  che  potrebbero  recarsi  molti  esempj,  e  adesso 
uno  ce  ne  viene  a  mente.  Uno  .Stornello  toscano  dice  : 


LA  POESIA  POPOLAKE  ITALIANA.  349 

più  eccezioni  che  regole.  (^)  Ma  pur  tuttavia  ferma- 
mente crediamo  che  debbavi  essere  una  forma  rudi- 
mentale e  semplicissima,  alla  quale  possano  senza 
sforzo  recarsi  le  molte  varietà,  e  in  che  faccian  capo 
tutte  le  altre  fogge  di  versificazione,  diramandone 
come  da  nucleo  primitivo  e  necessario. 

Questa  forma  semplice  e  primitiva  è,  a  parer 
nostro,  il  tetrastico,  proprio  pur  anco,  salvo  la  di- 
versa misura  del  verso,  di  una  specie  di  Canti  sardi, 
le  batto)- inas,  (")  e  di  quella  particolar  foggia  di  Canti 


Fiorin  di  canna  : 
In  carcere  ci  so'  per  una  donna, 
Dal  caporale  aspetto  la  condanna  ; 

e  forse  originariamente  fu  composto  da  qualche  soldato  sottoposto  a  pena 
per  amori  vietati  dalla  disciplina,  o  per  baruffe  nate  a  cagion  di  femmine. 
In  Toscana  si  specificò  meglio  col  verso:  E  di  Firenze  aspetto  la  condanna 
(Tommaseo,  pag.  345:  Giaxxixi,  pag.  50;,  e  Firenze  o  Fiorenza  mantengono 
le  lezioni  veneziane  (cfr.  Dal  Medico,  pag.  208;  Beknoni,  X.  C.  pojìol.  ve- 
nez.,  p.  1.3).  Nella  versione  padana  aggiungendo  nuova  rima  si  cambiò  luogo: 
La  cundana  la  vien  da  Livorno:  Bela  ti  sposerò  al  mio  ritorno  (Ferrako, 
C.  popol.  di  Lagose,  n.  3),  e  Livorno  non  in  rima  ma  nel  mezzo  del  verso, 
è  in  una  versione  delia  valle  tiberina  (Coeazzixi,  pag.  16:2).  Ma  in  Sicilia, 
e  certo  lo  stornello  vi  giunse,  o  se  già  v'era  si  modificò  dopo  l'annessione, 
si  canta:  E  di  Ttirinu  aspettii  la  ciinnanna:  cfr.  PitrÈ.  C.  popol.  sicil.,  I, 
pag.  69.  —  Un  altro  esempio  di  quest'adattamento  a  luogbi  e  tempi,  me 
l'indica  l'amico  Michele  Barbi.  Nelle  Marche  suona  questo  Stornello  (Gia- 
nandrea,  pag.  204)  : 

Fiore  di  grano  : 

Paura  non  avemo  de  nessuno, 

Avemo  buona  lingua  e  mejo  mano. 
Nel  piccolo  paese  di  Taviano,  nella  montagna  pistoiese,  dond'è   nativo   il 
Barbi,  e  di' è  composto  di  una  diecina  di  famiglie,  lo  Stornello  ha  preso 
questa  forma: 

Noi  siamo  della  cura  di  Taviano  ; 

Paura  non  abbiamo  di  nessuno, 

Abbiamo  buona  lingua  e  meglio  mano. 

E  a  Casale  in  Val  di  Cecina  lo  dicono  così,  come  me  lo  riferisce  il  pro- 
fessore F.  C.  Pellegrini: 

E  siamo  di  Casale,  e  siamo  e  siamo; 
Paura  non  abbiamo  di  nessuno 
Abbiamo  buona  lingua  e  meglio  mano. 
(1)  Vedi  del  resto,  la  Dissertazione  dello  Schuchaedt. 
(-)  E.  Bellorini,  C.  pop.  amorosi  raccolti  a  Xitoro,  Bergamo,  Catta- 
neo, 1893,  p.  32. 


350  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

popolari,  che  sono  le  Viìloffe  friulane,  nate  e  vissute 
solitane  in  quell'angolo  d'Italia,  che  appartiene  al 
dialetto  carnico. 

Data  una  volta  la  lusinga,  la  carezza  musicale 
della  rima,  basta,  ad  appagare  il  desiderio  dell'orec- 
chio e  dell'anima,  l'alternazione  di  due  desinenze  in 
quattro  versi;  le  successive  ripercussioni  ritmiche, 
e  i  varj  intrecciamenti  vengono  dallo  studio,  dalla 
riflessione,  dalla  voluttà,  diremmo,  che  ha  ingenerato 
il  primo  e  più  semplice  esperimento.  E  noi  vediamo 
che  il  tetrastico  basta  infatti  allo  svolgimento  poetico 
ed  all'appagamento  del  cantore  presso  le  popolazioni 
della  Carnia,  del  Po,  della  Laguna,  di  tutta  l'Italia 
subalpina:  nelle  più  ampie  canzoni  toscane  larìpresa 
altro  non  è  salvo  uno  svolgimento  del  tetrastico:  e 
se  si  guarda  la  struttura  del  siculo  Strambotto,  si 
vedrà  che  non  poche  volte  gli  ultimi  quattro  versi 
sono  soltanto  una  ampliazione,  spesso  superflua,  una 
appiccatura,  non  di  rado  incomoda,  al  tetrastico  fon- 
damentale. Ad  ogni  modo,  anche  quando  la  saldatura 
delle  due  partì  è  perfetta,  anche  quando  l'un  tetra- 
stico è  omogeneo  all'altro,  alla  fine  del  quarto  verso 
vi  è  come  un  riposo  della  voce  e  del  pensiero;  sicché 
si  direbbe  che  giungendo  al  quinto  e  l'una  e  l'altro  ri- 
prendano nuova  lena.  Certo,  per  l'aggiunzione  di  una 
seconda  quartina,  pel  suo  allungamento  fino  ad  otto 
versi  la  strofa  lirica  appare  più  robusta,  e  la  mani- 
festazione del  pensiero  può  dirsi  piena  in  ogni  sua 
parte;  ma  ognun  vede  come  la  forma  semplicissima 
del  tetrastico  sia  sufficiente  al  giuoco  ritmico,  e  le 
due  ultime  volte  sieno  un  fatto  secondario,  riflesso, 
artificioso.  Il  tetrastico  è  pertanto  forma  primordiale, 
e  da  essa  si  sono  ingenerati  i  metri  più  noti  della 
poetica  dotta  e  della  popolare.  Aggiungendo  un  se- 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALLWA.  351 

condo  tetrastico  sulle  stesse  rime,  la  metrica  dei 
volghi  ha  creato  la  così  detta  ottava  siciliana,  che 
perciò  consta  di  sole  due  rime  quattro  volte  alter- 
nate. Ma  ognuno  comprende  quanto  poca  saldezza 
avesse  una  strofa,  dove  è  mero  arbitrio  o  mera  im- 
potenza fermarsi  al  quarto  ritorno  della  rima.  Così 
dovette  pensare  il  cantore  popolare  di  Marittima  e 
Campagna,  presso  il  quale  troviamo  bensì  l'ottava 
siciliana,  ma  quasi  a  conchiuderla  si  ripetono  in  fondo 
i  primi  due  versi.  Al  cantore  dell'arte,  quando  l'ot- 
tava fu  assunta  a  più  alto  ufficio,  questo  spediente 
doveva  apparire  troppo  ingenuo,  e  in  ogni  caso  di- 
sadatto alla  forma  narrativa,  che  ben  presto  si  ap- 
propriò quel  metro:  e  allora,  dopo  il  sesto,  furono 
soggiunti  due  altri  versi  a  rima  baciata,  che  mira- 
bilmente valsero  a  sigillare  la  strofa.  (^) 

A  siffatta  sapiente  novità,  che  comunicava  sal- 
dezza vera  alla  strofa,  e  quasi  le  dava  corpo,  poteva 
forse  invitare  la  ripresa,  pur  a  rima  baciata,  che  il 
popolo  toscano  metteva  al  posto  del  secondo  tetra- 
stico siciliano.  Lo  stesso  fu  fatto  anche  per  la  sestina, 
che  è  il  primo  o  più  semplice  allungamento  artistico 
del  tetrastico:  per  la  sestina,  che  è  forma  di  versi- 
ficazione più  antica,  che  comunemente  non  credasi. 
Medesimamente,  il  Sonetto,  forma  artificiosa  se  altra 
mai,  altro  non  è,  chi  ben  veda,  se  non  l'accozza- 
mento, o  meglio  la  fusione  di  due  tetrastici  alla  fog- 
gia àeW'ottava  siciliana,  e  di  un  esastico  senza  le  finali 


(1)  È  noto  clie  circa  l'origine  e  formazione  dell'ottava  letteraria,  altri 
pensò  o  pensa  altrimenti:  come  ad  es.  T.  Casini  (Le  forme  metriche  ita!., 
Firenze,  Sansoni,  1890,  p.  73),  secondo  il  quale  non  sarebbe  altro  "  che  un.i 
stanza  di  canzone  usata  come  componimento  speciale  „  ;  A.  Borgogxoxi  (X. 
Antol.,  Xni,  -I-li),  che  la  faceva  svolgere  dalla  strofa  della  ballata;  e  F.  Fla- 
mini [Studi  (lì  storia  ìeffer.,  Livorno,  Giusti,  1S95,  p.  150-2;  e  Hass.  hihl.  letter. 
iteti.,  IV,  167)  che  la  fa  derivare  dalla  strofa  della  Lauda  (v.  Ortolani,  op.  cit., 
p.  34  e  segg.) 


35'2  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

rime  baciate.  (^)  Tuttavia  è  da  notare  clie  nel  se- 
colo XIV  troviamo  numero  grandissimo  di  Sonetti, 
ai  quali  dopo  la  sestina  finale  si  accodano  due  versi 
in  rima  fra  loro,  quasi  ultimo  e  fermo  sigillo  posto 
al  componimento  di  quattordici  versi,  come  già  a 
quello  di  otto. 

Or  dunque,  anziché  supporre  una  serie  di  ag- 
giunte e  di  resecazioni,  noi  opiniamo,  e  se  erras- 
simo ci  piacerebbe  di  farlo  coi  valenti  amici  Nigra 
e  Scbucbardt,  che  il  Canto  popolare  nella  prima  sua 
forma  fu  soltanto  un  tetrastico.  In  tal  forma  esso 
si  sparse  fuori  dell'Isola,  e  giunse  in  Toscana,  e 
dalla  Toscana  passò  ad  altre  regioni.  Così  si  spie- 
gherebbero agevolmente  e  il  tetrastico  caudato  to- 
scano e  il  tetrastico  semplice  transpadano.  Ma  ciò, 
lo  ripetiamo,  non  vieta  che  in  altre  successive  mi- 
grazioni, in  altre  sciamate  di  Canti  la  strofa  siciliana 
giungesse  intera,  dappoiché  talvolta  le  rassomiglianze 
vanno  piii  oltre  del  quarto  verso,  o  il  nuovo  composto 
è  messo  insieme  di  versi  liberamente  scelti  per  tutta 
l'ottava:  come  anche  non  esclude  l'ipotesi  che  oltre 
Po  giungessero  posteriormente  Canzoni  toscane  colla 
ripresa.  Ad  una  seconda  migrazione  potrebbero  spet- 
tare quei  Canti  di  Marittima  e  Campagna,  cui  or 
ora  accennammo,  dove  all'intera  ottava  siciliana, 
fors'anco  per  ragion  della  musica,  è  aggiunta  la  ripe- 
tizione del  primo  distico.  Se  non  che  questi  Canti 


(1)  Altri  proposero  altra  origine  al  Sonetto,  e  questo  non  è  il  luogo 
'li  confutare  le  diverse  opinioni  e  corroborare  di  nuovi  argomenti  la  mia 
qui  appena  accennata,  ma  svolta  e  dimostrata  poi  da  H.  Wei.ti.  Gesch.  d. 
Sonetten  in  d.  deutsch.  Dichtung  (Leipzig.  Veit,  1881)  e  da  L.  Biadkne,  Mor- 
folof/ift  del  Sonetto  (voi.  X  degli  Studi  di  filol.  romanza,  Koma.  LoescLer,  1888, 
p.  219)  e  sostanzialmente  accolta  anche  da  A.Fouesti,  Xuure  osservaz. sull'ori- 
gine del  S.  (Berg.anio,  1895),  secondo  il  quale  alla  configurazione  del  Sonetto 
deve  però  aver  avuto  efficacia  l'esempio  della  Canzone,  divisa  in  due  piedi 
e  due  volte  (v.  in  proposito  Biadene,  in  G.  Stor.  Lett.  Iteti.,  XXVIII,  225). 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  353 

riconoscono,  come  vedremo,  un'origine  letteraria,  e 
nel  mezzo  d'Italia  dovettero  giungere  in  raccolte  a 
penna  o  a  stampa,  piuttostocliè  per  orale  tradizione. 
Quando,  adunque,  il  Canto  popolare  echeggiò  per  la 
prima  volta  dall'Etna  agli  Appennini,  e  dagli  Ap- 
pennini si  prolungò  di  rimbalzo  fino  alle  Alpi,  e'  ci 
par  ben  certo  che  non  dovesse  andare  piìi  oltre  del 
quarto  verso:  e  se  ciò  fosse,  avremmo  un  nuovo 
argomento  dell'antichità  dei  Canti,  e  della  sollecita 
loro  diffusione  dall'Isola  al  territorio  peninsulare.  E 
al  nostro  opinare  su  tal  primitiva  forma  del  Canto, 
porgerebbe  rincalzo  gagliardo  quanto  assevera  il 
Pitrè:  che,  cioè,  chi  canta,  giungendo  al  quarto 
verso,  si  riposa,  perchè  considera  come  regolarmente 
divisa  la  Canzona  in  due  parti  uguali.  (^) 

Rimane  adesso  a  dire  di  un'altra  notissima  forma 
del  Canto  popolare  italiano,  cioè  dello  Stornello.  (^) 
Di  esso  parliamo  per  ultimo  e  brevemente,  perchè 
nella  sostanza  il  più  delle  volte  altro  non  è  se  non 
un  Rispetto  compendiato.  C)  Piìi  importante  forse  è 
studiarne  le  varie  configurazioni  ritmiche. 

Di  queste  la  più  semplice  è  il  distico  a  rime 


(1)  e.  popol.  sicil.,  Prefaz.  I,  pag.  30.  E  il  Nigra,  C.  p.  ti.  Piem.,  p.  xxir: 
"  L'ottava  siciliana  è  in  sostanza  un  doppio  tetrastico  a  rime  alterne. 
Infatti  dopo  i  quattro  primi  versi  v'è  pausa,  ed  i  due  tetrastici  dell'ottava 
si  possono  facilmente  separare.  Kè  sono  rari  gli  esempj  di  ottave  siciliane, 
che  cambiano  addirittura  l'assonanza  nei  quattro  ultimi  versi.  Sembra  perciò 
molto  probabile  che  la  forma  archetipa  dello  Strambotto  sia  il  tetrastico 
endecasillabo  con  rime  alterne  „.  Vedi  anche  Rubieri,  p.  46.3,  il  quale  oppor- 
tunamente osserva  che  "  se  non  tutti  i  Canti  popolari  sono  composti  di 
quatti'o  in  quattro  versi,  tutti  bens'i  si  modulano  come  se  tali  fossero,  perchè 
se  in  alcuno  i  versi  effettivi  fossero  tre  come  nello  stornello  o  sei  come 
della  sestina,  nel  cantarli  si  ripete  un  verso  nello  stornello  o  una  coppiola 
nella  sestina  per  formarne  o  la  quartina  nel  primo  caso  o  l'ottava  nel 
secondo  „. 

(-)  Gli  Stornelli,  per  confusione  coi  veri  e  propri  Bitornelli  (frane,  re- 
frain), hanno  preso  in  Roma  quest'ultimo  nome,  che  malamente  fu  seguito 
dal  Blessicì,  dallo  Schuchaedt,  e  da  altri  :  vedi  Nigra,  C.p.  del  Pieni.,  p.  xiii. 

(3)    Vedi    SCHUCHARDT,    Op.    cit.,    §    3. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  Hai.  —  23 


354  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

baciate:  intermedia,  è  il  terzetto  imperfetto,  com- 
posto di  un  quinario,  che  ordinariamente  contiene 
l'invocazione  di  un  fiore  (donde  la  sicula  denomina- 
zione di  Ciuri),  e  di  due  endecasillabi:  (^)  ultima,  il 
terzetto  perfetto,  cioè  di  tre  endecasillabi.  O  Nelle 
due  ultime  forme  rispondono  fra  loro  per  ragion  di 
rime,  il  primo  e  il  terzo  verso,  e  il  secondo,  il  più  delle 
volte,  è  cogli  altri  legato  per  consonanza  atona.  {^') 
Come,  e  dove  è  nato  lo  Stornello?  A  noi  sem- 
bra verissima  quella  parentela  cbe  lo  Schucbardt  {*) 
ha  messo  in  chiaro  fra  lo  Stornello  e  il  Proverbio 
rimato,  non  raramente  costruito  in  forma  di  distico 
e  con  consonanza  atona.  Anzi  lo  Stornello  sembra 
tuttavia  ricordare  siffatta  cognazione,  nel  fare  sen- 
tenzioso ed  epigrammatico,  cbe  serba  nella  massima 
parte  dei  casi,  e  ne  fa  un  motto  breve  ed  arguto: 
un  romanzetto^  come  lo  dicono  nel  pistoiese,  cioè  un 


(1)  Kon  sapremmo  accordarci  col  NroRA,  elie  un  tempo  credette  trovar 
Torigine  di  questa  forma  nella  strofa  saffica.  Lasciando  stare  la  difficoltà 
del  passaggio  di  una  foggia  esclusivamente  letteraria  ad  uso  popolare,  per 
aver  l'immagine  di  questa  maniera  di  Stornello  dovrebbesi  togliere  l'ul- 
timo membro  di  una  prima  strofa  saffica  e  poi  i  due  primi  di  una  seconda. 
e  con  ciò  formare  il  nuovo  composto.  Ma  ogni  controversia  è  inutile,  poiché 
l'egregio  autore,  ripi'oducendo  il  suo  scritto  come  Prefazione  ai  C.  p.  (hi 
Pieni,  (p.  XXI  n.),  ha  ommesso  queste  considerazioni,  le  quali,  ei  soggiunge: 
"  non  potrebbero  trattarsi  incidentemente  in  poche  linee  „. 

(2)  L'origine  di  questa  configurazione  dello  Stornello  sarebbe,  secondo 
lo  ScHUCHARDT,  op.  cit.,  pag.  16,  il  tetrastico,  donde  sarebbe  caduto  per  in- 
debolimento l'ultimo  verso,  il  quale,  dice  egli,  ordinariamente  contiene  una 
ripetizione  o  uno  schiarimento  superfluo.  Il  secondo  verso  senza  rima  coi- 
risponderebbe  perciò  ad  un  verso  caduto.  Non  negheremmo  che  qualche 
Stornello  di  tal  foggia  possa  esser  nato  cos~i  :  ma  la  semplice  consonanza 
atona  dà  corpo  alla  strofetta  ternaria,  senza  bisogno  di  supporno  perduta 
ima  parte  integrante. 

(3)  Forma  sporadica,  ma  osservabile,  è  quella  di  Reggio  di  Calabria 
(Imbriani,  I,  252)  di  due  soli  versi:  un  quinario  coli' invocazione  del  fiore. 
e  un  endecasillabo  che  rima  con  esso  :  ma  il  piìi  dello  volte,  negli  esemp.j 
addotti,  questi  brevi  componimenti  si  riducono  a  motti  o  proverbj  in  rima. 

(<)  Op.  cit.,  §  9.  E  il  Gi:astei,la,  Prefazione  ai  Canti popoì.  di  Mofìici, 
pag.  csxxili:  "  I  muttetti,  simili  allo  Stornello  toscano...  non  si  cantano 
ma  si  ripetono  secondo  l'occasione  a  guisa  di  proverbio,  essendo  veri  pro- 
verbj, come  suona  il  vocabolo  „. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALLIXA.  355 

piccolo  saggio  di  parlar  volgare.  Noi  opiniamo,  con- 
tro la  sentenza  di  un  critico  arguto,  C)  che  il  quinario 
iniziale  sia  una  aggiunta  posteriore;  tanto  più  che, 
come  osserva  il  Nigra,  "  raramente  il  nome  e  gli 
attributi  del  fiore  e  dell'  oggetto  invocato  hanno 
una  relazione  logica  col  contenuto  dei  due  versi 
seguenti  „.  O  Né  forse  quest'aggiunta  del  fiore  altro 
è  se  non  una  invocazione  per  ripigliare  il  Canto: 
dacché  lo  Stornello  é  la  forma  preferita  degli  im- 
provvisatori, e  prevale  nei  contrasti,  in  che  da  quelli 
si  gareggia  a  chi  piìi  ne  dica.  O  Egli  è  perciò  che 
degli  Stornelli  la  produzione  nuova  è  maggiore  che 
non  pei  Rispetti  :  essi  sono  tuttora  forma  vivente  (*) 
e  non  soltanto  tradizionale:  e  in  essi  qualche  volta, 
non  senza  successo,  si  è  manifestato  il  sentimento 
patrio  durante  gli  ultimi  avvenimenti  politici.  O 


(1)  Imbeiasi,  Dell'organismo  poetico  e  della  Poesia  popol.,  pag.  134. 

(2)  La  poes.  pop.  ital.,pag.  14:  (il  passo  è  però  ommesso  nella  Fiefa- 
eione  ai  C.  p.  piemont.)  Cfr.  Schcchahdt.  op.  cit.,  pag.  46  e  segg. 

(3)  Se  vuoi  venir  con  mene  a  stornellare 
Piglia  la  sedia  e  mettiti  a  sedere; 

Di  quante  stelle  è  in  cielo,  e  pesci  in  mare: 

TisRi,  Storn.  n.  3,  a  proposito  del  quale  il  Nigra  oppoi-tunamente  ricorda 
il  virgiliano  :  Die  qitibus  in  terris,  et  eris  mihi  magnus  AiìoUo  ecc.  Lo  stesso 
carattere  hanno  altri  Stornelli,  raccolti  dal  Tigri  sotto  il  medesimo  para- 
grafo :  Ed  io  degli  stornelli  ne  so  tanti  ecc.  Ed  io  degli  stornelli  ne  so  mille  ecc. 
Cfr.  GlASAXDREA,  pag.  8;  Marcoaldi,  C.  popol.  picea.,  n.  81  ;  C. popol.  lignr.. 
n.  86.  Xotisi  che  in  questi  Stornelli  non  può  esservi  1"  invocazione  del  fiore, 
essendo  essi  inviti  al  cantare:  le  invocazioni  verranno  nei  Canti  successivi 
dei  gareggianti,  per  prender  o  riprender  lena. 

(■»  Il  genere  veramente  popolare,  e  che  ha  ancora  produzione  con- 
tinua di  nuovi  canti,  è  quello  degli  Stornelli  :  cosi  il  Barbi,  op.  cit.,  p.  14. 

(5)  Vedine  esempj  in  Jverucci,  pag.  204-16.  Nel  1859  ebbero  notorietà 
in  Toscana  questi  Stornelli  incatenati,  che  mi  si  concederà  di  trascrivere 
a  postuma  onoranza  del  povero  amico  mio  Francesco  Coppi-Toscanelli, 
il  quale  ne  fu  autore,  e  che  felicemente  seppe  innestare  l' intonazione  po- 
polare col  sentimento  delle  foi-me  artistiche  : 

Fior  della  bara  : 

Spunta  la  rosa  della  primavera 
Al  piede  delle  croci  di  Novara. 


356  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Che  gli  Storuelli  coli' invocazione  dei  fiori  sieno 
cosa  comune  a  parecchi  popoli,  specialmente  neo- 
latini, fu  asserito  più  volte.  (^)  Anzi,  l'Arbaud  (^)  va 


O  primavera, 

E  le  croci  dei  campi  di  Novara 

Dicono  a  quella  rosa:  Apriti  e  spera. 
O  rosa  d'Aprile,  amore  dei  fiori, 
D' Italia  i  colori  tu  porti  con  te. 
Verde  è  lo  stelo. 

Come  Speranza  che  un  vessillo  solo 

Sventolerà  per  questo  nostro  cielo. 
O  stelo  di  rosa,  amore  de'  fiori 
De'  nostri  colori  sei  pure  un  de'  tre. 
Bianco  è  il  bottone. 

Egli  è  la  Fede  che  l'onde  tirrene 

Dovran  baciare  una  sola  nazione. 
Bottone  di  rosa,  amore  de'  fiori 
De'  nostri  colori  sei  pure  un  de'  tre. 

E  rosso  il  fiore, 

Come  l'Amore  che  dall'Alpi  al  mare 
Ci  Siam  giurati  ai  giorni  del  dolore. 
O  fiore  di  rosa,  amore  de'  fiori. 
De'  nostri  colori  sei  pure  un  de'  tre. 
E  sulla  sera 
Ai  piedi  delle  croci  di  Novara 
Sbocciò  la  rosa  della  Primavera. 
O  primavera, 
E  le  croci  dei  campi  di  Novara 
Dissero  a  quella  rosa:  Apriti  e  spera. 
0  rosa  d'Aprile,  amore  de'  fiori, 
P'Italia  i  colori  rivivon  con  te. 

Anche  si  ebbe  allora  qualche  bel  Rispetto  politico,  e  fra  gli  altri  vo'  ricor 
dare  questo  del  buon  Pietro  Thouar  : 

E  l'ho  visto  il  vessillo  benedetto 
Da  capo  sventolar  sopra  la  torre  : 
Il  Marzocco  lo  tien  fra  1'  unghie  stretto 
Perchè  nessuno  glie  lo  vada  a  tórre. 

De'  tre  colori  quando  è  rivestito 
Palazzo  Vecchio  par  ringiovanito. 

Quando  splendono  al  sole  i  tre  coleri, 
Eingiovanisce  la  città  de' fiori: 

Quando  risplonderan  su  l'Appennino, 
Tutta  l'Italia  diverrà  un  giardino. 

(1)  Vedi,  fra  gli  altri.  E-.J-B.  Ratherv,  Les  chants  popiil.  de  l'Italie, 
estratto  dalla  Berne  des  deux  mondes,  15  Mars  1862,  p.  30. 

(2)  Arbaud,  Ch.  poptil.  de  la  l'rovence,  I,  224. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  357 

più  oltre,  trovandone,  sulle  orme  del  Fauriel,  (^)  la 
prima  origine  presso  i  Greci  antichi,  in  quelle  poesie 
popolari  che  Atenèo  denomina  ani  ènti.  Dalla  colonia 
focese  dei  Massalioti  questa  forma  sarebbesi  diffusa 
in  Provenza,  colla  denominazione  di  Flouretas,  in 
forme  simiglianti  a  quelle  degli  Stornelli  italiani. 

Ma  nelle  flouretas  provenzali  il  nome  del  fiore 
non  è  soltanto  invocato,  bensì  il  fiore  pur  anco  è 
offerto  alla  donna  amata:  Belo,  vous  represente  ecc.:  (^) 
e  spesso  si  cerca,  secondo  la  flora  simbolica  ed  ero- 
tica, una  intima  relazione  fra  l'avventura  amorosa, 
la  condizione  dell'amante  o  qualche  qualità  e  difetto 
della  donna,  e  il  fiore  stesso.  {^)  Le  flouretas  perciò 
rassomigliano  piuttosto  a  quel  "  breve  scherzo  in 
rima  che  si  costuma  (così  diceva  ai  suoi  tempi  il 
Redi),  nelle  veglie  e  nei  balli  del  contado,  e  comincia: 
Voi  siete  un  bel  fiore;  a  cui  vien  risposto:  Che  fiore? ec. 
Lo  scherzo  è  noto;  e  l'usanza  di  questo  scherzo  è 
antichissima,  dacché  se  ne  fa  menzione  in  una  poesia 
manuscritta  di  Ser  Bello,  antichissimo  poeta: 

Quando  eo  ve  dico:  Voi  sete  una  flore, 
Né  pur  alzate  gli  occhi  a  sguardar  me: 
Né  volliete  saper  che  bella  flore  ; 
E  con  silenzio  mostrate  odiar  me. 


(1)  Fauriel,  Hist.  de  la  poes.  proveng.,  Paris,  Labitte,  1840,  I,  203; 
C/i.  2>opul.  de  la  Grece,  Paris,  Didot.  1824,  I,  pag.  cui. 

(2)  Aebaud,  op.  cit.,  pag.  220,  e  Revue  des  langues  romanes,  IV,  460  e 
segg.  ;  MoNTEL  et  Lambert,  Petites  coinposit.  populair.,  Montpellier,  1873. 
p.  34.  Non  molto  dissimile  dal  giuoco  delle  Flouretas  è  quello  dei  Daije- 
mans  francesi  descritto  dal  De  Puymaigre  neWArch.  tradiz.  pupul.,  I,  93,  e  dal 
BoNNAKDOT  in  Mélusine,  I,  570,  reliquia  degli  antichi  Ditz  et  ventes  d'Amour 
(cfr.  MoNTAiGLON,  Becueil,  V,  204,  e  Christine  de  Pisan,  ediz,  Didot,  187) 
in  che  d'ogni  cosa  offrivasi  la  vendita,  ma  più  specialmente  di  fiori. 

(3)  Lo  stesso  carattere  ha  l'invocazione  frunda  verde  nei  Canti  po- 
polari i-umeni  :  vedi  Alexandri,  Ballades  et  Chants  popul.  dela  Boumanie, 
Paris,  Dentu,  1855,  pag.  182.  Lo  Schuchaedt,  p.  65,  nega  però  ogni  rela- 
zione storica  fra  l'invocazione  italiana  e  la  rumena:  ma  quel  ch'ei  dice 
non  mi  par  sufficiente  a  distruggerla. 


358  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA, 

In  un  libro  scritto  l'anno  1592,  dove  tra  le  altre 
poesie  sono  copiati  molti  fiori  : 

—  Voi  slete  un  bel  fiore  — 

—  Che  fiore?  — 

—  Un  fior  di  mammoletta  — 

—  Qualche  mercede  il  mio  servire  aspetta  „.  {^) 

E  in  una  cronaca  del  Borgo  S.  Donnino  del  1615  (") 
trovasi  un  altro  esempio  di  questi  fiori  Essendo  a 
veglia  alcuni  giovani  e  donzelle,  l'Eufrosina  Modesti 
così  aprì  il  "  giuoco  dei  fiori  „  volgendosi  ad  un  Po- 
lidoro Ranzini,  che  le  faceva  la  corte  : 

—  Voi  siete  un  bel  fiore.  — 

—  Che  fiore?  — 

—  Fior  di  formento, 


(1)  Annotaz.  al  v.  430  del  Bacco  in  Toscana.  Alcuni  antichi  fiori  ha 
raccolto  S.  Ferraei,  nella  pubblicazione  per  nozze  Bassini-Cherubiui  (Bo- 
logna, Zanichelli,  1895,  p.  32).  Altri  ne  riferisce  il  Baetoli,  I  mss.  della 
Nazionale  di  Firenze,  I,  245.  Vedi  anche  il  Bicciardetto,  XIII,  86-87,  citato 
dallo  ScHucHAKDT,  p.  60,  ed  ivi  stesso  altre  citazioni  di  autori  italiani. 
Odasi  pertanto  come  il  Foetegueeki  descrive  questo  giuoco  : 

Le  donne...  con  soave  voce 

Propongon  giuochi... 

or  quello  della  Noce 

Or  quel  de  1"  Uovo- 
Ma  quel  che  piacque  più  fu  quel  del  Fiore, 

Perchè  una  d'esse...  dicea  : 

Tu  se'  un  bel  fior  :  ed  egli  pien  d'amore 

Che  fior  son  io,  fanciulla?  rispondea. 

Ed  ella  co'  begli  occhi  tutti  ardore 

Guardandolo,  diceva  e  insiem  ridea  : 

Tu  sei,  se  non  isbaglio,  un  fior  di  pero  : 

Dici  d'amarmi,  ma  non  dici  il  vero. 
E  quegli  rispondea  similomente: 

Voi  siete  un  fior  di  rosa  o  di  viola, 

E  siete  in  beltà  sola  veramente  : 

E  cosi  intanto  il  tempo  fugge  e  vola. 

Fiori  moderni  sono  raccolti  nella  JUrista  di  Letteratura  popolare,  Roma, 
1876,  voi.  I,  pag.  67,  e  uno  è  anche  nel  Giuliani,  Moralità  e  Poesia  ecc., 
pag.  259.  Lo  stesso  carattere,  salvo  una  modificazione  iniziale,  cioè:  Che 
fior  son  io  ?,  hanno  i  Fiori  raccolti  dal  Fekraro  in  Cento,  op.  cit..  pag.  77. 
Pel  canto  alterno  dei  fiori  intrecciato  al  ballo  in  Romagna,  vedi  Bagli, 
2ÌU0V0  saggio  di  studi  sui  proverbi,  gli  usi,  i  pregiudizi  e  la  poes.  popol.  in 
Rom.,  Bologna,  Fava  e  Gaiagnani,  1884,  pag.  6  e  segg. 

(2)  Vedasi  un  articolo  di  L.  Scaeabelli,  nel  l'ropugnulore,  anno  VII, 
parte  II,  pag.  398. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  3o9 

Di  che  si  fa  il  pan  : 

Se  mi  volete  ben, 

Vi  taglierete  un  dito  de  la  man.  — 

Forse  a  questo  l'aveva  tratta  la  rima  ;  ma  l'altro 
rimbeccò  : 

—  Siete  un  bel  fiore.  — 

—  Che  fiore  ? 

—  Fior  di  perfetto  amore  : 
Se  dite  da  deverò 

Lo  farò  per  vostro  amore.  — 
—  Siete  un  bel  fiore.  — 

—  Che  fiore  ?  — 

—  Fior  di  radette  : 
Se  mi  volete  bene 
Presto  vederò  l'effetto. 

E  tratta  fuori  la  spada,  l'amatore  si  tagliò  da  do- 
rerò il  dito. 

E  anche  sui  primi  del  secolo  scorso,  il  collettore 
àQÌYEgeria  trovava  sulle  bocche  di  giovani  e  giova- 
netto romane  questo  "  giuoco  del  fiore  „  : 

—  Bella,  ecco  un  fiore.  — 

—  Chi  me  lo  manda? — • 

—  Amore  ve  lo  manda,  e  vi  si  raccomanda  — 

—  E  che  fiore  mi  manda  ? 

—  Un  fior  di  giglio, 

E  in  nove  mesi  vi  predice  un  figlio.  —  (-) 

E  nell'Istria  a  dì  nostri  cosisi  canta: 

Ciulì  stu  fiur, 

Ch'el  xì  de  amur. 
Mei  eh'  i  ve  lu  dago 
1  siè  cumo  chi  stago  : 
E  vui,  eh'  i  lu  ciulì 
Che  risposta  me  dì?(^) 


(1)  MUELLER-WOLF,   pag.    12. 

(2)  IvE,  pag.  260.  Cfr.  pel  Piemonte,  G.  Nervo,  per  nozze  Fietra-Cbioli- 
Mendini,  p.  10, 


360  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Ognuno  vede  ben  chiaro  che  fra  il  "  giuoco  de' 
fiori  „  e  r  invocazione  contenuta  nel  primo  verso 
degli  Stornelli,  non  vi  è  se  non  lontanissima  paren- 
tela, avendo  soltanto  comune  Torigine  da  certa  gen- 
tilezza di  consuetudini  e  di  affetti.  (') 

Quando  poi  paresse  ai  piìi,  come  a  noi  sembra, 
che  siffatta  forma  tipica  dello  Stornello  fosse  amplia- 
zione  di  quella  che  si  compone  del  semplice  distico, 
e  avviamento  all'altra  di  tre  endecasillabi,  si  scior- 
rebbe  il  dubbio  proposto  dallo  Schuchardt,  se  cioè 
questa  terza  foggia  sia  stata  modello  della  terzina 
letteraria.  Noi  crediamo  invece  che  lo  Stornello  com- 
posto di  tre  endecasillabi  sia  forma  posteriore,  e 
quasi  diremmo  spuria,  al  cui  nascimento  debba  aver 
avuto  efficacia  l'esempio  della  terzina,  e  non  per 
contrario.  La  metrica  popolare  in  tal  caso  null'altro 
avrebbe  fatto,  salvo  sostituire  al  quinario  iniziale 
un  endecasillabo,  serbando  l'unità  del  componimento 
in  una  sola  strofa  e  la  consonanza  atona:  laddove,  se 
vera  fosse  la  supposizione  dello  Schuchardt,  troppo 
dell'immagine  presa  a  modello  sarebbesi  cancellato, 
togliendo  quella  strana  specie  di  omofonìa,  e  troppo 
sarebbesi  aggiunto,  facendo  di  una  strofa  in  sé  stessa 


I 


(1)  Un  antico  componimento,  clie  trovo  nel  codice  Laur.  Gadd.,  Reliq. 
198,  e.  116,  e  che  ha  tutta  la  maniera  delle  poesie  popolari,  è  intessuto  tutto 
quanto  di  fiori  : 

O  fior,  che  fior  mi  par  sovr'ogni  fiore. 
Fior  di  vertù  e  fior  di  gentilezza, 
Fior  che  fiorisci  ogni  fiorito  fiore, 
Fior  d'onestà  e  fior  d'ogni  bellezza, 
Fior  che  fiorisci  ogni  fiorito  amore, 
Fior  che  sempre  hai  vaghezza. 
Fior,  s' io  potessi  con  teco  fiorire, 
Fior,  non  mi  far  più  dire, 
Fiorisci  con  effetto,  e  fammi  dono 
Della  cui  flore  al  tuo  servizio  sono. 
O  forse  : 

Di  quella  fiore  al  cui  servizio  sono. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  361 

compiuta  ed  intera,  un  semplice  membro  di  piìi  lunga 
serie.  0 

Resta  adesso  a  sapersi  di  qual  parte  d'Italia 
sieno  nativi  gli  Stornelli.  Considerando  quello  col- 
r  invocazione  del  fiore  qual  forma  perfetta  del  ge- 
nere, si  potrebbe  quasi  per  certo  dirlo  nativo  del 

dolce  paese 
Di  Toscana  gentile 
Dove  il  bel  fior  si  vede  d'ogni  mese.  (") 

Certo,  la  Toscana  e  il  territorio  romano  sono  le  re- 
gioni dove  maggiormente  alligna  lo  Stornello,  e  che, 
in  ogni  caso,  sole  potrebber  contendersene  il  nasci- 
mento. In  Sicilia  invece  i  Ciuri  sono  poco  apprezzati, 
e  paiono  appartenere  alle  meretrici  e  alle  persone 
di  mal  affare:  O  il  che  ci  par  segno  che  non  sieno 


(1)  Il  prof.  G.  Giannini,  così  esi)eito  in  questa  materia,  ha  testé  messa 
fuori  nel  Niccolò  Tommaseo  (I,  121)  Una  nuova  Ipotesi  sull'origine  dello 
Stornello,  secondo  la  quale  esso  sarebbe  nato  dal  ritornello,  che  spesso  nel 
canto  si  accoda  allo  Strambotto,  e  la  sua  forma  sarebbe  stata  la  più  sem- 
plice, quella  cioè  dell'unico  endecasillabo  preceduto  dall'esclamazione,  che 
il  più  delle  volte  sarebbe  stata  di  un  fiore:  indi  sarebber  venuti  il  distico 
a  rima  baciata,  quello  con  la  consonanza  atona,  i  due  endecasillabi  prece- 
duti da  un  emistichio  con  invocazione,  in  rima  col  terzo  e  il  secondo  in 
contrapposto  di  consonanza  atona,  per  ultimo  tre  endecasillabi  su  codesto 
stesso  schema.  In  argomento  cosi  incerto  forse  questo  sistema,  sebbene 
l'autor  di  esso  lo  corrobori  di  buone  argomentazioni  e  di  copia  di  esempi, 
afferma  troppo,  e  anzi  che  spiegare  uno  svolgimento  naturale,  sa  di  mec- 
canico congegno.  Ma  è,  lo  riconosciamo,  un  tentativo  ingegnoso,  e  che  me- 
rita attenta  considerazione  dagli  studiosi  della  materia. 

{-)  Gino  da  Pistoia.  Anche  il  Eubieiìi.  "  Lo  stornello  è  certamente 
d'origine  campestre  e  probabilmenre  toscana,  poiché  nelle  altre  regioni  ha 
tutta  l'aria  di  cosa  trapiantata,  mentre  in  Toscana  è  così  naturale  e  co- 
mune, che  par  proprio  nato  a  un  parto  co'  mille  fiorellini  delle  sue  colline 
e  de'  monti  suoi  „  (pag.  66).  Il  Tenca  invece  (II,  246  e  segg.)  nega  tale 
origine  alla  Toscana,  come  anche  quella  del  rispetto,  pur  ammettendo  che 
la  Toscana  abbia  la  maggior  parte  nella  produzione  degli  uni  e  degli  altri; 
ma  si  perde  un  po'  troppo  in  vaghe  indagini  sulla  poesia  dei  bardi  brettoni 
e  su  quella  degli  arabi. 

(3)  "  11  fiore,  componimento  niente  pregiato  dal  popolo,  dà  non  lieve 
fatica  a  chi  vuol  raccoglierlo,  poco  o  punto  essendo  cantato  dal  campa- 
gnuolo,  che  ama  a  tenersi  lontano  dalle  donne  di  mal  affare  e  dalla  gente 
di  galera;  esso  invece  è  comunissimo  nel  carcere,  e  può  dirsi  il  canto  pie- 


362  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

prodotto  indigeno.  Nel  Napoletano  ed  in  Puglia  non 
hanno  "  vita  autonoma,  anzi  si  aggiungono  al  Ri- 
spetto, col  nome  di  mottetto  o  di  raccomandare  ,,.  (^) 
A  Napoli  erano,  anzi,  sconosciuti  finché  nel  1874 
vi  entrarono  coli' invocazione  iniziale  Fromi'  'e  li- 
mone, che  diventò  denominazione  del  genere,  anche 
cangiando  la  qualità  del  fiore  o  dell'erba:  fronn'  "e 
viola,  fronn'  'e  mortella  ecc.  O  Nel  bolognese  i  stiirné 
sono  cantati  specialmente  dalle  lavoratrici  dei  campi, 
ma  hanno  perduto  l' invocazione  del  fiore  e  si  sono 
per  lo  pili  allungati  a  quattro  versi,  mescolati  poi 
di  forme  dialettali.  (^)  A  Venezia,  dice  il  Dal  Medico, 
non  sembrano  natii,  ma  recati  di  fuori:  "  le  donne  li 
chiamano  roba  senza  sugo,  e  non  li  cantano  „.  O  In 
ogni  regione  d'Italia  portano  essi,  adunque,  l'im- 
pronta di  origine  aliena,  etrusca  o  laziale  che  debba 
dirsi,  ma  forse  più  veramente  etrusca. 


diletto  de'  chiassi  :  di  clie  mi  faceva  ben  avvertito  una  buona  palermitana, 
la  quale,  richiesta  da  me  di  codesti  cih;-/,  molto  arrecandosene,  mi  rispon- 
deva non  senza  qualche  risentimento  :  La  si  procuri  dalle  cattive  donne 
queste  cose,  perchè  io  non  ne  so.  E  poiché  io  insisteva  pregando,  ella  sog- 
giungeva: Queste  Canzoni  si  cantano  a  In  'nchhtituì-i  (lupanare)  e  tra  i  guai 
(carcere);  ed  io  grazie  al  cielo,  non  sono  mai  stata  in  quei  luoghi  „  :  Pitrè, 
C.  popol.  sicil.,  Prefaz.,  pag.  33. 

(1)  Imbriani,  Organism.  poet.  ecc.,  pag.  50. 

(-)  MoLiNARo  Dei,  Chiaro,  pag.  305. 

(3)  CoROìiY.m-'B^nTi,  in  Arch.tradiz.  popol. ,\,ài\.  Ma  invece,  secondo 
G.  G.  Bagli,  Saggio  in  Romagna,  i  /?«>•  sono  gran  parte  della  poesia  popo- 
larmente cantata:  vedi  Saggio  di  studi  sui  proverbi,  i  pregiudizi  e  la  poesia 
popolare  in  liomagna,  Bologna,  Fava  e  Garagnani,  ISSCi,  e  Nuoro  saggio  ecc., 
iliid.,  1886.  L'invocazione  ola  menzione  preliminare  del  fiore  sarebbe  cos\ 
negli  Stornelli  (fiur)  come  nei  Rispetti  (chènt),  e  molto  comune  il  principiare 
con  un  Senti:  Senti  che  bel  fior  eh' è  d'ulciprers,  Senti  che  bel  fior  ch'i  di 
tdiv,  Senti  che  bel  fior  ch'i  di  giacint  ecc.  E  il  Percoli  dà  alcuni  esempj  di 
Stornelli  romagnoli  coli' invocazione  del  fiore:  per  es.  n.  241-7,  294-301, 
304-7,  358  e  segg. 

(4)  Pag.  207. 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  363 


XI. 


"  Poesia  popolare  „  è  locuzione  facilissima  a  pro- 
ferirsi: ma  difficile  è  definire  il  genere  che  per  essa 
si  designa.  Delle  molte  condizioni  clie  si  sogliono 
annoverare  a  determinarlo,  la  poesia  popolare  ita- 
liana, se  ha  quella  dell'anonimia,  non  certo  fa  sempre 
mostra  dell'altra  della  semplicità,  o  mancanza  d'arti- 
ficio. Presso  altri  popoli  possono  nettamente  distin- 
guersi fra  loro  la  forma  artistica  e  la  volgare;  ma 
in  Italia  la  cosa  è  proceduta  altrimenti.  I  poeti  del- 
l'arte si  sono  piaciuti  di  render  simili  alle  più  dotte 
lire  le  rustiche  zampogne,  (^)  e  la  poesia  popolare  ha 
sempre  mirato  a  quella  dei  letterati,  come  a  desi- 
derabil  culmine  di  perfezione  anche  per  sé  medesima. 
Una  gente,  erede  di  antichissima  civiltà,  risorta  in 
nome  delle  prische  memorie,  che  ha  capito  e  ca- 
pisce Dante,  che  ha  preso  e  prende  sollazzo  ai  grandi 
colpi  di  spada  e  alle  avventure  dei  Paladini,  e  piange 
ai  casi  di  Erminia,  ripetendo  le  ottave  del  Perni,  del- 
l'Ariosto e  del  Tasso,  (")  che,  infine,  ha  senso  raffi- 
natissimo di  poesia  e  di  musica,  ben  si  comprende 
come,  obbedendo  nel  comporre  i  suoi  Canti  ad  un 
istinto  di  natura,  abbia  però  cercato  di  conformarli 
a  norma  d'arte  e  a  modelli  di  squisita  bellezza. 
D'altra  parte,  abbiamo  visto  come  vi  fu  un  tempo 
in  che  i  poeti  culti,  avvistisi  che  il  troppo  uso  e  la 


(1)  Tasso,  Aminta,  Prologo. 

{-)  Vedi  notate  alcune  reminiscenze  dagli  ultimi   due  nel  Eubieri, 
p.  238. 


364  LA   POESIA    POPOLARE   ITALIANA. 

soverchia  ripetizione  di  certe  formule  avevano  lo- 
gorato ed  estenuato  l'espressione  del  sentimento, 
per  rimediare  al  male  ritornarono  all'imitazione  della 
natura,  specchiandosi  nelle  umili  composizioni  del 
volgo.  Vi  è  stata,  dunque,  assai  spesso,  se  non  sem- 
pre, e  ci  si  perdoni  la  frase  mercantile,  vi  è  stata  una 
partita  aperta  di  dare  ed  avere  tra  la  poesia  eulta 
e  la  popolare,  un  conto  corrente  sempre  acceso  fra 
i  rimatori  illustri  ed  i  plebei.  Di  qui  è  venuto  che 
la  nostra  Poesia  popolare  nella  sua  espressione  li- 
rica, e  così  nelle  forme  del  Rispetto,  come  in  quelle 
delle  Canzonette,  ha  sempre  mostrato  e  mostra  tut- 
tavia indole  letteraria,  e  qualche  volta  un  fare  raf- 
finato ed  artificioso,  quale  non  si  riscontra  nelle 
composizioni  poetiche  di  altri  volghi.  Vi  è  nella 
struttura  del  componimento  uno  stampo  cosi  ben 
disegnato,  nel  sistema  di  versificazione  uno  studio 
così  ricercato  dell'armonia,  tanta  industria  di  parole 
scelte  e  "  alletterato,  „  C)  tanto  bagliore  nelle  im- 
magini, che  niuno  potrà  dire  esser  quei  Canti  figli 
dell'ignoranza. 

A  Firenze  vedemmo  già  qui  addietro  esservi 
stato  un  momento,  quasi  all'origine  stessa  della  poe- 
sia, in  che  le  due  forme  erano  insieme  commiste,  per 
singoiar  condizione  della  cultura  cittadinesca;  piii 
tardi,  quando  si  separarono,  la  divisione  non  durò 
a  lungo,  e  Lorenzo  ed  il  Poliziano  le  riamicarono  e 
ricongiunsero.  La  poesia  eulta  modellata  sulla  plebea 
lasciò  prove  tali,  che  se  non  furono  largamente  ac- 
colte e  fatte  proprie  dal  popolo,  servirongli  tuttavia 
d'esempio,  e  di  stimolo  a  far  meglio.  Questo  stesso 
fatto    dev'  esser    avvenuto    anche    in    altre   regioni 


{})  Parrati  li  palori  aUillerati:  Lizio-Bkuno,  C.  iìo^ìoI.  Inol.  Eul.,  n.  3. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  365 

(l'Italia,  sebbene  sia  difficile  citare  per  ogni  luogo 
nomi  e  date,  se  non  fosse  per  la  Sicilia.  E  invero 
nell'isola,  quando  la  vita  politica  e  l'operosità  intel- 
lettuale andarono  in  tutte  le  provincie  italiane  rac- 
cogliendosi in  alcuni  centri  di  maggior  importanza, 
e  le  varie  regioni  furono  denominate  nazioni,  la  poesia 
popolare  e  la  poesia  vernacola  confusero  insieme  le 
ragioni  loro.  Sorsero  allora  a  schiere  poeti,  che  non 
volevano  o  non  sapevano  o  non  potevano  rimare 
nella  lingua  illustre  e  nazionale,  o  cui  piacque,  ad 
ogni  modo,  il  plauso  immediato  delle  genti  fra  cui 
vivevano;  e  costoro  scrissero  nel  proprio  dialetto, 
attenendosi  al  genere  che  già  il  dialetto  possedeva,  e 
pel  quale  aveva  rinomanza  anche  di  fuori.  Ritenendo, 
dunque,  la  forma  indigena  e  plebea  dello  Strambotto, 
non  pochi  Siciliani  poetarono  nel  nativo  idioma:  solo 
alla  strofa  popolare  aggiunsero,  o  maggiormente  vi 
accrebbero,  l'indole  epigrammatica  e  il  fare  arti- 
ficioso. Parecchi  di  tali  componimenti  furono  con 
leggiere  modificazioni  fatti  proprj  dal  popolo,  che 
tuttora  li  canta;  ed  i  successivi,  veramente  formati 
da  cantori  plebei,  dovettero  sentire  l'efficacia  di  sif- 
fatti esemplari  e  ricevere  in  sé  qualche  riflesso  di 
artistica  luce.  Quando,  invero,  in  famiglia  popolana 
entra  chi  viene  da  gente  di  più  squisita  educazione, 
ognuno  cerca  spogliare  la  nativa  rozzezza  dell'abito, 
dell'idioma,  degli  atti,  ed  imitare  il  nobile  modello 
che  ha  dinanzi  a  sé.  Anche  in  Sardegna,  in  quel- 
l'isola per  tanto  tempo  separata  dal  resto  d'Italia 
e  chiusa  ad  ogni  influsso  del  continente,  sonosi  tra 
loro  confuse  la  poesia  popolare  e  la  poesia  dialet- 
tale, e  il  volgo  ha  fatto  sua  gloria  delle  rime  ver- 
nacole dei  dotti  poeti;  e  chi  di  poesie  popolari  faceva 
dimanda,  rimaneva  stupito  nel  vedersi  additare  coni- 


366  LA  POESIA  POPOLARE  ITALLIKA. 

ponimenti,  che  altrove  verrebbero  classificati  fra  i 
saggi  di  poesia  aulica.  (^) 

Questa  rispondenza  ed  affinità  tra  la  poesia  eulta 
e  la  popolare  non  fu  abbastanza  avvertita  finora 
nelle  sue  ragioni  storiche;  e  solo  da  poco  tempo  co- 
minciarono a  notarsi  alcuni  fatti  particolari,  (-)  dai 
quali  però,  e  da  molti  altri,  può  dedursi  il  proprio 
carattere  della  poesia  del  popolo  nostro.  Crediamo 
che  alla  scienza  e  alla  storia  sia  utile,  e  al  lettore 
non  debba  parer  soverchio  il  notare  e  provare  per 
esempj  le  appropriazioni  che  il  popolo  ha  fatto  di 
poesie  auliche,  e  le  modificazioni  che  vi  ha  arrecato 
accogliendole  nel  proprio  repertorio. 

Se  non  che,  prima  di  ricercare  nelle  raccolte  di 
Canti  popolari  quelli  onde  è  certa  od  assai  probabile 
la  derivazione  da  fonti  letterarie,  giova  eliminare 
alcuni  componimenti  che  vi  si  sono  introdotti  per 
astuzia  0  vanità  di  coloro  che  hanno  pòrto  aiuto  ai 
collettori,  e  vi  hanno  preso  luogo  per  la  costoro 
imperizia  o  sbadataggine.  Questi  fuchi  parassiti 
vanno  immediatamente  scacciati  dagli  alveari,  in 
che  si  elabora  lo  schietto  mèle  della  poesia  popolare. 
Sono  componimenti  apocrifi,  che  vorremmo  espulsi 
d'ora  innanzi  dalle  collezioni,  poiché  già  da  troppo 
tempo,  ingannando  la  buona  fede  degli  studiosi, 
hanno  usurpato  un  posto  che  ad  essi  non  spetta.  {^) 
Il  carattere  principale  onde  si  riconoscono   questi 


(1)  PiscHEDDA,  Canti  pop.  dei  (lassici  poeti  sai-di,  Sassari,  Ciceri,  ìS'yi; 
Spano,  Canzoni  pop.  ined.  in  dialetto  sardo  centrale,  Cagliari,  1864-70.  Vedi 
rarticolo  del  PiTitìc  sulle  Canzoni  popolari  sarde  e  sul  loro  carattere  let- 
terario, nel  volume  degli  Studj  di  poesia  pop.,  pag.  357  e  segg.,  noncliè 
la  Pi-efazione  ai  C.  2'oj>ol,  sicil.,  1.  pag.  115.  Ora  però  la  vera  poesia  po- 
polare sarda  venne  a  conoscersi  mercè  le  pubblicazioni  del  Ferraeo,  del 
CiAN,  del  Bellorini,  del  Kuhra,  del  Valla,  del  Carrara,  del  Mango  ecc. 

(-)  Vedi  NiGEA,  specialmente  a  p.  xxiv. 

(3)  Da  queste  intrusioni  non  è  immune  ncanclie  il  bel  vohimctto  di 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  367 

Canti  si  è  una  leziosa  semplicità,  una  naturalezza 
affettata,  colla  quale  gl'improvvidi  contraffattori 
hanno  creduto  d'avvicinarsi  alla  maniera  del  popolo, 
che,  quando  si  appropria  poesie  di  autori,  le  tra- 
sceglie, come  vedremo,  di  preferenza  tra  quelle  in 
che  l'artificio  del  concetto  e  della  espressione  è  mag- 
giore. Si  fattamente  scipito  è  il  seguente  Rispetto 
accolto  dal  Tigri,  ma  che  anche  nella  tessitura  me- 
trica nulla  ha  di  popolare: 

Un  verde  praterello  senza  piante 
E  l'immagine  bella  del  mio  amante: 
Un  mandorlo  fiorito  all'acqua  in  riva 
È  dell'amante  mio  l'immagin  viva: 
Tutti  i  raggi  del  sole  e  delle  stelle 
Sono  l'immagin  di  sue  luci  belle: 
Il  dolce  olezzo  di  giovane  fiore, 
E  l'immagine  vera  del  mio  amore. 
Amante,  amante,  amore,  amore,  amore! 
0  vieni  vaccio  a  ricrearmi  il  cuore.  (') 

Chi  sa  quanto  avrà  sudato  il  poetucolo  che  ha 
scritto  questi  versi,  per  dar  loro  impronta  d'autentici! 
e  chi  sa  quanto  sarà  stato  lieto  di  aver  ripescato 
quel  vaccio  guittoniano  ! 

Quest'altro  è  pure  evidente  fattura  di  un  ine- 
sperto, che  però  ha  trovato  nel  raccoglitore  uno  più 
di  lui  inesperto  e  sbadato: 


Canti  popolari  scelti  e  annotati  (Firenze,  Barbèra,  1902)  messo  insieme  d.il 
mio  caro  alunno  ed  amico  Giov.  Giannini,  pur  cosi  dotto  conoscitore  e 
amatore  oculato  della  poesia  dei  volghi.  Ne  ho  indicate  alcune  nella  Jiasò-. 
libi.  d.  Ietterai,  ital.,  X,  13:  p.  es. : 

Son  partite  l'amiche  rondinelle 
E  tu  con  loro  vai  di  là  dal  mare. 
A  primavera  torneranno  quelle, 
E  tu  con  quelle  non  potrai  tornare  ecc. 


0  anche: 


Lino  fiorito! 
Un  giovin  senza  dama  è  desolato, 
Mesta  la  donna  che  non  ha  marito  ecc. 
(1)  TiGKi,  n.  228. 


368  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Caro  amor  mio,  chi  me  lo  avesse  detto 
Ch'io  non  t'avessi  a  por  l'anello  in  dito  ! 
11  naso  mi  sarìa  tronco  di  netto, 
E  in  un  boccon  me  lo  sare'  inghiottito. 

0  Nina  mia,  la  mastico  la  mastico, 
Ma  mi  pare  un  boccon  troppo  fantastico: 

Troppo  mi  par  fantastico,  e  il  sai  tu: 
0  Nina  mia,  e'  non  mi  vuole  ir  giù.  (^) 

Ascoltisi  anche  quest'altro  : 

Oh  quanto  tempo  sola  sono  stata. 
Sola,   soletta  come  vedovella! 
Che  cor  fu  il  tuo  vedermi  abbandonata, 
E  lasciar  senza  sole  la  tua  stella? 

Chi  ti  staccò  da  me  fu  il  mar  crudele. 
Ma  sei  tornato  com'eri,  fedele: 

E  più  amoroso  t'ho  visto  tornare; 
Se  sei  tornato,  benedetto  il  mare. 

E  piti  bello  t'ho  visto  tornar  io; 
Se  sei  tornato,  benedetto  Dio!  (-) 

Del  seguente  è  anche  noto  l'autore,  che  fu  il 
Dott.  Stanislao  Bianciardi,  il  quale  lo  mandò,  e  con 
esso  altri  dieci,  frammischiato  ai  Rispetti  genuini 
raccolti  nel  Mont'Amiata:  (^) 


(1)  Tigri,  n.  548.  Nel  Giom.  filol.  Eomama,  II,  53  il  sig.  G.  Salva- 
dori  mi  ha  fatto  osservare  die  i  primi  sei  versi  appartengono  alla  Gam- 
bata di  Barbico  del  barbiere  e  poeta  Lazzaro  Migliorucci.  Questo  com- 
ponimento, datato  del  1621,  prima  clie  il  Trucchi  lo  pubblicasse  come 
inedito,  era  noto  al  popolo,  ed  io  ne  posseggo  una  edizione  di  Lucca  1816, 
presso  Francesco  Bertini.  Ha  pertanto  origine  letteraria. 

{-)  Tigri,  n.  715.  Il  sig.  G.  Salvadori  (ibid.)  osserva  che  prima  che  dal 
Tigri  questo  rispetto  fu  pubblicato  da  T.  Dandolo  in  certa  sua  Lettere  al 
e.  Belgio,joso  sui  Bagni  di  Livorno.  A  ogni  modo,  è  roba  fatturata,  e  lo 
sproposito  possono  dividerselo  fra  due. 

(•')  Il  TojiMASEo  che  aveva  in.serito  i  Canti  del  Bianciardi  nella  sua 
raccolta,  fece  noto  l'inganno  in  che  era  caduto  nelle  Scintille,  p.  205.  (Vedi 
anche  uno  scritto  di  C.  Arlia  nel  giornale  Niccolò  Tommaseo,  I,  135.)  Ma 
il  Tigri  ristampò  quei  Kispetti  nella  prima  edizione  dei  Canti  popolari  to- 
s-ani:  poi,  avvertito  dal  Bianciardi,  le"  cenno  di  ciò  nella  Pref.Tzione 
alla  2»  e  alla  'i"-  ristampa,  pag.  xli.  Ma,  come  ebbe  a  notare  il  Bianciardi 
(/  liispetti  dell' Amiata,  Firenze,  Tipografia  Claudian.i,  1803,  png.  15),  nella 
seconda   edizione   ne   rimasero   due,   e   l'altro   qui   trascritto    nella  terza. 


LA   POESIxV   POPOLARE   ITALIANA.  369 

Quando  incontri  i  miei  occhi,  e  fai  un  riso 
E  poi  gli  abbassi,  e  pieghi  il  mento  al  seno, 
Ti  prego  prima  darmene  un  avviso, 
Perchè  in  quel  mentre  io  tenga  il  cuore  a  freno. 
Perchè  in  quel  mentre  io  tenga  a  freno  il  cuore, 
Che  mi  vorrebbe  uscir  dal  grande  amore. 
Perchè  in  quel  mentre  io  tenga  il  cuore  in  petto, 
Che  mi  vorrebbe  uscir  dal  gran  diletto.  (') 


Altra  singolarità  notata  dal  Bianciaedi  è  che  il  p.  Giuliani  asseveri  aver 
udito  cantare  popolarmente  nell'Amiata  uno  degli  undici  lìispetti  apocrifi, 
cioè  il  seguente: 

Una  fila  di  nuvile  d'argento 
Innamorate  al  lume  della  luna, 
Vanno  per  l'aria  portate  dal  vento 
Per  salutarti,  o  bella  creatura; 

Per  salutarti  e  rigirarti  intorno, 
Innamorate  del  tuo  viso  adorno; 

Per  salutarti,  e  girarti  vicino. 
Innamorate  del  tuo  bel  visino: 

ove  il  Bianciaedi  osserva,  che  se  proprio  il  suo  Rispetto  è  passato  al 
popolo,  per  lo  meno  il  secondo  verso  non  sarà  cantato  come  lo  stampa  il 
Giuliani:  Innamorate  al  chiaro  della  luna.  —  Altro  fatto  meraviglioso  è 
che  questo  Strambotto  del  Bianciardi,  ridotto  al  solo  tetrastico,  sia  dato 
come  popolare  fra  le  antiche  vlllotte  veronesi  raccolte  dal  Caliari  (p.  159): 

Una  fila  de  nugole  d'argento 
Inamorè  dal  ciaro  de  la  luna 
La  vien  par  l'aria,  porta  qua  dal  vento 
Per  saludarte,  o  bela  creatura. 

Com'è  avvenuto  questo  passaggio,  colla  relativa  trasformazione  idio- 
matica, da  un  libro  a  stampa  al  popolo?  e  proprio  davvero  al  popolo? 

(1)  TioKi,  n.  283.  L'inserzione  del  Rispetto  del  Bianciardi  fra  i  po- 
polari, dopo  averne  notato  la  paternità  vera  nella  Prefazione,  è  di  quelle 
inavvertenze  che  dimostrano  la  poca  cura  con  che  fu  condotta  la  tre  volte 
ristampata  raccolta  tigriana.  Nella  quale  non  mancano  perfino  componi- 
menti identici  più  volte  ripetuti:  ad  esempio  n.  151-1170;  212-282;  281-358; 
343-793;  315-437;  525-648;  6.3.3-1015;  817-827;  855-980  ecc.  In  altri  casi  si 
hanno  componimenti  quasi  identici,  con  varietà  di  poco  conto,  che  sarebbe 
stato  bene  raggruppare,  anziché  disseminarli  qua  e  là;  ad  esempio:  n.  4-26 
68-382;  81-345;  100-279-480;  159-287;  193-421;  258-514-515;  251-545;  263-.350 
268-306;  271-324;  300-326;  301-473;  373-403;  418-448-625;  495-574;  503-808-991 
511-5.30;  524-580;  532-720;  546-784;  553-649;  592-606;  702-722;  706-718 
724-732;  729-751-752;  738-790;  755-787;  777-799;  818-834-856;  820-957;  821-838 
839-1079;  861-872;  885-972;  990-1139;  959-1148;  1005-1047  ;  1014-1108;  1024- 
1090;  1046-1077;  1110-1117;  1129-1153;  1138-1149;  114.3-1159;  1145-1157  ecc. 
Stornelli:  n.  84-123;  151-192;  152-213;  185-207;  190-286;  200-259;  297-311; 
392-406  ecc.  Nulla  dirò  di  certi  singolari  errori  di  trascrizione:  ad  esempio, 
verso:   Gli  occhi  nerelli  e  le  incarnate  ciglia,  che  ricorre  ai  n.  98  e  368; 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  24 


370  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Gravi  dubbj  potrebbersi  avere  per  quest'altro  : 

Alle  bellezze  della  donna  mia 

M'inginocchio  per  casa  e  per  la  via: 
Che  a  uu  angiolo  si  può  rassomigliare: 
Non  le  mancan  che  l'ali  per  volare.  {') 

E  SU  questo  ancora: 

A  pie  d'un  faggio  in  sull'erba  fiorita, 
Aspetto,  aspetto  che  giù  cada  il  sole, 
Perchè  quando  sarà  l'aria  imbrunita 
Appunto  allor  vedrò  spuntare  il  solo: 
Levarsi  quel  bel  sol  che  mi  ha  ferita, 
Che  m'ha  ferita  e  che  guarir  mi  vuole. 

E  questo  sol  ch'io  dico  è  il  mio  bel  damo, 
Che  sempre  io  gli  riprìco:  io  t'amo,  io  t'amo: 

E  questo  sole  è  il  giovanotto  bello. 
Che  a  Ferragosto  mi  darà  l'anello.  (^) 

In  altri  casi  parrebbe  esservi  un  qualcbe  più  o 
meno  leggero  ritocco  di  dotta  penna.  {^)  Quando  leg- 
gonsi  versi  come  i  seguenti: 


(love  fa  veramente  inarcar  le  ciglia  il  leggere  in  nota;  incarnate  ciglia: 
ciglia  rosee,  latte  e  sangue,  che  non  sono  cosa  in  natura.  Ma  il  Tommaseo, 
pag.  62,  donde  il  Tigki  trasse  il  Rispetto,  ha:  inarcate.  A  pag.  188  si 
legge:  Chi  queste  tue  bellezze  ammirar  picole,  Felice  egli  è,  e  pieno  d'ogni 
(«aie,  dov'è  chiaro  debbasi  leggere:  privo.  Lo  Stornello  n.  203  è  cos'i  stam- 
pato: E  me  ne  voglio  andar  di  macchict  in  macchia,  Incespicar  mi  vo'  tutta 
la  testa  Per  esser  vincitor  della  ragazza:  e  in  nota:  Incespicare:  porre  in- 
nanzi il  capo  fra  i  cespi  di  folto  bosco  per  jyassare.  Lasciamo  stare  se  la 
definizione  sia  esatta:  ma  nella  mia  Raccolta  manoscritta,  che  il  Tigri 
ebbe  fra  mano,  e  donde  tolse  lo  Stornello,  è  chiaramente  scritto:  Incipriar. 
Altro  grave  difetto  della  Raccolta  del  Tigki  è  di  aver  tolto  ogni  in- 
dicazione di  luogo,  segnata  dal  Tommaseo,  come  se  i  Canti  appartenessero 
ad  mi  solo  dialetto  comune,  e  non  a  varj  vernacoli.  Giovandosi  della  rac- 
colta tigriana  il  sig.  Schwencke  ha  scritto  una  dissertazione:  De  dialecto 
quae  carminib.  popular.  Tuscanicis  a  Tigrio  editis,  continetur,  Lipsiae, 
Grumbachs,  1872,  dove  sono  raccolti  ottimi  materiali,  ma  per  colpa  del 
Tigri  non  sono,  nò  potevan  essere  distinti  secondo  le  particolari  pronunzie, 
e  per  comune  a  tutta  Toscana  viene  dato  ciò  che  è  solo  di  una  od  altra 
parte  di  essa. 

(1)  Tigri,  n.  158. 

(2)  Tigri,  n.  497.  Qu.alche  dubbio  avremmo  anche  riguardo  ai  n.  150, 
244,  249,  349,  611  ecc.  e  sugli  Stornelli  di  n.  56,  109,  .341,  442  ecc. 

(3)  Il  Barbi,  l'oes.  pop.  pistoiese,  p.  4  afferma,  osservati  nella  Nazio- 
nale di  Firenze,  i  suoi  manoscritti,  che  "  il  Tigri  correggeva  e  talora  con 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  371 

Le  labbra  di  tm  beUissinio  corallo;  (*) 

Or  che  ti  giova  andar  cercando  fiori;  (^) 

Egli  ha,  una  bella  voce,  egli  ha  un  bel  canto;  (^) 

Se  non  son  degna,  onde  degna  ne  sia;  (*) 

Ma  lo  splendor  che  lasci  per  la  via 
E  sempre  meno  della  fiamma  mia;  (^) 

L'ho  perso  lo  mio  core,  e  il  vo  cercando;  (®) 

Allor  vedresti  il  mio  misero  cuore;  (^) 

Ti  credi  che  la  gente  non  mei  dica;  (^) 

Il  voglio  amare  e  tu  lo  vuoi  amare;  (^) 

L'ho  fatto  il  voto,  e  tu  non  mei  guastare;  (") 

Pensi  che  vestir  vogliami  di  bruno, 
Pensi  ch'io  voglia  far  come  qualcuno. 
Che  per  l'amante  vassi  addolorato;  (") 

Padrona  del  mio  cuor,  vien  te  lo  piglia;  ('^) 

Mangiò  ben  -presto  il  pane  tribolato;  ('^) 

parmi  chiaro  che  chi  li  trascrisse  ebbe  ben  poco 
senso  di  toscanità  (")  e  minor  pratica  delle  forme 
popolari,  se  accettò  per  buone  le  evidenti  correzioni, 
od  essendone  autore,  pensò  che  potessero  general- 
mente esser  accettate  per  buone. 


poco  senso  della  popolarità,  le  copie  dei  canti  che  gli  venivano  da"  suoi 
amici  e  collaboratori  „. 

(1)  Tigri,  n.  17.3.  E  lo  Stornello  n.  59:  Avete  i  lal)bri  simili  al  corallo. 

(2)  Id.,  w.  213.  Probabilmente:  0  che  ti  giova  ecc. 

(3)  Id.,  n.  224.  Bisognerebbe  scrivere:  E'  gli  ha. 

(4)  Id.,  n.  252. 

(5)  Id.,  n.  261. 
(«)  Id.,  n.  312. 

(7)  Id.,  485. 

(8)  Id.,  n.  760.  In  buon  toscano:  'uh  me  lo  dica. 

(9)  Id.,  n.  782. 

(10)  Id.,  n.  786.  In  buon  toscano  :  e  fu  'n  me  lo. 

(11)  Id.,  n.  1037. 

('-)  Id.,  Storu.,  n.  26.  Dovrà  dire  :  vietitelo  a  piglia. 
(13)  Id.,  Stoni,  n.  175. 

(Il)  Questo  senso  della  toscanità,  clie  certo  io  non  mi  arrogo,  pronto 
a  ricredermi  ove  avessi  errato,  ebbe  tra  i  non  toscani  vivissimo  ed  acu- 


372  LA   POESIA   POPOLARE    ITALIA:NA. 

Né  soltanto  fra  i  Canti  toscani,  ma  anche  in  altre 
Raccolte  si  sono  indebitamente  introdotti  componi- 
menti apocrifi.  La  pubblicazione  del  Marcoaldi,  nota 
a  ragione  il  Nigra,  (^)  comincia  con  un  Canto  arte- 
fatto, e  segue  con  parecchi  altri  d'egual  natura.  (") 
Chi  infatti  non  scorge  il  falso  in  questo  Rispetto, 
onde  appunto  s' inizia  la  Raccolta  umbra,  e  che  par 
proprio  un'arte  poetica  ad  uso  del  genere? 

E  voi  mi  domandate  in  cortesia 

Chi  fa  delli   miei  versi  lo  maestro? 

10  l'ho  dentro  del  cuor  la  poesia, 

E  canto  quello  che  mi  detta  l'estro. 

11  giorno  che  ho  veduto  la  mia  Nena 
La  mente  mi  sentii  di  versi  piena  ; 

Il  giorno  che  la  Nena  mi  ha  sorriso 
Io  l'ho  veduto  tutto  il  Paradiso; 
Ed  oggi  che  la  Nena  il  cuor  mi  dona, 
Io  son  poeta,  e  re  di  gran  coi'ona. 


tissitno  il  Tommaseo.  Eppure  ciò  non  gli  imped"!  di  scrivere  e  più  volte 
ristanip-ire  le  seguenti  parole  in  una  descrizione  di  Livorno:  "  Tu  se' un 
mar  vivente:  questa  espressione  io  sentivo  fuori  delle  porte  di  Livorno 
dalla  bocca  di  un  marinaro;  e  potete  ben  credere  cbe  i  letterati  non 
r  hanno  inventata  „  (Bellezza  e  Ciciltà.  Firenze,  Le  Monnier,  1857.  pag.  377). 
No  certo:  perchè  un  letterato  avrebbe  detto:  malvivente.  Quest'equivoco 
mi  ricorda  un  altro  nel  quale  cadde,  ma  poi  si  ritrasse,  il  Btron  notando 
in  una  lettera  alcune  forme  espressive  del  parlar  veneziano:  "  Ils  ont  des 
singulières  expressions...  ils  disent:  Mazza  ben,  attachement  excessif:  lit- 
téralement:  -  Je  vous  vcux  du  bien  au  point  de  vous  tuer  -  „.  Vero  è  che 
poi  soggiunge,  citate  altre  frasi:  "  Je  ne  suis  pas  bien  siir  do  mazza,  peut- 
("tre  est-ce  masaa,  qui  veut  dire:  beaucoup,  une  masse:  mais  pour  les 
autres  phrases,  j'en  suis  certain  ,  (T.  Moore,  Mémoires  de  Lord.  B.  trad. 
par  L.  Belloc,  Bruxelles,  Hauman,  1831,  III,  224). 

(1)  C.  p.  del  P.,  pag.  XIX,  in  nota. 

(-)  I  Canti  apocrifi,  opportunamente  notati  dal  Nigra  nella  Raccolta 
del  Marcoaldi,  sono  i  n.  1,  3,  26,  28,  34:,  39,  76,  degli  Umbri,  e  il  16o  dei 
Piemontesi  :  aggiungasi  il  5»  dei  Liguri,  il  49»  dei  Piceni  ecc.  Ne  tutti 
schietti  sono  i  canti  della  Raccolta  fabrianese  dello  stesso  Makcoaldi  ; 
p.  es.  il  n.  147:  L'amore  è  fatto  come  'n  ticceUelto  Che  va  di  ramo  in  ramo 
saltellando:  Con  un  gola  h  venuto  nel  mio  petto.  Il  povero  cor  mio  lo  va  bec- 
cando: e  via  di  questo  tòno.  In  nota  spiega  che  "  l'uccelletto  della  foro- 
setta  è  il  passero  di  Lesbia  „  ma  che  ""la  canzone  panni  sappia  .alquanto 
di  poesia  letterata  „.  Sicuro:  pare  un  pochette,  alquanto,  una  svenevolezza 
arcadica! 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALLàNA.  373 

Non  neghiamo  però  che,  oltre  questi  Canti  che 
crediamo  non  sieno  mai  stati  popolari,  altri  non  ve 
ne  sieno  di  evidente  origine  letteraria,  ma  che  il 
popolo  ha  fatto  suoi,  più  o  meno  modificandoli.  Ve- 
dremo più  oltre  una  serie  di  Canti  appresi  dal  po- 
polo di  sui  libri:  e  in  altri,  se  manca  la  prova  di 
fatto,  la  derivazione  letteraria  è  evidente.  Odasi 
questo,  che  sarebbe  fra  i  Canti  toscani,  ed  è  anche 
una  perfetta  ottava  : 

Bella,  non  fare  come  fa'  Narciso,  (') 
Di  donne  non  si  volse  innamorare; 
E  poi  s'innamorò  del  suo  bel  viso, 
Sopra  una  fonte  ne  venne  a  passare, 
Dentro  ci  si  guardava  fiso  fiso, 
Dell'ombra  sua  si  venne  a  innamorare; 
Guardate  come  fu  la  sua  fortuna! 
'Namorato  che  fu,  morte  si  dona.  (^) 

A'  seguenti,  perch'e'  siansi  fatti  popolari,  non 
nocque,  anzi  dovette  giovare,  l'antitesi  dei  concetti 
e  delle  frasi:  O 

Se  tu  mi  lasci,  lasciar  non  ti  voglio; 
Se  m'abbandoni,  ti  vo'  seguitare; 
Se  passi  il  mare,  il  mar  passare  io  voglio. 
Se  giri  il  mondo,  il  mondo  io  vo'  girare; 


(1)  Eeminiseenze  mitologiche  sono  anche  in  questo  canto  siciliano 
(Vigo,  n.  24:00)  che  ricorda  Piramo  e  Tisbe,  Progne  e  Tereo,  Euridice  ed 
Orfeo,  e  nella  prima  sua  origine,  avanti  che  s'infarcisse  di  spropositi,  do- 
vette certo  essere  letterario  : 

Cianci  Pirimu  e  Tisbi  pri  l'amuri, 
Ca  morti  tutti  dui  s'aispiru  a  dari; 
Brogna  e  Tereum  pri  hi  granni  emiri 
Ccu  pinni  e  ali  niisiru  a  vulari: 
Cianci  Ararici  'ntra  caverni  oscuri 
Ca  Orfeu  a  lu  'nfernu  la  vitti  turuari; 
lu  cianeiu,  e  m'annavanza  lu  duluri. 
Ca  t'aniu,  e  'un  saccia  s' iddu  mi  vo'  amari. 

(2)  Tigri,  n.  133. 

(3)  Lo  stesso  andamento,  ma  pur  anco  lo  stesso  carattere  letterario, 
hanno  molti   Canti   siciliani,  che  paiono   esercizj  di  coniugazioni  verbali: 


374  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Se  passi  il  mare  con  pianti  e  con  pene, 
Con  te  voglio  venir,  caro  mio  bene. 

Se  passi  il  mare  con  pene  e  con  guai. 
Con  te  voglio  venir  dove  ne  vai.  (^) 

Se  m'ami,  io  t'amo;  e  se  tu  m'odii,  io  t'odio; 
Se  tu  mi  vuoi  del  ben,  ten  vuo'  il  cor  mio; 
Se  mi  sprezzi,  ti  sprezzo,  e  s'altra  brami, 
S'altra  desidri  tu,  altri  bramo  io; 
Se  segui,  io  seguo,  e  se  tu  fuggi  io  fuggo: 
Se  tu  ardi  per  me,  per  te  mi  struggo.  (-) 

Anche  questo,  che  è  vera  ottava,  ha  intonazione  let- 
teraria : 

Crude  sono  le  fiere,  e  sì  spietate 
Nate  ne'  boschi,  fra  l'erbe  nutrite; 
Ma  non  tanto  crudeli  e  tanto  ingrate, 
Quanto  inverso  di  me  tiranna  siete. 
Bella,  se  vi  amo,  perchè  non  mi  amate? 
E  se  vi  seguo,  perchè  mi  sfuggite? 
Verrà  la  morte,  e  tutti  due  morremo, 
Dipoi  che  contentar  non  ci  potemo.  (^) 

In  altri  casi  si  direbbe  che  il  Canto  sia  in  parte 
letterario,  in  parte  popolare:  l'intonazione  incon- 
sueta non  ha  retto  a  lungo,  cedendo  il  luogo  a  più 
semplice  suono,  o  questo  si  è  a  quella  innestato. 
Eccone  qualche  esempio: 

Miseri  gli  occhi  miei  quando  vedranno 
Vostre  bellezze  in  libertà  (■*)  d'altrui! 


Tu  speri,  iu  sperti,  e  tutti  due  spiratnu...  Tu  si'  mia,  iu  su'  to,  luntani  stamu  ecc. 
(Vigo,  n.  597);  Nun  su' ntiu,  ca  szi'  to,  su'  oca,  su'  ddocu,  Su'  cchiù  ddocu  ca 
ccà,  cchih  to  ca  miu  ecc.  (Vigo,  n.  834);  Ti  secutu,  ti  fnju,  amu,  disamu,  Nun 
t'ainu,  timu,  m'accustu,  m'arrassu,  Parru,  ammutisciti,  ti  rifiulu  e  bramu.  Ti 
secutti,  abbanntinu,  pigghiu  e  lassù  ecc.  (Vigo,  n.  84:!);  Tu  vo',  iu  vogghiu,  tutti 
dui  volemn,  Tu  nun  voi,  iu  nun  vogghiu,  e  nui  ni  stamu.  Tu  vurristi,  iu  vurria, 
ma  nun  potemo  ecc.  (Vigo,  n.  1721);  ^Vnn  >nutu,nun  mutai,  nun  mutiroggiu  ecc. 
(Vigo,  1737);  Nun  lassù,  nun  lassai,  nun  lassirb  ecc.  (Vigo,  1795);  M'abhandon- 
nasti  ed  iu  t'abbannunai,  Tu  rifriddasti  ed  iu  'ntirìzgii  ecc.  (Vigo,  il.  2829). 
(>)  Tigri,  n.  58C. 

(2)  Tigri,  n.  839.  Cfr.  n.  1079,  1080,  1087. 

(3)  Tigri,  n.  993. 

(■1)  Corto:  in  x^otestà. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  375 

Pianti  e  sospiri  a  me  non  mancheranno, 
Di  tanto  bene  che  ho  voluto  a  vui  ! 

Non  piango  mica  il  ben  che  vi  volevo, 
Piango  le  falsità  che  vi  credevo. 

Non  piango  mica  il  ben  che  v'  ho  voluto. 
Piango  le  falsità  che  v'ho  creduto.  (') 

La  differenza  di  suono  comincia  qui  colla  ripresa, 
come  se  fossero  due  tetrastici  di  diversa  origine, 
appiccati  insieme.  E  così  in  questi  altri  casi: 

Quanto  piìi  in  alto  cielo  n'anderai. 
Più  aspro  ti  sarà  scendere  in  terra; 
Quando  la  pace  a  me  domanderai, 
Allor  sarò  forzata  a  farti  guerra. 

Quando  verrai  da  me  a  chieder  pace. 
Non  si  può  perdonare  a  chi  è  fallace. 

Quando  verrai  da  me  che  ti  perdoni, 
Non  si  può  perdonare  ai  peccatori.  (-) 

Zappai  nell'acque  e  coltivai  l'arena, 

Scrissi  con  polve  e  poi  la  diedi  al  vento: 

Era  di  neve,  amor,  la  tua  catena 

Che  il  sole  la  distrusse  in  un  momento. 

Ora  m'avvedo  e  conosco  l'errore; 
Quanto  son  false  le  vostre  parole! 

Ora  m'avvedo,  e  conosco  il  partito; 
Chi  si  raffida  in  voi,  riman  tradito.  (^) 

Ho  visto  per  pietà  continovare 

'Na  goccia  d'acqua  sconsumare  un  sasso; 
Ho  visto  molti  poveri  innalzare. 
Principi  e  cavalier  calare  al  basso. 

Ed  ho  veduto  di  molti  signori 
Calare  abbasso  e  diventar  pastori; 

Ed  ho  veduto  de'  signori  tanti 
Calare  abbasso  e  diventar  amanti.  {*) 


(1)  Tigri,  n.  803. 

(2)  Tigri,  n.  895. 

(3)  Tigri,  n.  998. 

(*)  Tigri,  n.  1179.  Hanno  carattere  più  o  meno  letterario  anche  i  n.  20, 
570,  795,  859,  999,  104:8,  1116  ecc. 


376  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAKA. 

Aucbe  maggior  numero  di  Canti  dall'effigie  chia- 
ramente letteraria  trovasi  framezzo  agli  Strambotti 
popolari  siciliani.  (^)  Non  si  potrebbe  in  generale 
disconoscere  che  sieno  stati  raccolti  fra  '1  popolo, 
come  tutti  gli  altri,  e  che  il  popolo  come  gli  altri 
non  li  canti  ;  ma  neanche  potrebbe  negarsi  che  ab- 
biano qualche  cosa  che  dalla  generalità  li  renda 
alquanto  differenti.  Vi  è  in  essi  una  ricercatezza  di 
concetti,  una  raffinatezza  di  sentimenti,  una  lindura 
di  frasi  e  vocaboli,  un  artificio  di  versificazione,  un 
sì  fragoroso  contrasto  di  immagini  e  di  parole,  una 
così  assidua  cura  di  carezzare,  lisciare,  ingrandire  le 
minime  cose  e  dar  loro  l'importanza  delle  grandi,  (^) 
un  che,  insomma,  che  al  popolo  piace,  ma  ch'egli  di 
jDer  sé  non  sa  fare,  perchè  contrario  alla  sua  vera 
natura.  Chi  ha  pratica  col  genere,  facilmente  av- 
verte la  dissomiglianza  di  questi  componimenti  da 
quelli  fatti  davvero  dal  popolo  ;  ma  facilmente  anche 
comprende  come  al  popolo  sieno  garbati,  e  li  abbia 
fatti  suoi,  mentre  sprezza  e  non  cura  le  svenevoli 
imitazioni  de'  Canti  suoi  proprj.  "  Tutti  i  Canti 
piazzesi,  dice  il  Vigo,  putono  di  calamajo  „  ;  (^)  e 
più  oltre:  "  Al  solito  i  Canti  di  Piazza  sentono  d'in- 
chiostro „.  (*)  E  anche  altrove  qua  e  là  esprime 
le  stesse  riserve  sulla  schietta  popolarità  di  taluni 


(1)  n  GuASTELLA  COSÌ  coiicliiude  la  sua  Prefazione,  pag.  cxxxi  :  "  In 
quanto  alle  Canzuni,  le  schiettamente  popolari  sono  poche,  essendo  in 
grandissima  parte  opera  di  poeti  eulti,  sebbene  stupendamente  modificate 
e  migliorate  dal  popolo  ,.  E  promette  di  dimostrare  in  uno  studio  "  che 
verrà  pubblicato  in  fin  dell'opera,  con  argomenti  irrefragabili,  che  i  nostri 
Canti  sono  letterarj  nella  massima  parte  „.  Disgraziatamente  la  promessa 
non  fu  mantenuta.  Il  valente  illustratore  dei  canti  e  delle  usanze  di  Modica 
morì  ai  6  febbraio  1899. 

(=)  L'arte  del  Veneziano  sta  tutta,  com'egli  dice,  nell'ottava  288  del 
1"  Libro  de  la  Celia,  nell'  'nlagghiari  Graniti  colossi  in  picciuli  carnei. 

P)  Nota  al  n.  2952. 

(t)  Nota  al  n.  3092. 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  377 

Strambotti,  0)  fra  gli  altri,  per  quelli  tutti  di  Pie- 
traperzia.  O  Similmente  il  Pitrè  fa  eguali  avver- 
tenze rispetto  ai  Canti  raccolti  in  Tortorici.  {^)  Sulle 
ragioni  del  fatto  già  abbiam  detto  qualche  cosa,  e 
più  diremo  in  appresso  ;  intanto  ci  piace  confermarlo 
con  esempj,  perchè  meglio  si  noti  questa  singolare 
tendenza  del  Canto  popolare  alla  squisitezza  delle 
forme  letterarie.  Apriamo,  adunque,  la  "  Raccolta 
amplissima  „  del  Vigo,  e  caviamone  fuori  alcuni 
Canti,  che  evidentemente  appartengono  alla  cate- 
goria degli  aulici: 

Di  dda  Sirena  mia  sempri  adurata, 
Pinci,  0  pitturi,  la  gran  simpatia, 
Comu  mi  teni  in  estisi  biata. 
Quanta  di  dd'occlii  è  forti  la  magia; 
E  sibbeni  iu  la  soffru  sempri  'ngrata, 
Pr'  ingannari  st'afflitta  fantasia. 
Pinci  l'occhi  ccu  mastra  pinziddata, 
Mossi  'nfini  a  pietà  di  st'agunia.  (*) 

"  Lo  canta  il  popolo,  soggiunge  il  Vigo;  ma  è  del 
popolo?  Io  lo  reputo  di  persona  che  ha  letto  „.  E  a 
proposito  di  questa  che  segue,  annota:  "  La  Canzone 
è  popolare,  ma  è  stata  ritocca  e  guasta  da  qualche 
dottore  „  : 

Ssi  tei  biancliizzi  su'  tantu  perfetti, 
Ca  pari  fatta  di  nivi  e  di  latti: 
'N  capu  ssi  mascidduzzi  hai  due  russetti, 
Cchiìi  frischi  di  li  rrosi  ancora  'ntatti; 
L'occhi  'nnucenti  ca  a  pampina  metti 
Fa  ca  ogni  cori  s'arrisbigghia  e  sbatti; 


(i)   Note    ai    11.   83-i,   843,    1859,    1613,   2538,   2903,   3060,    3101,   312i, 
3812  ecc. 

(■2)  Nota  al  n.  78. 
(3)  Nota  al  n.  261. 
W  Viao,  n.  78. 


378  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Lu  sai  comu  su'  l'ancili  ccliiù  eletti  ? 
Guardati  'tra  lu  speccliiu  ca  cci  appatti.  (') 

Quest'altro  ancora  accortamente  dubitò  il  Vi- 
go (')  che  "  sapesse  di  scuola  „  : 

De  li  beddi  occhi  toi  la  sciamma  ardenti 
M'ha  cunsuniatu  li  niiduddi  e  l'ossa; 
Talchi  lu  tini  di  li  me'  turmenti 
E  la  paci  pri  mia  sarà  la  fossa; 
Qualunchi  vota  chi  mi  torni  in  menti 
Crisci  la  dogghia  a  misura  chi  è  mossa; 
Pirchì  spina  tuccata  è  cchiù  pungenti, 
E  la  sciamma  ardi  cchiù,  quannu  è  cchiù  smossa.  (^) 

Così  leccato  com'è,  si  capisce  che  questo  che  se- 
gue potesse  esser  fatto  suo  proprio  dal  popolo,  ma 
non  dal  popolo  composto: 

Specchiu,  signura,  mi  vulissi  fari 
Ppi  vui  guardari  di  cuntinu  a  mia; 
E  vistinedda  mi  vulissi  fari, 
Di  la  vistina  almeno  la  pudia: 
Frisca  funtana  mi  vulissi  fari 
Si  cci  lavassi  la  patruna  mia; 
Fussi  la  sòia  di  li  to  quasar!, 
Lu  to  piduzzu  sempri  vasiria!  C) 

Dicasi   altrettanto  di  questo,  che  è  un  dialogo  fra 
un  amante  disperato  e  il  diavolo  : 

—  Cu' è  ca  batti  li  porti  a  lu  'nfernu?  — 
—  Apri,  ca  sugnu  un  misiru  dannatu.  — 


(1)  Vigo,  n.  118. 

(3)  N.  3060.  Cfr.  Mueller-Wolff,  pag.  244. 

(3)  È  infatti  nel  Codice  Laurenziano  97,  I,  pag.  41,  col  nome  di  Fi- 
lippo Triolu,  con  queste  leggero  varianti:  vers.  2:  Consumai' ha  la  carni 
e  st' afflitti  —  3  alia  fini  —  4  L'ultima  paci  mia  —  5  S' iu  minili  scorda  e 
poi  mi  veni  —  6  Tanfi  più  acerba  la  dogghia  cummossa  —  7  tticcata  chiaga  — 
8  quantu  chiù  è.  E  il  prof.  U.  A.  Amico  mi  avvertiva  che  infatti  col  nome  di 
Filippo  Tkiolo  trapanese  trovasi  nella  Nuova  scelta  di  rime  siciliane,  1770, 
voi.  I,  pag.  67,  e  nella  Scelta  di  cansuni  siciliani,  raccolte  dal  De  Blasis 
0  Gambacorta,  1753,  pag.  130. 

(4)  Vigo,  n.  512.  Cfr.  n.  511. 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  379 

—  Chi  veni  a  fari  'tra  stii  focu  eterna?  — 

—  Vegnu  pri  ripusari  a  Io  tò  lato.  — 

—  Lu  vidi  eh' è  di  focu  lu  guvernu, 
E  cui  ci  trasi  resta  cunnannatu?  — 

—  Megghiu  muriri,  e  scinniri  a  lu  'nferno 
Ch'essiri  di  l'Amari  turmiutata.  —  (^) 

Quest'altro,  dice  il  Vigo,  il  popolo  l'avrà  adot- 
tato da  qualche  antico  autore  : 

Siddu  c'è  stidda,  stidda  siti  vai, 
Siddu  c'è  soli,  siti  vui  lu  sali; 
Siddu  c'è  luna,  luna  siti  vui, 
Siddu  c'è  duri,  siti  vui  lu  ciuri; 
Nun  c'è  biddizza  ca  nun  siti  vui, 
Siddu  c'è  amuri,  siti  vui  l'amuri; 
Unni  risguardu  senipri  vidu  a  vui. 
In  tutti  li  jurnati,  in  tutti  l'uri.  (^) 

Più  e  pili  Canti  arreca  il  Vigo,  ne'  quali  l'ama- 
tore è  con  molta  arguzia  di  paragoni  rassomigliato 
ad  un  orologio  :  e  ne  trascegliamo  uno  di  Milazzo  : 

Su'  divintatu  rraloggiu  d'Amuri; 
Spirita  è  lu  me  cori  ca  cummatti: 
Mazziri  l'ossa  ccu  affanni  e  daluri, 
Cordi  li  nervi  rallintati  e  attratti: 
Rosa  la  menti,  ed  ogghiu  li  sudari, 
Amuri  è  lu  marteddu  e  sempri  batti; 
Campana  è  la  mia  Dia,  ca  sona  l'uri, 
Mi  pasci  di  palori  e  non  di  fatti.  (") 


(1)  Vigo,  n.  662.  Cfr.  Pitrè,  Canti  popol.  sicil.,  I,  142:  e  vedi  anche 
un  Canto  in  dialogo  fra  un  dannato  che  vuol  passare  le  porte  infernali  e 
Cerbei'o  che  n'è  custode,  riferito  dal  prof.  Amico  nella  sua  Lettera  sopra 
UH  manoscritto  di  poesie  siciliane  nella  hibliot.  nazion.  di  Bologna,  nella 
Rivista  Sicula,  voi.  I,  pag.  4'jl  (anno  1869^. 

(2)  Vigo,  759.  Più  tardi,  L.  Capuana  nelle  Poesie  di  P.  Mauea  in 
dialetto  siciliano  (Milano,  Brigola,  1879,  p.  141)  riportò  questo  Canto  insieme 
ad  altri,  accettati  per  autentici  dal  Vigo,  dichiarandoli  "  falsificazione  let- 
teraria „  (p.  xiv)  e  velatamente  indicando  se  stesso  per  vero  autore. 

(3)  Vigo,  n.  775  in  nota,  e  vedi  ivi  altre  varianti.  Cfr.  Avolio,  n.  20; 
Canale,  n.  35;  Manda  lari,  p.  391.  Nel  codice  calabrese,  del  quale  più  oltre 


880  LA  POESLi  POPOLARE  ITALIANA. 

Opportunamente  il  Vigo  a  proposito  del  Canto 
che  segue  rammenta  un  Sonetto  azzimato  e  sdolci- 
nato del  Lemene.  (^)  Contiensi  in  ambedue  i  compo- 
nimenti un  sogno:  nel  Sonetto,  l'amante  e  la  bella 
sono  insieme  condannati  all'Inferno,  egli  per  aver 
osato  alzar  gli  occhi  e  il  desiderio  ad  una  Dea,  ella 
per  la  sua  crudeltà.  Ma  ad  un  tratto  l'Inferno  can- 
giasi in  Paradiso  : 


diremo,  trovo  quest'ottava  a  pag.  85: 

Di  mia,  di  li  mei  guaj,  di  li  mei  peni 
'Kdi  foitna  un  orologiu  la  Fortuna; 
La  campana  è  stu  pettu  chi  sosteui 
Di  hi  marteddu  li  corpi  che  duna: 
Lu  spiritu  è  stu  cori  chi  va  e  veni; 
E  palpitandu  li  suspiri  duna; 
Quaiidu  mi  criju  nrrivari  a  lu  beni, 
Souanu  vintiquattro,  e  torna  Tura. 

Una  lezione  poco  diversa  attribuita  a  D.  I.  Gravina  da  un  cod.  trapanese, 
è  in  P.  Camin,  per  nozze  Albei-ti-Irzel,  Palermo,  tip.  Gioru.  di  Sicilia,  1890, 
p.  7.  Nel  cod.  Laurenziano  97,  I,  cart.  6.  che  più  qua  esamineremo,  la  se- 
guente ottava  va  sotto  il  nome  del  celebre  Veneziano: 

Su  fattu  orloggiu,  chi  li  moti  cuntu 
Chi  fa  lu  celu,  e  quantu  voti  duna; 
Numeru  ogn'ura,  ogni  quartu,  ogni  puntu, 
Di  quandu  inalba  sin  a  quandu  imbruna; 
Quando  mi  criju  a  la  jurnata  juntu 
D'essiri  in  gratia  di  la  mia  patruna, 
Tandu,  mischinu  mia,  scuru  e  tramuntu; 
Sonati  vintiquattru,  tornu  ad  una. 

E  con  leggerissime  varianti  è  nelle  Opere  di  A.  Veneziano,  Palermo.  Gili- 
berti,  1859,  pag.  15,  n.  61.  È  poi  curioso  a  sapersi  che,  sei  anni  dopo  l'inven- 
zione che  a  Giovanni  Dondi  meritò  l'aggiunta  Dall'Oi-ologio,  il  re  di  Francia 
fece  costruire  a  Enrico  De  Vie  mia  consimile  macchina  per  la  cittìi  di 
Parigi.  Quando  fu  messa  al  posto,  ispirò  allo  storico  Froissart  un  compo- 
nimento di  117-1  versi  dal  titolo  Li  hoi-loge  aiìioiireus,  nel  quale  espone  lo 
molte  analogie  fra  i  moti  dell'orologio  e  le  sensazioni  di  un  cuore,  che 
l'amore  ha  in  sua  balla.  La  cassa  rappresenta  il  cuore  dell'innamorato,  la 
prima  rota  messa  in  movimento  dai  pesi  è  il  desiderio  svegliato  dalla 
bellezza,  e  cos'i  via:  v.  A.  Franklin,  La  Vie  pì-ivée  (Vaiitrefois :  la  Mes»re 
du  tetììjìs,  Paris,  Plon,  1888,  p.  50. 

(1)  Ma  veramente  si  risale  con  questo  ghiribizzo,  al  Cariteo  :  vedi  il 
mio  saggio  sul  Secentismo  nella  poesia  cortigiana  del  sec.  XV,  in  Studi  di 
leti.  ital.  dei  primi  sec,  p.  18G:  ove  noto  imitazioni  del  Di  Costanzo,  del 
M;irini  e  di  Eustachio  Manfredi,  e  sarebbe  da  aggiungersi  un  madrigale 
del  Testi:  Lidia,  non  è  bugia  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA,  381 

Tu  lieta  mi  parevi,  ed  io  contento  : 
Io  perchè  rimirava  il  tuo  bel  viso, 
Tu  perchè  rimiravi  il  mio  tormento. 

Or  odasi  come  lo  stesso  concettino  si  svolga  in  un 
Canto  siculo  raccolto  in  Minèo: 

Mi  sunnai  chi  nui  dui,  patruna  mia, 

'Ntrammu  a  lu  'nfernu  janiu  cunnannati; 

lu  chi  cosa  celesti  pritinnia, 

Vu'  ppi  la  vostra  troppa  crudiltati: 

Vu'  tant'eravu  sazzia  di  mia, 

Ch'un  jocu  vi  parria  zzoccu  si  pati  : 

lu  ppi  la  vostra  vista  e  cumjìagnia 

Essiri  ('n)  mi  parria  'ntra  li  dannati.  (^) 

Ma  l'ottava  è,  secondo  il  Vigo,  di  Orazio  Capuana,  (-) 
sebbene  noi  l'abbiamo  trovata  manoscritta  (^)  e  a 
stampa  (*)  fra  le  cose  del  Veneziano.  ('') 


(1)  Vigo,  n.  WSi.  Aggiungiamo  la  negativa,  che  manca  al  Vigo,  e 
senza  la  quale  manca  anche  il  senso. 

(2)  E  anche  L.  Capuana,  op.  cit.,  p.  8.3.  l'attribuisce  al  suo  omonimo. 
Dello  stesso  sarebbe  anche,  secondo  il  Vigo,  n.  1.51.5,  quest'ottava,  della 
quale  una  lezione  un  po'  diversa,  offre  L.  Capuana,  op.  cit.,  p.  82.  ed  altra 
un  cod.  magliab.  (Rubieki,  pag.  192)  e  che  è  poi  passata  al  popolo  : 

Comu  gravida  donna  ca  ddisia 
Li  frutti  chi  a  ddu  tempu  nun  ci  su" 
E  per  effettu  di  la  fantasia. 
Tocca 'na  parti  e  non  ci  pensa  cchiìi; 
Doppu  nasci  lu  partu,  zoccu  sia, 
Signatu  appunta  unni  taccata  fu; 
Censì  fu' in  pri  disiari  a  tia; 
Tuccai  stu  cori,  e  ci  arristasti  tu  : 

Cfr.  una  ottava  del  Veneziano,  ediz.  cit.,  pag.  50,  n.  259.  E  anche  attri- 
buito a  Girolamo  d'Avila;  v.  S.  Salomone  Marino,  Intorno  al  Parnasso 
Siciliano,  ms.  del  1631,  Palermo,  Statuto,  1892,  p.  10,  ove  sono  riferite  pa- 
recchie variazioni  su  questo  concetto. 

(3)  Cod.  Laurenz.,  96,  pag.  16. 

(•1)  Ediz.  cit.  del  Veneziano,  pag.  43,  n.  222.  Diamo  qui  alcune  va- 
rianti: 1  Cod.  e  st.  :  vai  ed  tu  —  1  Cod.  e  st.  :  Morti  a  l'infermi  —  3  Cod. 
e  st. :  per  chi...  vulia  —  4  Cod.:  troppa  vostra:  st. :  vostra  troppu  —  5  Cod.: 
tantu:  st. :  Tantu  vi  sazziavivu  —  6  Cod.:  Chi  festa  vi  paria  qiiantu.  St.: 
Chi  festa  ci  paria  zoccu  —  7  St.  :  duci  —  8  Cod.  e  st.:  Stari  min  mi  cridia 
fra  li  dannati. 

(5)  Anche  il  n.  3851  del  Vigo  trovasi  a  pag.  123  delle  opere  del 
Veneziano,  n.  33. 


882  LA  POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

Bello  è  il  canto  seguente,  specialmente  nella 
prima  parte,  ma  fatto  dal  popolo  noi  diremmo  dav- 
vero : 

Scura  la  notti,  trunianu  li  venti 

Ammucciata  è  la  luna  a  lu  livanti; 

'Ntra  lu  lettu  si  abbrazzanu  l'agenti, 

lu  fora  staju,  ohimè,  poviru  amanti! 

Ti  cantu  li  canzuna,  e  non  li  senti. 

Ti  n'ha' fattu  n'aricchia  di  mircanti; 

Quannu  la  testa  a  lu  capizzu  menti. 

Rigorditi  di  mia  mentri  ca  campi.  O 

Né  di  minor  bellezza,  ma  pur  sempre  di  letteraria 
origine,  diremmo  quest'altro  : 

Comu  'na  rrosa  dintra  lu  buttuni, 

Durmia  la  bedda,  e  s'insunnava  a  mia; 
Adaciu,  adaciu  cci  dugnu  un  vasuni. 
Si  arrisbigghia,  apri  l'occhi  e  mi  talia  ; 
Cci  sciaura  di  cannedda  lu  sciatuni, 
La  trizza  coddu  coddu  pinnulia; 
Guardati  si  a  stu  manna  c'è  pirsuni 
Ca  ponnu  assimigghiari  a  la  me  Dia!  (^) 

E  bellissima  è  pur  quest'altra  ottava:  ma  chi  la  di- 
rebbe composta  dal  popolo? 

Ciancennu  e  lagri manna  la  lassai 
Mesta,  assittata  d'avanti  la  porta: 
Quannu  la  bianca  manu  cci  tuccai, 
L'avìa  fiidda  'na  nivi  ed  era  assorta; 
E  poi  mi  dissi:  Vera  ti  ni  vai? 
Ora  li  peni  mia  cu'  li  cunforta? 
Longa  è  la  via;   cui  sa  quannu  virrai? 
Ju  nun  ti  viju  cchiù,  ca  sugnu  moria.  (^) 


(1)  Vigo,  li.  1322. 

(2)  Vigo,  n.  208(5. 

(3)  Vigo,  ii.  2650.  V.ari.anti  del  ■1"  v.:  L'av)n  cchHi  f ridda  di 'na  vera 
morta:  e  deirultirao:  Viva  mi  lassi  e  mi  ritrovi  morta.  Eccone  l'imit.izioiie 
toscana  (Tigri,  ii.  11,36): 

La  vidi  alla  finestra  clie  piangea, 
Io  la  chiamai  e  le  dissi:  Cos'hai? 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALLVNA.  383 

Osservammo  già  quanto  nella  poesia  popolare 
di  genti  diverse  e  disgiunte  ricorrano  frequenti  i 
desideri  di  trasformazione  dell'amante  in  alcun  ani- 
male od  oggetto.  (^)  Ma  quest'ottava  siciliana,  nella 
forma  almeno,  sa  di  letterario  : 

Mi  fici  surgi,  risicai  la  vita, 

La  mia  amanti  si  fici  gattaredda: 
lu  mi  fici  cuniggliiii,  ed  idda  rrita; 
lu  cacciaturi,  ed  idda  cagnuledda  ; 
Ora  siignu  acidduzzii  di  partita, 
Ed  idda  è  stracanciata  in  calantredda; 
Havi  dui  anni  ca  fazzu  sta  vita  ; 
Tantii  ci  voli  pr'amari 'na  bedda  !  (^) 

Giudizj  d'amore  e  tribunali  ove  la  giustizia  non 
si  vende  e  non  s'inganna  —  e  a  tutti  viene  a  mente 
il   piato  fra  il  poeta   e  Amore  al  tribunale   della 


E  lei  mi  disse  :  Penso  a'  casi  mia, 
Senza  che  te  lo  dica,  amor,  lo  sai. 
Se  non  mi  pigli  e  tu  mi  porti  via, 
Le  nuove  che  son  morta  presto  avrai. 
So  non  mi  prendi  per  teco  menarmi. 
Le  sentirai  cantar  le  requie  e  i  salmi. 

(1)  È  da  vedere  in  E.  Marin,  op.  cit.,  II,  403,  a  illustrazione  del  canto 
spagnuolo  Quisiera  ser  el  sepulcro,  Donde  à  ti  te  han  de  enterrar.  Para  te- 
nerle eii  niis  hrazos  Por  toda  la  eternidad,  una  copiosa  raccolta  di  poesie 
popolari  e  d'arte  contenenti  siffatti  desideij. 

(2)  Vigo,  n.  1711.  Cfr.  varia  lezione  in  Pitrè,  &';«(?/,  p.  76;  lezione  lec- 
cese in  Imbriani,  C.  x'opol.  jjroo.  merìdion.,  I,  1S7  e  napoletana  in  Moli- 
NAEO,  p.  129.  L'imitazione  toscana,  che  sa  ancor  più  di  letterario,  è  questa 
(Tigri,  n.  850)  : 

Se  per  fuggir  da  me  cervo  ti  fai, 
Leone  mi  farò  per  arrestarti  ; 
E  se  uccello  in  aria  volerai. 
Io  falco  mi  farò  per  ripigliarti  ; 
E  se  pesce  nell'acqua  noterai, 
lo  rete  mi  farò  per  ripescarti  ; 
E  se  alfin  lume  ti  sarà  concesso. 
Farfalla  mi  farò  per  starti  appresso. 

Il  penultimo  verso  è  evidentemente  errato  ;  forse  :  E  s'esser  lume  ti  sarà 
concesso. 


384  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Eagione  —  ricordano  questi  due  Canti,  che  dai  let- 
terati ci  sembrano  discesi  al  popolo  : 

Voggliiu  dnmani,  si  si  teni  udienza, 
Sta  supplica  a  Cupidu  apprisintari, 
Riguardanti  l'ingiusta  prepotenza 
Ca  tu  ccu  mia  si'  solita  ad  usari  : 
A  vucca  poi  diroggiu  a  Sua  Eccellenza  : 
Signuri,  'un  si  pò  affatto  suppurtari 
Di  sta  barbara  donna  l'insulenza, 
Ca  voli  essiri  amata  e  non  amari.  (') 

'Ntra  lacrimi  e  suspiri  fui   citatu 
Ravanti  un  tribunali  ri  giustizia  ; 
Cantari  vuoggiu  hi  tò  cori  'ngratu, 
Ca  mi  hai  persu  r'amuri  e  r'amicizia  ; 
Qual'è  l'amuri  tuou  ca  mi  hai  purtatu  ? 
Viva  l'amuri  mia  senza  malizia  ! 
Ora  ca  'n'autru  amanti  t'hai  circatu, 
Tribunali  ri  Diu,  fammi  giustizia  !  (-) 

Altri  ancora  non  dispiaccia  udirne  al  lettore,  pieni 
di  artificio  ed  evidentemente  dovuti  a  penna  eulta: 

Gesù,  quanta  è  laida  l'aspittari  ! 

Massima  ppri  cui  ama  e  porta  amuri  ; 

Ogn' ammira  ca  vija  iddu  mi  pari, 

Ogni  scrusciu  ca  senta,  eccu  ca  veni.  (^) 


(1)  Vigo,  n.  1937. 

(2)  Vigo,  n.  1991  :  cfr.  ii.  269-1,  e  questo  Canto   avellinese   (Imbeiani, 
C.  popol.  avellin.,  pag.  49)  : 

Giudice  e  presidienti  quanta  siti. 

Tengo  'na  lite  co'  la  'nnamorata  ecc.; 
e  a  pag.  86: 

Tengo  "na  lite  co'  lo  'nnamorato, 

Si  nce  Iiaggio  la  ragione,  mme  la  faciti  ; 

Asciti  giudicanti  tutti  a  rote. 

Giudici  e  cancellieri  quanta  siti  ; 

Io  ve  lo  cerco  per  finezza  granne, 

Cundannate  sto  ninno  a  ccliiìi  de  'n  anno. 
(^)  Serafino  dell'Aquila  in  uno  Strambotto: 
Poco  è  eh'  io  stava  ad  ascoltare  intento 

E  senti' mormorar  non  so  che  porta: 

Dico  :  Quest'ò  chi  mi  vuol  far  contento  ; 

E  si  rinlVanca  la  speranza  morta  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  385 

Vaju  dicennu  coma  vogghiu  fari? 
lu  mora,  e  non  lu  vija   a  la  me  Ijeni  ; 
Nun  pensa  né  a  daimiri  nò  a  mangiari: 
Haju  la  gihisia  'ntra  l'arma  e  peni.  (') 

Di  la  frevi  frinetica  d'amari, 

Frevi,  ca  'ntra  li  frovi  è  acata  assai, 
Mentri  ia  addamava  d'estrema  caluri 
Mi  cumparisti,  bedda,  e  ti  lodai. 
Ora  ca  mi  pargai  di  tali  ardari 
Cchiìi  bratta  qaanta  tia  non  vitti  mai; 
E  si  bedda  ti  dissi,  è  stata  errari  ; 
Svitti,  e  coma  frinetica  sparrai.  (^) 

Irvuzzi  verdi  e  xiari  di  sti  chiani, 
Ora  spantati  'mmatala  pri  mia; 
Acqai  frisclii  d'argenta  a  li  fantani, 
'Mmatala  vai  scurriti  pri  la  via; 
Chiancia  la  sira,  chiancia  la  'ndamani, 
Nadda  cosa  a  lu  manna  ccliiìi  mi  sbia  ; 
Vaju  gridanna  li  jarnati  sani  : 
Persi  l'amari  mia,  persi  la  Dia.  (^) 

'Ntra  vaddi  e  gratti   e  caverni  profanni 
Vaju  circannu,  cime,   cui  mi  firiu  ; 
Cerco  la  Dia  chi  persi  e  'un  sacciu  anni, 
Coma  davanti  l'occhi  mi  spiriu  ! 
0  cela,  0  terra,  o  mari,  o  monti,  o  anni, 
Mi  dati  novi  di  lu  cori  mia? 
Ma  l'ecu  di  luntanu  mi  rispanni: 
Non  ci  pinsari  cchiù,  pri  tia  finiu  !  (*) 

Come  clii  scrisse  questi  due  ultimi  Canti  doveva 
aver  gusto  alla  forma  pastorale,  cosi  maggior  ro- 
bustezza di  fantasia  che  non  un  cantore  del  volgo 


(1)  Vigo,  n.  2.364;  cfr.  n.  .3039,  e  Salomone-Marino,  n.  374. 

(2)  Vigo,  n.  2416.  Nel  citato  cod.  Laurenz.,  97,  I,  cart.  166,  nonché  II, 
cari.  69,  l'ottava  trovasi  attribuita  a  Micheli  Mukaschinu,  con  le  seguenti 
varianti:  v.  1  acutissima  —  2  cchià  d'ogni  frevi  —  3  fui  afflitta  cu  —  i  A  mia 
puristi  —  5  Ma  poi  ch'iu...  umuri  —  6  Chiù  di  tia  laida  nun  ndi  viddi  —  1  E 
si  farsi  t'amai  nun  fici  —  8  t'amai. 

(3)  Vigo,  n.  2922. 

(4)  Vigo,  n.  2929.  Cfr.  Atolio,  n.  436, 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ttal.  --  2-5 


386  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

doveva  avere  chi  compose  quell'altro  : 

0  sorti  svinturata,  o  mia  sfortuna, 
Sfurtunatu  su'  jò  tra  tanti  peni. 
L'aniicu  e  lu  parenti  mi  sbanduna, 
Manca  la  stissa  terra  mi  tratteni. 
La  notti  ora  pri  mia  non  nasci  luna, 
Mancu  affaccianu  cchiìi  stiddi  sireni; 
L'ìxmmira  stissa  di  la  mia  pirsuna 
Canusciu  chi  cu  mia  stintata  veni.  (') 

Ma  se  fin  qui  siamo  proceduti  per  induzioni,  (") 
salvo  per  alcuni  pochi  casi,  possiamo  adesso  pre- 
sentare al  lettore  una  serie  di  ottave  siciliane,  delle 
quali,  sebbene  siensi  frammischiate  fra  le  popolari, 


(1)  Vigo,  n.  30S0  ;  Piteè,  ii,  417.  Kel  voi.  degli  Studj  a  p.  50  il  Pitrè 
afferma  autore  di  questo  Canto  essere  il  Veneziano.  Nel  manoscritto  cala- 
brese, del  quale  diremo  più  particolarmente  or  ora,  quest'ottava  trovasi  due 
volte,  e  con  varianti  clie  mei-ita  registrare,  a  prova  delle  modificazioni,  che 
subisce  il  canto  letterario  diventando  popolare.  A  pag.  G9  del  manoscritto 
dice  cosi  :  v.  1  Sotto  crudo  pianeta  e  ria  —  2  Sventuratii  n'escivi  in  —  3  Non 
tocco,  non  toccai  cosa  veruna  —  4  Non  godo,  non  godei  cosa  di  beni  —  -5  L'a- 
micie  e  Ih  parenti  m'abbanditna  —  6  La  terra  xìer  miracuhi  mi  teni  —  1  E  la 
stess'iinibra  —  9  Fiiru  appressu  di  —  E  a  pag.  113:  v.  1  Caddi,  precipitati  la 
—  2  Cu  mia  Ih  ceìu  inimicizia  teni  —  3  Ogni  cara  speranza  m'abb.  —  4  Pas- 
sali, spariti  di  mia  tiittii  lu  beni  —  5  Ma  chi  servi  cantari  una  per  una  —  6  Li 
miei  criidili  e  dispiietati  peni  —  7  Si  pura  l'umbra  di  la  —  8  Pura  apjìressu 
eli  mia  sdegnata. 

(-)  Carattere  ed  origine  letteraria  mi  sembrano  avere  più  o  meno, 
fra'  Siciliani  anche  i  Canti  della  Collezione  Vigo  segnati  co'  numeri  64,  270, 
293,  419,  496,  498,  576,  578,  603,  608,  613,  625,  679,  680,  757,  774,  780,  798, 
817,  823,  1106,  1107,  1110,  1118,  1120,  1121.  1200,  1207,  1209.  1221,  1260,  1280, 
1309,  1313,  1409,  1443,  1447,  1466,  1497,  1520,  1613,  1694,  1725,  1766,  1773, 
1867,  1944,  1987,  1989,  1997,  2081,  2097,  2130,  2131,  2.347,  2348,  2351,  2.360. 
2365,  2373,  2377,  2394,  2446,  24.52,  2456,  2524.  2537,  2.538,  2548,  2591,  2592, 
2611,  2903,  2910,  2915,  2916.  2920,  2925,  2935,  2952,  2960,  2967,  2968,  2973, 
2981,  2998,  3006,  3014,  3019,  30.38,  3044,  3046,  3047,  3049,  3050,  3054,  3055, 
3056,  .3057,  3063,  3067,  3072,  3077,  3101,  3111.  3117,  3121,  3124,  3132,  3162, 
3221,  3222,  3236,  3237,  3239,  3250,  3741,  3794,  3801,  .3803,  .3855,  3874,  3889, 
3898,  3902,  3907,  3908  ecc.  Di  alcune  ottave  è  noto  l'autore,  improvvisatore 
o  improvvisatrice  popolare:  v.  ad  es.  i  n.  3272.  3280.  3286,  3293:  quasi  tutto 
il  gruppo  dei  Canti  inorali  e  degli  Avvertimenti  lia  nome  di  autore  e  sapore 
letterario.  Nella  raccolta  dell'AvoLio  diremo  letterarj  i  Canti  n.  69,  79,  296. 
302,  371,  381,  404.  428.  436,  447,  4.56,  461,  495  e  molti  altri  assai.  Il  Piteè 
riconosce  per  letterarj  (Studj,  pag.  66)  i  Canti  da  lui  pubblicati  sotto  i  nu- 
meri 219,  261,  354,  369,  390,  .415,  672,  722  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  387 

è  noto  il  nome  dell'autore.  (^)  Apriamo  la  Raccolta 
del  Vigo  e  leggiamo  questo  Canto  di  Castelbuono  : 

Supra  la  nivi  di  li  to'  niasciddi 

Cliiovinu  rrosi  munseddi  munseddi  ; 

E  a  parti  a  parti  poi  sopra  di  chiddi 

Hai  certi  sapuriti  iiiiceddi  ; 

Suni  vampi  di  aimiri  picciriddi, 

Un  arcu,  dardi,  saitti  a  munseddi  ; 

E  forsi  in  celu  li  cchiii  beddi  stiddi 

Su'  macchi,  ma  non  macchi  tanta  beddi.  (^) 

Or  questo  Canto,  con  la  variante  macckiteddi  al 
4"  verso,  e  al  6":  Unn'arcu,  dardi  e  saitti  ammunseddi, 
trovasi  stampato  (^)  col  nome  di  Vito  Scardino  da 
Poggioreale. 

Poco  oltre  nella  Raccolta  del  Vigo  leggiamo: 

Lustru  chi  m'abhagghiau,  focu  chi   m'arsi, 
Sula  biddizza  rara  a  luiravigghia, 
Quannu  stu  siili  avanti  mi  camparsi, 
Madera,  brunna  e  la  facci  virmigghia  ; 
Li  sciari  stracanciarisi  mi  parsi 
Affrantati  ppi  tanta  miravigghia; 
Chi  cosi  tali  vidiri  mi  parsi 
Chi  'nterra  nenti  cc'è  chi  cci  assimigghia.  {*) 

Leggasi  il  secondo  verso:  Fu  la  biddizza  rara  a  ma- 
raviggìiia,  il  terzo:  Quannu  superba  all'occhi  mei  cum- 
parsi,  il  quarto:  Quasi  un  aurora  lucida  e  virmigghia, 
e  al  quinto  e  sesto  sostituiscasi:  Ma  fannu  ingiuria 
a  tanti  grazi,  e  scarsi  Sunuu  l' esempi,  chi  la  lingua 
pigghia,  ed  avremo  un'ottava  già  nota,  e  dovuta  a 
Francesco  Piatamene.  (^) 


(1)  Debbo  questi  riscontri  fra  i  Canti  della  Collezione  del  Vigo  e  varie 
Eaccolte  siciliane  a  stampa  alla  gentilezza  del  prof.  U.  A.  Amico. 

(2)  Vigo,  n.  275. 

(3)  Nella  Nuova  scelta  di  rime  siciliane  di   antichi    e    moderni   autori, 
Palermo,  1770.  voi.  I,  pag.  308. 

(*)  Vigo,  n.  277. 

(5)  Nuova  scelta  ecc.  voi.  I,  pag.  83.  E  già  prima  nelle  Rime  degli  Acca- 


388  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

A  Palermo  fu  raccolta  la  seguente  ottava: 

Biddizza  è  trippa,  nasci  a  li  cchiù  beddi, 
Chi  forma  uu  celu  ccu  li  fissi  stiddi  ; 
Granita  fatta  a  forza  di  pinseddi, 
Un  lumi  ardenti  ricca  di  faiddi; 
Vrisca  di  meli,  chi  'ntra  li  fasceddi 
Lammicana  l'apuzzi  a  middi  a  middi  ; 
Loca  amurasu  di  li  fassiteddi, 
Unni  ci  joca  Amari  a  li  nuciddi.  (') 

Ed  è  opera  di  un  palermitano,  cioè  del  Notare  Giu- 
seppe Lo  Bianco.  (") 

A  Vincenzo  di  Blasi  e  Gambacorta  già  da  oltre 
un  secolo  è  data  nelle  stampe  O  l'ottava  che  segue, 
e  che  il  Vigo  raccolse  a  Castelbuono: 

Tardi  pri  mia  la  donna  mia  s'ammazza, 
Tarda  Terrari  so  chianci  pintata  : 
Accussì  an  vera  amanti  si  strapazza! 
Accussì  un  vera  amuri  si  rifiata  ! 
Mi  passau,  mi  passau  dda  vogghia  pazza, 
Ogni  cosa  la  tempa  a  tempu  mata; 
Fu  la  me'  vampa  vampa  di  linazza, 
Chi  presta  appigghia,  e  subito  si  astata.  ('') 

Allo  stesso  autore  appartengono  anche  i  seguenti 
Canti  burleschi: 

0  nasu,  ta  si'  nasu  o  canalata, 
Sarìa  scupetta  si  ci  tassi  gridda  ; 
Mi  pari  un  pisci  chi  porta  la  spata, 
Mmistennu  non  fa  dannu  picciriddu  ; 
Pari  un  tramniuni  di  galera  armata, 
E  senza  diri   né  chistu  nò  chidda, 


demici  Accesi,  Palermo  e  Venezia,  1726,  voL  II,  pag.  328,  e  nella  Scelta  di 
canzoni  siciliane  del  De  Blasi    e    Gambacorta,  Palermo,   1753,  pag.  138, 
con  leggera  variante  al  3"  v. 
(lì  Vigo,  n.  294. 

(2)  Scelia  di  canzoni  siciliane,  pag.  190. 

(3)  Nuova  scelta  ecc.,  voi.  I,  pag.  328  ;  Scelta  di  Canzoni  siciliane  ecc., 
pag.  136. 

(<)  Vigo,  n.  3061. 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  389 

Niscemm  lu  patinili  di  la  stvata, 
Prima  veni  lu  nasu  e  poi  ven'iddu.  (*) 

Si  vai  pii  mari  ti  servi  pri  vila, 
Si  fai  lu  pani  ti  servi  pri  pala, 
Cci  metti  un  mecciu,  servi  pri  cannila; 
Ad  un  jardinu  è  bonu  pri  sipala  ; 
E  pirchì  è  tuttu  guarnitu  di  pila, 
Hai  la  scupitta  quannu  nesci  in  gala; 
Né  nuddu  ti  dirrà:   cca  mi  hi  'nfila, 
Pirelli  la  cosa  ci  rinasci  mala.  (^) 

Nun  liaju  vista  mai  simili  nasu, 

Né  chi  paru  ci  fu,  d'autri  haju  'ntisu, 
Menti'  iddu  é  longu,  grossu,  largu  e  spasu. 
Pari  un  cnrrenti  di  strania  tisu  : 
Di  tabaccu  un  cantaru  ci  va  rasu, 
E  criju  chi  cchiù  voti  cci  1'  hai  misu  ; 
Si  arrivi  a  jiri  in  celu  ccu  ssu  nasu, 
Nun  ci  capi  cchiù  nuddu  'mparadisu.  (^) 

Chissu  'un  è  nasu,  pari  ciminia, 

Pri  li  purtusa  longhi  ch'è  un  spaventu, 

E  di  larghizza  servili  putria 

Pri  un  bonu  magazzenu  di  frumentu; 

Cui  lu  chiamassi  turri,  'un  sgarriiìa, 

Ma  lu  cchiù  meggiu  é  lu  me  sintimentu, 

Chi  misu  suttasupra  sirviria 

Pri  dui  lochi  cumuni  ad  un  conventa.  C) 

Anche  al  Vigo  la  seguente  parve  "  troppo  arti- 
fiziata  „;  e  la  stampò  a  riguardo  di  chi  la  raccolse 
assicurando  che  fosse  popolare  : 

Quannu  casualnienti  tutti  dui, 

Donna,  a  lu  vostru  visu  l'occhi  alzai, 


(1)  Vigo,  n.  4222  ;  vedi  Scelta  di  canzoni  siciliane,  p.  126  ;  Nuova  scelta, 
voi.  I,  pag.  329. 

(2)  Vigo,  pag.  600,  nota  484:  vedi  Nuova  scelta,  \ol.  I,  pag.  329;  e  in 
due  ottave,  ma  sempre  col  nome  del  De  Blasis  e  Gambacokta,  nella  Scella 
di  canzoni,  pag.  124-26. 

(3)  Vigo,  pag.  600,  nota  482  :  Cfr.  Scelta  di  canzoni,  pag.  168. 

(*)  Vigo,  pag.  600,  nota  485:  Cfr.  Scelta  di  canzoni,  pag.  178;  Nuova 
scelta,  voi.  1,  pag.  249. 


390  LA   POESIA   POPOLARE   ITALLA.XA. 

Vitti  dui  Siili  ed  abbagliati!  fui, 

E  senza  foca  subita  adduniai; 

lu  chi  nun  mi  ciidia  vivili  cchiui, 

Di  moitu  ch'era  immuitali  anistai; 

Ma  chi  utili  ini  fa  vidiii  a  vui, 

Si  Anniri  appi  la  vista  ed  iu  'niiurvai?  (^) 

Ed  invero  ne  è  autore  Vincenzo  Balli  e  Tornamira 
d'Alcamo  (^)  al  quale  spetta  (^)  pur  quest'altro  com- 
ponimento : 

Banchi  bedda  all'aspettu  assai  pariti, 
E  dati  causa  ch'ognunu  vi  adura, 
Comu  a  li  fatti  poi  diversa  siti, 
E  no  coma  dimustra  la  figura! 
Ohimè,  chi  malamenti  la  'ntiniiiti 
Fari  di  un  fidu  amanti  pocu  cura, 
E  pri  essiri  bedda  iusupirbiti: 
Ahi  chi  sbagliati  ;  la  biddizza  'un  dura.  (■*) 

E  con  lievissime  varianti  quest'altra  è  stampata 
nelle  opere  poetiche  di  D.  Paulu  Maura:  O 

Quannu  nascii  n'avissi  natu  mai  ! 

Lu  bagnu  de  di  li  mei  chianti  si  fici, 
Li  dogghi  di  la  matri  ereditai, 
Tutti  li  stiddi  a  mia  foru  'nnimici  ; 
Fortuna  'ngrata  non  ci  parsi  assai. 
Chi  cchiù  non  potti  farimi  'nfilici  ; 
Jnnci  a  l'estremu  puntu  di  li  guai, 
Ppri  nun  vutari  cchiù,  la  rota  sfìci.  (®) 

Lo  stesso  autore  rivendica  per  sua  la  seguente,  C) 


(1)  Vigo,  n.  1613. 

1,2)  Nuova  scelta  ecc.,  voi.  I,  pag.  320, 

(3)  Nuova  scella  ecc.,  voi.  I,  pag.  318. 

{*)  Vigo,  n.  3748. 

(5)  Camiini  siciliani  di  P.  MÀUKA,  Palermo,  1758,  p.  73. 

(0)  Vigo,  n.  381. 

(')  Ibid.,  pag.  74,  con  queste  varianti  :  2  La  talpa  vidi  —  &  Eia  fur- 
inira  vicina  —  5  lu  puro  nell'estremi  mei  suspifi  —  7  Cantai,  vitti,  vulai  — 
8  E  pri  patiri  chiù. 


LA  POESIA  POPOLARE  IT  ALLENA.  391 

che  anche  al  Vigo  parve  sentire  "  di  letterato  ,,  :  ma 
è,  soggiunge  egli,  sulle  labbra  del  popolo  : 

Canta  hi  cignu  all'ultimi  martiri, 
La  tarpa  grida  a  li  so'  stremi  guai  ; 
La  furmicula  'mpuntii  di  muriri 
Vola  pri  l'aria  rrispittusa  assai  ; 
Tali  fu  iu  ccu  tia,  cori  crudili, 
Tarpa,  cignu,  furmica  addivintai; 
Vulai  tant'autu  chi  cridia  muriri, 
Ma  pri  cchiìi  pena  mia  nun  moru  mai.  (^) 

Nella  categoria  dei  Canti  di  disprezzo  questi 
due  nella  Raccolta  vighiana  vengono  uno  appresso 
l'altro  : 

Lu  gruppu  si  sciugglùu  di  ssu  capiddu, 
Ora  mi  stuffi,  m'annoi,  e  m'ammutti  ; 
Quannu  ti  viju  mi  pigghia  lu  siddu, 
Mi  pari  la  cchiù  brutta  'ntra  li  brutti  ; 
Per  tia  nun  canta  cchiù  lu  me'  cardiddu, 
Già  si  guastau  hi  vinu  di  ssa  vutti  : 
Ciuciuliannu  ccu  chistu  e  ccu  chiddu, 
Addiventasti  la  cuna  di  tutti.  ('^) 

Vogghiu  scialar!  mentri  sugnu  schetta, 
E  vogghiu  fari  chiddu  chi  mi  sguazza, 
Pirchi  quannu  me'  nunna  m'arrisetta 
C'è  lu  suprossu  di  la  suggirazza  ; 
S' iu  jocu,  milli  rampogni  mi  jetta, 
Si  staiu  muta,  a  suspiri  m'ammazza; 
L'errami  tutti  sunnu  di  'na  setta  ; 
Morti,  levala  tu  sta  mala  razza.  (^) 

Or  bene  :  la  prima  appartiene  a  Litterio  Brigandi 
messinese,  (*)  la  seconda  a  Santo  Gripaldi  palermi- 
tano. (°) 


anonima. 


(1)  Vigo,  n.  2903. 

(2)  Vigo,  n.  2555. 

(3)  Vigo,  n.  2556. 

(*)  Xitova  scelta  ecc..  voL  I,  pag.  71. 

(6)  ytiova  scelta,  voL  I,  pag.  256.  Nella  Scelta  di  canzoni,  pag.   38, 


392  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Quest'altra  è  di  Cesare  Gravina  di  Catania  :  (^) 

Nun  si  levami  mai  tanti  vapuri 
Mossi  di  ventu  a  li  celesti  sfeii, 
Né  tanti  in  celu  dunanu  splendavi 
Eterni  vampi  e  immobili  lumeii, 
Nun  scopri  tanti  dilettasi  sciuri 
L'amata  terra  in  milli  primaveri, 
Quanti!  vannu  a  munzedda  tutti  l'uri 
A  un  cori  amanti  gilusi  pinsevi.  (-) 

Ninno  potrebbe  dir  popolare  di  origine  il  con- 
cettoso componimento  che  segue,  sebbene  il  popolo 
l'abbia  fatto  suo  e  variamente  modificato:  e  invero 
lo  leggiamo  ascritto  già  da  un  pezzo  al  Presidente 
Rosario  Frangipane  :  ('') 

Si  voggliiu  friscu,  lu  ventu  non  ciata, 
Si  vogghiu  caudu,  lu  focu  s'astuta; 
Vaju  pri  caminari,  e  'un  trovu  strata, 
Talìu  lu  celu,  e  l'aria  si  tramuta  ; 
Vaju  a  la  sepoltura,  e  'un  c'è  balata, 
Chiama  a  la  Morti,  e  la  Morti  'un  mi  ascuta; 
0  Gesù,  quantu  sugnu  sfurtunata  ; 
Vaju  a  lu  'nfernu,  e  'n  ci  sugnu  vuluta!  (■•) 


(1)  Rime  degli  Accademici  Accesi,  voi.  II,  pag.  506. 

(2)  Vigo,  n.  2377. 

(3)  Nuova  scelta  ecc.,  voi.  I,  pag.  236. 

(4)  Vigo,  3102:  vedi  varianti  al  n.  3103: 

Si  moni,  la  me  morti  è  disiata. 

Si  campii,  la  me  vita  è  priiibita, 

Sidilii  camini],  .s'allunga  la  strata, 

Si  guardi!  "ncelu,  l'ariu  si  tramuta; 

Si  vogghiu  friscu,  nuddu  ventu  sciata. 

Si  voggliiu  caudu,  lu  focu  s'astuta; 

Vaju  a  la  fossa,  nun  ti'ovu  vaiata: 

La  stessa  sipultura  mi  rifiuta. 
Cfr.  PiTEÈ,  StudJ,  p.  210;  e  questo  Canto  marchigiano  (Gianandrea,  p.  161); 
Prendo  la  spada  e  me  vojo  ammazzare. 

La  botta  non  me  volse  consentire; 

Vado  all'Inferno  e  me  vojo  dannare, 

E  Satanasso  non  me  volse  aprire; 

Vado  giù  '1  mare  e  mi  vojo  affogare, 

E  l'acqua  non  me  volse  ricoprire  ecc. 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  393 

Ottavio  Potenzano  da  Palermo  è  autore  di  que- 
st'altra ingegnosa  ottava,  (^)  che  il  Vigo  registra 
come  raccolta  a  Palermo  : 

Cchiù  assai  di  la  tarantula  suttili, 
Fazzu  li  'ntiichi  di  li  mei  chimeii  ; 
Lavuru  niiddi  riti  e  middi  tili 
E  poi  li  passa  di  iniddi  nianeri  ; 
Tessu,  rifcessu,  aggruppa  fili  a  fili 
E  middi  voti  poi  li  sciogghia  arreri  ; 
Tanta  mi  fa  la  gihisia  crudili 
Ch'  'un  cuetanu  mai  li  mei  pinzeri.  (-) 

I  seguenti,  lievemente  modificati  dalla  tradizione 
orale,  appartengono  tutti  ad  uno  stesso  autore.  Santo 
Rapisarda  catanese:^) 

Li  veri  amici,  li  veri  parenti 

Su'  li  quattro  tari  ccu  l'ali  janclii; 
Cu'  di  l'amici  aspetta  complimenti, 
S' incili  di  venta  la  panza  e  li  ciancili  ; 
Cu'  aspetta  rroba  di  li  so'  parenti, 
Forsi  'un  arriva  a  cuvirtarsi  l'anelli  ; 


Ve  qualcosa  di  simile  in  una  antica  canzone  del  Libro  di  Canto  e  Liuto 
di  Cosimo  Bottegari,  pubbl.  da  L.  F.  Valdeighi,  Firenze,  Coppini,  1891. 
pag.  134: 

Un  giorno  andai  per  pigliar  l'acqua  al  mare 

E  lo  trovai  ch'era  fiamma  e  foco: 

Fortuna  m'è  contraria  in  ogni  loco. 
Andai  per  foco  a  'na  fornace  ardente. 

Tutto  lo  foco  gliiaccio  ritrovai  : 

Quello  che  cerco  non  ritrovo  mai. 
In  Turchia  me  n'andai  per  farmi  schiavo, 

E  dai  Turchi  e  dai  Mori  fui  scacciato  : 

Vedete  sotto  qual  stella  son  nato. 
Per  disperato  all'Inferno  n'andai, 

E  trovai  chiuso,  oiniè!  tutte  le  porte: 

Dica  chi  vuol,  che  al  mondo  ci  vuol  sorte. 

(1)  Scelta  di  canzoni  ecc.,  p.  24.  Nella  Nuova  scelta,  voi.  I,  p.  8.5,  e  nelle 
Mime  degli  Accad.  Accesi,  voi.  II,  p.  433  gli  ultimi  due  versi  dicono:  Cussi 
suggettu  a  gilusia  crudili,  Citntrastu  senipri  cu  li  ine  pinseri. 

(2)  Vigo,  n.  2394. 

(3)  SaccoUa  di  proierhj  siciliani  ridutti  in  canzoni,  Catania,  1824. 


394  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Li  veri  amici,  li  veri  parenti 

Su'  li  quattri!  tari  ccu  l'ali  janchi.  (') 

Tantu  furria  e  fa  meu  la  gatta 

'Nsina  ch'ascia  la  carni  o  cruda  o  cotta  ; 
Tantu  lu  sorgi  a  trabuccu  si  jetta, 
Finu  ca  la  tantia  la  ricotta  ; 
Tu  ca  facevi  lu  surgi  e  la  gatta, 
Finalmenti  ti  ficiru  la  ghiotta.  (^) 

Ma  qui  ci  arrestiamo,  cliè  troppo  facile,  ma  al- 
trettanto fastidioso,  sarebbe  allungarci  in  altre  prove. 
Abbastanza  evidente  è  l'appropriazione  di  una  certa 
specie  di  poesia  letteraria,  fatta,  aiutando  l' uso  co- 
mune del  dialetto,  dalle  classi  popolari.  E  quando 
il  Vigo  annotando  lo  Strambotto  che  comincia  : 

Donni,  ch'aviti  'ntellettu  d'amuri,  (^) 


(1)  Vigo,  n.  3921.  Nel  voi.  I  del  Rapisarda,  p.  57,  dice  così: 

Ceni  spera  di  l'amici  cuniplimenti 

S" incili  di  ventu  la  pauza  e  li  scianchi; 
Ceni  spera  roba  di  li  soi  attinenti 
Non  si  pò  affattn  commiggliiari  l'anelli  ; 
Cui  spranza  d'autru  sta,  sempri  scuntenti 
Si  trova  di  la  fama  'ntra  li  vranchi  ; 
Li  veri  amici  e  li  veri  parenti 
Su'  li  quattru  tari  ccu  l'ali  janchi. 

(-)  Vigo,  n.  .3922.  Ne)  Eapisakda,  voi.  I,  pag.  13,  dice  : 

Tantu  furria  e  fa  men  meu  la  gatta 

Fin  elle  trova  la  carni  o  cruda  o  cotta; 

Tantu  lu  surgi  'ntra  un  bucu  s'aggatta 

Finu  ca  si  taffla  la  ricotta; 

Ma  quannu  lu  patruni  a  la  'ntrasatta 

L'attrappa,  e  cerca  darici  'na  botta, 

Cc'è  cui  ci  dici  :  già  la  'mbroggliia  ù  fatta, 

Amicu,  ti  la  ficiru  l'agghiotta. 

Cfr.  anche  Vioo,  n,  3829,  e  Eapisakda,  voi.  I,  pag.  11;  (e  v.  anche  Vene- 
ziano, pag.  117)  ;  Vigo,  n.  3863,  e  Eapisakda,  pag.  43;  Vigo,  n.  .3903,  e  Ea- 
pisakda. pag.  27;  Vigo,  n.  3902,  e  Eapisakda,  pag.  55;  Vigo,  n.  3904,  e 
Rapisarda,  pag.  25  ecc. 

(3)  Vigo,  n.  980.  E  al  n.  I486:  Bedda,fnstivu  vui  lu  me  'ntellettu.  Anche 
il  verso  che  trovasi  in  un  Canto  meridionale  (Imbriani,  C.  jìopol.  meridion., 
II,  302):  Luceno  l'uocchi  ioi  cchiu  de'na  stella,  h  evidente  imitazione  dan- 
tesca, e  non  fortuito  incontro  di  un  ignorante  poeta  popolare   col   nostro 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  395 

domanda  se  il  popolo  tolse  questo  verso  a  Dante,  o 
Dante  al  popolo,  da  quanto  sopra  abbiamo  visto  siamo 
tratti  ad  escludere  assolutamente  la  seconda  ipo- 
tesi, che  pur  è  ammessa  da  V.  di  Giovanni,  (^)  il  quale 
non  trova  in  essa,  "  nulla  di  difficoltà  „,  e  aggiunge: 
"  Non  potè  presentarsi  così  spontaneo  alla  mente 
del  poeta  il  verso,  che  aveva  sentito  ne'  canti  del 
popolo?  „  Aveva  sentito?  ma  dove,  ina  quando?  Sia 
pure  che  il  Canto  suoni  adesso  in  bocca  del  popolo: 
ma  che  un  poeta  del  volgo  abbia  trovato  primo  quella 
invocazione,  e  peggio  ancora  che  Dante  se  la  sia  ap- 
propriata, è  cosa  da  non  potersi  concedere  neanche 
un  momento.  Troppi  documenti  abbiamo  ormai  per 
dire  che  il  popolo  fa  suoi  i  Canti,  che,  dandogli  nel 
genio,  sono  stati  composti  da  poeti  culti  con  into- 
nazione più  0  men  simile  a  quella  usata  dalle  plebi.  O 


XII. 


Ma,  potrà  dimandarsi:  dove  e  come  il  popolo 
ha  preso  cognizione  di  questi  Canti  che  egli  si  è 
appropriato,  perchè  ha  potuto  rinvenirvi  qualche 
cosa  di  simile  alle  Canzoni  da  lui  stesso  composte  e 
rispondente  al  modo  suo  di  sentire  e  di  esprimersi? 
Vi   è  un  numero   considerevole,  in   ogni  provincia 


maggior  poeta.  Medesimamente  si  manifesta  di  origine  letteraria  il  n.  1977 
del  Vigo  clie  comincia:  0  tutti  quanti  pri  sta  via  passati,  Sfu  me  duluri 
stati  a  contemplaì-i  ecc.;  e  il  il.  .3814  :  Si  cerchi  fidiltà'n  donna  truvari.  Tu 
zzappi  all'acqua  e  simini  a  li  venti. 

(I)  Nel  Giornale  II  Borghini  di  P.  Fanfani,  I,  186.3,  p.  229. 

(-)  Anche  fra  le  Villette  friulane  ne  troviamo  alcune  clie  sanno  di  let- 
terario. L'Akboit  sembra  dubitarne  rispetto  al  n.  480:  ma  noi  lo  vorremmo 
affermare  anche  pei  n.  245,  483,  593,  744,  924,  984  ecc. 


396  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

d'Italia,  di  libercoli  stampati  ad  uso  del  popolo  e 
contenenti  poesie,  né  mancano  copie  o  raccolte  a 
penna  di  componimenti  di  siffatto  genere,  che  sono 
quasi  repertori  nei  quali  il  cantore  che  sappia  anche 
leggere,  rinnova  le  forze  della  sua  musa,  e  attinge 
nuove  frasi,  nuove  espressioni,  forme  novelle  del 
sentimento.  Abbiamo  detto  più  sopra,  con  immagine 
che  al  secol  nostro  non  dovrebbe  spiacere,  che  fra 
il  popolo  e  le  classi  superiori,  fra  la  poesia  del  volgo 
e  quella  dei  dotti  vi  è  stato  quasi  sempre  come  un 
conto  corrente  di  dare  e  d'avere.  I  poeti  culti  hanno 
cercato  di  rinfrescarsi  la  fantasia  in  acque  di  pili 
schietta  sorgente,  e  i  poeti  del  volgo  han  voluto 
prendere  un'aria  più  nobile  e  vistosa.  I  componi- 
menti pertanto  di  che  parliamo  sono  imitazioni  più 
o  meno  eulte  della  forma  plebea;  e  questa  poi,  fa- 
cendoli suoi  e  modificandoli,  si  fa  più  bella,  o  almeno 
più  azzimata  e  in  gala.  Alla  Musa  popolare  d'Italia 
non  piace  andare  scalza,  stracciata  e  sudicia  :  ella 
ama  invece  vestir  panni  da  festa  e  da  signora,  e 
lavarsi  nelle  onde  del  mitologico  Ippocrene. 

Proveremo  a  dar  conto  di  alcuni  di  questi  re- 
pertori poetici  consultati  e  saccheggiati  dal  popolo, 
che  ben  può  dire,  sotto  certo  rispetto,  di  ripigliarvi 
il  suo.  E  cominceremo  dalla  Sicilia,  dove,  come  ab- 
biani  già  detto,  per  causa  del  dialetto  si  confondono 
insieme  la  genuina  poesia  del  volgo  e  quella  dei  culti 
rimatori,  i  quali  nelle  loro  composizioni  erotiche  ser- 
barono non  solo  l'idioma,  ma  la  versificazione  pur 
anco  dello  Strambotto  popolaresco,  ed  innalzarono 
soltanto  a  maggior  raffinatezza  di  eloquio  e  di  forme 
il  genere  poetico  diffuso  e  noto  nell'Isola. 

Giuseppe  Pitrè,  tanto  di  questi  nostri  studj  bene- 
merito, ebbe  già  a  far  cenno  di  due  Piaccolte  mano- 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  397 

scritte  di  poesie  siciliane,  in  forma  di  Strambotti.  (^ 
L'una  contiene  398  componimenti,  attribuendoli  tutti 
ad  Antonio  Veneziano  da  Monreale,  che  fu  "  primo  a 
poetare  in  dialetto  siciliano  „,  O  nato  nel  1543,  morto 
nel  '93.  In  questo  manoscritto,  che  sembra  degli 
ultimi  anni  del  Secento,  trovansi  molti  componi- 
menti che  non  si  rinvengono  né  nelle  edizioni,  né 
nei  testi  a  penna  delle  poesie  del  Veneziano,  e  che 
invece  si  trovano  nelle  recenti  collezioni  di  Canti 
popolari  siciliani.  (^)  Il  Pitré  ne  riporta  una  ventina 
di  esempi,  mettendo  a  confronto  la  lezione  orale  con 
la  scritta.  Siane  o  no  autore  il  Veneziano,  piacerà 
vedere  qualche  altro  saggio  delle  modificazioni,  che 
un  Canto  originariamente  letterario  ha  dovuto  subire 
per  diventar  popolare,  pur  conservando  nell'indole 
sua  tracce  della  nascita  illustre.  Il  poeta  adunque 
scrisse  : 

Mentri  passava,  la  vitti  abballavi 
Cuna  scarpuzza  bianca,  ben  pulita: 
Chiù  d'una  vota  la  vulia  vasari, 
'Ntia  dda  vuccuzza  duci  e  sapuiita. 


(1)  StadJ  ecc..  pag.  185-206,  207-2.30.  Il  prof.  U.  A.  Amico  insen  nella 
Bivista  Sicilia  del  1869  un  ragguaglio  intorno  ad  un  manoscritto  di  poesie 
siciliane  appartenente  alla  Biblioteca  di  Bologna:  ma  gli  esempj  che  arreca 
hanno  piuttosto  riguardo  alla  bellezza  poetica,  che  non  alle  comparazioni 
colla  poesia  popolare.  Sarebbe  desiderabile  che  il  prof.  Amico,  od  altri, 
rifrugassero  nel  cod.  bolognese  per  cercarvi  Canti  divenuti  popolari. 

(2)  PitrÈ,  StiidJ  ecc.,  pag.  185.  /«  su'  lii  priniu,  chi  nesciu  a  stu  ringu 
dì  mandavi  in  luci  Canzuni  siciliani:  Veneziano,  .E/jìs^.  dedicai. 

(3)  Il  Modica,  biografo  del  Veneziano  (Opere  di  Ani.  Veneziano,  p.  xiii). 
spiegherebbe  il  fatto  raccontando  come  molti  innamorati  ed  accademici, 
volendo  scriver  versi,  e  mancando  loro  ingegno  "  a  lui  ricorrevano  per  ot- 
tenerli, ed  egli  volentieri  si  prestava,  ritraendone  qualche  volta  dei  lucri, 
stante  la  sua  povertà  „.  Di  più  la  sua  morte  precoce  diede  agio  a  molti 
plagiarj  di  acquistarsi  gloria  nelle  accademie,  adornandosi  delle  sue  spoglie 
e  "  pubblicandole  per  le  stampe,  onde  grandi  copie  delle  di  lui  Rime  ap- 
parse or  sotto  il  nome  di  uno,  or  di  un  altro  poeta  siciliano  „.  E  dopo  no- 
tato come  dei  concetti  suoi  si  giovarono  non  pochi  poeti  italiani,  cui  era 
giunta  notizia  delle  sue  ottave  siciliane,  e  fra  gli  altri  il  Marini,  conchiude 
col  dire  che  "  delle  poesie  del  Veneziano  se  ne  trova  smarrita  la  maggiorCs 
e  sventuratamente  forse  la  miglior  parte  ,. 


398  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Idda  mi  dissi:  Nu  lu  stari  a  fari, 
Cui  vasa  donni  è  pena  di  la  vita: 
Ed  eu  ci  dissi  :  Chi  nni  vogghiu  fari  ? 
'Na  vasatedda,  poi  'n  galera  in  vita. 

E  la  lezione  popolare  modifica  a  questo  modo  : 

Passai,  e  passannu  la  vitti  abballari, 
Cu  'na  scarpetta  di  lucenti  sita  ; 
Cchiìi  di  dui  voti  la  vulia  vasari, 
Vasalla  'ntia  dda  vucca  sapurita  ; 
Lu  me  cumpagnu  mi  dissi  :  'un  lu  fari, 
Cu'  vasa  a  donni  cc'è  pena  di  vita, 
lu  cci  rispusi  :  'Na  morti  haju  a  fari  ; 
Pri  'na  vasata  cci  dugnu  la  vita.  (') 

Ecco    adesso   una  Serenata,   che   nella   lezione 
scritta  dice  cosi  : 

Si  tu  sapissi  cu  c'è  ca  cu  mia 
Ti  susirissi,  o  ci  darissi  ajutu  ; 
Ca  c'è  lu  servu  di  vussignuria, 
Chiddu  chi  tanti  tempi  v'  ha  sirvntu. 
Nun  canta  iddu,  e  fa  cantari  a  mia, 
Pri  'n   essiri  a  lu  vuci  cauusciutu  : 
Cuntentalu,  cuntentalu,  vita  mia, 
Nun  lu  fari  muriri,  dacci  ajutu. 

E  con  lievi  variazioni  il  popolo  palermitano: 

Si  tu  sapissi  cu'  è  ccà  cu  mia 
Tu  scinnirissi  e  cci  darissi  aiutu  : 
Cck  cc'è  lu  servu  di  vossignuria, 
Chiddu  ca  tantu  beni  v'ha  vulutu. 
Nun  canta  iddu,  fa  cantari  a  mia, 
Pri  'un  essiri  a  la  vuci  canusciutu  ; 
Affaccia  a  la  finestra,  gioja  mia, 
Affaccia,  ca  ti  dugnu  lu  salutu.  (^) 


(1)  PiTRÈ,  StìKÌJ  ecc.,  pag.  192  ;  Vigo,  ii.  2082. 

(2)  PiTBÈ,  StudJ  ecc.,  pag.  196;  Vigo,  n.  1242.  Nota  che  .irriv.indo 
nell'Umbria  l'ottava  si  è  smezzata  e  contratta  a  questo  modo:  Si  tu  sa- 
pesci  chi  sta  accanto  a  méne  Te  levarisci  e  me  darisci  aiuto:  Non  canta  lue 
€  fa  canta  ta  méne  Pe'  'n  esse  da  la  gente  ai-conosciuto  (Mazzatinti,  p.  189). 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  399 

Non  crede  il  Pitrè  die  vero  autore  dì  queste  ottave 
sia  il  Veneziano,  del  quale  non  riconosce  qui  il  con- 
sueto stile;  ma  concliiude  col  dire,  che  le  ba  pro- 
dotte il  connubio  della  tradizione  letterata  e  della 
tradizione  popolare. 

L'altro  Codice,  illustrato  dal  medesimo  Pitrè, 
contiene  oltre  cinquecento  ottave  siciliane,  alcune 
delle  quali  di  provenienza  erudita,  altre  di  imita- 
zione 0  ancbe  di  scbietta  origine  popolare.  Di  questo 
Strambotto,  intanto,  è  evidente  il  nascimento  aulico: 

0  Din,  chi  pisci  grossa  addivintassi, 
Drinta  lu  mari  stari  mi  patissi! 
Vinissi  an  marinara  e  mi  piscassi, 
E  poi 'amenza  la  chiazza  aii   vindissi; 
Poi  la  mia  sigairazza  m'accattassi, 
E 'ntra  la  saa  padedda  mi  frijssi  : 
Nun  mi  nai  cariria  si  mi  mandassi, 
Basta  che  'ntra  la  cori  ci  trasissi. 

E  il  popolo,  levando  via  il  grottesco  della  pa- 
della e  della  frittura:  (^) 

0  Dia,  chi  pisci   d'ora  addivintassi, 
E  'ntra  hi  fanna  di  la  mari  jssi  ! 
Vinissi  un  piscaturi  e  mi  piscassi, 
'Ntra  'na  cartedda  d'ora  mi  mittissi  : 
'N  mezza  la  Gacciaria  m'abbanniassi, 
E  lu  mia  amanti  a  cumprarmi  vinissi: 
Nun  mi  ni  cura  sidda  mi  mangiassi  : 
Basta  ca 'ntra  la  cori  mi   tinissi.(^) 


(1)  Non  altrimenti  però  in  una  lezione  di  Marigliano  :  Imbriani,  Canti, 
popoì.  di  Marigl.,  n.  14. 

{-)  Vigo,  n.  506  :  cfr.  Molinaro,  C.  pop.  napol.,  p.  280  e  segg.:  Amalfi. 
C.  p.  di  Sorrento,  n.  40.  E  giacché  siamo  di  nuovo  a  parlare  di  desiderj 
amorosi,  e  di  trasformazioni  in  esseri  animati  o  inanimati,  sentasi  anche 
quest'ottava  siciliana  (Vigo,  n.  511),  che  può  stare  a  paragone  delle  poesie 
di  consimil  soggetto,  di  Anacreonte  e  del  Heine:  Vurria  essiri  fanti,  e  sur- 
riissi  Avanti  li  to' porti,  e  ti  lavassi;  Viirria  essiri  tazza,  e  tu  vivissi  /? 
vivenntt  vivennu  ti  imsassi ;  Viirria  essiri  lettti,  e  tu  dnrinissi  Ed  in  linzola 
ca  ti  cummighiassi :  E  n'autra  grazia,  figghiuzza,  viirissi:  Essiri  gioia  ca  'n 


400  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Ho    poi    innanzi    a    me    tre    Codici    del    seco- 
lo XVII,  appartenenti  alla  Biblioteca  Laurenziana, 


pettu  ti  stassi.  In  altro  Canto  siciliano  (Vigo,  n.  508:  cfr.  Avolio,  n.  24:5) 
ramante  vorrebbe  esser  cuoio  e  diventare  scarpetta  cucita  con  lesina  d'oro: 
Pas,9assi  la  me  bedda,  e  tii'accattassi,  Sopra  ddtt  hiancu  pedi  mi  mintissi, 
Xun  mi  uni  curu  si  mi  scalpitassi.  Confronta  Menghiki,  221,  e  altra  simile 
Canzonetta  napoletana  in  Mueller-Wolff,  p.  242,  e  Kopisch,  pag.  284. 
In  altre  canzoni  meridion.ili  l'amante  desidera  esser  farfalla  (Guastella, 
n.  95),  agniddiizeit  (Id..  n.  115\  pruno  (v.  Imbkiani,  Canti  popol.  di  Mara- 
gìiano,  n.  44,  e  cfr.  Molinaro,  C.  p.  di  Meta,  n.  65,  C.  popol.  nnpol.,  n.  520; 
Amalfi,  Villanelle  di  S.  Valentino,  Tegiano,  1888,  n.  xxxi  ecc.):  Vorria 
che  passasse  nenna  mia,  Pe'  la  gonnella  la  voglio  afferrare.  Essa  se  vota,  e 
dice:  Dio  mmio,  'Sta  verdespina  nun  mine  ro' lassare!  Tanno  te  lasso  a  te, 
nennella  mmia,  Quanno  jamnio  a  la  Chiesa  a  nce  sposare.  In  una  piemontese 
(Marcoaldi,  n.43)  ed  in  una  istriana  (Ive,  pag.  128)  è  espresso  il  voto  di 
diventar  fazzoletto  che  stringa  il  collo;  in  una  fabrianese  e  romagnola,  viola 
da  esser  posta  sul  cappello  o  sul  cuore  dell'amato  (Marcoaldi.  n.  41  ;  Per- 
coli, 180);  in  una  abruzzese,  pigna  d'uva  da  esserle  appesa  in  camera 
(De  Nino,  III.  317);  in  .altra  piemontese,  lino  da  esser  fìLato  (Nigra,  p.  578); 
gallina  padovana  nel  lucchese  (Giannini,  p.  230),  e  in  Romagna  (Bellucci, 
Canti  p.  dell'agro  cervese);  coperta  da  letto  in  Dalmazia  (Villanis,  p.  45); 
rondinella  nell'Umbria  (Mazzatinti,  n.  194);  in  Sicilia,  goccia  d'acqua  da 
esser  bevuta  (Giorgi,  C.  p.  sic,  1881,  n.  4J  ecc.  Un  canto  calabrese  riu- 
nisce insieme  i  varj  desideri  {Calabria,  VII,  27):  Vorrad'essari  'rasta  che 
tu  avissi  De  siipra  la  finestra  e  c'ordurassi;  Vorrad'essari  tazza  e  tu  vifissi 
Ed  iu  culli  mia  labbra  ti  vasassi;  Vorrad'essari  seggia,  e  tu  sedissi  Ed  in 
culli  jinocchia  ti  jocassi ;  Tu  supra  di  tu  liettu  chi  dormissi  Ed  iu  lenzuolti 
chi  ti  cummigghiassi.  In  una  canzone  antica  recata  dal  Bottegari,  op.  cit., 
p.  131,  si  raccolgono  pure  diversi  desiderj:  Vorria,  crudel,  tornare  Pianel- 
letta,  e  poi  stare  Sotto  a  ssi  piedi;  ma  se  lo  sapessi  Per  stratiarmi,  correndo 
anderessi.  Ovver  vorria  tornare  Citrangola,  e  poi  stare  A  sta  loggetta ;  ma 
se  lo  sapessi  Per  darmi  morte  seccarmi  f  aressi.  E  ahimi  !  non  so  che  fare! 
Vorria  specchio  tornare  Per  ta^vedere ;  ma  se  lo  sajiessi,  A  qualche  cecchia 
brutta  mi  daressi.  Meglio  sarta  tornare  Ghiaccio,  per  non  bruciare  A  cosi 
forte  (?)  ;  ma  se  lo  sapessi,  Con  l'occhi  ardenti,  tu  me  desfaressi.  Anche  il  Gol- 
doni reca  come  serenata  una  consimile  Canzone  napoletana:  Varia  che 
fosse  ticiello  e  che  volasse  E  che  tu  m'encapasse  a  la  gajola,  Voria  che  fosse 
Cola  e  che  parlasse  Per  cercare  quattr'ova  a  sta  figliola;  Voria  che  fosse 
viento,  e  che  sciosciasse  Per  te  leva  de  capo  la  rezzòla  ecc.  (La  Mascherata, 
atto  li,  6j  ecc.  In  un  Canto  delle  colonie  greche  si  trova  (Comparetti,  Saggi 
di  dialetti  greci  dell'Italia  meridion.,  Pisa,  Nistri,  1866,  n.  26):  Oh  Dio,  che 
fossi  io  terra  e  tu  mi  calpestassi,  —  O  veramente  che  ti  fossi  la  suola!  — 
Oh  Dio,  che  io  fossi  barile  e  tu  mi  tenessi,  Acciò  che  andassimo  al  ruscello 
ogni  ora,  —  O  veramente  che  ti  fossi  la  vesta  —  Ch'io  venissi  ad  avvolgermiti 
ai  piedi  ecc.  (cfr.  Ast.  Pellegrini,  Il  dialetto  di  Bova,  Torino,  Loescher, 
1880,  I,  53).  E  in  altro  di  Solete  (Morosi,  n.  151):  Cristo!  ti  foss'io  corpet- 
tino  —  E  se  no,  lembo  della  veste,  che  ti  sarei  più  giù!  —  E  se  no,  ti  fossi 
scarpa  del  piede  —  Che  sarei  padrone  di  tutta  la  tua  persona! —  E  la  mat- 
tina io  diventassi  acqua  —  Che  laverei  le  belle  tue  carni.  —  Vorrei  tutte  queste 
cose  diventare,  o  mia  padrona,  —  E  del  tuo  letto  diventar  lenzuolo!  In  un 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  401 

e   contenenti  una  Scelta  di  canzimi  siciliani,  com- 
posti da  varij  poeti  cussi  antichi  comic  muderni  sici- 


canto  serbo  (Chiudina,  C.  del  pop.  Slavo,  Firenze,  Cellini,  1878,  II,  124) 
l'amante  vorrebbe  esser  moscerino  per  nascondersi  nel  seno  dell'amata: 
in  altri,  rumeni,  legno  per  esser  mutato  in  rocca  da  filare  e  starle  ap- 
poggiato al  seno  (Picot,  Dociim.pour  les  dialectes  roiimains,p.  4:2).  In  Abis- 
sinia  si  canta:  Vorrei  essere  il  tief  per  sdraiarmi  nel  tuo  granaio,  Vorrei 
che  tua  sorella  tìii  mondasse.  La  tua  serva  mi  macinasse,  Tua  madre  mi 
facesse  pane  E  tu  mi  mangiassi , per  istarti  nel  ventre  (Martini,  Nell'Africa 
italiana,  Milano,  Treves,  1891,  p.  125). 

Ma  il  più  lepido  desiderio  di  trasformazione  è  quello  espresso  in 
parecclii  altri  Canti  popolari.  Quel  bizzarro  ingegno  di  Vittorio  Imbriani 
scrisse  un  Saggio  di  zoologia  letteraria,  ossia  la  l'ulve  considerata  lettera- 
riamente (Catanzaro,  Tip.  Orfanotrofio,  1875),  dove  stanno  raccolti  molti 
passi  di  autori  dotti  e  indotti  sull'audace  e  noiosa  bestiola;  tra  i  quali 
due  Canti  popolari  al  pulece  fortunato,  invidiandone  la  sorte.  Uno  cosi  con- 
cliiude  :  E  te  ba'  minti  'nfra  le  minne  soi,  Fizzechi  e  suchi  e  nu' furnisci 
mai!  Fallu  pe'  l'arma  de  li  mtierti  tot!  Portanci  puru  a  mmie  quandu  nei 
'aij!  E  l'altro  :  Si  rici  ca  lu  polce  nu'  iè  bello.  Ma  i'  rico  ca  iè  bello  e  ben 
criato.  La  notla  ssi  ni  stai  cu' la  zita,  Ca  nun  ci  stavo  i',  lu  sfurtunatu! 
Altri  se  ne  potrebbe  soggiungere  :  cominciando  da  una  Villanella  alla  sici- 
liana, antica  (v.  Kovati,  per  nozze  D'Ancona-Orvieto,  Bergamo,  1897):  Mi 
vorria  trasformare,  o  faccia  bella.  In  quell'animaluccio,  che,  saltando.  Va  per 
lo  letto  sempre  mozzicando ,  E  pjiano  piano  quando  dorme  il  giorno,  Me  ne 
vorria  venire  a  contemplare  L'angeliche  bellezze  tue  si  rare.  Ma  aggio  paura 
che,  se  ti  toccassi,  Sto  bianco  petto  te  mozzicheria  Di  sorte  certo  che  ti  sve- 
glieria.  Dimmi,  crudele,  se  tu  ti  svegliassi,  E  mi  pigliasse  con  se  mani  toi, 
Se  morte  o  vita  ine  donassi  poi;  che  è,  con  varia  lezione,  anche  nel  cit.  Libro 
di  Canto  e  Liuto  del  Bottegari,  p.  103.  Venendo  a  canti  raccolti  ai  dì  nostri 
notiamo  uno  di  Modica  (Guastella,  n.  118):  Pulici  fussi!  Di  ssa  cammi- 
sedda  Trasissi  e 'scissi  cu  lu  me  piaciri  !  Oh  Ddiu,  ca  muzzicassi  ssa  min- 
nedda,  'Mmienzu  l'ugniddi  to  vurì-ia  miiriri!  In  un  canto  abruzzese  (FlNA- 
MORE,  II,  p.  93)  l'amante  cos'i  trasformato  vorrebbe  Vendicarsi:  l'e'  ite 
vurrébbie  póc-i-  arrivendare.  Tè  ddàrete  la  péne  che  ttu  me  daje,  Bbella,  tuttu 
ju  juorne  ti  turmendare,  Doppe,  la  notte,  te  darre  cchiii  gguaje,  Dentr'a  la 
'recchie  ti  vurrì  trasire,  Vjie  pe' 'ngapparmi  e  ttu  nem  buteraje.  Si  ppe'  sorte, 
bbella  mije,  me  'ngappate.  Avete  cumbassione,  no'  m'ammazzate.  In  un  altro 
di  Borgetto  Salomone-Marino,  n.  102)  è  l'amata  che  punta  dall'importuno 
animale,  esclama:  Stu  purci  fussi  un  picciuteddu  schettu!  Cci  avissì  a  duri 
tanti  muzzicuna  Quanta  nni  duna  a  mia  stu  purci  'mpettu!  Nelle  Marcile 
(GiANANDREA,  pag.  173);  Chi  dice  chela  pulce  n'è.  pulita?  Io  dico  ch'i  pulita 
e  delicata;  La  fa  sempre  la  vita  d'eremita ,  E  sta  ne'  boschettini  rinserrala. 
In  Toscana  :  E  se  potessi  far  come  la  puce  Passar  vorrei  una  notte  felice,  A 
letto  vorrei  andar  con  chi  mi  piace.  A  Venezia  (Beenoni,  punt.  VI,  n.  46  : 
cfr.  IvE,  p.  129  e  Garlato,  p.  338):  Vorave  esser  un  pulesin  d' istae  Per 
darghe  spasso  a  la  mia  cara  Xina;  Per  darghe  quatrocento  becolae  Su  quela 
carne  bianca  e  molesina.  O  anche  (Gablato,  p.  313)  :  Sta  note,  cinema  mia, 
su' sta' al  to  leto,  Ti  geri,  sangue  mia,  che  ti  dormevi,  Ti  gerì  descoverto  el 
bianco  peto.  Un  amolo  del  del  ti  me  parevi;  E  ti  gavevi  un  pulexe  int' el 
peto.  Che  ti  magnava  el  sangue  de  le  vene.  Che  gran  piacere  avea  quel  bestio- 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  26 


402  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

liani.  (^)  Qui  trovo  ottave  amatorie  di  autori,  che  non 
appartengono  certo  al  volgo,  né  per  lui  poetarono, 
ma  vollero  imitarne  i  Canti,  sollevando  anch'essi, 
come  vedemmo  aver  detto  il  cantor  dell'Aminta,  le 
zampogna  rusticane  alla  dignità  delle  dotte  lire.  (^) 
In  questi  componimenti,  dei  quali  non  sarà  forse 
discaro  l'aver  un  saggio,  si  congiungono  insieme  due 
maniere  che  parrebbero  assai  disformi  tra  loro;  un 
andamento  facile  di  versificazione,  una  modulazione 
scorrevole  e  piana  ;  ed  insieme  una  lambiccatura  di 


leto  A  reposare  su  quel  bianco  pelo!  Chiuderò  questa  lunga  nota  con  due 
Canti  letteraij  formati  sui  popoLari,  e  contenenti  i  medesimi  sensi.  Kel  Cod. 
Mediceo-Laurenziano  97,  2",  del  quale  or  ora  diremo,  trovo  due  ottave  alla 
pulce  :  a  pag.  6  e  45.  La  prima  dice  cosi  :  Palici  ingratu,  cruda  mia  rivali, 
Ch'  ingurdu  arzuchi  lu  chiù  meghiu  umuri,  Cu  Cupido  e  cu  mia  t'hai  fatta 
eguali,  Ch'offendi  e  gusti  li  hilizzi  puri  ;  Ma  chiù  tosto  mi  criu  di' in  ani- 
mali Cangiata  Giovi  si'  pr'  estrema  arduri,  E  com'è  usanza  tua  per  mia  gran 
mali  Mi  ruhbirai  quanta  mi  desi  Atnuri.  E  l'altra  conclude  :  per  gustari 
l'animata  nivi  Sutta  la  spogghia  tua  s'ammuccia  Amuri.  Vedine  anche  una 
riduzione  letteraria  nelle  Villanelle  alla  napoletana,  del  sec.  XVI,  edite  dal 
Menghini,  nella  Zeitschr.  h.  roman.  philol.,  XVI,  4115. 

i})  Cos"i  leggesi  in  fronte  al  cod.  Mediceo-Palatino  97,  1",  che  è  un  bel 
voi.  di  pagg.  207,  scritto  con  tutta  eleganza,  iniziali  dorate,  nomi  di  autori 
tutti  ad  oro,  e  bei  fregi  calligrafici.  Al  cod.  97,  2  manca  il  frontespizio,  e 
fors'anche  qualche  foglio  in  fondo.  Le  ottave  vi  sono  tutte  senza  nome  di 
autore,  ed  ha  pagg.  188.  Il  cod.  segnato  96,  con  frontespizio,  tavola  di  au- 
tori ed  indice,  è  di  190  pagg.  Ogni  pag.  nei  tre  codd.  contiene  due  ottave, 
salvo  quando,  nel  primo  e  terzo  codice,  ricorra  il  nome  dell'autore.  I  tre 
codd.  sono  minutamente  descritti  dal  Bandini,  nel  Catalogo  Laurenziano, 
Supplem.,  voi.  II,  p.ag.  269  e  segg, 

(-)  Gli  autori  del  cod.  97,  io  sono  :  Antoniu  Vinitianu,  Binidittu 
Maia,  Dos  Carlu  Ficalora,  Filippu  Paruta,  D.  Filippu  Triolu,  Ga- 
brieli CiciRU,  Giovanni  Giuffrè,  Giuseppi  Galianu,  Giuseppi  Maureddu, 
Giuseppi  Scimeca,  Jaiupu  Marchisi,  Jacupu  Rumanu,  D.  Liuni  Rusfelli, 
D.  Mariu  Mighiazzu,  Micheli  Mukaschinu,  Natalizio  Buscelli,  Ottaviu 

PUTINZANU,  D.  PeTRU  InTERISANU,  TlBIOLU  BENFARI,  D.  VlNCENZU  VaLGUAR- 

nera.  Gli  autori  del  Cod.  96  sono  :  Antoniu  Veneziànu,  Bartolumeu 
D'AsMUNDu,  Binidittu  Maia,  D.  Carlo  Ficalora,  F.  D.  Cesaru  Gravina, 
Filippu  Paruta,  Franciscu  Platamuni,  Filippu  Triolu,  Giovanni  Giuf- 
frè, NiccoLA  RizzARi,  Giuseppi  Durazzu,  Giuseppi  Scimeca,  Gabrieli  Ci- 
ciru,  Giuseppi  Galianu,  Giuseppi  Moreddu,  D.  Jacupu  Marchisi,  Jacupu 
Moreddu,  D.  Jacupu  Bomanu,  D.  Liuni  Russelli,  Micheli  Moraschinu, 
D.  Mariu  Mischiazzu,  Nataliziu  Buscelli  baruni  di  Sera  valli.  Ottaviu 

POTENZANU,    PeTRU    LA    DuNZELLA,  D.  PeTRU  InTELISANU,  TuBIOLU  BENFARI, 

D.  ViNCENZu  La  Farina  baruni  d'Aspramunti,  D.  Vincenzo  Valguarnera, 

AUTUKI   DIVERSI. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  403 

concetti,  una  qnintessenziatastillaturadi  sentimenti, 
che  ben  ricordano  le  pazzie  del  Secento.  Eppure 
l'unione  delle  due  maniere  è  così  sostanziale  ed  in- 
tima, che  ben  mostrano  come  il  tipo  della  poesia 
popolare  assai  spesso  si  accosti  più  all'artifizio,  che 
non  alla  semplicità  e  nudità  delle  forme.  Ecco  un'ot- 
tava che  il  Codice  ascrive  al  Veneziano: 

Mi  cluni  ogn'  luna  morti  duci  e  amena 
Cu  l'attrattivi  toi  modi  ed  infidi  ; 
Si  canti,  si'  gratissima  Sirena, 
Si  chiangi,  un  cucudrillu  chi  m'aucidi  :  (') 
Si  xhiati,  di  pantèra  è  la  tua  lena, 
Si  guardi,  un  basiliscu  all'occhi  annidi  : 
E  tuttu  è  nenti  ;  sai  ch'è  la  mia  pena  ? 
Chi  mi  vidi  muriri  e  nun  mi  cridi.  (^) 

Questo  va  col  nome  di  Filippo  Paruta  : 

Già  chi  pri  gilusia  d'aspra  fìrita 
M'offendi,  ingrata,  cu  li  manu  toi, 
E  tuttavia  la  Morti  mi  cunvita 
A  dari  effettu  a  quantu  brami  e  voi, 
Ogni  ria  vogghia  tua  sarrà  cumplita, 
E  scrivirassi  a  lu  sepulcru  poi  : 
A  stu  mischinu  ci  livau  la  vita 
Chilla  ch'amava  chiù  di  l'occhi  soi.  (^) 


(1)  Cfr.  Vigo,  n.  2935  : 


Lu  cuncutriggliiu  è  un  aspiru  sirpenti, 
Nesci  di  Tacqua  quannu  all'omu  viri. 
Gei  joca,  cci  fa  milli  cumprimenti 
Pri  fina  a  tantu  ca  lu  veni  aciri  ecc.: 

Vedi  anche  Pitkè,  Centuria,  n.  40  : 

Lu  curcutrillu  quandu  all'omu  vidi 

Nesci  di  l'acqua 

Prima  m'ammazzi  e  poi  mi  veni  a  vidi; 
Tu  si  ladra  di  cori  scanuscenti. 

(2)  Cod.  97,  1",  pag.  11.  Si  trova  infatti  nelle  Opere  del  Veneziano, 
pag.  8,  n.  18. 

(3)  Id.,  pag.  35. 


404  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Immagini  ben  degne  del  secolo  XVII  trovansi  in 
questo  di  Filippo  Triolo: 

Templu  su  fattu,  chi  di  marniu  eletta 
Di  pura  fidi  Iiaju  colonni  e  mura  ; 
Supra  l'autaru  di  hi  propria  patta 
La  tua  billizza,  idulu  iiiiu,  s'onura: 
Ogni  putenzia  a  hi  divina  oggetta 
Di  l'occhi  toi  resta  abbagghiata  e  oscura; 
Trema  la  voluntati,  e  l'intellettu 
Nun  ti  putendu  iiitendiri,  t'adura.  (') 

Ma  privo  di  gonfiezze  è  quest'altro  : 

Fammi  chillu  chi  voi,  chillu  chi  sai, 
Bella  crudili,  avara  ed  incustanti  ; 
Penza,  ripenza  a  turmentarmi  ormai, 
Machina  novi  riti  e  novi  incanti  : 
Cli'  iu  su'  'mparatu  a  quant' Amuri  ha  guai, 
E  quant' ha  Cìilusia  terruri  e  scanti; 
E  si  sapi  cli'un  tempu,  o  poca  o  assai, 
Fusti  mia,  histi  amata,  e  fusti  amanti.  (^) 

Gabriele  Cicero  canta  in  queste  due  ottave  l'an- 
siosa aspettazione  dell'amata  : 

Aspetta,  aspetta  e  mai  nun  veni  Tura 
Tantu  aspittata  di   vidiri  a  tia, 
E  hi  cori  trimandu  di  pagura 
Ti  chiama  e  dici  :  Veni,  anima  mia. 
Tu  si  ti  stimulassi  per  vintura 
L'obbligu,  a  clii  ti  stringi  curtisia. 
Veni,  e  cliiii  nun  ci   mettiri  dimura, 
Ch'un  punta  è  milli   seculi  per  mia. 

Lassù  la  vita,  gioia,  sì,  iu  ti  lassù, 
E  l'ossa  stanchi  a  hi  tabbutu  portu  ; 
Su  divintati  li  mei  carni  un  tassu, 
Fatt'è  hi  visu  miu  pallida  e  smorto  ; 
Lu  spirtu  m'abbanduna  passu  passu, 
L'alma  nun  ha  lu  solitu  cunfortu: 


(1)  Cod.  97,  10,  pag.  40. 

(2)  Id.,  pag.  42. 


LA   POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  405 

E  stisu  e  fridilu  avanti  eh'  iu  trapassu, 
Vita  mia,  vieni  e  chianginii  pri  niortu. 

Questo  è  di  lamento  : 

Pi'  undi  nuiusu  diizzii  li  mei  passi, 

In  munti  o  in  scoggliiu  sulitariu  e  duru, 

Lu  celu  intornu  tenebrasti  fassi, 

Siccu  la  terra,  e  l'acqua  e  l'aria  indura; 

Muta  lu  venta  a  li  mei  vuci  stassi, 

E  chiancinu  a  stu  chianta  niuru  e  scura 

L'arsi,  li  tigri,  l'aspidi  e  li  sassi; 

E  tu  morta  mi  voi,  pirclù  t'aduru.  (') 

Della  maniera  poetica  di  Giuseppe  Galiani  ser- 
vano per  saggio  queste  tre  ottave  : 

Fammi  strazzij  a  tua  posta,  e  sdegni  ed  iri. 
Dubbia  una  pena  all'autra  pena  unita, 
Ch'eternamenti  in  mia  purrai  vidiri 
La  tua  cilesti   imagini  sculpita  ; 
È  risuluta  insumma  o  di  muriri 
0  di  placar!  a  tia  st'anima  ardita  ; 
Ha  nicissariamenti  di  finiri 
O  la  tua  crudeltati  o  la  mia  vita. 

Vidirò,  vidirò  farsi  d'argenta 

La  vlunda  trizza,  e  l'aurea  luci  oscura; 
Si  l'arti  ti  darrà  qualch'ornamentu, 
Presta  lu  guastirà  tempu  e  natura  ; 
Com'un  lampu  sparisci  e  com'un  venta, 
Cosa  bella  tra  nui  passa  e  nun  dura; 
Sulu  ti  ristirà  stu  pentimentu, 
Chi  quandu  tu  vurrai  nun  sarrà  Tura. 

Vurria,  ma  nun  si  po'  cosa  truvari 

Ch'  iu  la  cumpara  a  vui,  cara  mia  beni  ; 
Su'  immensi,   ma  nun  ponnu  apparaggiari 
A  li  vostri  billizzi,  li  mei  peni  ; 
C'è  manca  stelli  in  celu  e  rina  in  mari,  (^) 
Di  quantu  grazij  Amuri  a  vui  manteni  ; 


(1)  Cod.  97,  10,  pag.  51,  54,  67. 

(-)  Tigri,  Storn.  n.  3:  Di'  quante  stelle  è  in  cielo  e  pesci  in  mare. 


406  LA  POESIA  POPOLARE  ITALL\NA. 

A  vui  sula  vi  pozzu  assumiggliiari, 

Ch'autru  assimigghiu  (')  a  vui  nun  si  convenì.(^) 

Altri  tre  ne  daremo  di  Giuseppe  Scimeca  : 

Di  li  miserj  mei,  di  li  mei  guai 

Primaria  causa,  idulu  miu  supernu, 

lu  binidicH  l'uva,  chi  pruvai 

Per  vui  beatu  l'amurusu  infernu; 

E  cuntimplandu  li  vostr'alnii  rai 

In  illi  tanta  maestà  discernu, 

Ch'ardiscia  diri,  chi  uun  fici  mai 

Chili  bell'opra  di  vui  lu  Mastru  eternu. 

Torna,  o  miu  cori,  volgi  la  pedata, 

La  via  pr' undi  camini  è  fausa  e  storta; 
Nun  vidi,  ohimè,  chi  l'amurusa  strata 
A  qualchi  gran  ruina  ti  trasporta? 
L'alba  a  li  amuri  toi  iiascìu  turbata, 
Lu  Sali  ti  mostrau  la  facci  smorta; 
La  notti  di  sta  tua  iiiura  jurnata 
Oh  chi  noja,  oh  chi   tenebri  t'apporta! 

Chilla  chi  d'ogni  libertà  mi  spogghia, 
Fatta  pietusa  di  lu  miu  rispettu. 
Yucca  a  vucca,  alma  ad  alma  e  vogghia  a  vogghia 
Eccu  unisci  cu  mia,  culma  d'aifettu; 
O  ceca  Din,  chi  la  mia  longa  dogghia 
Termini  cu  l'estremu  to  dilettu, 
Prima  chi  sta  unioni  si  disciogghia, 
Fa  chi  l'alma  si  sciogghia  di  sta  pettu.  (^) 

Eccone  ancora  una  diecina  presi  qua  e  là  : 


(1)  Tigri,  n.  76:  Di  voi  non  ho  trovato  il  rassomiglia.  Ili  n.  239:  Di  voi 
non  ho  trovalo  l'assomigliu.  \\  Canto  n.  1352  del  Vioo:  Forti  lu  rassumigghiu 
di  la  luna.  E  il  Veneziano:  Furrò  laudarmi  cchih  d'un  to  assimigghiu  Chi 
ditia  stessa  (ediz.,  cit..  pag.  40,  n.  2.38):  Fri putirisi  beddu  dimustrari  Qualchi 
vostru  assimigghiu  pigghiria  (Id.,  pag.  54,  n.  2SS)  ;  E  lu  siili  e  la  luna  e  ogni 
pianeta  Qualche  assimigghiu  pigghianu  di  Ha  (Id.,  pag.  81,  n.  207);  E  dicimi: 

Vi',  chistu  }■  un  assimigghiu  (Id.,  pag.  100,  n.  437).  Il  vocabolo  del  Canto 
toscano  è  dunque  vorisimilmente  dedotto  dal  dialetto  e  dai  Canti  sici- 
liani. 

(2)  Id.,  pag.  82,  88,  91. 

(3)  Id.,  pag.  122,  123,  132. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  407 

Mentre  t'armi  di  silegmi  e  d'oddiu  ardenti 
Ed  a  guerra  murtali  mi  disfidi, 
S'iii  moni  aniandu,  avanza  apertamenti 
La  tua  gran  tirannia  la  mia  gran  fidi; 
Sazziati,  ingrata,  di  li  mei  turmenti. 
Di  l'arsu  pettu  miu  l'alma  dividi, 
Ch'iu  sarrò  sempri   d'ardiri  cuntenti, 
Ed  è  gran  gloria  mia  si  tu  m'aucidi.  (') 

Ed  è  lu  duru  e  rigida  diamanti, 
E  puru  cosa  c'è  chi  lu  pò  sfari  ; 
Ed  è  la  petra.  e  li  gatti  stillanti 
La  vennu  cu  lu  tempu  a  cunsumari; 
Cussi  spera  iu  chi  di  poi  tanti  e  tanti 
Sparsi  ogn'  ura  pir  vai  lagrinii  amari, 
Lu  vostra  cori  immobili  e  custanti 
Si  vegna  in  qualchi  moda  a  rimnddari.  (-) 

Luntanu  di  lu  Soli  miu  superna, 

Umbra  di  morti  mi  cingi  e  circunda, 

Ed  un  crudili  e  tempestusu  invernu 

D'amara  chiantu  1'  umid'occhiu  abbunda  : 

Talchi  sta  petto  è  fatta  n'autr'  infernu, 

Abbrusciandu  di  focu  'nmenzu  l'unda, 

Chi  benclù  è  violenti,  è  para  eternu, 

E  pirclii  è  vostra,  la  xliiamnia  è  giacunda.  (') 

Mai,  donna,  sintirai  chi  ti  tradiu, 
O  chi  l'antica  amanti  ti  lassaa  ; 
E  si  nun  m'ami  tu,  dunca  voggh'  iu 
Amari  ad  autru  ?  Amari  s' ingannau. 
Vogghia  chi  scrivi  a  lu  sipulcru  miu 
Di   chillu  sangu  chi  di  mia  ristan  : 
Fidili  morsi  e  fidili  muriu 
L'amanti  chi  di  fidi  mai  mancau.  {*) 

Nan  chiù  sdegna,  alma  mia,  facemu  paci, 
Apri   ormai   di  pietà  li  chiusi  porti  : 
Chi  troppa  fora  modu  si'  tenaci. 
Troppa  ostinata  in  farmi  strazj   e  torti  : 


(1)  Del  RusFELLi,  pag.  145. 

(2)  Del  MiGLiAzzo,  pag.  152. 

(3)  Del  Maraschino,  pag.  167, 
{*)  Del  POTEXZANO,  pag.  183. 


408  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Ma  si  di  turmeutarmi  ti  cumplaci, 
Vaga  di  la  mia  niura  ultima  sorti, 
Di  muriri  per  tia  min  mi  dispiaci, 
Puru  cli'un  sguardu  to  mi  diigna  morti.  (') 

Si  pir  vi^i  m'ardii  in  amnrusu  gioca, 
E  si  lu  cori  a  vui  sacrificai, 
Perchì  quandii  lu  vostra  aiuta  invoca, 
In  mia  sdignusi  girati  ssi  rai  ? 
0  ceca  nun  viditi  hi  miu  foca, 
O  cruda  nan  criditi  li  mei  guai  ; 
0  li  meriti  mei  su  troppu  pocu, 
0  la  vostra  durizza  è  troppu  assai.  (^) 

Nun  ha  cori  1'  ingrata,  per  cui  spinni. 
Cori  mia,  né  ti  giuva  lacrimari  ; 
Non  l'ha  di  petra  no,  ch'ancora  vinni 
Una  petra  a  hi  chianta  a  rimudari. 
S'ardèru  l'aspri  Amazuni  li  minni 
Per  putiri  chiù  meghiu  saittari  : 
Ma  sta  tiranna  cu  ingrati  disinni 
Lu  cori  si  scippau  per  non  amari.  (^) 

Nun  mi  punginu  chiù  li  toi  saitti, 
Lu  focu  di  stu  pettu  s'  inielaa  : 
Sugna  arrivati!  a  gradu  chi  mai  critti  : 
Sdegnu  di  la  catina  mi  levau  : 
E  si  ben  tardu  di  tia  mind'avvitti, 
Poichì  sacciii  la  causa  e  cui  culpau, 
L'occhi  mi  cechiiìa  perchì  ti  vitti, 
E  scippirìa  stu  cori  chi  t'amau.  C) 

Ognuno  vede  come  questi  repertori,  (^)  diffon- 
dendosi a  stampa  o  in  iscritto,  possano  aver  servito 


(')  Dell' Interisano.  pag.  157. 

(2)  Cod.  97,  2,  pag.  25. 

(3)  Id.,  pag.  57.  Kel  cod.  96,  pag.  13,  va  sotto  il  nome  del  Veneziano, 
con  queste  varianti  :  v.  3  chi  punì  si  vinni  —  4  per  chianti  —  5  Si  scip- 
paru  V  —  1  fausi.  E  nell'edizione  del  Veneziano,  pag.  91,  n.  227  :  v.  \  i>ri 
—  2  Juva  —  3  Xè  chi  puru  —  i  petra  lu  ..  .ai-rimuddari  —  5  S'arsirti  — 
6  Pri . .  .megghiu  —   7  E  sta  . . .  fausi  —  S  pri. 

(4)  Id.,  pag.  87. 

(■'>;  Di  altre  consimili  Raccolte  dei  sec.  XVI,  XVII.  XVIII  lianno  dato 
ragguaglio  il  prof.  Salo.monk-Makino  in  Arch.  tradii,  popul.,  I,  345  segg.  o 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  409 

a  mantenere,  concordemente  alla  tradizione  orale, 
la  memoria  della  forma  poetica  e  della  foggia  di 
versificazione  paesana;  e  alle  improvvisazioni  po- 
polari, coll'esempio  della  nobiltà  e  sostenutezza  dei 
concetti  e  delle  rime,  abbiano  fatto  serbare  certa 
gravità  d'indole,  che  nella  poesia  dei  volghi  non  si 
potrebbe  a  ragione  pretendere. 

Pei  Canti  delle  Provincie  meridionali  larga 
messe  di  raffronti  offrono  pure  alcune  Raccolte,  ripe- 
tutamente stampate  in  libercoli  ad  uso  del  popolo. 
L'Avallone  di  Napoli  è  per  cotesta  parte  d'Italia 
ciò  che  furono  per  il  Veneto  il  Cordella  di  Venezia, 
per  la  Toscana  il  Marescandoli,  il  Bertini  e  il  Ba- 
roni di  Lucca,  per  la  Romagna  la  Tipografia  bolo- 
gnese alla  Colomba:  officine  dalle  quali  uscirono  in- 
numerevoli opuscoli,  la  più  parte  logorati  e  dispersi 
al  di  d'oggi,  che  mantennero  nei  volghi  la  tradizione 
della  maniera  letteraria  e  insieme  della  versificazione 
popolare.  Io  ho  dinanzi  a  me  cinque  di  queste  Rac- 
colte contenenti  varie  Canzoni  di  amore,  di  gelosia, 
di  sdegno,  di  pace  e  di  partenza,  secondo  la  divisione 
popolare  degli  affetti: 

Quattru  snnu  li  peni  di  stu  munnu  : 
Amuri,  gilusia,  spavtenza  e  sdegna.  (') 

Aggiungansi  due  altre  categorie,  non  indicate  nei 
frontespizj,  ma  date  come  titolo  ad  altri  gruppi  :  di 
lontananza,  cioè,  e  di  dispetto,  e  si  avranno  tutte  le 
possibili  forme  nelle  quali  si  manifesta  il  sentimento 
amoroso  nei  Canti  del  popolo. 


il  prof.  G.  Oliva  neìVArch.  stoi:  messinese,  V  (1904),  e  in  ambedue  queste 
interessanti  pubblicazioni  v"è  da  largamente  spigolare. 

(1)  Vigo,  n.  1031.  Altrove  il  primo  verso  varia,  avuto  riguardo  alla 
natura  dei  canti:  Cantami  qiiantii  voi  ca  t'ayrisxninnn  D'anutri  ecc.  (Vigo, 
n.  1182;  PiTEÌ;,  C.  popol.  sicil.,  I,  pag.  183). 


410  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Questi  componimenti,  tutti  in  ottava  siciliana  o 
letteraria,  furono  dall'Imbriani  ampiamente  adope- 
rati nelle  illustrazioni  ai  suoi  Canti  delie  provhicie 
Diericìionali,  e  noi  ci  gioveremo  delle  sue  fatiche, 
aggiungendo  qualche  altra  indicazione  che  potesse 
essergli  sfuggita.  E  ci  sarà  probabilmente  ancora 
qualch'altra  cosa  da  spigolare.  I  raffronti  sono  per  la 
massima  parte  con  poesie  popolari  del  mezzogiorno: 
pur  tuttavia  è  evidente  che  questi  libercoli  o  nelle 
stampe  napoletane  o  in  altre  ristampe  non  sono  ignoti 
alle  plebi  di  altre  provincie.  Della  quarta  Raccolta, 
ad  esempio,  possediamo  una  ristampa  colla  falsa 
data  di  Napoli  1852:  falsa  diciamo,  perchè  i  carat- 
teri e  la  carta  non  rassomigliano  punto  a  quelli  na- 
poletani, ma  invece  si  conformano  interamente  alle 
stampe  popolari  di  Todi  o  di  Roma.  Nulla  sapremmo 
dire  quanto  all'antichità  di  queste  Raccolte  :  l'edi- 
zione che  abbiamo  sott'occhi  è  senza  data,  ma  colla 
indicazione  di  undecima  ;  tuttavia  la  stampa  che  di- 
remmo umbra  o  romana,  è  datata  dell'anno  1852,  e 
si  dà  per  ottava  edizione.  Si  potrebbe  dunque  credere, 
se  questa  riproduce  esattamente  un  frontespizio  na- 
poletano, come  in  altri  casi  assai  sappiamo  essere 
avvenuto,  che  prima  del  '52  a  Napoli  già  le  Raccolte 
si  erano  stampate  otto  volte,  e  tre  altre  poi  prima 
di  giungere  a  quella  che  consultiamo:  sicché  innanzi 
alla  data  riferita  si  avrebbero  altre  sette  stampe  da 
distribuire  in  un  numero  di  anni,  che  giudicando 
dal  poco  tempo  che  separa  l'ottava  edizione  dall'un- 
decima, non  potrebbe  esser  soverchio.  Or  dunque, 
tutto  induce  a  supporre  che  la  prima  pubblicazione 
di  queste  Raccolte  possa  protrarsi  soltanto  fino  ai 
principj  del  sec.  XIX  o  agli  ultimi  tempi  del  XVIII: 
ma  io  le  direi  ancor  piìi  antiche. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  411 

Sia  di  ciò  che  si  voglia,  cominciamo  i  nostri 
raffronti.  Rechiamo  tale  e  quale  la  lezione  delle 
Raccolte  napoletane,  sebbene  spesso  assai  errata  per 
ignoranza  dei  tipografi  o  insufficenza  di  correttori, 
notando  tuttavia  le  ommissioni  o  aggiunzioni  di  let- 
tere 0  sillabe,  con  parentesi  quadre  le  prime,  con 
tonde  le  altre  :  e  cominciamo  dal  primo  florilegio, 
dove  subito  troviamo  questa  ottava: 

Tu  piangi,  amato  ben[e],  io  mi  lamento, 

Tu  con  lagrime  agli  occhi,  ed  io  col  pianto; 
Tu  afflitta  te  ne  stai,  ed  io  scontento, 
Tu  brami  di  vedermi,  io  starti  accanto: 
Tu  ferita  dal  dnol  (ed),  io  dal  tormento. 
Tu  ferita  d'amor[e],  io  dall'  incanto  : 
Tu  ferita  d'affetto,  ed  io  d'ardore: 
Tu  nell'alma  patisci,  ed   io  nel  cuore. 

La  loquacità  di  questo  Canto  è  tale  che  ninno  si  ne- 
gherà di  vedervi  una  primitiva  forma  letteraria,  dalla 
quale  proviene  per  successiva  traduzione  questa  ot- 
tava della  Calabria  citeriore: 

Tu  chiangi,  amata  bene,  iu  mi  lamientu, 
Tu  cu  lacrimi  a  l'uocclii,  ed  iu  cu  cliiantu  ; 
Tu  afflitta  ti  ni  stai,  ed  iu  scuntentu. 
Tu  brami  di  vidirmi,  iu  starti  accantu  : 
Tu  ferita  di   duolo,  iu  di  turmientn, 
Tu  ferita  d'amure,  iu  da  l' incantu  : 
Tu  ferita  d'affiettu,  ed  iu  d'ardore, 
Tu  all'anima  patisci,  ed  iu  nel  core.  C) 

La  terza  ottava,  nella  forma  letteraria,  è  questa: 

Bella,  come  io  potrò  di  voi  scordarmi, 
Se  in  voi  ho  riposto  ogni  mio  bene? 
Come  potrò  (io)  di  voi  dimenticarmi, 
Se  l'alma  mia  la  tua  beltà  mantiene? 


(1)  Pubbl.  da  C.  Arlia  nel  Passatempo,  giornale  torinese  del  1865. 
anno  II,  n.  20.  Cfr.  Mandalari,  p.  400;  Molinaro  Del  Chiaeo,  C.  poj).  di 
Terra  d'Otranto,  in  Arch.  trad.  pop.,  Ili,  286,  n.  47. 


412  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Tu  di  lasciare  a  me  difRcil  parmi, 

Io  di  lasciare  a  te  non  mi  conviene  : 

Giuro  se  giu[re]rai  di  non  lasciarmi 

Di  baciare  [e]  abbracciar(e)  le  mie  catene.  {') 

In  Terra  di  Lavoro  cantasi  cosi  : 

Gomme  potrei  di  vuje  scordarmi  mai? 
Sopra  di  vuje  ho  posto  lo  mmio  bene  : 
Gomme  potrei  di  vuje  dimenticarmi"? 
Lu  core  mmio  sse  sta  sempre  cu'  tene  ! 
Tu  ppe'  lasciarmi  difficile  mme  pare, 

10  ppe'  lasciarvi   a  vuje  non  mme  convene; 
Se  mme  'mprometti  non  lasciarmi  mai, 

Ti  abbraccio  e  baciarrò  le  tue  catene.  (-) 

Segue  un  Canto  comunissimo,  che  già  abbiamo 
recato  addietro,  ('^)  e  del  quale,  a  causa  delle  rime, 
ci  parve  dover  assegnare  l'anteriorità  alla  forma  si- 
cula  sulla  toscana.  La  lezione  aulica  sarebbe  questa: 

Quando  nascesti  tu,  fior(e)  di  bellezza, 

11  sole  ti  donò  il  suo  splendore: 
La  luna  ti  donò  la  sua  chiarezza, 
La  rosa  ti  cede  tutto  il  suo  odore  ; 
Venere  ti  donò  la  sua  bellezza. 
Cupido  t'insegnò  a  far  l'amore; 

Il  ferro  pose  in  te  la  sua  fortezza  ; 

Ed  io,  tuo  amante,  ti  dono  il  mio  cuore. 

Anche  qui  le  rime  corrispondono  perfettamente:  re- 
sta a  sapersi  quale  delle  due  forme,  la  siciliana  o  la 
letteraria,  sia  l'anteriore:  ma  ciò  meglio  potrà  con- 
getturarsi, quando  avremo  finiti  questi  ragguagli  di 
lezioni  plebee  ed  auliche. 

Del  seguente  è  passato  in  qualche  luogo  al  po- 
polo il  tetrastico,  più  l'ultimo  verso: 


(1)  Una  lezione  alquanto  diversa  ò  nella  Race,  terza. 
('■')  Imbriani,  C.  popol.  pror.  tneridion.,  I,  256. 
(3)  V.  pag.  2G3. 


LA   POESlii.   POPOLAKE   ITALIANA,  413 

Carta  felice,  tu  vai  a  trovare 

Quelle  mani  gentil  dell'  idol  mio  : 
Ora  vorrei  con  te  sorte  cambiare, 
Che  carta  come  te  diventass' (anch')  io. 
Le  mani  sue  gentil  vorrei  baciare, 
E  nel  baciarle  ognor,  che  gioja,  oh  Dio  ! 
E  giacché  così  vuol  la  sorte  ria, 
Carta,  baciale  tu  da  parte  mia. 

Ecco  infatti  quanto  n'è  restato  in  Terra  d'Otranto  : 

Carte  felice,  o  te  che  vai  a  tuccare 
Le  beddhe  mane  de  ninnella  mmia. 
Ora  vurrìa  cu'  tie  sciorta  cangiare  ! 
Carta,  comu  a  te,  vul'ia  esse  iu. 
Ma  la  sciorte  nu'  volo  e  già  nu'  sia! 
Carta,  baciale  tu  pi'  amore  mmiu  ;  (^) 

ma  in  Abruzzo  si  è  conservato  intero  di  otto  versi: 

Carta  felicia,  te  mann'a  ttruvare 
Lle  mane  gendile  de  la  bbella  mije. 
Ji'  vurreje  che  tté  sorta  cambiare 
E  ccarta  come  tté  devandésse  jije, 
Le  mane  tue  ggendile  vurreje  bbasciare, 
'Ne  lle  bbasciare  ogn'ore,  ggioj',  addije. 
E  ggia  celie  ccuseì  vvo'  la  sorta  mije, 
Carta,  bbascele  tu  dda  parta  mije.  ('^) 

Anche  in  quest'altro  caso  si  è  perduta  parte  della 
lezione  aulica  : 

Deh  non  lasciarmi,  no,  beli'  idol  mio  ; 
Di  chi   mi  fiderò,  se  tu  m'inganni? 
Di  vita  mancherei  nel  dirti  addio, 
Che  viver  non  potrei  in  tanti  affanni. 
Ricordati,  ben  mio,  che  tuo  son  io 
E  che  te  sola  amai  ne'  miei  prim'anni  ; 
Che  se  lasciar  mi  vuoi  in  abbandono. 
Uccidimi  se  puoi,  eh'  io  ti  perdono.  (^) 


(1)  Imbriani,  C.  pop.  prov.  meridion.,  II,  IS:  cfr.  Mandalaei,  p.  207. 
C^)   FlNAMORE,  II,  n.  290. 

(3)  Un'altra  lezione  contenuta  nella  Raccolta  seconda  varia  i  cinque 
ultimi  versi. 


414  LA   POESIA   POPOLARE   ITALL^^NA. 

Che  a  Nardo  in  Terra  d'Otranto  dicesi  in   questa 
forma  : 

Ah  nu' lasciarmi  no,  bell'idul  mmiu  ; 
Di  chi  mme  fiderò  ci  tu  mme  'nganui? 
De  'ita  mancherò  nel  dirti  :  Addili  ! 
Vivere  nu'  potrò  fra  tant'affanni. 
Cangia,   cangia  pinsieri,  cangia  disire. 
Ci  morta  nu'  mme'uei  nel  fior  degli  anni.  (^) 

Artificioso,  ma  popolare  in  più  regioni,  è  il  se- 
guente : 

Mi  voglio  faro  un  manto  di  finocchi, 
E  di  finocchi  il  cappuccio  [vo']  fare: 
Lo  voglio  fare  fino  alle  ginocchia,  (^) 
E  di  finocchi  lo  vofglio)  foderare  : 
E  mentre  sono  aperti  sti  miei  occhi, 
Sempre  finocchi  voglio  seminare, 
Acciò  che  seminando  assai  finocchi 
Qualche  donna  potessi  infinocchiare.  (^) 


(1)  Imbkiani,  C.  popol.  proi:  meridion.,  I,  294. 

(2)  Correggi  :  alli  ginocchi. 

(3)  Questa  immagine  del  finocchio  è  anche  in  uno  Strambotto  del  cod. 
Palat.  228,  pag.  aO,  che  ha  assai  del  popolare  : 

Tu  m'amerai  se  ti  schizzasse  gli  occhi, 
Tu  m'amerai  se  ti  crepasse  '1  core, 
Tu  m'amerai  ancor  pien  di  pidocchi. 
Tu  m'amerai  d'i  e  notte  a  tutte  l'ore, 
Tu  m'amerai  se  ti  darò  finocchi, 
Tu  m'amerai  pur  con  perfetto  amore, 
Tu  m'amerai  con  fermo  e  gran  disio. 
Tu  m'amerai  ancor  che  non  voglia  io. 

Molto  più  artificioso  ed  infelice,  è  questo  di  un  cod.  udinese  datato  del  1470; 

Deh  non  m'infinocchiar  più  di  finocchi, 
Ch'io  son  finocchio  e  finocchiar  so  altrui: 
Tal  di  finocchi  par  che  mi  finocchi 
Che  di  finocchi  1'  infino>.'chio  lui  : 
Se  di  finocchi  infinocchiar  mi  vuoi 
Or  m'infinocchia  con  finocchi  tuoi; 

Finocchio  son,  finocchio  fui 
Finocchio  sono  per  finocchiare  altrui. 

(V.  Joppi,  Rime  amorose  del  sec.  XV,  per  nozze  Fresclii-Perugini,  Udine, 
1879,  n.  XVI). 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIA^'A.  415 

Che  a  Caballino  dice  cosi  : 

Mm'aggiu  fare  'iia  cappa  de  feiiucchi, 
E  de  fenucchi  lu  cappucciu  fare  ; 
Mine  Taggiu  fare  fina  agli  scenucclii, 
E  de  fenucchi  l'aggiii  fiiderare  ; 
Ca  mo'  mme'  nd'  'iau  'ddliu'  nascenu  li  mucchi 
Sempre  finucchi  "ogghiu  semnienare: 
E  tanti  nd'aggiu  cogghere  a  mannucchi, 
Quarchedunu  cu  pozzu  'nfenucchiare.  (') 

Lo  abbiamo  anche  in  dialetto  siciliano,  ma  il  sapore 
letterario  vi  è  sempre,  se  anche  la  originaria  lezione 
sia  l'isolana  : 

Vurria  fari  l'amanti  di  {inocchia, 
E  di  finocchiu  'nu  mantedhu  fari  ; 
Mi  l'haju  a  fari  sinu  a  lu  dinocchiu, 
E  di  finocchiu  1'  haju  a  foderari  ; 
E  finu  a  tanta  ca  mi  resta  un  oitchiu, 
Sempi  finocchi  vogghiu  siminari  ; 
E  siminannu  finocchiu  finocchiu 
A  quarcheduna  1'  haiu  a  infinucchiari.  (^) 


(')  Imbeiaxi,  C.  pcipol.  jììov.  iiieridio».,  U,  202.  Vedi  pure  ivi  una  le- 
zione di  Bagnoli  Irpino,  dove  questo  è  innestato  in  altro  Canto,  e  dice  così, 
ritenendo  i  vv.  1-2,  5-6  dell'ottava: 

Mm'aggio  de  fa'  'no  manto  di  fenuccliio, 
Di  fenucchio  lo  voglio  'nfoderare: 
Mentre  che  stanno  aperti  'sti  mniie  occhi 
Senpe  finucchio  voglio  semeuare. 

Vedi  la  lezione  abruzzese  in  Finamoee,  li,  n.  471,  e  la  napoletana  in  Mo- 
LiNARO,  n.  316.  E  un  Canto  istriano  (Ive,  pag.  175)  : 

Vago  cercando  marassa  e  fenuoci. 
Per  vulire  oùna  polita  infenueiare  ; 
Vurave  infenuciala  infeìna  'i  ucci  : 
Vago  ^'ereando  marassa  e  fenuoci. 

E  uno  ferrarese  (Ferraeo,  pag.  43)  : 

Kusina  bela,  t'ho  purtà  un  finocio, 

(2)  Vigo,  n.  4230.  11  Capuana,  lo  attribuisce  a  Mario  Tichi:  Poesie  in 
dialetto  sicil.  di  P.  Maura  e  d'altri  ecc.,  p.  131.  Menzione  del  simbolico  fi- 
nocchio è  anche  in  questo  Canto  veneziano  (Bernoni,  punt.  IV,  n.  36)  : 

Mi  vago  in  orto  a  semenar  fenoei, 
Alzo  la  testa  e  vedo  do  bei  oci; 


416  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Né  meno  artificioso  e  degno  di  un  secentista  è 
quest'altro  : 

Una  notte  (mi)  sognai  ch'eravani(o)  morti, 
Eravam(o)  morti  insieme,  anima  mia; 
Li  medici  valenti  e  molto  accorti, 
Sopra  di  noi  face(v)ano  anatomia  ; 
Coi  loro  ferri  tanto  acuti  e  forti 
Squarciarono  i  petti  a  me  e  tia  : 
Tutti  restaron(o)  sbigottiti  e  morti, 
Che  a  te  trovar(ono)  due  cori,  e  niente  a  mia. 

Queste  forme  di  tia  e  mia  accusano  uua  derivazione 
sicula,  restando  tuttavia  aulica  e  non  plebea  la  ma- 
niera. Infatti,  ecco  come  cantasi  in  Sicilia  : 

Sta  notti  mi  sunnai  ch'eramu  morti, 
Eramu  morti 'nsemi,  armuzza  mia: 
Li  medici  e  chirurici  ccliiù  accorti 
Vulenu  di  nui  fari  anatnmia  . 
Ccu  armi  e  ferri  valurusi  e  forti 
Ni  spaccaru  hi  pettu  a  mia   e  tia, 
Ed  arristaru  sbauttuti  e  morti 
Truvannu  a  tia  du'  cori,  e  nenti  a  mia.  (') 


Sti  do  bei  oci  tanto  me  vardava, 

Che  dei  fenoci  me  desmentegava. 

Fenocio,  fenocin  e  fcnoceto, 

Go  dà  fenocio  a  clii  m'ìi  infenociato  : 

Fenocin,  fenocin  e  fenocelo, 

Go  dà  fenocio  a  quel  viso  belo. 

E  cosi  pure  in  questo  Rispetto  antico  (pubbl.  da  S.  Ferrari  per  nozze  Bas- 
sini-Cherubini,  1895,  pag.  22)  : 

Un  giorno  clie  coglievo  i  finocchini 
Mi  disse  l'amor  mio  :  Bella  che  fai  ? 
Tu  mi  tolghi  la  vita  e  m'assassini 
E  quanto  pato  più,  men  pietà  n'hai. 
Gli  risposi  al  secondo:  0  ch'io  arrapini, 
S'io  t'ho  mai  tolto  vita  e  dato  guai; 
E  quant'al  primo,  so  tu  avessi  gli  occhi, 
Vedressi  che  qui  colgo  de'  finocchi, 

(1)  Vigo.  n.  1108  in  not.a.  Cfr.  Salomone-Marino,  n.  .S17  e  Fiori  Sei- 
valici,  n.  34.  Una  lezione  calabrese  è  nel  /'flf6'S(ì/e/»po,  loc.  cit.,  pag.  231,  che 
però  mostra  venire  dalla  l'orma  a  stampa:  e  notisi  la  cosa  perchè  è  di  rilievo 
Infatti  il  V.  3  dice:   Li  mieiìici  valenti  ed  assai  accorti  —  4  ISupra  di  nuificirii 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  417 

Fu  dallo  Strambotto  tolto  il  Sonetto  che  segue,  del 
principe  Federico  Napoli  di  Resuttano,  arcipastore 
degli  Ereini,  o,  come  vorrebbe  il  Guastella,  (^)  su 
d'esso  si  fece  il  componimento  popolare?  Non  sap- 
piamo decidere  il  dubbio,  e  riferiamo  il  Sonetto  : 

Non  appariva  ancora  il   primo  albore 

Ed  io  sognai  di  te,  Fillide  mia  : 

Sognai  che  tu  morivi,  e  pel  dolore 

Dell'acerba  tua  morte,  anch'  io  moria. 
Quindi  de'  nostri  al  querulo  clamore 

Dei  medici  la  turba  a  noi  venia, 

E  ad  esplorare  il  nostro  rio  malore 

Ordinò  di  noi  due  l'anatomia. 
Fra  lo  stuolo  presente  al  caso  amaro 

Due  soli  furo  a  la  mest'opra  eletti, 

Che  osservar  nostri  membri  uno  per  uno. 
Ma  in  veggendo  al  di  dentro  i  nostri  petti, 

Fuor  di  se  stessi  e  attoniti  restaro. 

Che  in  te  vider  due  cori,  e  in  me  nessuno. 

Certo  è  che  questo  concetto  fu  girato  e  rigirato  dai 
poeti  siciliani  e  fatto  proprio  dal  popolo:  a  volte  poi 
non  è  un  sogno,  ma  una  deliberazione  di  amore, 
come  in  quest'ottava  della  Celia  di  Antonio  Vene- 
ziano: 


anatomia  —  h  E  cu  li  fierri  assai  taglienti  e  forti  —  8  Ca  a  tia  tnivarii  due 
cori  e  nienti  a  mia.  Probabilmente  dalla  stessa  fonte  stampata  proviene  la 
lezione  di  Curinga,  prov.  di  Catanzaro,  citata  dal  Lumini  nellopiisc.  del 
quale  or  ora  faremo  cenno,  a  pag.  11.  Notisi,  per  ultimo,  che  se  ne  lia  una 
parafrasi  sarda  (v.  Salomone-Marino,  in  not.  al  loc.  cit.): 

Mi  faghent  notomia 
Osservant  chi  su  coro  non  giughia. 
Si  ponent  in  consulta 
Subra  de  unu  fattu  tant'oscuru  : 
Finalmente  risulta 
De  fagher  notomia  a  tie  puru. 
Ed  abberint  sos  poros 
Et  t'  incontrant  in  pettus  duos  coros. 

(1)  Di  T.  Campania  e  de'  suoi  (empi,  Ragusa,  Piccitto  e  Antoci,  1880, 
pag.  35. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  Hai.  —  27 


418  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

Aniuii  un  jornu  si  deliberali 
Di  vidiii  r intrinseci!  di  mia 
E  tuttu  in  pezzi  mi  ruppi  e  taggliiau, 
Medicu  accortu,  accorta  notomia: 
D'un  solu  effettu  si  meravigghian 
Quantu  l'invitta  sua  putenzia  sia, 
Che  viva  senza  cori  mi  trovau 
Fatta  sequaci  di  la  donna  mia; 

mentre  un  Paolino  Romansolo  lo  raffazzonò  a  questo 
modo  : 

Cupidu  ntra  hi  sunna  mi  pigghiau 
Per  fari  di  sta  corpo  anatomia: 
Ma  nun  appena  lu  pettu  spaccau, 
Restau  sorprisa  a  la  vista  di  mia, 
Ca  senza  cori  aifatta  mi  trovau, 
E  cursi  allora  per  spaccar!  a  tia  : 
Miracala  d'amari  !  ti  truvau 
Dui  cori  appunto,  di  tia  e  di  mia.  (^) 

Anche  al  seguente  troviamo  corrispondenza  in 

Sicilia  : 

Mi  parto,  bella,  e  pria  del  mio  partire 
Il  cor  qui  lascio  [all'] amor  tao  costante: 
Che  s'è  lontan(o)  da  te  non  puoi  tu  dire: 
Altri  si  god[e]  il  mio  fedele  amante. 
Mi  vedrai  sempre  in  sonno  comparire. 
L'alma  ti  seguirà  come  ombra  errante  : 
Se  senti  il  vento,  è  certo  il  mio  sospire, 
L'acqua  che  pioverà  sono  i  miei  pianti. 

Le  rime  in  questo  caso  si  restituiscono  perfettamente 
colla  versione  acitana  : 

Ju  mi  ni  vaja,  ca  mi  n'  haju  a  ghiri, 
E  ti  lu  lassù  stu  cori  Astanti  ; 
Si  ti  lu  lassù,  nan  mi  l'ha  tradiri, 
Nun  l'ha  dari 'mpussessu  ad  autru  amanti; 
Ja  'ntra  la  sunnu  ti  vegnu  a  vidiri, 


(1)  Sai.omone-Maiìi.n'o,  in  Arch.  trad.  popol.,  I,  355,  306. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  419 

Ti  stajii  cotnu  un'ummira  davanti; 
Lu  ventu  mina,  e  su'  li  miei  suspiri, 
L'acqua  ca  vivi  sunu  li  me'  chianti.  (^) 

Questo  lia  soltanto  rispondenza  napoletana: 

Sotto  straniero  ciel,  bella,  m'invio 
Per  ritrovar  alfin  morte  spietata  ; 
Così  comanda,  o  bella,  il  fato  rio, 
Cosi  vuole  per  me  la  sorte  ingrata. 
Non  serve,  amato  ben  [e],  il  dirti  addio 
Per  non  lasciarti  afflitta  e  sconsolata; 
Parto,  dunque,  da  te,  bell'idei  mio: 
Chi  sa  se  ci  vedremo  un'altra  fiata  ! 

L'ottava  è  perfettamente  siciliana  nel  ritorno  delle 
quattro  rime  ;  ma  la  lezione  che  possiamo  metterle 
per  ora  a  raffronto  è  di  Carpignano  salentino  : 

Sutta  cielu  straniera  piglia  via, 
Pe' sci'  trovare  la  sorte  spietata: 
Cussi  voze  la  sorte,  ah  capu  mmia! 
Tantu  voze  de  minie  la  sorte  'ngrada! 
De  mundu  mene  'ssia  dicendu  addiu, 
Beddha  de  core  mmiu,  sposa  mmia  amata, 
leu  per  partire  te  lassù,  cor  mmia, 
Spera  ca  ni  vitimu  'n  addha  fiata.  (^) 

Per  quest'altra,  invece,  può  dirsi  clie  si  abbia 
doppia  prova  di  derivazione  letteraria  e  di  origine 
sicula.  Nella  stampa  napoletana  tale  è  l'antipenul- 
timo canto  della  categoria  degli  amorosi  : 

Sicché  [Benché]  lontano  sia,  benché  distante 
Dal  caro  volto  tuo  st'alma  dolente. 
La  lontananza  non  sarà  (mai)  bastante 
A  far(e)  che  tu  mi  uscissi  dalla  mente;  (^) 


(1)  Vigo,  n.  2709. 

(2)  Imbriani,  C.  popol,  pvov.  mericlion.,  II,  282. 

(3)  II  solo  tretrastico  con  un.a  coda  di  ripresa  in  Filippini,  FoVv-ìore 
falrian.,  n.  18  {Arch.  traci,  pop.,  XVI,  SO). 


420  LA  POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

Vada  quanto  si  vuole  il  corpo  errante, 
Che  sempre  il  tuo  bel  viso  ho  io  presente: 
Perchè  d'un  fido  e  sviscerato  amante 
Dove  l'occhio  non  può,  giunge  la  mente. 

Or  questo  in  uno  dei  citati  codici  laurenziani  così 
si  legge,  col  nome  di  Mario  Migliaccio: 

Benchì  lontani  su,  bench'i  distanti 
Di  li  bell'occhi  toi  st'occhi  dulenti. 
Gridi  chi  luntananza  n'è  bastanti 
Chi  di  lu  cori  miu  ndi  stai  assenti; 
E  vaia  chiù  chi  va  lu  corpu  erranti, 
L'anima  sempri  a  tia  sarrà  prisenti  ; 
Perchì  d'un  fidu  e  d'un  gilusu  amanti 
Undi  l'occhiu  nun  po' iunci  la  menti.  (') 

Passiamo  adesso  al  gruppo  delle  Canzoni  di  ge- 
losia. E  quasi  subito  troviamo  questa  : 

Silenzio,  amici:   al  mio  cantar  [v']  invi[t]o, 
Or  che  vanta  il  suo  duolo  un  disperato  : 
Porgete  orecchio  e  al  suo  cantar  t'udito  (sic),  (^) 
E  compiacete  il  suo  pietoso  stato. 
Io  tra  gli   amanti  era  il  più  gradito, 
E  tra  gli  amanti  era  amante  riamato: 
Ma  del  regno  d'Amor  fui  già  bandito, 
E  senza  causa,  oh  Dio,   fui  discacciato! 

Le  sofferte  modificazioni  non  impediscono  che  del 
seguente  Canto  di  Mordano  in  Terra  d'Otranto  non 
si  riconosca  l'origine  nel  sopra  trascritto  : 

Silenciu,  amici,  ca  cantando  dicu 

Quautu  foi  de'  sta  donna  'mpassiunatu. 
'Ricche,  sentiti  hi  mmiu  cantu  arditu. 
Occhi,  chiangiti  lu  mmiu  misera  statuì 
A  tribunal   d'amore  foi  banditu, 
Ca  la  megghiu  zitella  in  ebbi  amatn  ; 


(1)  Cod.  97,  10,  pag.  152. 

(2)  Forse:  Porgete  attenti  al  suo  cantar  l'udito;  e  nel  verso  seguente 
forse  :  coiìipiauf/ete. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  421 

E  poi  ca  n'autru  amante  ha  preferita, 
E  senza  fazzu  male  mm'lia  scacciatu.  (^) 

Di  sdegno  è  il  seguente  Canto  in  forma  aulica: 

Traditrice  infedel[e],  mi  tradisti 
E  centra  la  mia  fede  mi  lasciasti: 
D'amarmi  sempre  la  fede  mi  dasti 
E  poi  [per]  altro  amante  mi  cambiasti.  (-) 
0  misera  di  te,  che  mi  perdesti  ! 
L'argento  per  il  piombo  tu  cambiasti  : 
Se  fili  tradito  da  te,  mala  pasta, 
So  che  alfìn[e]  sei  donna,  e  tanto  basta.  (^) 

E  questa  è  la  forma  popolare  chietina: 

Traditricia  infedel',  tu  mi  tradist', 
E  contr'a  la  fed'  mi  lasciast', 
D'amarm'  sempr'  la  fed'  me  dast', 
E  pojj'  pe'  'n  atr'  amant'  mi  cambiast'. 


(1)  Imbriani,  C.  pnpol.  pror.  meridion.,  II,  291,  e  ivi  altre  lezioni.  Chi 
comunicò  il  Canto  di  Morciano  agli  editori  dei  Canti  meridionali  "  vuole 
assolutamente  vedere  in  questo  Rispetto  un  frammento  di  qualche  Canto 
di  Trovatore.  Oggi,  dic'egli,  i  nostri  contadini  non  sanno  cosa  fosse  (sic) 
stato  un  tribunal  d'amore  „.  Ma  poco  ciò  importa,  quando  la  locuzione  tro- 
vasi nelle  Raccolte  a  stampa,  e  in  altri  componimenti  popolari  o  popola- 
rizzati.  Già  uè  vedemmo  esempj  qui  addietro  :  ai  quali  aggiungansi  questi 
versi  zoppi,  recati  dalla  signora  Pigorini-Beri,  pag.  37  : 

Cupido  che  s'era  gito  all'  udienza 
E  s'era  messo  al  banco  dell'amore, 
Leggeva  una  bella  sentenza  ecc.; 

e  questi  altri  che  camminano  meglio  :  ibid.,  pag.  -11  : 

Giovinettuccia,  ho  tanto  litigato, 
A  Roma  bella  ti  voglio  portare 
Davanti  alla  giustizia  dell'amore  ecc. 

(2)  E  più  oltre: 

Piena  di  falsità,  falsa  nascesti, 
E  falsa  fu  la  fede  che  mi  dasti  ; 
Ad  altra  non  amar  tu  mi  dicesti  ecc.  ; 

che  ricorda  il  Rispetto  toscano  (Tigri,  n.  1122): 

Finto  che  d'una  finta  tu  sei  nato, 
Finto  che  d'una  finta  tu  nascesti, 
Finte  son  le  parole  che  m'hai  dato. 
Finte  son  le  parole  che  mi  desti  ecc. 

(3)  Cfr.  altra  consimile  ottava  sul  finire  della  Raccolta  seconda. 


422  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIAI^A. 

0  misera  te  che  me  pirdist'! 
L'argent'  ppe'  lu  piomm'  tu  cambiast': 
Si  i'  fu'  tiadit'  da  te  che  mal  mi  dast' 
A  la  fin'  sejj'  'na  donn',  e  tant'abbast'.  (') 

La  lezione  popolare  fa  veder  chiara  la  derivazione 
dall'aulica;  ma  questa  presuppone  un  prototipo  meno 
corrotto,  che  però  non  dovette  essere,  sebbene  vi  si 
accosti,  l'ottava  a  due  sole  rime,  cioè  alla  siciliana, 
che  COSI  cantasi  in  Sennino  : 

M'  ingannasti,  tiranna,  m'  ingannasti. 
Poco  conto  di  me  tu  ne  facesti, 
11  core  ad  altro  amante  lo  donasti 
Per  poco  tempo  che  non  mi  vedesti; 
E  quando  me  n'andiedi,  mi  lasciasti, 
Dicesti:  va,  amico  mio,  e  torna  presto: 
Non  fu  bacio  d'amore  che  mi  dasti. 
Ma  fu  bacio  di  Giuda,  e  mi  tradisti.  (^) 

Ultimo  ragguaglio  della  prima  Raccolta  sarà 
quello  che  faremo  per  quest'ottava: 

Vanne  lungi  da  me,  cor[e]  infedele, 

Né  sperar(e)  più  da  me  pace  ed  amore  : 
Io  già  mi  pento  se  ti  fui  fedele; 
Troppo  tardi  però  piango  l'errore; 
Fido  ad  altri  sarò,  a  te  crudele: 
Giacché  ti  dasti  in  preda  [adj  altro  amore: 
T'amai,  noi  niego,  é  ver,  ma  se  t'amai. 
Maledico  l'amor  che  ti  portai. 

Che  in  Carpignano  salentino   cantasi  popolarmente 

così  : 

Fusci  de  l'occhi  mmei,  fiuru  crudele, 
No'  sperare  de  mmie  pace  d'amore. 
Mnie  su'  pentitu  se  te  foi  fedele, 
Mutu  tardu  mmo'  ccorsi  de  l'errore. 
De  l'addhe  jeu  sarò,  pe'  tie  'nfedelo, 


(')  Imbriam,  C.  popol,  prov.  ineridion.,  II,  177. 
(-)  Marsiliant,  II.  657. 


LA    POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  423 

Peixè  a  addili  dunasU  hi  tou  core. 

Te  amai,  mmiu  bene,  sì,  mutu  te  amai  ; 

Maledica  l'amor,  ci  te  portai.  (') 

E  nel  Lucchese  suona  a  questo  modo: 

Vanne  da  me  lontan,  cuore  infedele, 
Non  isperar  giammai  pace  in  amore, 
E  se  ti  amai  e  se  ti  fui  fedele 
Troppo  tai-di,  però,  piango  l'errore. 
A  uu  altro  sarò  fida,  a  te  crudele 
Poiché  in  braccio  ti  desti  a  un  altro  amore. 
È  vero  che  fu  un  tempo  ch'io  ti  amai! 
Maledetto  quel  ben  che  ti  portai  !  (^) 

Passando  alla  Raccolta  seconda  troviamo  fra  le 
prime  quest'ottava  incatenata: 

Se  pri(m)a  poco  t'amai,  ora  più  t'amo; 
T'amo,  perchè  d'amor  costretto  sono  ; 
Sono  costretto  come  il  pesce  all'amo. 
Amo  la  tua  beltà  di  cui  ragiono. 
Ragiono  fra  di  me,  fra  me  ti  chiamo. 
Chiamo,  e  nel  chiamarti  il  cor  ti  dono  : 
Dono,  ma  nel  donarti  altro  non  bramo, 
Bramo  che  non  [mi]  lasci  in  abbandono. 

La  lezione  popolare  di  Terra  d'Otranto  ha  sciolto 
in  parte  l'artificiosa  catena  : 

Ci  prima  jeu  t'amai,  mo'  cchiìi  te  amu, 
Mo'  ci  d'amore  jeu  custrettu  sono. 
Sono  custrettu  conni  pesce  all'ama, 
'Nnanzi  alla  toa  beltà  cussi  ragiono. 
Ragiono  fra  de  mmie,  fra  mmie  te  chiama, 
E  quandu  chiamu  a  tie  lu  cor  te  donu. 
Se  lu  core  te  duna,  autru  nu'  bramu. 
Te  pregu  nu'  me  lassi  in  abbandunu. 
Quista  la  cantu  a  tie,  fiur  de  giacinto, 
Lu  core  mmiu  è  sinceru,  lu  tou  n'ò  fintu.  (^) 


(1)  Imbeiani,  C.  popol.  prov.  meridion.,  II,  37, 

(2)  G.  Giannini,  C.  pop.  tose,  410. 

(3)  Imbriani,   C.  popol.  prov.  meridion.,  II,  413. 


424  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Seguitando  troviamo  quest'altra  ottava  : 

Oggi,  beli'  idol  mio,  ineiitie  scriveva, 
L'alma  dal  petto  mio  si  distaccava  ; 
Una  tirata  dava,  e  poi  piangeva, 
La  carta  colle  lagrime  bagnava  : 
E  mentre  il  braccio  poi  io  stendeva. 
La  penna  dalle  (mie)  mani  mi  cascava. 
Considera  mio  ben,  che  pena  aveva  ! 
Pensando  a  quel  che  fai,  io  lagriniava. 

Nota  qui  opportunamente  l'Imbriani  clie  nella  cor- 
rispondente lezione  calabrese,  il  processo  di  tradu- 
zione dalla  forma  aulica  alla  dialettale  è  appena 
cominciato: 

Oggi,  idolo  mio,  mentre  scriveva 

L'arma  dal  petto  mio  si  disgrastava  ;' 
Io  dava  una  pennata,  e  po'  piangeva. 
La  carta  sotta  l'occhi  ssi  bagnava  : 
Pensa,  idolo  mio,  pena  che  io  aveva. 
Quando  lo  vostro  nome  ventumava.  (^) 

Nella  forma  sicula,  sinora  nota,  evidentemente  sono 
insieme  congiunti  due  componimenti  di  identico  ar- 
gomento : 

Oggi,  curuzzu  mia,  mentri  scrivia, 
La  pinna  di  li  manu  mi  cascava  ; 
lu  dava  na'  pianata  e  poi  ciancia, 
Di  lacrimi  la  carta  si  lavava; 
Cunsidera,  arma  mia,  chi  pena  sentu, 
A  tia  pinzannu  mi  veni  lu  chiantu  : 
La  notti  'un  dormu  e  lu  journu  'un  abbentu, 
Ccu  li  lacrimi  all'occhi  mi  addurmentu.  (^) 

Ma  quest'altro,  invece,  combacia  esattamente  : 

Per  dispetto  di  tutti  io  ti  ho  d'amare, 
Regna  {sic)  pur  quando  [sic)  vuol  la  gelosia; 


1)  Canti  calabresi,  n.  8.  Cfr.  La  lezione  reggina,  schiettamente  lette- 
raria, in  Mandalaki,  p.  399:  e  la  lezione  umbra  già  dialettalizzata,  in  Maz- 
ZATINTI,  n.  177. 

(2)  Vigo,  n.  30G2. 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  425 

Tuo  amante  sarò,  non  dubitare, 
Perchè  t'edel  mi  sei,  anima  mia; 
Non  mi  dire  di  no,  non  m'ingannare, 
Dimmi  la  verità,  non  la  bugia  : 
Un  patto  tra  di  noi  convien  di  fare; 
0  esser  tutta  d'altri,  o  tutta  mia. 

E  nella  versione  popolare  siciliana  suona  cosi  : 

Pri  dispettu  di  tutti  jia  t'ej'  amari, 
Rignassi  quannu  vo' la  gilusia  ; 
Tu  spusa  mi  sarai,  nun  dubbitari, 
Ca  tidili  mi  fusti,  armuzza  mia. 
Nun  mi  din  di  no,  nun  mi  'ngannari. 
Dimmi  la  virità,  no  la  buda; 
Un  pattu  tra  di  nui  avemu  a  fari  : 
0  ha'  essiri  tutta  d'autru,  o  tutta  mia.  (') 

Ma  la  prima  forma  potrebbe  essere  questa  de'  citati 
codici  laurenziani  : 

lu  t'amu  tantu,  quantu  si  pò  amari, 
E  per  l'amuri  to  consumiria 
L'alma,  la  vita  e  quantu  si  pò  fari, 
E  si  cchiìi  si  putissi,  chiìi  farrìa  : 
Ma  chi  ti  vija  cu  autru  praticar!, 
Amanduti  cu  estrema  gilusia. 
Non  lu  pò  lu  miu  cori  sopportari: 
0  tutta  siji  d'autru,  o  tutta  mia.  (^) 

Dalla  versione  popolare  si  risale  all'aulica,  e  da 
questa  all'insulare,  anche  nel  caso  seguente  di  uno 
Strambotto,  attribuito  fin  dal  sec.  XV  al  Giustiniani: 

Quattro  sospiri  te  vorria  mandare 
E  mi,  meschino,  fosse  ambasciatore! 
Il  primo  SI  te  degia  salutare. 
Lo  secondo  ti  conta  il  mio  dolore  ; 


(1)  Vigo,  n.  2347,  in  nota.  Cfr.  Pitr'e,  C.  poì>ol.  sicil.,  n.  219. 

(-)  Cod.  96,  p.  177.  Questa  forma  è  poi  quella  del  Canto  siciliano  di 
Petraperzia,  con  poche  varianti  :  v.  .3  E  vita  ed  arma  . . .  davi  —  4  Cosa 
'nsmiìma  non  c'è"  ca  non.  —  5  la  pidirti  ad  —  6  Cancia  sta  sciamma  in  fridda 
—  7  Pri  cui  chist'ailu  vogghitt  a  tia  'ntimari  —  8  0  tu  si'  tutta  d'. 


426  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Lo  terzo  sì  te  degia  assai  pregare, 
Che  tu  confermi  questo  nostro  amore; 
E  lo  quarto  io  te  mando  inamorato: 
Non  mi  lassar  morire  isconsolato.  (^) 

Con  poche  varietà  di  forma  è  pur  riferito  neW An- 
conitana del  Ruzzante.  (")  Ma  se  l'ossatura  resta  la 
stessa,  varia  la  forma  nella  raccolta  popolare,  che 
cosi  suona  : 

Quattro  sospiri  miei  ti  vo'  mandare, 
So  che  son[o]  fedeli  ambasciatori  : 
Il  primo  genuflesso  in  adorare, 
Il  secondo  a  ricordarti  i  nostri  amori, 
Il  terzo  a  dirti  il  mio  lagrimare, 
Il  quarto  che  contempli  i  miei  dolori; 
Piangendo  tutti  uniti  poi  cercare 
Vendetta  a  chi  divise  i  nostri  amori.  (^) 

Tradotto  in  vernacolo  chietino  dice  così: 

Quattr'  suspir'  mie'  ti  ho  mandat', 

Nen  sacce  se  so'  fedel'  li  'mbasciatur'; 

Lu  prim'  genufless'  per  adurart', 

Lu  secund'a  ricurdarece  lu  nostr'amor'. 

Lu  terz'a  dirt'  lu  mie  lacrimar', 

Lu  quart'  che  cuntempl'  lu  mie  dulor'. 

Piangend'  tutt'  unit'e  poi  cercand' 

Vindett'a  chi  ha  divis'  lu  nostr'amor.  (^) 

Ed  ora  sentiamo  come  cantasi  a  Ribera  in  Sicilia  : 

Quattru  suspiri  ti  vurria  mannari, 
E  tutti  quattru  suspiri  d'amuri; 
Cu  lu  primu  ti  mannu  a  salutari, 
L'autru  cuntirà  lu  nostru  amuri  ; 


(1)  Vedi  gli  i^trambolti  di  L.  G.,  da  me  riprodotti  nel  Giorn.  fil.  rom., 
II,  179.  Vedi  anche  F.  Sabatini,  Ale.  Strainb.  di  L.  G.  conservati  dalla  tra- 
diz.  popoL,  Roma,  1886,  pag.  13  e  seg. 

{-)  LovARlNl,  Le  canzoni  popolari  in  liuzzante  cit.,  pag.  25. 

(3)  Cfr.  coU'ottava  39  del  cod.  perugino  e  col  Rispetto  toscano,  già 
cit.  qui  addietro  a  pag.  1G8. 

(■1)  Imbhiani,  C.  popol.  proo.  meridion.,  II,  30:  Manpalaiìi,  pag.  400: 
jiell'Abruzzo  (Finamore,  lì,  n.  265)  i  sospiri  son  cinque. 


LA  POESIA  POPOLAEE  ITALIANA.  427 

Ma  cu  hi  terzu  ti  manmi  a  vasari, 
L'autru  li  sta  davaiizi  addinuccliiuni  ; 
A  tutti  quattru  li  fania  gridari  : 
—  Giustizia  di  Dio  cu'  sparti  amuri  !  —  (') 

Chi  ricorda  quanto  il  Canteo  ghiribizzasse  nei 
suoi  componimenti  poetici  sul  nome  di  Luna,  appar- 
tenente all'amata,  crederà  trovare  un'immagine  di 
quelle  arguzie  in  quest'ottava  : 

La  Luna  è  bianca,  e  voi  brunetta  siete, 
Quella  l'argento,  e  voi  l'oro  portate  : 
La  Luna  manca,  e  voi  sempre  crescete, 
Quella  s'ecclissa  e  voi  non  [v'j  eclissate  ; 
La  Luna  non  ha  fiamma,  e  voi  l'avete, 
Quella  perde  la  luce,  e  voi  la  date; 
Or  dunque,  se  la  Luna  voi  vincete. 
Bel  Sole,   non  già  Luna  vi  chiamate. 

La  lezione  popolare  calabrese  ha  lasciato  da  banda 
l'argomentazione  finale,  sostituendo  questi  due  versi: 

Vu'  lu  suli  e  la  luna  ca  riuniti. 
Ma  né  suli  né  luna  vi  chiamati.  {'^) 

Invece  la  versione  originaria  siciliana  possiede  sif- 
fatta arguzia  : 

La  Luna  è  bianca,  e  vu'  brunetta  siti, 
Idda  è  d'argentu,  e  vu'  l'ora  purtati  ; 
La  Luna  nun  ha  ciammi,  e  vu' l'aviti; 
Idda  la  luci  spanni,  e  vu' la  dati; 
La  Luna  manca,  e  vu'  senipri  crisciti, 
Idda  s'aggrissa,  e  vu'  nun  v'aggrissati  ; 
Adunca,  ca  la  Luna  vu  vinciti, 
Bedda,  Suli  e  no  Luna  vi  chiamati.  (^) 


(1)  Salomone-Marino,  n.  182.  Cfr.  Vigo,  n.  1447  e  un  Canto  del  Lazio 
in  Marcoaldi,  C.popol.  latin.,  n.  29  e  40;  C.  umbri,  n.  69;  Visconti,  n.  32; 
Mazzatinti,  n.  254;  Gianandrea,  p.  131;   Ive,  p.  72. 

(2)  Canale,  n.  2  (in  Mandalari,  p.  4).  Qualche  frammento  di  questo 
Canto  incastrato  in  un  alti'o,  è  in  una  Canzone  di  Bagnoli  irpino  in  Imbkiani, 
C.  popol.  prov.  meridion.,  I,  90. 

(3)  Salomone-Marino,  n.  23.  Cfr.  Vigo,  n.  223  :  Molinaro  Del  Chiaro, 
C.  p.  molisani  (in  Ardi,  tradiz.  pop.,  XII,  393,  n,  4). 


428  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Un  responso  di  Amore  è  fra'  Canti  più  diffusi 
in  Italia.  Cominciamo  dalla  lezione  letteraria: 

Cupido,  come  giudice  d'amore, 

Un  dubbio  mi  dicbiara  e  manifesta. 

Dimmi  qual'è  piìi  aspro  dolore 

L'uomo  che  parte  o  la  donna  che  resta. 

Mi  pare  che  la  donna  ha  più  dolore. 

Che  l'uomo  va  d[ov]unque  a  gioco  e  festa. 

Povera  donna  seguace  d'amore. 

Che  sempre  aflBitta  e  sconsolata  resta  ! 

Questa  lezione  è  evidentemente  corrotta,  perchè  il 
vii  pare  non  si  capisce  a  chi  stia  in  bocca,  né  è  for- 
mula conveniente  a  giudice  così  esperto  ed  autore- 
vole, come  Cupido.  In  Toscana  si  è  conservato  un 
solo  tetrastico:  il  dubbio,  cioè,  senza  la  risposta: 

Cupido,  che  siei  giudice  d'amore. 
Giudica  questo  fatto,  e  manifesta: 
E  dimmi  chi  lo  soffre  piti  dolore, 
L'uomo  che  va  o  la  donna  che  resta.  (') 

Invece  a  Venezia  si  è  formata  una  quartina  dei  versi 
di  mezzo,  lasciata  l'invocazione  in  principio  e  l'escla- 
mazione in  fondo  : 

Voria  saver  chi  prova  più  dolore 

L'uomo  che  parte  o  la  dona  che  resta; 
Dona  che  resta,  aresta  con  dolore. 
L'omo  che  parte  trova  'n  altro  amore.  (^) 

A  Napoli  e  a  Marigliano  in  Terra  di  Lavoro  è  re- 
stata una  sestina:  l'invocazione,  il  dubbio  e  la  ri- 
sposta, tolta  la  esclamazione:  f)  ma  a  Baculi  nella 
provincia  di  Napoli,  l'ottava  è  intera  ed  in  miglior 


(1)  Tigri,  n.  1177.  Con  fonii.a  variata,  accoppiando  for.se  due  Kispotti 
0  COSI  allungando  l'esposizione  del  dubbio  e  aggiungendo  la  sentenza  in 
Giannini,  C.  pop.  lucch.,  p.  131. 

(■")  Bernoni,  punt.  vi,  n.  4.3. 

(3)  Imbkiani,  C  pui>ol.  (Il  Marigliano,  n.  21  ;  Molinaro,  n.  218. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  429 

forma  che  nella  lezione  aulica  : 

Cupinto,  che  ssi'  jadice  d'ammore, 
Richiarenii  'sto  dubbio  manifesto  : 
Tu  rinimi  chi  lo  paté  cchiii  dolore, 
L'ommo  che  paite  o  la  ronna  che  resta. 

—  Resta  'sta  neniia  che  pena  a  hi  core, 
E  l'ommo  'nzò  do'  va  fa  sempe  festa. 
Povera  ronna,  saggetta  a  l'ammore. 
Nasce  aflfritta  e  desolata  resta.  —  (') 

Miglior  lezione  di  tutte  è  la  siciliana:  (") 

Cupidii,  vera  judici  di  aniuri, 

Levimi  tu  stii  dubbia  di  la  testa; 
Dimmi  cui  pati  cchiù  pena  e  duluri, 
L'omu  chi  parti  o  la  donna  chi  resta? 

—  La  donna  pati  cchiù  pri  so  riguri  ; 
Ca  l'omu  d'unni  va  fa  jocu  e  festa; 
Ma  quannu  è  veru  e  perfetta  l'amuri, 
Tantu  pati  cui  va,  quantu  cui  resta.  —  (^) 

Dice  a  ragione  l'Imbriani  che  quest'altro  è  dei 
più  diffusi  in  tutta  Italia: 

Domani  me  ne  parto,  [o]  Nice,  addio. 
Tutti  gli  affetti  miei  ti  raccomando; 
Se  parto  con  dolor[e]  lo  saccio  io, 
E  lo  san  gli  occhi  miei  che  pianto  fanno  ; 
Quando  arriverò  al  paese  mio 
In  una  lettera  il  mio  cor  ti  mando  : 
Scritto  ci  troverai  l'affanno  mio  ; 
Ma  del  ritorno  non  so  dirti  il  quando. 


(1)  Imbriani,  C.  popol.  proi\  meridion.,  I,  128,  ed  ivi  altre  versioni 
meridionali. 

('-)  Questo  Canto  è  pel  Tenca  (II,  263)  un  "  indizio  della  priorità  della 
Sicilia  sulla  Toscana^  e  lo  ricongiunge  ai  quesiti  e  dilemmi  indie  si  di- 
lettavano i  Provenzali  e  prima  di  loro  gli  Arabi:  la  qual  cosa  potrebbe 
ammettersi  provando  insieme  che  il  componimento  avesse,  come  pur  sem- 
bra, ispirazione  e  origine  letteraria,  e  poi  fosse  sceso  al  popolo  che  se  lo 
sarebbe  appropriato. 

(3)  Vigo,  n.  2756.  Altra  lezione  in  Salomone-Marino,  in  Arch.  ir-adiz. 
popol.,  I,  378,  dove  la  dimanda  è  diretta  a  un  amante,  e  il  .")"  verso  suona  : 
lu  dicu  ca  le  donne  ecc.  Cfr.  AvoLio,  n.  431  ;  Mandalaei,  p.  382. 


430  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Lasceremo  le  varie  versioni  meridionali  raccolte  dal- 
l'Imbriani,  (')  in  una  delle  quali,  se  altro  indizio  non 
ve  ne  fosse,  la  "  Nice  „  amata,  darebbe  da  sé  sola 
segno  della  derivazione  letteraria  :  e  risaliremo  alla 
versione  siciliana,  dove  si  correggono  le  rime  imper- 
fette della  forma  aulica  {anno-ando): 

Dumani  partii  piacennu  a  Din, 

Tutti  l'amici  miei  vi  raccumannu  ; 

Si  partii  ccii  dnliiri  hi  sacci'  iu, 

Pinsami  a  st'occhi  chi  chiantii  chi  fannu  ! 

Jò  quaiinu  avrivu  a  hi  paisi  min, 

Fazzii  'na  Httricedda,  e  vi  la  mannii  ; 

Dda  dintra  scrivilo  hi  iinoimi  min  ; 

La  niè  vinata  non  si  sapi  quannu.  (*) 

Altro  Canto  d'addio  è  il  seguente  : 

Tornerò,  tornerò,  non  dubitare, 
Caro  mio  bene,  non  aver  paura: 
Fra  breve  tempo  mi  vedrai  tornare, 
Come  farfalla  intorno  alle  tue  mura. 
Tra  montagne  di  neve,  tra  fiumare, 
Impressa  porterò  la  tua  figura; 
Allor  ti  lascerò  bella  d'amare 
Quando  morto  sarò  in  sepoltura. 

A  Montella  nel  Principato  ulteriore  suona  con  poca 
diversità  : 

Tornarò,  tornarò,  no'  dubitare, 
Caro  mmio  bene,  non  ave' paura; 
Fra  breve  tiempo  mmi  verarrai  tornare, 
Gira' coni  me  auciello  alle  tuie  mura; 
Tra  montagne  re  neve  e  tra  fiumare, 
'Mbressa  portarò  la  tuia  figura; 
Allora  ti  lasciarrò,  bella,  r'ammare 
Quanno  muorto  songo  io,  'nsepordura.  (') 


(1)  Imbeiani,  C.  popò!,  prov.merldioii.,  1,27  e  II,  7  ;  Cokazzini,  p.  188; 
Mazzatinti,  11.  183. 

(2)  Vigo,  n.  2711. 

(3)  iMimiANi,  e.  pop.  prov.  mericìion.,  II,  315.  Cfr.  De  Simone-Brouwer, 
C.  pop.  di  liossano  e  Corigliano  Calabro,  Napoli,  tip.  Universit.,  1895,  p.  15. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  431 

Alla  lezione  toscana  fan  difetto  soltanto  il  quarto 
e  il  quinto  verso:  C)  ma  nella  siciliana  troviamo  so- 
lamente l'ultimo: 

Quannu  ca  l'ossa  mia  su'  'nsepultura,  (^) 

Maggior  numero  di  versi  che  altrove,  ha  in  un 
Canto  siculo  quest'altra  ottava  arguta: 

Tu  lontana,  io  lontano,  oh  che  dolore  ! 
Tu  sospiri,  io  sospiro,  oh  che  gran  male  ! 
Tu  bruci,  io  brucio  e  per  noi  brucia  Amore, 
Talché  le  nostre  pene  sono  uguale. 
Tu  ardi,  io  ardo,  ed  al  nostro  ardore 
Non  vi  è  rimedio,  la  piaga  è  mortale  : 
Ma  per  più  nostra  pena  e  rio  dolore, 
Io  uccello  son,  e  tu  non  hai  ale. 

Che  certo  ha  da  leggersi:  lo  uccello  non  son,  tu  non 
hai  l'ale.  A  Catania  pertanto  un  Canto  popolare  serba 
integri  i  due  primi  versi:  (^)  ma  a  Palermo  ne  man- 
tiene sei,  escluso  cioè  il  terzo  e  quarto  : 

Tu  luntana,  in  luntanu,  ah  chi  duluri  ! 
Tu  suspiri,  iu  suspiru,  ah  chi  gran  mali 
Tu  ardi,  iu  ardu,  ed  a  lu  nostru  arduri 
Nun  cc'è  rimeddiu,  e  la  chiaa  è  murtali  ; 
E  pi  cchiù  pena  mia  e  mio  duluri 
Iu  occeddu  nun  su',  e  tu  'un  ha'  ali.  (■*) 

A  Monteleone  l'ottava  è  perfetta,  ma  con  diversa 
chiusa,  perchè  mescolata  con  altro  canto  : 

Tu  luntana,  eu  luntanu,  ah  chi  doluri! 
Tu  clangi  ed  eu  suspiru  e  simu  eguali  ; 
Tu  clangi  pe  lu  troppu  estremu  amuri, 
Jeu  ciangiu  pe  lo  toi  luntanu  stari  ! 


(1)  Tigri,  n.  600. 

(2)  Vigo,  ii.  1722,  1740. 

(3)  Vigo,  ii.  2784.  Anche  nelle  Marche  un  Canto  comincia  coi  primi 
due  versi,  e  poi  volge  altrove:  vedi  Gianandeea,  pag.  146. 

(■*)  PiTEÈ,  C.  popol.  sicil.,  I,  p.  448,  n.  722. 


432  LA  POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

Non  saccio  a  cui  spijari  ed  a  cu  diri, 
Nova  n'haju  di  tia,  com'liaju  a  fan? 
L'arma  mi  sentu  di  hi  pettu  usciri 
Sentendu  lo  to  noma  ammentugari.  (^) 

La  lezione  chietina  del  seguente  Canto  mostra 
chiaro  essere  una  sformatura  del  modello  letterario: 

Afflitto  core  mio,  non  disperarti, 

Chiuse  non  son  per  te  tutte  le  porte  : 
Quelch'è  scritto  nel   ciel  non  può  mancarti, 
Ognor  l'aria  si  muta  e  ognor  la  sorte: 
Opra  dall'esser  tua  (sic)  prudenza  ed  arte, 
E  colla  volontà  mostra(r)ti  forte: 
Ama,  spera,  cor  mio,  non  diffidarti: 
Il  rimedio  non  vi  è  solo  [aljla  morte. 

E  il  popolo  abruzzese  : 

Afflitt' cor' 7ni,  nin  disperart'! 

Chius'  nin  so'  pe'  te  tutt'  le  port'. 
Cheli'  che  sta  scritt'  'ncel  nin  po'  manca'  ; 
Ognor'  l'aria  ssi  mut',  ognor'  la  sort'. 
Se  tu  ni  sci'  fedel',  custant'  e  fort'. 
Io  ti  amerò  fin'  a  la  mort'.  (^) 

Ninno  direbbe  originariamente  popolare  questa 
ottava  : 

Occhi  di  basilisco  fulminanti. 

Serpe,  che  hai  veleno  in  ogni  dente, 
Sirena,  che  mi  alletti  con  tuoi  canti, 
Coccodrillo,  che  ammazzi  e  poi  ti  penti  : 
Petto  d'acciaro  e  core  di  diamanti. 
Che  [ti]  nutrisci  sol(o)  co'(n)  miei  lamenti. 
Come  soffrire  puoi  tanti  miei  pianti  ? 
Forse  sei  nata  sorda,  che  non  senti  ? 

Eppure  la  canta  il  popolo  di  Terra  d'Otranto  in 
questa  forma,  con  sicura  derivazione  dalla  stampa, 
0  da  un  primo  originale  siculo  ignoto  : 


(1)  NelLi  Calabria,  V,  h'i. 

(-)  Imbhiani,   C.  popol.  prov.  ineridion.,  II,  4. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  433 

Occhi  de  basiluscu  fulmeiianti, 

Serpe  ci  mme  'mbolieni  d'ogne  dente, 
Serena  ci  mme  tiri  cu'  li  canti, 
Cuccudrillu  ci  ammazzi  e  nu'  te  pienti  ; 
L'occhi  ci  tieni  parenu  do'  lampi, 
Parenu  fatti  pelli  mmei  triimenti; 
Percè,  percè  nu'  curi  li  mmei  chianti  ? 
0  ca  si'  surda,  o  ca  nun  huei  cu  sienti.  (') 

E  dì  quest'altro  è  patente  l'origine  letteraria  e 
la  traduzione  dal  siciliano: 

Da  donna  si  dipinge  la  Fortuna, 

E  delle  donne  non  ne  dir  mai  bene  : 
[E]  quante  ce  ne  son  sotto  la  luna, 
Ognuna  nel  suo  cuor[e]  il  vizio  tiene  : 
Se  vogliam[o]  voltare  ad  una  ad  una, 
Tutto  il  mal  che  si  fa  da  lor  proviene  ; 
Mia  madre  lo  dicea  sin  dalla  cuna: 
Fuggi,  figlio,  le  donne,  che  avrai  bene.  (^) 

E  a  Piazza  : 

Di  donna  si  dipinci  la  Furtuna, 
E  di  li  donni  non  ni  diri  beni  ; 
Quantu  ci  n'edi  sutla  di  la  luna. 
Ognuna  'ntra  lu  cori  un  viziu  teni  ; 
Si  vulemu  vutarli  ad  una  ad  una, 
Li  mali  chi  ti  fa  d'iddi  di  veni.  (*) 
Me  matrì  mi  dicia  dintra  la  cuna  : 
Figghiuzzu,  pri  li  donni  'un  avrai  beni.  (^) 

Passiamo  adesso  alla  Raccolta  terza,  ove  questa 

è  fra  le  prime  ottave: 

Ardo  in  segreto,  e  fingo  non  amarti, 
Acciò  non  sia  scoverto  l'amor  mio; 
Ti  miro  il  giorno  e  fingo  non  mirarti, 


(1)  Imbeiani,  C.  popol.  prov.  meridion.,  II,  105;  cfr.  Mandalari,  Altri 
canti,  II.  16. 

(2)  Viziata  è  la  versione  laziale  (Maesiliani,  ii.  718):  Le  donne  le  di- 
pinge fa  fortuna  ecc. 

(^)  Meglio  a  Mineo  :  Tutta  lu  mali  di  li  donni  veni. 
C)  Vigo,  ii.  3908. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  28 


434  LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

Ti  chiamo  con  il  cuore  e  ti  desio  : 
Vorrei  gli  affanni  miei  sol  palesarti, 
E  dirti  la  gran  pena  che  soffro  io  ; 
Studiare  vorrei  magie  ed  arti, 
Per  goderti  un  sol  giorno  a  piacer  mio. 

Che  a  Monteroni  in  Terra  d'Otranto   è   stato   così 
voltato  nel  vernacolo  del  luogo  : 

T'amu  'n  secreta  e  fìnga  nun   amarti, 
Puru  cu  nu'  sse  scopra  l'amor  mniiu  : 
Quandu  te  'mmiru,  fingu  nu'  'mmerarti, 
Te  chiamu  cullu  core  e  te  desiu  : 
'Ulia  gli  'nfanni  mmei  tutti  cuntarti, 
'Ulia  te  dicu  quantu  patu  iu; 
'Ulia  cu  studia  li  'acanti  e  lo  arti, 
Pe'  avire  tie  'nu  giurnu  a  piacer  mmiu.  (') 

E  sempre  in  Terra  d'Otranto,  una  delle  prime 
scale  a  chi  viene  di  Sicilia,  si  ritrova  la  forma  vol- 
gare della  seguente  ottava: 

Amai,  stentai,  [e]  pur  fui  dis(s)amato; 
Misera  servitìi,  non  fu  gradita! 
Ma  di  tutti  mi  vedo  abbandonato, 
E  l'amicizia  mia  è  già  finita  ; 
Morte,  ripara  [tu],  questo  mio  stato, 
Morte,  tu  puoi  sanar  questa  ferita  : 
Amante,  il  quale  non  si  vede  amato, 
Brama  meglio  la  morte  che  la  vita. 

E  infatti  a  Nardo  cantasi  a  questo  modo  : 

Amai,  stentai,  e  foi  la  dissamatu, 
E  la  mmia  servitìi  nu'  foi  gradita; 
Mo  de  tutti  mme  'isciu  'bbandunatu  ; 
L'amore  e  l'amecizia  ss'è  furnita. 
Morte,  'ddefrisca  tio  'stu  spenturatu. 
Morte,  tie  puoi  sanari  'sta  ferita! 
Ca  amante  ci  ama  e  nu'  sse  'ido  amatu, 
'Ole  'nnanti  la  morte  cca  Ha  vita.  (^) 


(1)  IlHBRIANI,   C.  popoì.  prof,  nieridion.,  II,  l.'ifl. 

(2)  Imbriani,  C.  popol.  x>rov.  meridion.,  I,  247.  Cfr.  Manhai.aiìi,  p.40L 


LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  435 

In  altra  provincia  è  divulgata  sotto  forma  ver- 
nacola quest'altra  strofa  : 

Adop(e)ra  il  tuo  pensier,  fa  quanto  vuoi, 
Che  più  fedel  di  me  non  troverai; 
Trovati  un  altro  amante  ancor  se  puoi, 
Donali  il  core  tuo,  amalo  assai. 
Parla  segreto  pur  quanto  [tu]  vuoi, 
Che  a  me  si  riferisce  quanto  fai  ; 
Abbassa  a  terra  sempre  gli  occhi  tuoi. 
Che  sempre  il  mio  ritratto  troverai. 

A  Gessopalena nell'Abruzzo  citeriore  è  così  tradotta: 

Oh'  pijj'  ssi  tu'  pensier',  fa  quant'  può', 
Ca  pili  fidel'  di  me  no  '1  troverai. 
Trovat'  un  altr'amant',  ma  pur'  si  può', 
Dònajj  '1  vostr'  cuor',  amai'  assa'; 
Pari'  sicreto  pur  quant'  tu  vuo'; 
Ch'a  mme  s'ariferisce  quanto  fai  : 
Gir'  chess'occhi  tu'  dovunqu'  vai, 
Ca  sempr'  lu  mi'  ritratt'  vi  truverai.  (') 

Come  in  altri  casi,  troviamo  adesso  un'ottava  let- 
teraria, variamente  deformata  nelle  lezioni  popolari: 

Ragazzetta  gentil,  tenera  sei  : 

Cosa  vuol  dire  amor[e]  ancor  non  sai; 
A  tanti  segni  degli  aflfetti  miei 
Il  tuo  bel  cor  non  corrispose  mai. 
So  certo  in  fede  mia,  dir  lo  potrei, 
Che  digiuna  d'amor[e]  ancor  ne  stai  : 
Ma  giunta  che  sarai  agli  anni  miei, 
Colle  pene  d'amor  t'imparerai.  {-) 


(1)  Imbbiaxi,  C.  popol.  prov.  meridion.,  I,  62. 

(-)  Ricorda  la  Canzone  che  cantavasi  in  Toscana  prima  del  1860: 
Giulia  gentil, 

Dal  bel  color, 

Ah  tu  non  sai 

Che  sia  l'amor. 
Ma  se  poi  un  d\ 

Ti  batte  il  cuor, 

Allor  saprai 

Che  sia  l'amor! 


436  LA  POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

In  Basilicata  resta  il  tetrastico,   al  quale  vennero 
accodati  due  versi,  come  di  risposta  : 

—  Billezza  mmia  gentile,  tenera  sei, 
E  che  vu'  dire  ammore  ancora  nu'  sai: 
Ma  po'  che  si'  arrivata  all'anni  mmii. 
Che  vu'  dire  l'amniore  imparirrai.  — 
—  Nu'  ti  giura',  mmio  bene,  di'  ciò  chi  vuoi, 
r  dil  tuo  core  nu'  mmi  scordo  mai. 

E  in  Terra  d'Otranto  se  ne  è  fatto  una  vera  sestina: 

Piccula,  piccinnella  tu  già  sei, 
Culla  faci  l'amore  tu  nu  sai. 
Te  parlu  e  dicu  dell'affetti  mmei, 
Me  guardi  e  sienti,  e  nu'  capisci  mai. 
Lassa  cu  ssinti  giunta  all'anni  mmei 
Ca  le  pene  d'amore  'mparerai.  (*) 

Siamo  sempre  nell'estremo  conio  d'Italia  colla 
traduzione  dialettale  dell'ottava  che  segue: 

Rondinella  sei  tu,  che  in  gabbia  canti, 
Uccello  sono  anch'io  che  mi  lamento; 
Tu  col  cantar[e]  tuo  chiami  gli  amanti, 
Il  simile  faccio  io  col  mio  lamento. 
Tu  ristretta  non  senti  li  miei  pianti. 
Io  lontan[o]  da  te  sospiro  al  vento  ; 
Spero  sol  di  morir  con  te  accanto  ; 
Allora  finirà  il  mio  tormento. 

E  a  Sava  nel  Tarentino  : 

Rondinedda  si'  tu,  ci  a  gabbia  canti, 
Acieddu  son  iu,  ci  mi  lamientu  ; 
Cullu  cantari  tua  chiami  l'amanti, 
Lu  stessu  fazzu  iu  cullu  lamientu  ; 
Custretta  tu  non  sienti  alli  mia  chianti, 
Luntanu  iu  di  te  suspiru  a  bientu  ; 
Iu  speru  di  muriri  cu  tei  accantu, 
Tannu  si  finirà  lu  min  turmientu.  (-) 


(1)  Imbriani,  C.  popol.  prov.  meridion.,  I,  279. 

{-)  ScHiFONE,  n.  13.  Appariscono  esser  di  origine  letteraria  anche   i 
Canti  n.  7,  8,  15  deHa  RaccoUina  savese  dello  Scuifoxe. 


LA    POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  437 

Non  poche  modificazioni  La  sofferto  quest'altra 
ottava  nelle  lezioni  popolari  : 

Bella,  quanto  sei  bella  agli  occhi  miei, 
Che  di  mirarti  non  mi  sazio  mai. 
Perderanno  il  lor  lume  gli  occhi  miei, 
Per  il  troppo  .splendor  che  tu  li  dai. 
Fai  tanto  che  innamori  ancor  li  Dei, 
Per  la  grazia  e  bellezza  che  tu  hai. 
Una  cosa  a  te  manca  :  bella  sei, 
Pietà  del  tuo  fedele  amor  non  hai. 

E  infatti  in  varie  lezioni  meridionali  sonosi  conser- 
vati i  primi  due  versi: 

Cara,  quantu  si'  bella  agli  occhi  mmiei. 
Re  rimirarti  non  mmi  sazio  mai;  (') 

variando  poi  il  rimanente:  e  nelle  Marche,  anche  il 
verso  quinto  e  il  sesto  : 

Bella  te  può'  chiama'  che  bella  sei, 
Belletta  come  te  'n  s'è  vista  mai  ! 
Je  fatte  'nnamorà  fina  li  Dei 
Chen  chessa  bella  grazia,  che  ce  hai.  (^) 

Altra  lezione  letteraria  a  stampa: 

Canta  1'  Usigniuol  per  ogni  parte 
E  col  proprio  cantar  chiama  la  morte: 
Tormento[so]  vado  io  per  ogni  parte, 
Va[do]  cantando  la  mia  scura  sorte. 
Sentimi,  bella  mia,  ora  che  parte 
L'amante  tuo  fedel,  costante  e  forte  : 
Non  ci  vedremo  piìi  da  questa  parte  ; 
A  rivederci  in  elei,  dopo  la  morte. 

E  la  lezione  popolare  di  Gessopalena  : 

Cant'  hi  riscignol'  per  ogn'  part', 

E  ngh'  lu  proprij'  canta'  chiam'  la  mort'; 


(1)  Imbeiani,  C  popol.  pvov.  mevìdion.,  Il,  98. 

(3)   GlANANDREA,   pag.   67. 


438  LA   POESIA   POPOLARE  ITALIAIv^A. 

r  scunsulat'  vad'  pe'  ogn'  part'; 

Vad'  piangend'  la  mi'  oscura  sort'. 

Senteme,  bella  mi'.  l'ora  che  part' 

L'amant'  tu  fidel',  costant'  e  fort'; 

Se  'n  ce  arrevedemm'  cchiù  da  chist'  part', 

A  rrevederce  'n  ciel'  dopp'  la  mort'.  (') 

Passiamo  adesso  al  gruppo  delle  Canzoni  di  ge- 
losia, ove  questa  è  la  prima: 

Barbara,  dove  sono  i  giuramenti, 
La  fede  data,  e  le  promesse  tante  ! 
Perchè  cambiaste  amore  in  tradimenti, 
Perfida  ingannatrice  ed  incostante  ? 
Verrà,  verrà  quel  dì  che  te  ne  penti  ! 
Gli  inganni  usati  al  tuo  fedele  amante 
Allora  piangerai  con  tuoi  lamenti  : 
Persi  r  idolo  mio  tanto  costante. 

Nel  Leccese  suona  cosi  : 

'Ngrata,  addhu'  scera  li  toi  giuramenti, 
La  fedeltate  e  le  prumesse  tante? 
Facisti  comu  Sciuda  tradimenti, 
Scinda  tradiu  lu  Diu,  e  tu  l'amanti. 
Verrà  lu  tiempu  e  tandu  te  ne  pienti, 
Ca  picca  e  pocu  te  consumi  a  pianti  ; 
E  poi  cu'  'ridi  d'arma  scunuscienti  ; 
Perse  lu  core  mniin,  fedele  amanti.  (^) 

Se  noi  supponiamo  una  lezione  primitiva  siciliana, 
su  cui  siasi  modellato  il  rifacimento  aulico,  è  molto 
probabile  che  le  rime  in  ante  fossero  tutte  in  anti. 
Nella  lezione  leccese  troviamo  confuse  le  due  ter- 
minazioni: ma  da  un  libro  manoscritto,  del  quale  or 
ora  discorreremo,  si  può  rilevare  che  pili  di  un  se- 
colo fa,  nel  1777,  il  sesto  verso  della  versione  a 
stampa,  che  sembra  scorretto  se  si  unisce  all'antece- 


(1)  Imbriani,  C.  lìopol.  }ìrov.  meridion.,  I,  18. 

(2)  Imbriani,  C.  popol.  prov.  nieridio».,  II,  164. 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA.  439 

dente,  contorto  se  al  susseguente,  sonava  altrimenti, 
con  andamento  più  proprio  al  genere.  Infatti  il  se- 
condo tetrastico  nel  citato  manoscritto  comincia  a 
questo  modo  : 

Verrà,  verrà  quel  dì  die  ti  ne  penti, 
Verrà  quel  dì  che  ti  dissolvi  in  pianti. 

Ancora  altra  lezione  aulica: 

Bella,  non  mi  tradir  per  altro  oggetto, 
Volta  verso  di  me  quel  tuo  ritratto  ; 
Amami  per  pietà  con  vero  aifetto. 
Secondo  fu  la  legge  [e]  il  vero  patto  ; 
Per  voi  la  gelosia  mi  rode  il  petto, 
L'alma  non  è  più  mia,  né  il  corpo  affatto  : 
Che  se  fedel  mi  sei,  io  ti  prometto 
D'amarti  sempre  e  non  lasciarti  affatto.  (') 

E  a  Gessopalena: 

Bell"  non  mi  tradì  pe' 'n  altr'uggett', 
Vóltele  verz'  de  me  'ssu  tu'  ritratt'. 
Amami  pe' piata,  con  ver'affett', 
Cumfuorm'  faj  la  legge  e  il  nostro  patt'. 
Se  tu  tradisce  a  me  pe' 'n  altr'uggett', 
L'anem'  non  so'  più  mi'  e  '1  cor'affatt'. 
Se  tu  fidel'  me  se',  i'  te  promett', 
D'amart'  sempr'  e  nin  lasciare  affatt'. 
Quest'  l'ho  dett'  a  te  fior'  di  Nice, 
Ama  chi  t'ama,  e  'ssa  parla  chi  dice.  (^) 

L'ultima  canzone  di  gelosia  è  questa: 

Ascolta,  ingrata,  ascolta  i  detti  miei, 

Senta  i  miei  sensi  il  cor,  se  pur  [tu]  l'hai: 
Giurasti  d'esser  mia,  e  mia  non  sei, 
Giurai  d'esser  tuo,  e  l'osservai  ; 


(1)  Ripetuto  con  qualche  variante  nella  IJacc.  Ili,  e  nella  V,  ove  il 
V.  6  è  così  :  Cop.  le  pene  d'amor  sempre  comhcttto. 
(")  Imbriani,   C.  popol.  prov.  tneridion.,  I,  16. 


440  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Io  le  promesse  tue  fide  credei, 
Sincera  ti  credei,  e  m'ingannai; 
Non  piango,  bella  mia,  che  mia  non  sei, 
Ma  che  ti  godon  gli  altri,  ed  io  t'amai. 

A  Paracorio  in   Calabria  dicesi   così,  con  qualche 
diversità  : 

Suspiratii  mia  beni,  ed  lindi  sii? 
Dimmi  perclù  ora  lasciata  m'  hai. 
Tu  mi  jurasti  co'  tutti  li  Dii 
Ca  m'ami  sempri,  e  non  mi  dassi  mai. 
Ora  mi  dassi  e  mi  dicivi  sì  : 
Dimmi  la  carpa  e  su  di  chi  mancai. 
Jeu  mo'  non  ciangiu  ca  tu  mia  non  sii, 
Ciangiu  ch'atru  ti  godi,  e  jeu  mancai.  (') 

Tra  le  canzone  dette  di  partenza  è  questa  in 
versi  incatenati,  che  nessuno  vorrebbe  dire  d'origine 
popolare  : 

Mi  parto,  o  bella  mia,  io  vado  al  foco, 
Foco  perchè  mi  sento  consumare  ; 
Consumare  mi  sento  a  poco  a  poco. 
Poco  questa  mia  vita  ha  da  durare. 
Durare  piìi  non  posso  in  questo  loco. 
Loco  come  ti  voglio  abbandonare. 
Abbandonare  io  voglio  festa  e  gioco. 
Gioco  sarà  per  me  il  lagrimare. 

Eppure  eccola  tale  e  quale  in  dialetto  leccese  : 

Partu,  Ninella  mmia,  bau  'iitr'  a  hi  focu, 
Focu,  percè  mme  sentu  consumare; 
Consumare  mme  sentu  a  pocu  a  pocu, 
Ca  pocu  la  mmia  vita  ha  da  durare. 
Durare  cchiìi  nu'  potè  a  quistu  locu, 
Locu  addilo  ieu  mme 'idu 'bbandunare  : 
'Bbandunare  vulia  ieu  festa  e  giocu, 
Giocu  sarà  po'  mmo  lu  lacremare.  (^) 


(1)  Imbriani,  C.  popol.  pyov.  nieridion.,  II,  171;  Mandalari,  pag.  108. 
Ridotto  a  tetrastico  nelle  Marche:  Rondini,  pag.  41. 
(-)  Imuiìiani,  C.  popol.  prov.  meridion.,  II,  281. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  441 

Anche  questa  di  dispetto  è  passata  al  popolo  : 

Dimmi  di  sì  o  [di]  no,  dimmi  che  speri, 
[Deh]  non  mi  fare  in  tante  pene  stare; 
Fa  che  le  tue  promesse  (se)  sieno  vere, 
Acciò  questo  mio  cor  possa  sperare. 
11  sì,  che  sia  di  sì  senza  temere, 
11  no,  che  sia  di  no,  senza  mancare  : 
Se  mi  dite  di  sì,  fermo  [il]  pensiero, 
Se  mi  dite  di  no,  voglio  altra  amare.  (') 

La  traduzione  leccese  è  quasi  letterale: 

Dimme  de  sì  o  de  no,  cce  cosa  speri  ? 
E  nu'  mme  fare  intra  le  pene  stare. 
Fané  le  toi  promesse  sianu  vere, 
Puru  lu  core  cu  pozza  fedare. 
Dì  sì,  se  sia  de  sì,  senza  timore  ; 
Dì  no,  se  sia  di  no,  senza  mancare  ; 
Se  mme  dici  de  .sì,  fermu  pensieri  : 
E  se  mme  dici  no,  vogghiu  autru  amare.  (^) 

Il  medesimo  si  osserva  per  questa  ottava  contro 
la  donna,  che  probabilmente  deriva,  come  tant'altre, 
da  un  prototipo  siciliano  : 

Eva  fu  (la)  causa  al  mondo  dei  primi  danni: 
Quella  ridusse  Adamo  a  mal  governo  : 
Le  donne  sono  piene  di  tant' inganni, 
Sciocco  chi  se  ne  fida,  e  fida  indarno  : 
Le  donne  sono  un  pelago  d'afi'anni, 
L^n  continuo  dolor,  martirio  eterno. 
Gli  antichi  la  chiamavan(o)  donna  danno. 
Fonte  d'iniquità,  lago  d'inferno. 

E  nel  Leccese  : 

Eva  cagione  a'  nostri  primi  danni, 

Quella  redasse  Adamu  a  mal  guvernu. 
Chine  le  donne  su'  de  fausi  'nganni. 
Pazza  ci  sse  nde  fida,  pazza  'n  eterna  I 


(1)  Con  qualche  variante  è  anche  nella  Race.  V. 

(2)  Imbriani,   C.  po2)ol.  l>roc.  mei-idion.,  II,  330. 


442  LA  POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

Ca  sempre  su'  le  donne  'nu  malannu, 
'Nu  continuo  dolor,  martiiiu  eterna. 
L'antichi  le  cliiamaru  :  Donna,  dannu, 
Sognu  de  paraisu,  anni  de  'nfiernu.  (') 

Colla  seguente  ottava  torniamo,  senz'altro,  a 
fonte  siciliana  : 

Colla  sua  penna  scrisse  Cicerone: 
Misero  chi  di  donna  amor  dipinge  ; 
T'  inganna  ancor  se  fossi  Salomone, 
E  con  quei  falsi  tratti  ti  convince. 
Tanto  fa  nel  contar  la  sua  ragione, 
Fa  la  tìnta  d'amarti  e  pur  ti  vince  ; 
La  donna  è  tutta  simile  al  carbone. 
Che  cuoce  vivo,   e  quando  è  morto  tinge.  (^) 

E  a  Ribera  in  Sicilia  : 

Scrise  cu  la  so  pinna  Ciciruni: 

Pazzu  chidd'omu  chi  li  donni  cridi. 
La  donna  chi  tradì  lu  gran  Sausuni 
Sutta  vesti  d'amuri  lu  custrinsi. 
La  donna  l'assumigghiu  a  lu  panni, 
Ca  di  milli  culuri  si  dipinci  ; 
La  donna  rassumigghiu  a  lu  cravuni, 
T'ardi,  ti  mascaria,  e  po'  ti  tinci.  (^) 

Passiamo  adesso  alla  Raccolta  quarta,  dove 
troveremo  solo  questo  Canto  da  raffrontare  con  una 
lezione  popolare  : 

Parto,  resto,  non  parto;  io  parto  o  resto?  (*) 
Vorrei  restar[e],  ma  convien  che  parto  ; 
Per  cagione  d'amor  convien  che  resto, 
Per  cagiono  d'onor  convien  che  parto  : 


(1)  Imbeiani,   C.  popol.  prov.  nieridion.,  I,  259. 

(-)  Cantasi  aiiclie  nel  Lazio  (Marcoaldi,  n.  16)  con  poche  varianti: 
V.  4  Colli  suoi  falsi  inganni  ognun  convince  —  5  Tanto  fanno  capir  la  sua 
—  G  Fanno  ...  d'amarvi  e  poi  vi  —   7  fatta  —  8  Che  rivo  scotta. 

(■')  Salomone-Marino,  n.  636;  ci'r,\j(io,n.SS89;  Fiori  selvatici,  ìì.  12. 

(<)  Da  questa  o  da  altra  consimile  deve  derivare  una  Canzone  della 
colonia  greca  di  Martano  (Morosi,  n.  41): 

Parto?  resto?  che  fo?  ])or  ]iao?  ti  canno?  ecc. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  443 

Su,  vincala  l'amor:  io  già  mi  resto: 
Ma  che  diran  di  me  se  poi  non  parto  ? 
Pena  è  per  me  se  parto,  e  più  se  resto  : 
Sempre  pena  è  per  me,  o  resto  o  parto. 

Cento  e  più  anni  fa  in  Calabria  sonava  così  : 

Partii,  restu,  non  partii,  in  partii  o  restii  ? 
Vorrei  restar,  ma  mi  convien  ch'in  parta: 
Per  ragion  d'amor,  convien  eh'  in  restu, 
E  per  ragion  d'onor  convien  ch'in  partu. 
Moni  si  partu,  e  patii  si  mi  restu. 
Dunque  non  so  che  far,  s'iu  restu  o  partu. 
Vinca  dunque  l'amor;  su  via,  no,  restu; 
Ma  no,  che  dissi  ?  addio,  mia  cara,  partu. 

Ed  ora  in  Carpignano  salentino  La  questa  forma: 

Partu?  restu  o  nu' partu?  jeu  partu  o  restu? 
'Ulia  partire  e  mme  tocca  cu  partu: 
Dolo  se  partu,  e  penu  se  mme  restu, 
Nu'  sacciu  ce  aggiu  fare,  restu  o  partu, 
Pe'  modivu  d'amore,  tocca  restu  ; 
Pe'  cagione  d'onore,  tocca  partu. 
Olà,  vinca  l'amor,  già  jeu  mme  restu  ; 
Mamma,  ce  dissi  !  mo'  tocca  cu  partu.  (') 

Il  lettore  abbia  pazienza,  cliè  già  siam  presso 
a  riva,  prendendo  a  esaminare  la  Raccolta  quinta. 
La  quale  sul  bel  principio  ha  questa  ottava: 

Dimmi,  Cupido,  a  quale  scuola  andasti 
Quando  st^a  bella  femmina  facesti  ; 
Dimmi  con  qual  pennello  la  pittasti. 
Dimmi  con  qual  colore  la  pingesti  ; 
11  viso  così  bello  ove  pigliasti 
E  gli  occhi  così  neri  come  f(ac)esti? 
Tutte  le  belle  cose  li  formasti; 
Il  cuore  troppo  duro  le  concedesti. 


(1)  Imbeiani,  C.  p02ìo7.  prov.  meridion.,  II,  342. 


444  LA  POESIA  POPOLAKE  ITALIAKA. 

Nel  Chietino: 

Dimm',  Ciipid',  a  quala  scoi'  andast' 
E  comm'  'ssa  bella  femnien'  facest'? 
Diniiiie  con  qiial'  pennel'  la  pingest'? 
Dove  'ssu  bel  ciilor'  tu  le  pijjast'? 
Com'  'ssi  bell'ochie  nei'  'i  facest'? 
Tutt'  ste  beli'  cos'  tu  'i  hai'  cuniposf: 
II  sol'  COI-'  dui'  tu  'i  consegnasi?  (^) 

Lezione  letteraria  a  stampa  : 

Gli  occhi  miei  con  i  tuoi  furon(o)  consenti, 
Volsero  che  t'amassi,  ed  io  t'amai  ; 
Tu  per  amore  a  me,  pati  tormenti, 
Io  per  amore  a  te,  tormenti  e  guai  ; 
Se  tu  ti  sei  pentita,  io  non  (mai)  mi  pento, 
E  di  lasciare  a  te  non  sarà  mai  : 
Se  m'hai  da  fare  qualche  tradimento, 
Pensa  allo  nome  mio.  e  non  lo  fai. 

A  Mordano  in  Terra  d' Otranto  suona  così  : 

L'occhi  toi  e  li  mmei  fora  cunsienti, 
Mme  disseru  cu  t'amu,  e  iu  t'amai. 
E  iu  pe'  amare  a  tie  patu  turmenti, 
E  tie  cu  mni'ami  a  mmie  turmenti  e  guai. 
Beddha,  nu'  su'  pentitu,  e  tu  te  pienti, 
Cu  mme  scordu  de  tie  nu'  sarà  mai . 
Se  mm'hai  da  fare  de  li  tradimenti, 
Pensa  a  Iu  nome  mmiu,  e  nun  li  fai.  (^) 

Lezione  letteraria  : 

La  prima  volta  che  ti  [rijguardai 

[Tu]  mi  feristi  il  core  [e]  l'alma  mia: 
Meglio  che  vista  non  t'avessi  mai. 
Che  sconsolato  non  mi  trovarla! 
Or(a)  che  mi  trovo  fra  [co]tanti  guai. 
Consolami,  per  pietà,  bellezza  mia; 
E  se  consuolo  tu  non  mi  darai, 
Ben  presto  spirerà  quest'alma  mia. 


(1)  Imbkiani,  C.  popol.  prov.  meridion.,  I,  151.  Cfr.  Mazzatixti.  il.  41 
(2}  Imbkiani,  C.  popol.  prov.  meridion.,  II,  268. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  445 

A  Gessopalena: 

Da  che  t'aiiguardaj,  bellezza  mi', 
Tu  m'  feiist'  lu  cor'  e  l'anim'  mi'; 
Meij  che  vist'  neii  t'avess'  ma'! 
Tu  sconsolai'  nen  me  troverest'. 
Or'  che  i'  mi  tro'  'nfra  tant'  guajj, 
Coiisolam'  pe'  piata,  bellezza  mi'. 
E  se  coiisol'  tu  non  mi  darai. 
Ben  prest'  spirerà  quest'anim'  mi.  (') 

Lezione  letteraria: 

Amami,  bella  mia,  non  sconfidarti, 
Giacché  soffro  per  te  mille  sconforti  : 
Non  posso  far  di  meno  a  non  amarti, 
Sempre  pensando  a  te  son  quasi  morto. 
Fedel  io  [ti]  sarò  in  ogni  parte. 
Costante  io  ti  sarò  fino  alla  morte  : 
Per  due  cose  il  mio  cor  potrà  lasciarti: 
(0)  Per  potenza  del  cielo  o  per  la  morte. 

E  a  Gessopalena: 

Amami,  beli',  e  nin  ti  scunfìdà', 

Già  ch'eju  soffr'  pi  te  mille  scunfort'; 

Nin  pozz'  fa'  nimmen  de  non  amart', 

r  pi  amar  a  tej',  suffrì'  la  mort', 

I'  ti  sarò  fidel'  da  ogn'  part', 

Custant'  ti  sarò  fin'  a  la  mort'; 

Pe'  diù  cos',  cor'  mi,  potfi  lassart': 

P'  la  putenz'  d'  lu  cel',  o  pe'  la  mort'.  (^) 

Lezione  letteraria,  e  che  nel  principio  sa  d'ar- 
cadico : 

Quell'occhio  tuo  negletto  m'innamora, 
Quel  labbro  tuo  vermiglio  m'incatena: 
Siccome  spunta  l'alba  e  l'aurora, 
Così  chiarisci  tu,  stella  terrena, 


(1)  Imbriani,  C.  popol.  prov.  merìdion.,  I,  25. 

(2)  Imbriani,  C.  popol.  prov.  merìdion.,  I,  10.  E  anche  II,  301. 


446  LA  POESIA   POPOLARE  ITALIANA. 

Senza  di  voi  non  [ho]  riposo  un'ora, 
Senza  vederti  pur  paio  gran  pena. 
Tu  sola  del  mio  cor  sei  la  padrona, 
Per  esser  di  bellezza  assai  ripiena. 

Nell'Abruzzo  citeriore  suona  a  questo  modo,  tolto 
via  il  negletto  e  il  vermiglio: 

Ngh'  'iss'occlii  tu',  dilett',  i'  m' innamor', 
•         Ngli'  'iss'  labbr'  tu,  beli'  mi',  i'  m'incaten', 
A  lu  spunta'  dell'alb'  di  l'auror' 
Dov'  'schiarist'  tu,  stella  siren'. 
Tu,  beli',  del  cor'  mi'  se'  la  patron'; 
Cara,  di  'ssi  billezz'  assai  ripien'. 
Senza  di  te,  i'  n'aripos'  'n'or'. 
Senza  vidert'  pur'  pat'  gran  pen'.  (') 

Ecco  ora  l'ultima  ottava,  che  porremo  a  raf- 
fronto con  versioni  meridionali: 

Giuda,  che  giaci  [giù]  nell'aspro  'nferno, 
Che  nell'inferno  crudel  (tu)  stai  penando. 
Per  un  bacio  ti  trovi  entro  [1']  inferno. 
Per  un  bacio  [io]  mi  trovo  in  tanto  danno. 
Tu  baciasti  un  [Id]dio  alto  e  superno. 
Io  una  donna  baciai  per  cui  mi  danno  ; 
Giuda,  ti  prego,  cambiamo  l'inferno. 
Che  r  inferno  d'amore  è  piìi  tiranno. 

Che  a  Carpignano  salentino  è  cantato  così  : 

Giuda,  se  pati  tie  nell'aspra  'nfiernu. 

Nella  'nfierna  d'amore  ieu  stau  penandu. 
Tie  vasasti  Gesìi  celeste  eterna, 
'Na  fimmena  vasai  iu,  e  mo'  mme  dannu. 
Tie  pe'  'nu  vasu  stai  ner  foco  eternu, 
Pe'  'nu  vasu  ieu  puru  stau  penandu  ; 
Facimu  tra  de  nui  cangiu  de'  nfiernu, 
Ca  lo  'nfiernu  d'amore  è  cchiii  tirannu.  (-) 


(1)  Imbriani,  C.  popò!,  pt-ov.  meridion.,  I,  60. 
(-}  Imbriani,  C.  popol.  prov.  meridlon.,  II,  ICS. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  447 

Ma  anche  quest'ultimo  ragguaglio  provvidamente 
ci  riduce  a  un  primo  esemplare  siculo  : 

Giuda,  patisci  tu  'ntra  'n'aspi'u  'uferiiu, 
Di  lu  'nfernu  d'annui  iu   patu  affannu  ; 
Giuda,  baciasti  tu  un  Din  supeinn, 
'Na  Dia  baciai  iu  pii  lu  miu  dannu  ; 
Giuda,  pii  un  baciu  tu  si'  'ntra  1'  infeinu, 
Pri  lu 'nfernu  d'amuri  iu  patu  affannu; 
Giuda,  veni  tra  nui,  cancianni  'nfernu, 
Ca  r  infernu  di  aniuri  è  cchiii  tirannu.  (') 

Ho  già  citato  fra  le  fonti  scritte  dei  Canti  me- 
ridionali aventi  indole  letteraria,  un  manoscritto  di 
pili  di  cent'anni  fa.  Esso  fu  trovato  in  Monteleone  di 
Calabria  dal  compianto  prof.  Apollo  Lumini,  die  prima 
ne  diede  ragguaglio  in  un  opuscolo,  (')  e  poi  liberal- 
mente me  lo  comunicò.  Consta  di  294  facciate,  e 
contiene  regolarmente  fino  a  pagine  158  un'ottava 
per  facciata;  indi  seguono  molte  carte  bianche,   e 

10  scritto  ricomincia  a  pagina  257,  dove  ad  alcune 
altre  ottave  anonime  si  alternano  Sonetti  e  Canzo- 
nette, per  lo  più  oscene.  Nella  prima  carta  del  codice 
sta  scritto:  Ad  propriiim  usuni  D.  Dominici  Antonij 
Famae,  regionis  divi  Costctìit ini  terre  Francicae.  Anno 
domini  millesimo  septingentesimo  septuagesimo  settimo. 

11  paese  indicato  è  della  provincia  di  Catanzaro.  I 
Canti,  quanto  al   dettato,   sono  di   più  ragioni:  ve 


(1)  Vigo,  n.  2692.  Cfr.  lezione  di  Noto  in  Avolio,  ii.  253.  Oltre  che  di  in- 
tere ottave,  troviamo  raffronti  fra  le  Raccolte  napoletane  a  stampa  e  i  Canti 
popolari  meridionali  per  semplici  versi.  Ad  esempio  liaccoUa  III,  p.  13:  Met- 
i'acqua,  leva  legna,  smorza  il  foco;  e  Imbkiani,  I,  77:  3fina  acqua,  'more  mia, 
stuta  lu  focu;  e  in  Molinaro,  n.  2-3  :  Mena  acqua,  leva  legna,  astuta  fuoco.  — 
Race.  Ili,  p.  15:  Un'ora  senza  te  non  posso  stare;  e  Imbriani,  I,  12:  'N'ora 
sima  di  tej  nen  pozz' sta' ;  e  nel  Tigri,  524:  Un'ora  senza  voi  non  2}osso 
stare. 

(-)  Poesie  popol.  calabresi  in  un  codice  del  secolo  XVIII,  Monteleone, 
Troyse,  1876. 


448  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

n'ha  in  lingua  italiana,  o  appena  dialettizzati:  ve 
n'ha  in  vernacolo  Calabro:  altri  ve  n'ha  ancora  che 
direbbersi  siciliani,  o  appena  spogliati  della  veste 
insulare.  Quanto  al  carattere,  appartengono  tutti, 
qual  pììi  qual  meno,  alla  forma  artificiosa,  che  finora 
abbiamo  notata.  C) 

Eccone  alcuni  che  accusano  derivazione  da  un 
originale  in  lingua  comune: 

Sospirata  mio  ben,  e  dove  sei? 

Come,  così,  perchè  lasciato  m'hai? 
Non  ti  ricordi  degli  affetti  miei, 
Quanto  penai  per  te,  quanto  t'amai  ? 
Non  mi  giurasti  tu,  per  tutti  i  Dei 
D'amarmi  sempre  e  non  lasciarmi  mai? 
Or  perchè  mi  tradisci?  almen  vorrei 
Saper  la  colpa  mia,  e  in  che  mancai.  (^) 

E  di  questo  conosciamo  già  la  forma  dialettale  in 
un  canto  di  Paracorio  riferito  qui  addietro.  O 

Son  finiti  per  me  li  di  felici. 

Ho  perduta  la  dolce  antica  pace; 
Nel  numero  già  son  degli  infelici, 
Solo  col  mio  dolor  trattar  mi  piace; 
Smanij,  affanni,  dolori  son  miei  amici, 
Nemmeno  di   un  contento  io  son  capace; 
Spesso  chiamo  la  Morte:  ella  mi  dice, 
—  Vivo  ti  voglio  s"],  ma  senza  pace.  —  {*) 


(1)  Consimile  carattere  lia  un  repertorio  datato  del  1754  del  quale 
rese  conto  L.  Bruzzano,  nel  I"  n.  (15  settembre  1888)  del  suo  giornale  La 
Calibrici,  Rivinta  di  letteratura  popolare.  Sono  96  Canti  in  dialetto  di  Mon- 
teleone,  ma  i  più  sembrano  riduzione  in  calabrese  di  originali  letterarj, 
italiani  o  siciliani. 

{")  Pag.  67.  Nella  Raccolta  J"  napoletana  lia  queste  varianti  :  v.  1  Ado- 
ralo ben  mio  —  2  Perchè  perchè  così  —  3  rammenti  tu  gli  —  4  Quanto  piansi 
per  te  quanto  penai  —  7  Saper  la  colpa  mia  —  8  In  che  ti  offesi,  o  bella, 
in  che  mancai  ?  Cfr.  con  l'ottava  recata  qui  addietro,  a  pagg.  439-40. 

(3)  Pag.  440. 

(4)  Pag.  57. 


I 


LA   POESIA   POPOLARE   ITALL^XA.  449 

Se  ti  lascio,  mio  ben,  se  me  lasciasti 
Colpa  non  fu  la  mia,  ne  tu  l'avesti. 
Quanto  aniof  ti  portai,  tu  a  me  portasti. 
Quel  che  volli  da  te,  da  me  volesti. 
Partendo  io  t'abbracciai,  tu  mi  abbracciasti, 
Molte  cose  ti  dissi,  e  mi  dicesti  ; 
Se  spesso  io  sospirai,  tu  sospirasti, 
Teco  piansi,  ben  mio,  meco  piangesti.  (') 

Bella  Ninfa  d'amore,  alma  gentile 
Non  isdegnare  no,  la  mia  bassezza: 
Ed  è  la  rosa,  e  nasce  in  luogo  vile, 
E  da  mano  gentil  non  si  disprezza. 
Ti  priego,  bella  mia,  tu  muta  stile. 
Moviti  a  pietà  con  tua  grandezza; 
Perchè  l'essere  ingrata  è  cosa  vile, 
Ed  amare  chi  t'ama  è  gentilezza.  (^) 

Se  dubiti  di  me,  dubiti  a  torto 
Ch'io  sempre  fedelmente  t'adurai; 
Tu  sola  stata  sei  lo  mio  conforto, 
Più  di  l'anima  mia,  bella,  t'amai  : 
Mira  lu  visu  miu  pallido  e  smorto. 
Io  d'ogni  altro  piacere  mi  scordai  ; 
Dunque,  mio  bene,  non  volermi  morto  ; 
Pensa  quanto  per  te  piansi  e  penai.  (^) 

Le  tracce  del  dialetto  cominciano  a  farsi  maggiori 
in  quest'altra  ottava  : 

Tu  sula,  bella,  ntra  stu  pettu  annidi 

Tu  sula  all'occhi  miei  sempri  si' avanti; 

Cridilu,  bella  mia,  cridilu,  cridi 

Ca  sempri  ti  sarò  fedele  amanti  ; 

Tu  ricca  di  beliizzi,  ed  iu  di  fidi. 

Tu  chiù  bella  di  tutti,  ed  io  chiù  amanti; 


(1)  Pag.  10.3.  ^ 

(2)  Pag.  118.  È  anche  nella  Bacc.  napol.  II,  pag.  11,  con  queste  va- 
rianti :  V.  1  rosa  —  2  isdegnare  —  3  La  gemma  ancora  nasce  .  .  .  umile  — 
4:  da  —  5  Fa'  che  la  tua  j^ietà  non  muti  —  6  E  unisci  cortesia  colla  bellezza. 
Nella  lezione  calabra  la  forma  Ed  è  la  rosa,  sembrami  chiaramente  indicare 
l'origine  siciliana.  —  Anche  l'ottava  a  pag.  73  del  ms.  corrisponde  all'ottava 
Sesta  in  pace,  mio  ben,  ch'è  giunto  ormai,  della  Bacc.  Il,  p.  12. 

(3)  Pag.  106. 

D'AxcoKA,  La  poesia  pop.  ital.  —  29 


450  LA  POESIA   POPOLAKE  ITALIANA. 

Apri  stu  pettu,  bella,  osserva,  e  vidi, 
'N  anima  innamorata  agonizzanti.  (') 

Più  lontani,  dalle  forme  letterarie  quanto  al- 
l'idioma, non  però  invece  quanto  all'artifizio  poetico, 
sono  questi  altri: 

Appena  porta  li  suoi  nigri  rai 

A  st'atflitti  occhi  miei  la  notte  oscura, 

Chi  fra  mille  pensieri,  affanni  e  guai 

Si  distilla  sta  vita  ura  per  ura. 

Veni  lu  jornu,  e  scunsulatu  assai 

Mi  rinchiudu  pietusu  in  quattru  mura; 

Così  per  mia  non  apparisci  mai 

Né  mai  fini  avirà  sta  mia  sventura.  (-) 

Lacrimati,  occhi  miei,  la  mia  sventura, 
Ca  è  troppo  infelici  lu  mia  statu  : 
Nu  vivu  infernu  è  sta  mia  vita  oscura, 
Su  senza  fini  li  peni  eh'  iu  patu. 
Vorria  muriri,  perchi  viju  ogn'ura 
St'afflittu  corpu  mia  martirizatu, 
Mentri  locu  mi  dà  la  sepoltura. 
La  morti  esti  riposu  a  un  disperata.  (^) 

Persi  lu  spassu  iiiiu,  persi  lu  giocu. 
Persi  la  cuntentizza  ed  ogni  beni. 
Autru  non  trovu  ca  suspiri  e  focu, 
Autru  nun  viju  ca  tormenti  o  peni. 
CercH  riposu,  e  mai  non  trovu  locu, 
Chiama  la  Morti,  e  la  Morti  non  veni  ; 
0  ria  fortuna!  e  come  a  poca  a  pocu 
Mi  privasti  di  spassi  e  d'ogni  beni  !  (*) 

T'ama,  bellizza  mia,  fidu  e  costanti 
Cu  l'alma,  cu  lu  cori  e  cu  la  menti  ; 


(1)  Pag.  137.  Nella  Kacc.  napol.  II,  p.  4,  si  trova  con  queste  varianti  : 
V.  1  Quanto  bella  ne  sei  non  te  n'avvedi  —  2  Che  sempre  sei  agli  occhi  miei 
lavante  —  3  Credimi  —  4  fermo  e  costante  —  5  bellezza.. .  fede. ..  —  6  Tu 
fra  tutte  più  bella  ed  io  più  amante  —  7  Apri  il  mio  petto,  anima  mia,  e 
vedi  —  8  Come  per  te  il  mio  spirto  è  agonizzante. 

(2)  Pag.  12. 

(3)  Pag.  19. 

(4)  Pag.  25. 


à 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  451 

T'aniu  di  moda  chi  non  è  bastanti 
Nessnnu  non  ti  caccia  di  sta  menti. 
Si  dormii  o  viglili  tu  mi  stai  davanti, 
Gran  pena  e  gelusia  sta  cori  senti, 
Ca  iu  allor  cesserò  d'esserti  amanti 
Quandii  lu  mari  sicca  e  nun  c'è  venti.  (') 
Misera  !  supra  mari  fabricai, 

Davi  nun  c'era  fando  e  non  fermizza  ! 

Non  ci  fo  canta  quanta  fatigai 

Per  godiri  la  rara  sua  bellizza. 

Di  li  lacrimi  miei  fiumi  formai, 

Fici  ampio  mari  [de]  la  mia  amarizza: 

Ed  a  la  fini  chi  ndi  ricavai? 

Duluri,  pentimentu,  e  scuntentizza.  (^) 

Anche  più  dialettizzato  suona  così  a  Reggio  di  Ca- 
labria: 

Miseru  !   ammienzu  mare  frabicai, 
Duve  nu'  trovai  funda  né  fermizza, 
Ha  tanta  tiempu  che  nei  fatigai 
Pe'  godire  'ssa  tua  'rande  bejizza; 
Nu  hhiumi  de  scuntientu  mi  formai, 
Nda  fici  'na  hhiummara  d'amarizza, 
E  pare  a  la  fini  chi  nda  ricavai  ? 
Dohiri,  patimienti  e  scuntentizza.  (^) 

Tali  pertanto  sono  le  fonti  alle  quali  è  attinta  una 
gran  parte  delle  Canzoni,  che  ripetonsi  nelle  Provincie 
meridionali.  Se  non  che,  debbesi  credere  che  le  cin- 
que Raccolte  a  stampa  abbiano  viaggiato  anche  fuori 
dell'ex-Regno.  Abbiamo  già  notato  che  di  una  di 
esse  almeno  si  ha  una  ristampa  d'altra  parte  d'Italia, 
e  noi  non  pretendiamo  conoscere  ogni  prodotto  delle 
oscure  stamperie  popolari.  Ma  qui  noteremo  come 
altre  ottave  delle  Raccolte  a  stampa,  se  finora  non 
trovarono  rispondenza  in  Canti  meridionali,  l'hanno 


(1)  Pag.  122. 

(2)  Pag.  25. 

(3)  Mandalaei,  p.  165. 


452  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

però  in  quelli  di  altre  parti  cV Italia.  E  cominciamo 
dal  Lazio. 

Le  Canzoni  popolari  della  Campagna  romana 
(Provincie  di  Marittima  e  Campagna)  furono  delle 
prime  onde  si  facesse  raccolta.  Un  Saggio  ne  pub- 
blicava fino  dal  1830  il  comm.  P.  E.  Visconti,  e  il 
Didier  lo  ristampava  nel  suo  libro  la  Campagne  de 
Home.  (^)  Si  può  dire  con  piena  sicurezza  che  questo 
Saggio  di  trentadue  Canzoni  è  composto  tutto  di 
poesie  cantate  e  ripetute  dal  popolo,  ma  da  questo 
attinte  a  libri.  (^)  Forse  chi  le  canta  adesso  le  ha  rice- 
vute per  tradizione  orale:  ma  la  prima  origine  dev'es- 
sere in  quei  repertorj  a  stampa  o  a  penna,  de'  quali 


(1)  Paris,  Labitte,  1842.  pag.  365. 

(-)  Lo  stesso  veramente  non  può  dirsi  del  secondo  Saggio  di  Canti 
pnjjol.  romani,  Firenze,  Le  Monnier,  estratto  dalla  Strenna  romana  de]  1858, 
forse  anche  perchè  vi  predominano  i  Ritornelli  e  i  tetrastici.  Ma  quando  si 
viene  al  metro  dell'ottava  siciliana,  specie  colla  ripetizione  del  primo  distico, 
siamo  daccapo  alla  poesia  letteraria.  Eccone  un  saggio  in  un  Canto,  del  quale 
la  origine  popolare  non  è  possibile,  anche  per  l'argomento: 

Senio  tutti  d'un  tronco  tanti  rami, 
Semo  tutti  d'un  ramo  tanti  pomi. 
Senio  tutti  d'un  filo  tanti  stami, 
Semo  tutti  d'un  foco  tanti  lomi; 
Semo  tutti  d'un  ferro  tanti  lami, 
Semo  tutti  d'un  fonti  tanti  fionii: 
Adamo  fu  lo  tronco,  e  noi  li  rami, 
La  vera  nobiltà  sta  ne'  costomi. 
Questo  lo  dico  a  te,  donna  dal  core, 
E  se  non  basta,  tutto  uguaglia  Amore. 

Originariamente  è  Canto  siciliano  popolarizzato  ^VI^;o,  n.  3790)  : 

Tutti  senni  di  Adamu  tanti  Adami, 
Tutti  seniu  d'un'acqua  tanti  sciumi. 
Tutti  seniu  d'un  ferru  tanti  lami. 
Tutti  semu  d'un  focu  tanti  lumi, 
Tutti  semu  a  'na  tila  tanti  trami, 
Tutti  semu  d'un  lignu  tanti  fumi  ; 
Adaniu  fu  hi  zuccu,  e  nui  li  rami; 
La  vera  nobiltà  su"  li  custumi. 

Vedilo  anche  con  qualche  varietà  in  Mueller-Wolff,  p.  245,  e  in  Manda- 
LAKi.  pag.  167,  ridotto  in  sei  versi.  Il  prof.  Amico  mi  fece  sapere  che  .autore 
di  questa  ottava  fu  il  poeta  trapanese  Bernardo  Bonajuto,  e  che  si  legge 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  453 

già  dicemmo.  Basta  gettare  un'occLiata  su  tali  arti- 
ficiosissime Canzoni,  perchè  si  venga  nella  opinione 
da  noi  espressa.  Con  ciò  non  vogliamo  dire  che  non 
sieno  belle:  tutt'altro:  sono  troppo  belle, troppo  artifi- 
ciose perchè  possa  scorgervisi  la  schietta  ispirazione 
popolare.  Bensì  è  vero  che  il  popolo,  al  gusto  del 
quale,  già  l'abbiam  detto,  si  affanno  questi  ghiribizzi, 
queste  fioriture,  queste  voluttà  di  concetti  e  di  rime, 
le  ha  fatte  sue,  e  per  sue  le  vende  a  chi  ne  fa  ri- 
cerca. Veggasi,  ad  esempio,  se  quest'ottava  può  mai 
averla  fatta  un  cantore  plebeo  : 

La  vaga  rosa  a  l'amanti  gradita 
Vagheggia  sua  bellezza  innamorata, 
Quando  si  vede  a  porpora  vestita 
E  di  foglie  e  di  spino  [è]  circondata; 
Ma  quando  è  colta  poi,  tra  belle  dita 
Perde  l'odore,  e  alfine  vien  buttata. 
Così  è  la  donna  in  amorosa  vita. 
Da  tutti  amanti  alfine  abbandonata.  (') 


a  questo  modo  nella  ISluova  scelta  di  rime  siciliane,  Palermo,  1770,  voi.   I, 
pag.  49  : 

Tutti  senili  d'  un  truncu  tanti  rami 

Tutti  seniu  d'un  focu  tanti  fumi, 

Tutti  semu  d'un  fenu  tanti  lami, 

Tutti  semu  d'un'acqua  tanti  scumi; 

Tutti  semu  d'un  fìlu  tanti  trami, 

Tutti  semu  d'un  mari  tanti  sciunii, 

Tutti  semu  d'Adamu  tanti  Adami  ; 

La  nobiltati  sunna  ti  custumi. 

Nelle  Canzoni  siciliane  del  Maura,  pag.  44,  sta  invece  a  questo  modo: 
Tutti  semu  d'Adamu  tanti  trami, 
Tutti  semu  d'un'acqua  tanti  xiumi, 
Tutti  semu  d'un  fìlu  tanti  stami, 
Tutti  semu  d'un  focu  tanti  lumi. 
Tutti  semu  d'un  ferru  tanti  lami, 
Tutti  semu  d'un  sali  tanti  scumi  ; 
Adamu  fu  hi  zuecu,  e  nui  li  rami; 
La  vera  nobiltà  su  li  custumi. 

(1)  Immagini  tratte  dalla  rosa  lia  anche  quest'ottava,  registrata  dal 
Vigo  (n.  637),  die  ha  per  autore  un  Aexau,  vissuto  nel  sec.  XVI: 
Cugghiemu,  beni  miu,  la  frisca  rrosa, 
Cumpita  di  biddizzi  e  di  culuri, 


454  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

0  quest'altra  : 

Vorrei  fare  un  bel  cambio  d'amore. 
Donami  lo  tuo  core,  eccoti  '1  mio.  (') 
Sarai  tu  del  mio  cor  cura  maggiore, 
Cura  maggior  del  tuo  sarò  ancor  io. 
Oh  che  dolce  parlar  de  core  a  core. 
Intendere  ogni  speme,  ogni  desio  ! 
Senio  due  cori  ristretti  in  un  core, 
Quello  che  lo  vuoi  tu,  lo  voglio  anch'  io. 

Vorrei  fare  un  bel  cambio  d'amore, 
Donami  lo  tuo  core,  eccoti  il  mio.  (^) 

Ma  eccone  cinque  che  trovansì  anche  nelle  ci- 
tate Raccolte  a  stampa,  donde  certamente  derivano 
con  qualche  modificazione: 

Copriti,  ciel,  di  tenebroso  manto, 

Apriti,  terra,  all'aspro  mio  tormento. 
Cessa  pur,  sole,  di  rilucer  tanto 
Ecclissati  tu,  luna,  al  mio  lamento. 
E  voi,  pianeti,  in  questo  amaro  pianto 
Convertitevi  in  acqua,  foco  e  vento  ; 
Giacché  il  mio  bene  che  m'amava  tanto, 
Misero  !  m'  ha  lasciato  in  un  momento  ! 

Copriti,  ciel,  di  tenebroso  manto. 

Apriti,  terra,  all'aspro  mio  tormento.  (^) 


Olii  duci  (Uici  'ntia  ssi  Libbra  posa, 
'Meiizn  pampini 'nfuti  e  spini  duri; 
Mentri  la  primavera  in  tia  riposa, 
Lassimi,  vita  mia,  cogghiri  un  ciuri  : 
Veni  In  'nvernu  e  ni  guasta  ogni  cosa. 
Né  bedda  sempri  ti  manteni  Amuri. 

(')  Il  cambio  dei  cuori  era  già  nel  canzoniere  di  Lorenzo  il  Magnifico, 
in  più  sonetti  collegati  come  per  gradazione  dicbiarata  poi  nel  Commento. 
V.  i  sonetti  28.  29,  30  dolTediz.  Aldina:  Lasso  che  nent' io  piìt,  —  Quel  cor 
gentil  —  Amorosi  sospiri  i  quali  usate.  —   E  cfr.  Selve  d'Amore,  I,  st.  20  sgg. 

(2)  Visconti,  n.  9;  cfr.  Kopisch,  pag.  264. 

(3)  Visconti,  n.  25.  Cfr.  Jtacc.  napol.  I,  pag.  17,  dove  sono  queste  va- 
rianti :  V.  1  m  —  2  a  questo  —  3  Sole,  non  dare  più  splendore  —  4  Aria, 
fulmina  foco  e  butta  vento  —  5  che  tacete  tanto  —  6  Trasformatevi  su  in 
tuono  0—7  Dove  la  bella  andò  die  amavo  tanto  —  8  La  perdei,  non  la 
vedo,  e  non  la  sento. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  455 

In  Calabria  essa  suona  a  questo  modo  : 

Copriti,  cielii  ed  aria,  a  questu  cantu, 
Apriti,  terra,  a  questu  gran  lamentu, 
Suli,  non  dari  più  splendori  tantu, 
Aria,  fulmina  focu  e  mina  ventu  ; 
E  vui,  pianeta,  chi  taciti  tantu 
Straformativi  in  son(u)  di  toni  e  ventu  ; 
Dov'è  lu  bellu  ch'aju  amata  tantu  ? 
Lo  perdei,  non  Io  vedu  e  non  lo  sentu.  (') 

Già  che  non  m'ami  più,  lasciami  almeno. 
Lascia  eh'  io  sfoghi  in  pianto  il  mio  dolore! 
Giacché  morto  mi  voi,  eccoti  il  seno. 
Eccoti  il  ferro  ancor,  passami  'I  core. 
Il  mio  morir  sarà  dolce,  sereno. 
Vittima  io  sarò  del  Dio  d'Amore: 
Ma  prima  del  morir,  parlami  almeno, 
Dimmi  se  fui  fedele  o  traditore  ; 

Già  che  non  m'ami  più,  lasciami  almeno. 
Lascia  ch'io  sfoghi  m  pianto  il  mio  dolore.  (^) 

Care  luci  dal  sonno  addormentate, 

Fedel  v'adoro  ancor  così  sopite  : 

Se  a  lo  lamento  mio  ve  risvegliate. 

L'eco  del  mio  dolor  deh  !  compatite. 

Amor  me  spigne,  e  voi  qua  me  tirate, 

Come  del  ferro  fan  le  calamite. 

Chiudetevi,  begl'occhi,  e  riposate, 

Che  le  dolenti  voci  ho  già  finite. 
Care  luci  dal  sonno  addormentate, 

Fedel  v'adoro  ancor  cosi  sopite.  (^) 

Ricordate  che  sei  cosa  mortale, 

Tu  che  vai  tanto  di  bellezza  altera  ! 


(1)  Mandalari,  pag.  386. 

{-)  Visconti,  n.  2&.  Cfr.  Bacc.  napol.  II,  p.ag.  17:  v.  2  Lascia  sfogar 
piangendo  —  3  E  se  sazia  non  sei  —  4  Un  ferro  prendi  e  mi  trafiggi  — 
5  Promisi  fedeltà  e  sempre  appieno  —  6  Sempre  fedel  ti  fui,  mai  traditore 
—  7  Prima  dunque  che  mor,  deh  dimmi  —  8  In  che  ti  offesi  pur,  qual  fa 
il  mio  errore. 

(3)  Visconti,  n.  30.  Cfr.  Race,  napol.  II,  pag.  7  :  v.  2  v'adorerò  benché  — 
3  Se  mai  col  pianto  mio  —  4  del  pianto  mio  —  5  mi...  qui  mi  —  6  col  ferro. 


456  LA  POESIA.  POPOLARE  ITALIANA. 

Fra  le  stagioni,  è  ver,  sola  prevale, 
Ma  più  breve  di  tutte  è  Primavera. 
Bella  è  la  rosa,  e  non  ha  fiore  eguale, 
Ma  in  un  girar  di  sol  convien  che  pera. 
Precipita  chi  troppo  in  alto  sale, 
Lo  più  splendido  giorno  se  fa  sera. 
Ricordate  che  sei  cosa  mortale. 

Tu  che  vai  tanto  di  bellezza  altera!  (') 

Mando  a  l'idolo  mio  da  questo  petto 

Cinque  mesti  sospir,  figli  d'amore. 

Gli  parla  il  primo  de  l'antico  affetto, 

E  l'altro  li  racconta  il  mio  dolore; 

Il  terzo  l'offerisce  questo  petto. 

Il  quarto  cerca  aiuto  a  tanto  ardore  ; 

Il  quinto  genuflesso  al  caro  oggetto, 

Pietà  ne  cerca  e  l'offerisce  il  core. 
Mando  a  l'idolo  mio  da  questo  petto 

Cinque  mesti  sospir,  figli  d'amore.  (-) 

Quest'altre  due  sono   nella  Raccolta  del  Mar- 
coaldi  :  C) 

Mi  parto,  o  bella,  che  giunta  è  pur  l'ora 
Che  così  mi  destina  il  fato  rio. 
Mi  parto  e  nel  partir  convien  eh'  io  muora, 
Se  non  vieni  con  me,  o  bene  mio. 
Ti  prego  almen  in  quella  mia  dimora 
D'esser  fedel,  come  fedel  son  io  : 
Non  ti  scorda',  ben  mio,  di  chi  t'adora: 
Mi  parto,  o  bella,  a  rivederci,  addio.  (*) 

Beati  ciechi  voi,  che  non  vedete, 
E  che  di  donne  non  v'  innamorate  ; 


(1)  Visconti,  ii.  31.  Cfr.  Race,  napol.  I,  19:  v.  1  Ricordati...  donna  — 
4  Ma  pur  non  dura  assai  —  5  Bella  assai  è  la  rosa  e  non  ha  —  8  Ogni  cosa 
mortai  non  giunge  a.  Ed  è  anclie  nella  Race.  II,  pag.  21. 

(2)  Visconti,  n.  3-i.  Cfr.  Race,  napol.  I,  pag.  10:  v.  2  figli  del  core  — 
4  il  suo  —  %  ti  cerca. 

(3)  Sanno  di  letterario  fra  i  Canti  latini  raccolti  dal  Marcoaldi,  i 
n.  3,  15,  18,  24,  39,  47  ecc. 

(*)  C.  pop.  lat.,  n.  13.  Trovasi  anche  nella  Race,  napol.  I,  pag.  16  con 
queste  varianti:  v.  1  Parto,  anima  mia,  giunta  e  qiiell'  —  2  Clic  partir  mi 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  457 

Beati  sordi  voi,  che  no'  intendete 
E  i  lagni  degli  amanti  disprezzate  ; 
Beati  muti  voi,  che  non  potete 
Palesare  la  vostra  volontate  ; 
Beati  morti  voi,  che  in  terra  siete: 
L'amor  non  vi  tormenta,  e  riposate.  (') 

E  di  quest'ultima,  tale  è  la  versione  abruzzese  : 

Bbjiàte,  cjìeche,  voje  che  nno'  vvedete, 
Che  dde  le  donne  no'  vve  'nnamiuate  ; 
Bbjiàte,  sorde,  voie  che  non  zendete, 
Ji  lamende  d' j  amande  desprezzate  ; 
Bbjiàte,  mute,  voje  che  noni  butete 
Appalesai'e  le  vostre  vulundate  ; 
Bbjiàte,  morte,  che  'n  derra  ggiacete  ; 
J'amore  no'  vvi  turmend'  e  rripusate.  (-) 

Né  potrebbersi  dire  ignote  affatto  le  già  dette 
Raccolte  a  stampa  neanche  in  Toscana.  Il  Tommaseo 
dice  che  "  conservansi  sonetti  scritti  da  carbonai 
nelle  carceri  alle  lor  vaghe;  uno  de' quali  diceva: 

La  lontananza  è  quella  che  mi  tiene, 

Mi  tiene  avvinto  come  un  pesce  all'amo.  (^) 

la  notte 

Mi  vien  l' insognio,  e  mi  risveglio  e  chiamo  „.  (^) 

Se  non  che  l'innamorato  in  questo  caso  non  compo- 
neva, ma  ripescava  entro  i  ripostigli  della  memoria, 
e  ritrovava  un'artificiosa  ottava,  letta  in  qualche 
libercolo,  o  a  lui  insegnata  da  chi  prima  ve  l'aveva 


—  4  Se  con  meco  non  vien  l'idolo  —  5  qnexia  —   7  di  chi  fedel  ti  —  8  Farlo, 
ti  resto,  a  >: 

(1)  Marcoaldi,  C.  lìopol.  latin.,  il.  38,  e  C.  di  Fabriano,  il.  11  :  cfr.  Pi- 
gokini-Beei,  loc.  cit.,  pag.  41.  Kella  liacc.  napol.  Ili,  pag.  4,  trovasi  con 
queste  varianti  :  v.  1  Occhi  beati  voi  —  2  donna  —  3/(^  —  4  Degli  amunti 
ai  lamenti. 

(2)  FiNAMOBE,  II,  n.  269. 

(3)  Vò  iacà  al  cuore  come  7  lìesse  a  l'amo:  Berxoni,  pnnt.  IV,  n.  50; 
Dal  Medico,  pag.  100. 

(<)  C.  poiìol.  tose,  pag.  6. 


458  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

rinvenuta.  (^)  Quest'altro  Canto  toscano  ha  pur  esso 
preso,  se  non  altro,  l'avviamento  da  uno  di  quelli  a 
stampa  : 

Chi  v'amerà,  ben  mio,  se  non  v'am'  io  ? 
Chi  mi  amerà,  se  non  mi  amate  voi? 
Chi  averà  pietà  del  dolor  mio, 
Altri  che  voi  di  me,  caro  amor  mio? 
Chi  averà  pietà  del  mio  dolore, 
Altri  che  voi  di  me,  caro  mi'  amore?  (^) 

Ed  è  affine  a  questo  piceno: 

Bella,  chi  v'  ha  d'amar  se  non  v'am'  io  ? 
Chi  m'  ha  d'amar  se  non  m'amate  voi  ? 
Le  chiavi  del  tuo  cuore  le  tengo  io,  (^) 
E  quelle  dello  mio  l'avete  voi.  {■*) 

Ma  ambedue  tornano  a  questa  versione  a  stampa  : 

Bella,  chi  t'amerà  se  non  t'amo  io! 
Chi  m'amerà,  se  non  m'amate  voi? 
La  chiave  del  tuo  petto  la  tengo  io, 
Quella  del  core  mio  l'avete  voi. 
Dentro  del  tuo  bel  sen  l'albergo  ho  io, 
Dentro  dell'alma  mia  ci  siete  voi. 
Un  amante  fedel  sarò  sempre  io, 
L'unico  oggetto  mio  sarete  voi.  (^) 


(1)  Vedi  la  Eacc  napoh  li,  p.ag.  15,  dove  Vottava  è  assai  scorretta: 
V.  3  Amo  di  dire  all'adorato  bene  —  4  Bene  che  di  vederti  io  solo  bramo  — 
5  Bramo  la  notte  che  mi  viene  (sic)  —  d  II  sogno,  mi  —  7  Chiamo  il  sonno 
e  il  sonno  non  viene  —  8   Viene,  e  portami  in  braccio  di  chi  amo. 

(2)  Tigri,  ii.  45-1;  cfr.  n.  487. 

(3)  La  frase  dantesca  delle  chiavi  del  cuore  ricorre  frequente  nei  Canti 
popolari  di  tutte  le  provincia  d'Italia:  v.  Lizio-Bruno,  C.  popol.  isol.eol., 
pag.  58;  Bernoni,  punt.  II,  n.  45,  piint.  X,  n.  43;  Dal  Medico,  pag.   151 
Anboit,  n.  330;  Tigri,  n.  270,  299,  436,  439,  473,  601.   604;  Rondini,  102 
GiANANDREA,  pag.  79,  254;  Imbriani,  C.  popol.  prov.  merid.,  II,  6,  81,  32,  392 
IvE,  pag.  88  ecc.  Vedi  altri  raffronti  in  Rie.  letler.  popol.,  I,  89,  185;  in  Gian- 
nini, C.  pop.  liccch.,  pag.  55  ;  in  Pellegrini,  Il  dialetto  greco-calabro  di  Bava 
(Torino,  Loescher,  1880),  pag.  35,  e  per  raffronti  classici  la  nota  al  Soli,  del 
Petrarca  Volgendo  gli  occhi,  nel  commento  del  Carducci-Ferrari,  pag.  92. 

(4)  Marcoaldi,  C.  popol.  picen.,  n.  11.  Cfr.  Gianandrea,  pag.  79;  Maz- 

ZATINTI,    n.   119. 

(6)  Bacc.  napol.  Ili,  pag.  5. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  459 

Se  non  che,  andando  più  addietro,  si  trova  a  questo 
modo  in  un  Codice  del  secolo  XVII  : 

Ma  chi  deve  amar  voi,  se  non  v'amo  io, 
Chi  de'  amar  me,  se  non  m'amate  voi? 
Chi  de'  sperar  in  voi,  se  non  sper'io, 
Chi  de'  sperare  in  me,  sola  che  voi? 
Vostro  ben,  vostra  speme  esser  vogl'io, 
Mio  ben,  mia  speme  esser  vogliate  voi, 
E  sete  alfin  dentr'al  mio  miser  cuore 
Mio  ben,  mia  speme  degna  del  mio  amore.  (') 

Ma  nel  mezzo  d'Italia,  e  principalmente  in  To- 
scana i  repertori  poetici  del  popolo  sono  sopra  tutto 
certi  libercoli  di  "  Mattinate,  Serenate,  Partenze, 
Strambotti,  Sdegni,  Sonetti,  Villanelle,  Lettere,  Af- 
fetti d'Amore  ecc.  „,  composti  già  da  due  cinquen- 
tisti  :  G.  B.  Verini  fiorentino  e  Baldassarre  Olimpo 
degli  Alessandri  da  Sassoferrato.  Questi  componi- 
menti, come  altri  che  li  avevano  preceduti  nel  Quat- 
trocento, intonati  da  insigni  musicisti,  sposati  al 
suono  del  liuto  e  alla  voce  di  famosi  cantori,  dalle 
aule  principesche  e  dalle  sale  signorili  scesero  nelle 
strade  fra  il  popolo,  che  pur  esso  li  ripetè;  e  poi 
quando  la  modulazione  musicale  non  ebbe  piìi,  per 
sazietà  forse,  l'antico  favore,  sopravvissero  per  la 
lettura.  I  florilegi  amorosi  di  questi  due  poeti  si  con- 
tinuano a  stampare  tuttavia,  ed  una  serie  non  in- 
terrotta di  edizioni  riproduce  i  lor  versi  dalla  metà 
del  sec.  XVI  al  presente. 

Il  morigerato  giovane  G.  Batista  Verini  fu  fio- 
rentino, e  a  quel  che  pare,  libraio:  se  pure  egli  è 
anche  l'autore  di  un  Luminario,  stampato  a  Fi- 
renze circa  il  1527,  ove  l'autore  è  detto:   Giovam- 


(')  Ferrari,  Biblioteca  ecc.,  I,  240. 


460  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

haptistcì  di  piero  Verini  mercante  di  libri  in  Firenza.  (^) 
Ma  il  Negri  (")  lo  fa  di  famiglia  nobile,  e  di  quella 
stessa  del  filosofo  :  bensì  non  ricorda  punto  quel  Lu- 
ìììinario,  e  invece  assevera  scrivesse  un'opera  inti- 
tolata il  Fornaio,  rimasta  manoscritta,  nella  quale 
s'insegnano  tutti  i  modi  di  lavorar  la  pasta  e  cuo- 
cerla. Se  in  ciò,  come  in  tante  altre  cose,  sia  da 
fidarsi  al  gesuita  ferrarese,  non  saprei  dirlo:  bensì 
negli  altri  suoi  libri  il  Verini,  foss'egli  di  mestiere 
librajo  o  fornajo,  insegnò  tutti  i  modi  e  tutte  le  forme 
della  locuzione  poetica  d'amore,  e  raccolse  esempli- 
ficandole tutte  le  espressioni  e  formule  di  affetto,  di 
gelosia,  di  pace,  di  sdegno,  di  partenza  ecc.  Dice  an- 
cora il  Negri  che  componesse,  oltre  un  TriumpJio  di 
ricette  e  segreti  hellissiììii,  stampato  a  Milano  nel  1535, 
anche  la  Notomia  d'amore  e  V  Ardor  d'amore,  (^)  che 
sono  a  stampa.  Ma  se  per  l'ultimo  non  v'ha  dubbio, 
il  primo  forse  non  altro  è,  salvo  la  Crudeltà  d'amore, 
scritta  certamente  dal  nostro  Giovanbattista.  Se  poi 
siano  sue  V Ardelia  {*)  e  la  Camniilla  i^)  che  altri  at- 
tribuiscono invece,  e  sembra  a  dritto,  all'Olimpo, 
lascio  disputare  ai  bibliofili.  Certo  è  che,  fra  tanti 


(1)  Vedi  Brunet.  Manueì,  voi.  Il,  col.  1139. 

(-)  Istoria  de'  fiorentini  scrittori,  Ferrara,  1722,  pag.  234. 

(3)  Giambattista  Fiorentino,  ^rrfor  d'amore  et  altre  rose,  Venezia,  lòlrl, 
in  8"  —  Ardor  d'amore  alla  sua  diva  Clelia,  con  una  Confessione  d'amore 
et  un  Capitolo  di  varia  opinione,  Roma,  Valerio  Dorico  e  Luigi  fratelli,  1542 
—  Ardor  d'amore  nuovamente  composto  per  il  morigerato  fiorone  G.  B.  Ve- 
rini, Venetia,  1544.  11  Catal.  della  libreria  Capponi,  pag.  38G,  e  I'Haym,  Bi- 
bliot.  italian.,  II,  96,  ricordano  una  edizione  di  Venezia,  1582  —  Per  la  bi- 
bliografia del  Vekini,  vedi  del  resto,  Brunet,  voi.  V,  col.  1138. 

(■•)  Il  Quadrio,  Storia  e  ragione  ecc..  Il,  220,  assegna  al  nostro  una 
Ardelia  d'amore,  che  contiene  Strambotti,  Mattinate,  Capitoli,  Barzellette  e 
Frottole,  dicendo  averne  visto  ristampe  di  Trevigi  del  sec.  XVI  e  XVII, 
nonché  di  Piacenza,  1601,  di  Venezia,  Padova  e  Bergamo,  spesso  col  nome 
di  G.  B.  Vieri  (sic).  Altri  ascrivono  V Ardelia  aU"  Olimpo  :  v.  Brunet,  voi.  IV, 
col.  179,  e   Calai.  Capponi,  p.  274. 

{■')  Una  ediz.  del  1545,  Venezia.  Bindoni,  registrata  d.al  Libri,  Catal.  del 
1847,  n.  1394,  dù  la  Cammilla  all' Olimpo  :  v.  anche  Brunet,  voi.  V,  col.  179. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  461 

libercoli  composti  in  quel  tempo  e  nella  stessa  forma 
di  Strambotti,  Mattinate,  Canzoni,  Villanelle,  ed  al- 
tro, ad  uso  dei  giovani  innaniorafi,  (^)  si  salvarono 


(■)  Ad  esempio:  Ardore  di  onesti  affetti,  Siena,  alla  Loggia  del  Papa, 
1606,  in  8":  ricordato  nella  Storia  dei  Rozzi  dell'AccESO,  p.  lxiv.  —  Nel 
Cat.  LlBEi  del  18-1:7,  n.  1389  :  Strambotti  gentilissimi  ad  esempio  d'ogni  inna- 
morato, s.  a.  n.,  ma  prlncipj  del  see.  XVI  (furono  riprodotte  di  su  un  esem- 
plare melziano  da  F.  Salvfraglio,  Mortara,  Botto,  ISSO)  —  Ibid.,  n.  1390: 
Strambotti  novi  d'amore  li  quali  danno  refrigerio  a  cia.tchuno  che  inatnorato,  et 
un  Capitulo  cantra  d'amore:  s.  a.  n.,  ma  forse  in  Bologna,  1620  —  n.  1542: 
Jfon  espeto  giamai,  con  la  risposta,  et  altre  belle  canzonette,  Milano,  Ant.  da 
Borgo,  s.  a.  (sec.  XVI)  —  n.  1543:  Napoletane  e  Villanelle  nuove  di  diversi 
gentilissimi  ingegni,  Brescia,  s.  n.  (sec.  XVI)  —  n.  1544  :  Fioretto  e  scielta 
di   Villanelle  bellissime  et  artificiose,  con  ire  Dialoghi  artificiosi,  Torino,  1590 

—  n.  1545:  Canzone  amorose,  Torino,  Grasso,  1593  —  n.  1546:  Scelta  nuova 
di  Villanelle  di  diversi  autori,  con  la  Canzone  della  Caterinon  (clie  è  del 
Croce:  v.  Guekrini,  n.  139),  Torino,  Grasso,  1594  —  n.  1548:  Fioretto  e  scielta 
di  Villanelle,  raccolte  da  liaff.  Cieco  fiorentino,  Perugia,  Bresciano,  s.  a. 
(sec.  XVI)  —  n.  1549:  Canzone  et  Barzellette  ridicolose,  s.  a.  n.  —  lì.  1675: 
Nuova  scelta  di  Villanelle  di  diversi  autori,  con  la  Canzon  de  Caterinon  con  la 
Tognina,  raccolte  da  Zan  Cazamoleta,  Trino,  Giolito  de  Ferrari,  s.  a.  (sec.  XVI) 

—  lì.  1676  :  Opera  nuova  dove  si  contiene  due  Mattinate  bellissime  et  altre 
Canzon  et  Villanelle  ecc.  Firenze,  s.  a.  (sec.  XVI)  —  n.  1691  :  Giardino  di 
varie  Canzoni  et  Napolitane  senfentiose  et  belle,  dove  si  contiene  un  Contrasto 
di  diioi  amanti,  con  la  Canzone  della  vecchia  et  ranella:  Al  pie  d'un  colle 
adorno,  con  alcune  Partenze  d'amore,  Cremona,  Zanni,  1596  —  n.  1738:  Ce- 
ciliane  et  Villanelle  date  in  luce  da  diversi  autori,  Verona  e  Brescia.  1594 

—  n.  1739:  Opera  nuova  dove  si  contiene  Villanelle,  Canzoni  et  Ciciliane, 
con  un  Proverbio  f eminile  detto  agli  amanti,  s.  a.  n.  (sec.  XVI)  —  n.  2965  : 
Opera  nuova  dove  si  contiene  Villanelle,  Canzoni  et  Ciciliane,  Milano,  Gra- 
tiadio  Ferioli,  1595  —  n.  2970:  Nova  scelta  di  varie  canzoni,  cioè  Villanelle, 
Napolitane,  Ottave  siciliane  ecc.  posta  in  luce  da  Paulo  yiapiolitano,  Torino, 
1595  —  n.  id.:  Opera  nuova  alla  napolitana,  dove  si  contengono  ottave  bel- 
lissime et  ridicolose  da  far  Mattinate  in  ottava  r/uio.  Verona,  1596  —  n.  id. 
Villanelle  nuove,  composte  dal  Sirello,  Milano,  Ferioli,  1594  ecc.  ecc.  Nel 
Catalog.  reservé  de  la  Collect.  Libri  si  registra  anche  un  raro  libretto  del 
see.  XVI,  sul  finire,  stampato  dal  Tosi  in  Firenze,  e  inutilmente  da  me  cercato 
nelle  biblioteche  fiorentine,  che  s'intitola:  Strambotti  e  rispetti  d'amore.  — 
Negli  Excerpta  Colombiniana  di  H.  Hakhisse  (Paris.  Welter,  1887)  trovo 
citati  questi  altri  opuscoli  poetici  :  n.  353  :  Strambotti  novi  de  Notturno 
neapolitano  ad  amican,  s.  a.  —  n.  386  :  Kispetti  d'amore  di  maestro  Marco 
DA  Foligno  e  di  più  autori,  Siena,  Simeone  di  Niccolò,  1512  (il  nome  è 
Marco  Rosilia)  —  n.  395:  Strambotti  d'ogni  sorte  e  Sonetti  alla  bergamasca 
gentilissimi  da  cantare  in  su  liuto  e  variati  stormenti,  s.  a.  n.  —  n.  396  :  Stram^ 
botti  composti  novamente  da  diversi  autori  che  sono  in  proposito  a  ciascuno 
che  Ì!  ferito  d'amore,  s.  a.  n.  —  Sonetti  e  Strambotti  stampati  ad  istantia 
de  Hippolito  detto  el  ferrarese,  1534  (v.  V.  Rossi,  Di  un  cantastorie  ferra- 
rese del  sec.  XVI,  in  liassegna  emiliana,  II,  8-9).  —  In  un  libretto  eh'  io 
possiedo,  ma  al  quale  manca  il  frontespizio,  non  pero  la  data  e  il  nome 
del  tipografo  —  in  Firenze,  appresso  Giovanni  Baleni,  l'anno  1599  —  trovo 


462  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

soltanto  questi  del  Verini  e  gli  altri  dell'Olimpo,  dei 
quali  or  ora  diremo.  Habent  sua  fata  libelli:  e  l'Ar- 
dore, come  la  Crudeltà,  del  Verini  si  stampano  tut- 
tavia: e  in  mancanza  di  vecchie  stampe,  io  mi  atterrò 
nel  darne  conto,  alle  moderne  riproduzioni,  (^) 

Diamo  un'occhiata  rW  Ardore,  e  citiamone  qual- 
che verso:  perchè  soltanto  al  suono,  comprenda  il 
lettore  esperto  che  l'intonazione  della  poesia  popo- 
lare è  stata  abbastanza  bene  imitata  : 

Tu  se'  colei  che  mi  puoi  far  beato, 
Tu  se'  colei  che  mi  puoi  tiar  di  pena, 
Tu  se'  colei  che  m'hai  preso  e  legato, 
Tu  se'  colei,  che  la  mia  vita  mena  ecc. 

Sia  benedetto  chi  trovò  l'amore. 
Sia  benedetto  chi  è  innamorato, .  .  . 
Sia  benedetto  e  benedetto  sia, 
L'unica  di  beltà,  la  donna  mia: 

che  fa  venir  a  mente  que'  versi  del  Rispetto  to- 
scano : 


I 


alcuni  Strarìibotfi  nuovamente  composti  per  il  Cofìes  Saturnino  da  Corinahìo 
in  lode  della  sua  bella  Madonna  l'aleonda ,  cui  seguono  Strambotti  di  diversi 
autori,  e  poi  alcune  Villanelle  alla  napoletana.  —  Da  stampe  antiche  e  da 
codici  furono  recentemente  riprodotte  o  estratte  Villanelle  e  altre  cose 
consimili;  per  es.  M.  Meschini,  Villanelle  a  stampa,  nella  Zeitschr  f.  roman. 
l'hilolog.,  voi.  XVI  e  XXVII;  M.  Menghini  e  A.  Morelli.  Alcune  Villanelle 
alla  napolitano,  Roma,  tip.  Sallustiana,  1894  (per  nozze  Angcli-Zanettopulo); 
S.  Ferraei,  per  nozze  Solerti-Saggini,  Palermo,  tip.  Giorn,  di  Sicilia,  1889; 
F.  NovATi,  Villanelle  alla  siciliana  (1554),  Bergamo,  Arti  grafiche,  1897  (per 
nozze  D'Ancona-Orvieto);  V.  Rossi,  Per  nozze  Volpi-Buonamici,  Bergamo, 
Arti  grafiche,  1500  ecc.  Sul  genere  alla  napolitano,  vedi  B.  Capasso,  Sulla 
poesia  pop.  in   Napoli,  in  Arch.  stor.  prov.  napul.,  anno  VIII,  fase.  2". 

(1)  Ardore  di  amore  In  cui  contiene  Serenate,  Capitoli  e  stanze  da  gio- 
vani innamorati  con  alcune  Villanelle  alla  napoletana  e  Sonetti  dilettevoli, 
in  qiiest'idtima  edizione  purgato  da  molti  errori  e  diligentemente  ricorretto: 
in  Lucca  per  Domenico  Marescandoli,  con  approvazione:  s.  a.  d.  —  Ardor 
d'amore  ossia  raccolta  di  Serenate,  Epistole,  Sonetti,  Strofe  ed  altre  piacevoli 
ìime,  Prato,  1852,  con  .approv.  —  Ardor  d'amore,  ossia  raccolta  di  Serenate, 
Epistole,  Sonetti,  Strofe  ed  altre  piacevoli  rime,  lj\\cca.,lìertììn,  1805.—  Cru- 
deltà d'amore,  opera  molto  bella  e  dilettevole  per  gli  amanti,  nuovamente  in 
quest'ultima  impressione  ampliata  e  corretta,  in  Todi,  con  permesso. 


LA  POESIA  POPOLARE   ITALIANA.  463 

Sia  benedetta  e  benedetta  sia 

La  casa  del  mi'  Amore,  e  po'  la  mia.  (^) 

E  più  oltre  : 

Le  male  lingue  si  possin  seccare, 
Poiché  per  lingue  son  da  te  diviso  ; 

che  alla  lontana  ricorda  il  Rispetto  : 

Le  male  lingue  che  fanno  consiglio, 
E  giorno  e  notte  non  si  chetan  mai.  C^) 

Ma  quest'altra  Serenata  di  partenza  resta  ancora 
tale  e  quale  : 

Io  veggio  l'alba  che  vuole  apparire, 

Licenza  chieggo,  io  non  vo' più  cantare; 
Restate  in  pace,  io  vo'  andare  a  dormire. 
Ch'io  non  ho  tempo  di  poter  più  stare.  (^) 
Si  vedon  da  per  tutto  gli  usci  aprire, 
E  le  campane  si  senton  suonare; 
Perdon,  se  t'  ho  impedita,  t'addimando  : 
Resta,  e  per  sempre  a  te  mi  raccomando. 

Infatti  in  Toscana,  attenendosi  a  un  tetrastico  scelto 
nell'ottava,  così  si  canta  : 

La  vedo  l'alba  che  vuole  apparire, 
Chiedo  licenza,  e  non  vo'  più  cantare. 
Che  le  finestre  si  vedono  aprire, 
E  le  campane  si  senton  sonare. 

E  si  sente  sonare  in  cielo  e  in  terra  : 
Addio,  bel  gelsomin,  ragazza  bella. 

E  si  sente  sonare  in  cielo  e  in  Roma  : 
Addio,  bel  gelsomin,  bella  persona.  (■*) 

E  nelle  Marche: 

Ecco  che  l'alba  comincia  a  chiarire, 
Le  campanelle  comincia  a  sonare, 


(1)  Tigri,  n.  418. 

(2)  TiGKi,  n.  804. 

(3)  Cfr.  questo  verso  con  altro  del  secondo  fra  i  due  Strambotti  se- 
nesi citati  a  pag.  116,  nota  2. 

(<)  Tigri,  n.  395. 


464  LA   POESIA  POPOLARE   ITALIANA. 

Le  finestrelle  se  comincia  aprire, 
Quella  dello  mi'  amor  non  s'apre  mai.  (^) 

Ma  più  rozzamente  a  Benevento: 

Vego  l'alba  che  bole  escine, 

Cerco  licenza  e  non  voglio  cliiìi   cantare; 

E  le  fìneste  vego  raprire, 

Le  campane  se  sentono  sunare  ; 

Se  sente  sona'  'n  gielo  e  'n  terra, 

Addio,  bel  gesummin,  nennella  bella, 

Se  sente  sona'  'n  gielo  e  a  Roma, 

Addio,  bel  gesummin,  bella  persona.  (^) 

Passiamo  alla  Crudeltà  e  trascegliamone  qual- 
che brano  : 

Bramo  la  morte  e  non  vorrei  morire. 
La  pace  cerco  e  guerra  vorrei  fare  ecc. 

lo  son  disposto  e  pronto  d'ubbidire 
Ciò  che  comanda  la  tua  signoria  ecc. 

Quando  che  per  la  via  passa  il  mio  amore 
11  sangue  mi  si  agghiaccia  per  le  vene. 
Dal   capo  al   pie  mi  muto  di  colore. 
Pallida  e  rossa  la  faccia  mi  viene  ecc. 

Signora,  tante  volte  ti  ringrazio 

Quant'è  in  ciel  stelle  e  in  mar  minute  arene  ecc. 

Sia  maledetto  chi  trovò  l'amore, 
Sia  maledetto  chi  è  innamorato. 
Sia  maledetto  chi  ama  di  buon  core. 
Sia  maledetto  Amor,  sua  legge  e  stato  ecc. 

Ed  ora  volgiamoci  all'Olimpo,  frate  minore  e 
poeta  erotico;  o  forse  meglio,  per  seguire  il  corso 
naturale  delle  umane  vicende,  prima  poeta  erotico, 


fi)  GiANANDREA,  pag.  124.  Grazìosa  vari.inte  è  quella  recata  d.-iHa  si- 
gnora Pigokini-Beri,  pag.  45: 

Ecco  che  l'alba  comincia  apparire, 
La  rondinella  comincia  a  volare  ecc. 

(2)  CoRAZZiNi,  pag.  195. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  465 

poi  frate  minore.  C)  Ebbe  gran  voga  al  suo  tempo,  C) 
e  dei  suoi  libercoli  in  rima  furono  fatte  molte  edi- 
zioni dal  1518  fino  agli  anni  pili  inoltrati  del  se- 
colo XVI ;(■"')  una  raccolta  intera  di  essi  stampata 
a  Venezia  nel  1524,  e  poi  di  nuovo  nel  '38,  ci  dà  i 
titoli  delle  sue  diverse  Opere  poetiche:  cioè  la  Par- 
thenia,  la  Pegrii^ea,  YOl'wipia,  Y Anlelia,  la  Nova  Phe- 
nice,  la  Gloria  d'amore,  il  Linguaccio,  Y Aurora.  (*)  E 
anche  autore  di  un  libro  di  Sermoni  da  morti  (Ve- 
nezia, 1525);  ma  falsamente  gli  fu  attribuita  la  Polen- 
tia  d'amore,  che  il  Quadrio  (')  rivendica  al  bolognese 
Diomede  Guidalotti.  La  Parthenia  è  libro  spirituale, 
benché  le  forme  ed  i  ritmi  sieno  della  poesia  ama- 
toria, contenendo  essa  Madrigali  a  Cristo,  Frottole 
a  Dio  e  alla  Vergine,  ecc.  (")  Di  fra  le  opere  del- 
l'Olimpo si  ristampano  tuttora  Y Olimpia  e  la  Glo- 
ria, (^)  delle  quali  daremo  qualche  estratto.  Ed  ecco 
qui  subito  uno  Strambotto  divenuto  popolare: 

La  buona  sera  Amor  ti  dia,  Madonna, 
E  se  tu  dormi  e  se  riposi  in  pace  ; 
Tu  dell'albergo  mio  sei  la  colonna: 
E  se'  colei  che  nel  mio  petto  giace: 


(1)  Nel  titolo  deW Aurora  è  chiamato  giovane  ingegnoso. 

(2)  G.  A.  GiLio  nei  suoi  Due  dialogi  (Camerino,  1564)  narra  qnesto  aned- 
doto :  "  Stando  un  tratto  il  Deserto  con  certi  altri  signori  accademici  a  burlar 
con  un  libraio  in  Siena,  (questi)  disse  loro  :  Attendete  pur  quanto  volete 
con  questi  vostri  Danti  e  Petrarclii,  che  l'Olimpo  mi  fa  buona  bottega,  con- 
ciosiachè  in  un  anno  io  non  vendo  dieci  Petrarclii  né  cinque  Danti  ma  vendo 
ben  più  di  mille  opere  di  Bahlassarre  Olimpo  ,. —  La  popolarità  degli  Stram- 
botti dell'Olimpo  "  come  più  facili  „  fra  tutti  quelli  del  suo  tempo,  è  atte- 
stata da  T.  Garzoni,  Piazza  universale,  Venezia,  1567,  discorso  LXXV. 

(3)  V.  Brunet,  Manuel,  voi.  IV,  col.  179. 

(4)  Brunet,  ibid.  ;  Haym,  II,  84;  Quadrio,  II,  227.  Vedi  anche  il  lavoro 
cit.  di  S.  Ferrari,  A  proposito  di  O.  da  S.,  Bologna.  Zanichelli.  ISSO. 

!■')  Op.  cit.,  voL  n,  pag.  223;  cfr.  Fantuzzi,  Scritt.  bologn.,W,  ^^2. 

CJ)   Catul.   Capponi,  pag.  274. 

(')  Posseggo  infatti  queste  stampe  del  secolo  scorso  :  Olimpia  d'amore, 
ove  si  contiene  Mattinate,  Serenate,  Partenze,  Strambotti,  Capitoli,  Sonetti  e 
Sdegni    di    amanti:    opere    dilettevole  per   i   giovani    che   sono    innamorati. 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  ital.  —  30 


466  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Non  fosti  fatta  già  da  mortai  donna, 
Ma  venisti  fra  l'altre  ardente  face  : 
Se  ti  risveglio,  me  ne  duole  il  cuore; 
Canto  per  isfogar  1'  immenso  ardore.  (') 

In  fatti  fra  i  Canti  popolari  toscani  suona  cosi  mo- 
dificato : 

La  buona  sera  il  elei  ti  dia.  Madonna, 
0  vegli  o  dormi  o  ti  riposi  in  pace; 
Fa'  che  l'albergo  mio  sia  la  colonna, 
Sola  se'  tu  che  nel  mio  petto  diace: 
Sola  se'  tu  che  mi  puoi  far  beato, 
Viver  contento  e  morir  consolato.  C) 

Spigoliamo  ancora  : 

Ti  voglio  amare  ancor  dopo  la  morte, 

Sendoti  sempre  fedel  servitore  ecc. 
Tu  sei  del  miser  cuor  la  sepoltura, 

Ove  sepolto  l'hai  benché  sia  vivo  ecc. 
Non  posso  più  cantar  che  il  fiato  manca. 

Manca  la  voce  e  manca  ogni  mia  forza  ecc. 

Quest'altra  ottava  è  notevole,   perchè  passata 
alle  Raccolte  napoletane  : 

Al  paragon  si  conosce  ogni  argento, 
Nella  battaglia  il  saggio  capitano, 
E  nell'avversità  l'amico  io  sento. 
Nella  fatica  l'uom  s'è  infermo  o  sano  ; 
E  navigando  si  conosce  il  vento, 
E  nel  parlare  il  rustico  villano; 
Nel  contrastare  il  dotto  disputante. 
Nella  fermezza  il  vero  e  fido  amante.  (^) 


Roma,  1181  (sic)  con  liccnz.a  de"  Superiori.  Ma  sembra  assai  piìi  recente, 
e  forse  fatta  su  una  ristampa  del  1811.  —  Gloria  d'amore  nella  quale  xi 
contiene  Strambotti,  Mattinate,  Lettere,  Sonetti  ed  ìin'Eyloga  curiosa  di  Bal- 
dassarre Olimpio,  degli  Allessandri  da  Sassoferkato.  In  Lucca,  con 
permesso,  s.  a. 

(1)  Lo  Strambotto  lia  duo  diverse  lezioni  neWOlimpia:  trascegliamo 
dall'una  e  dall'altra. 

(2)  Tigri,  n.  408. 

(3)  liacc.  napol.  I,  pag.  14.  Il  7  verso:  Ai  circoli  ed  ai  soyni  il  negro- 
mante. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  467 

Passiamo  ora  alla  Gloria  d'amore  :  [}) 

Felice  casa,  avventurato  letto, 
Dove  si  posa  così  bel  tesoro  ecc. 

Quest'è  quel  luogo  dove  persi  il  core, 

Quest'è  quel  luogo  dove  persi  l'alma  ecc.  (^) 


(>)  Il  11.  187  del    Tigri   è   pui-    esso    una    reminiscenza    della    Gloria 
d'amore: 

Vostre  bellezze  si  fan  da'  capelli 
E  cadon  giù  dalle  minute  ciglia, 
Il  naso  profilato  e  gli  occhi  belli, 
Le  guance  rosse  e  la  bocca  vermiglia  ecc. 

E  1' Olimpo  tesse  parecchie  ottave  di  laudi  ."illa  sua  signora,  cominciando 
dal  capo;  qui  descrive:  Gli  arcati  negri  e  le  minute  ciylia  ;  o:  lì  profilato 
naso  tanto  hello;  là:   Le  gtiancie  ami  due  rose  ecc. 

(2)  Ecco  alcuni  estratti   da  altre    opere   poeticlie   dell' Olimpo.   Dalla 
Cammina  : 

Quel  ch'è  dalla  finestra  alla  man  destra 
A  tutto  il  vicinato  dà  splendore.... 

Mi  parto,  e  benché  parto  il  cor  vi  resta: 
La  buona  notte  ormai,  ch'è  cosa  onesta... 

A  farvi  riverenza  il  sol  s'è  mosso.... 
Guarda  nel  cuor,  che  c'è  il  tuo  nome  scritto. 
E  tu  nel  mezzo  scolpita  vi  stai.... 

Tu  sei  dell'altre  donne  il  gonfalone... 
Dell'altre  belle  porti  la  bandiera..,. 

Dalla  iVovn  Fenice: 

Che  del  mio  cor  voi  siete  la  colonna.... 

Son  ritornato,  perchè  star  non  posso 
Di  rimirar  la  vostra  alma  presenza.... 

Vorrei  che  tutta  l'acqua  fosse  tosco. 
Vorrei  ch'ogni  auge!  fosse  un  falcone. 
E  vorrei  ch'ogni  casa  fosse  un  bosco. 
E  vorrei  ch'ogni  uom  fosse  un  leone  : 
E  voiTei  ch'ogni  lume  fosse  fosco. 
Ogni  verme  vorria  fosse  un  dragone: 
E  vorrei  che  la  state  fosse  verno, 
E  che  cadesse  Giove  nello  'nferno. 

Le  dure  pietre  a  me  son  fatte  piume. 
La  pace  a  me  s'è  fatta  crudel  guerra. 
Le  tenebre  mi  son  splendente  lume.... 

Con  le  mie  man  se  prendo  una  viola, 
Presto  diventa  una  cocente  ortica  ecc. 


468  LA   POESIA   POPOLARE   ITALIANA. 

E  qui  facciam  punto,  e  forse  a  taluno  sembrerà 
che  potessimo  esserci  arrestati  da  un  pezzo.  Ma  non 
senza  perchè  abbiamo  vohito  abbondare  e  soprab- 
bondare nelle  prove  della  origine  letteraria  di  sì 
gran  parte  delle  poesie  cantate  dal  popolo  nostro: 
non  solo  per  la  stranezza  del  fatto,  che,  semplice- 
mente enunciato  senza  arrecarne  documenti,  avrebbe 
potuto  trovar  molti  increduli,  ma  perchè  i  molti 
esempj  dovevano  ajutarci  a  trarne  le  conclusioni  che 
ora  ne  dedurremo,  e  a  toglier  forza  ad  ogni  obbie- 
zione. 

Potrebbe  invero  del  fatto,  a  prima  giunta,  re- 
carsi una  spiegazione  diversa  :  cioè,  che  i  Canti  in 
forma  letteraria  non  altro  fossero  se  non  componi- 
menti originariamente  plebei,  ma  qua  e  là  raffazzo- 
nati, ritoccati,  ripicchiati  da  mano  eulta.  Però  i 
molti  raffronti  da  noi  istituiti,  componimento  per 
componimento,  debbono  a  chi  vi  abbia  posto  atten- 
zione, aver  persuaso  il  contrario,  senza  tuttavia 
escludere,  per  qualche  caso,  il  procedimento  opposto. 
Se  si  volesse  dire  soltanto  che  i  Canti  in  forma  lette- 
raria riproducono,  ripetono,  esemplano  una  maniera 
di  poesia  già  esistente  ne'  volghi;  che  chi  li  compose 
segui  al  possibile  il  modo  di  concepire  e  di  sentire 
del  popolo,  pur  nobilitandolo  ;  che  si  giovò  anche  di 
vocaboli,  di  frasi,  di  versi  interi  già  adoperati  dal 
popolo  per  l'espressione  amorosa,  noi  lo  concordia- 
mo: anzi,  è  ben  chiaro  che,  queste  essendo  imitazioni, 
non  sarebbersi  fatte,  se  la  cosa  da  imitare  non  ci 
fosse  già  stata.  Ma  la  forma  di  quelle  ottave  è  di 
mente  e  di  mano  tutt'altro  che  popolare:  il  colorito 
generale,  la  concatenazione  delle  parti,  la  fusione 
intera  del  componimento  manifesta  chiaramente  l'o- 
pera di  chi  sia  pili  o  meno  esperto  al  lavoro  dell'arte. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  469 

Senza  che,  ponendo  a  raffronto  le  due  lezioni,  ordi- 
nariamente noi  troviamo  più  perfetta  nelle  rime,  nel 
numero  e  nella  misura  dei  versi,  la  letteraria  che  la 
popolare;  la  quale  anche  per  questo  aspetto  si  dà  a 
divedere  di  seconda  elaborazione.  E  pur  tuttavia,  i 
Canti  ridotti  all'espressione  vernacola  mantengono 
ancora  in  sì  gran  quantità  frasi  e  vocaboli  apparte- 
nenti all'idioma  culto,  da  non  lasciar  nessun  dubbio 
sulla  loro  derivazione  da  un  esemplare  in  lingua 
comune  e  letteraria.  O  Questo  fatto  evidente  è  un  ar- 
gomento che  taglia,  come  suol  dirsi,  la  testa  al  toro. 
Un  altro  fatto  che  si  è  mostrato  ben  chiaro,  se 
non  in  tutti  i  casi,  in  moltissimi,  si  è,  pur  anche, 
la  derivazione,  nella  maggior  parte  dei  casi,  del  tipo 
letterario  da  una  anteriore  lezione  in  idioma  sici- 
liano. (")  Ma  se  l'idioma  è  il  dialetto  di  una  provincia, 
rimane  letteraria  l'indole  del  componimento.  Ora  noi 
abbiamo  visto  come  dal  secolo  XVI  in  poi  molti  dotti 
e  culti  poeti  dell'isola  adoperassero  il  parlar  natio 
e  prendessero  a  trattare,  innalzandola  in  dignità,  la 
forma  provinciale  dell'ottava  a  rime  quattro  volte  al- 


(1)  Qui  le  conclusioni  nostre  differiscono  alquanto  da  quelle  del  Ru- 
BiERi  (pag.  452  e  seg.),  ma  per  quello  che  soggiungiamo  qui  subito  ci  accor- 
diamo con  lui,  salvocliè  anche  nel  canto  tipico  siciliano  e  primordiale 
rinveniamo  l'impronta  letteraria. 

(")  Questa  sicilianità  primitiva  dei  Canti,  in  quelli  pur  anco  che  non 
hanno  riscontro  in  una  poesia  insulare,  o  perchè  perduta  o  perchè  non  tro- 
vata ancora,  apparisce  da  certe  frasi  o  parole  che  sono  proprie  dell'  idioma 
siculo,  e  delle  quali  già  talune  abbiamo  qua  e  là  rilevate:  un'altra  ne  ag- 
giungiamo. Ad  es.  nella  Race,  napol.  I,  pag.  15,  leggiamo:  Governati,  hen 
mio,  partir  degg'io,  e  nella  Race.  II,  pag.  13:  Governati,  idol  mio,  non  più 
piangete:  nella  Race.  Ili,  pag.  9  e  14  :  Governati,  tiranna,  e  resta  in  pace; 
Governati,  ben  mio,  abbi  pazienza.  E  questa  una  forma  essenzialmente  sici- 
liana :  ad  es.  :  Guvernati,  e  ricordati  di  mia  (Vigo,  n.  2652):  Guvernati, 
guverna,  duci  amuri,  Ca  lu  perdesti  a  cu' ti  vulia  beni  (AvoLlo,  n.  430):  Gu- 
vernati, curuzzu,  ca  ti  lassù  (PlTEÉ,  n.  405)  :  Cuvirnativi,  amici,  addiu,  parenti 
(Id.  n.  406)  ecc.  Così  anche  magarta:  ad  es.  :  Race,  napol.  I,  20:  Credendo 
fosse  vera  magarla,  che  si  trova  anche  nei  Canti  siciliani  :  Criju  ca  ini  facesti 
magarla  (Vigo,  n.  2976)  ecc. 


470  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

ternate.  Sono  opera,  a  parer  nostro,  di  quella  schiera 
di  poeti,  e  dei  loro  seguaci  ed  imitatori,  per  la  più 
parte  ignoti  o  mal  noti  al  dì  d'oggi,  C)  le  poesie  di 


(1)  Come  e  quanto  i  poeti  del  popolo  in  Sicilia  abbiano  coltura  let- 
teraria e  di  varia  specie,  potrebbe  mostrarlo  un  poema  teologico  scritto  da 
un  contadino:  V Incredulo  cuntertito,  j'oema  siciliano  religioso  di  Pietro 
PrNTEELLO,  contadino  di  Mtissomeli  ecc.,  Palermo,  Montiina,  1877.  Nacque 
il  Puntrello  nel  180.5  da  padre  contadino;  fin  da  giovinetto  fu  inclinato  al 
poetare:  e  le  funzioni  pubbliche  e  le  feste  religiose  del  suo  paese  volsero 
fin  da  tenera  età  l'ingegno  suo  e  l'animo  al  misticismo.  Lesse  i  libri  del- 
l'Aniico  fedele,  delle  Massime  eterne  e  della  Visita  di  S.  Alfonso  de'  Liguori, 
e  poi  Leggende,  il  Diario  spirituale  e  le  Due  morti  del  P.  Lanuzza;  imparò 
a  mente  e  recitava  le  Storie  dei  poeti  popolari  anteriori  e  contemporanei:  le 
Farti  della  settimana  di  Ciccu  Vutieddu  da  Mussomeli,  il  Credo  di  Cimò, 
e  altri  componimenti  del  Nicolaci,  dell'Amato,  del  Pituccè,  tutti  rimatori  del 
volgo.  A  venti  anni  compose  i  primi  versi,  di  argomento  spirituale:  e  con- 
tinuò improvvisando  nelle  ricorrenze  sacre,  nell'occasione  della  mietitura  ecc. 
Il  suo  lavoro  di  maggior  merito  è  questo  AeW Incredulo,  poema  essenzial- 
mente teologico  e  didattico,  ch'egli  componeva  zappando;  e  quando  ave.i 
composto  un  certo  numero  di  versi  li  incideva  colla  punta  del  coltello  su 
foglie  di  fichi  d'India;  indi  ritornando  in  paese  dal  campo  con  molte  filze  di 
queste  foglie,  ricopiava  e  limava  le  ottave.  Il  poema  è  diviso  in  parecchi 
Capitoli  0  Trattati  :  La  Trinità,  Maria  Immacolata,  I  Sacramenti,  Il  Giudizio 
universale,  L'Inferno,  Il  Paradiso,  La  Morte,  ecc.  Diamo  per  saggio  queste 
due  ottave,  nelle  quali  si  vede  la  conoscenza  di  Dante: 

'Rrivannu  l'arma  a  ddu  'nfllici  statu 

Si  trova  fra  li  spasimi  e  lamenti  ; 

Ddà  li  suspiri,  ddà  cliiantu  spietatu, 

Diversi  gridi,  e  stridiri  di  denti; 

Stu  locu  pri  Lucifera  criatu 

È  distinatu  a  la  pirduta  genti  ; 

Giustizia  fu  di  l'altu  Diu  fatturi. 

La  Summa  Sapienza  e  Priniu  Amuri. 
Già  jiunti  l'aimi  tra  lu  'nfernu,  allura 

Si  trovanu  li  porti  sbalancati  ; 

Po'  cc'è  scrittu  a  li  porti  ed  a  li  mura  : 

Niscitinni  di  spranza,  o  vui  ch'entrati. 

Li  dinionii  contenti,  cu  primura 

Di  dd'armi  fannu  festa  arrabbiati; 

Lu  Salmu  nonu  ognunu  lu  cumprenna, 

Ch'è  locu  di  ghiustizia  echiù  trimenna  ecc. 

E  l'autore,  lo  ripetiamo,  è  un  contadino;  ma  scaltrito  al  giuoco  della  ver- 
sificazione dagli  esompj  anteriori  e  dalle  letture,  e  ricco  di  varia  erudizione 
sacra  e  profana  appresa  dalla  tradizione  e  dai  libri.  —  Non  dissimile  dal 
Puntrello,  ò  un  altro  poeta  siciliano,  pel  quale  vedi  Crist.  Grisanti,  Elogio 
funebre  del  poeta  zappatore  Carmine  Papa,  Cefalù,  Gussio,  1891;  nonché 
il  vivente  Leonardo  Insalaco,  lavoratore  nelle  zolfare,  del  quale  informa 
A.  Medin,  in  Niccolò  Tommaseo,  I,  29. 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  471 

carattere  letterario,  che  indi  passarono  lo  stretto, 
vennero  nel  continente  tradotte  in  lingua  comune, 
e  poi  tornarono  a  prendere  nuova  veste  dialettale, 
specialmente  nelle  provincie  dell'ex-regno  napole- 
tano :  mentre  a  Roma,  nell'Umbria,  nelle  Marche, 
in  Toscana  si  modificarono  appena  coli' introduzione 
di  qualche  uscita  o  voce  locale.  Volendo,  dunque, 
stabilire  le  successive  modificazioni  di  questi  com- 
ponimenti, e  come  a  dire,  la  genealogia  delle  varie 
forme,  avremmo  in  primo  luogo,  nella  massima  parte 
dei  casi,  una  lezione  siciliana  eulta:  poi  una  tradu- 
zione italiana  eulta:  indi  varie  versioni  secondo  i 
varj  dialetti,  compreso  il  siculo  volgare,  nelle  quali 
il  Canto,  via  via  che  si  fa  popolare,  non  solo  perde 
la  veste  idiomatica  letteraria,  ma  anche  smonta  un 
po'  di  colore,  divenendo  proprio  delle  plebi.  Così  fatto 
sarebbe  il  processo  più  generale  e  comune,  che  non 
escluderebbe  in  casi  speciali,  un  processo  differente, 
e  diversi  intrecciamenti. 

Ed  ora,  riassumendo  tutto  quello  che  abbiamo 
discorso  sino  a  questo  punto,  ecco  che  cosa  ci  par- 
rebbe doversi  concludere  nel  proposito  nostro.  Di- 
stinguiamo nella  poesia  popolare  italiana  una  forma 
spontanea  e  piìi  direttamente  plebea,  sebbene  non 
priva  di  certo  artificio,  e  una  forma  addirittura  arti- 
fiziata  e  letteraria  :  quella  più  antica,  questa  più  mo- 
derna: quella  che  risale  ai  primi  tempi  della  nostra 
lingua  e  letteratura,  questa  non  più  vecchia  di  tre 
0  quattro  secoli.  Ma  la  fonte  prima,  e  ad  ogni  modo 
più  copiosa,  dell'una  e  dell'altra  si  ritrova  in  Sicilia, 
che  e  prima  e  poi,  se  non  altro,  diede  lo  stampo,  a 
non  contare  gli  esempj,  che  pur  son  molti.  La  prima 
forma  si  trasmise  più  ch'altro  oralmente,  di  bocca  in 
bocca,  ne'  tempi  di  maggior  mescolamento  delle  plebi 


472  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

italiane  ;  la  seconda  per  la  massima  parte  si  diffuse 
col  mezzo  di  collezioni  manoscritte  o  a  stampa.  Ad 
ogni  modo,  se  anche  nato  in  Sicilia,  il  Canto  è  di- 
venuto essenzialmente  italiano  e  comune,  sebbene 
per  diventar  tale  abbia  dovuto  cessare  di  esprimersi 
nel  volgare  dell'Isola.  Abbiamo  visto  come  le  poesie 
della  prima  specie  siensi  sparse  in  gran  parte  del- 
l'Italia dopo  una  sosta  fatta  in  Toscana,  ove  presero 
le  forme  di  quel  dialetto,  che  è  fondamento  alla  lingua 
comune  di  tutta  la  nazione.  Ma  anche  le  poesie  della 
seconda  specie  si  popolarizzarono  in  gran  parte  della 
penisola,  dopo  che,  particolarmente  in  Napoli,  dal 
linguaggio  insulare  vennero  più  o  men  bene  tradotte 
nell'idioma  culto  e  generale. 

Seguendo  il  corso  delle  vicende  proprie  al  Canto 
popolare,  abbiamo  visto  che  esso  si  è  continuamente 
congiunto,  mescolato,  intersecato  colla  poesia  arti- 
stica e  studiata  ;  e  i  poeti  culti,  dal  canto  loro,  più 
d'una  volta  si  sono  posti  ad  imitare  la  maniera  poe- 
tica dei  volghi.  Le  due  forme  fino  dai  tempi  più  an- 
tichi sono  come  due  fiumi,  che  procedono  paralleli, 
e  spesso  confondono  le  loro  acque,  per  poi  separarsi 
di  nuovo:  ma  all'uno  riman  sempre  qualche  cosa 
del  sapore  e  del  colore  dell'altro.  La  poesia  italiana 
fin  dai  primordj,  oltre  che  ai  modelli  oltramontani, 
oltre  che  agli  esempj  dell'antichità,  attinse  anche  a 
siffatta  vena  indigena:  e  in  questa  forma  spontanea, 
naturale,  ingenua,  noi  abbiamo  rime  sopra  ogni  ar- 
gomento, delle  quali  cercammo  gli  avanzi.  Tutta 
l'antica  scuola  poetica  fiorentina  altro  non  fa  che 
affinare  i  sentimenti  e  i  concetti  popolari  col  senso 
squisito  dell'arte  ;  e  più  tardi,  quando  lo  studio  degli 
antichi  sembra  averla  allontanata  di  là,  vi  ritorna 
cercando  di  riunire  le  due  forme  disgiunte.  Se  non 


LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA.  473 

che,  cessata  in  Italia  la  vita  popolare  e  nazionale, 
le  lettere  e  la  poesia  si  avviano  per  altra  strada, 
e  il  Canto  dei  volghi  si  restringe  ai  soggetti  amo- 
rosi. La  imitazione  di  questi  Canti  finisce  in  Toscana 
colle  parodie,  cioè  colle  così  dette  Poesìe  rusticali; 
mentre  altra  vena  nuova  si  dischiude  in  Sicilia  per 
opera  di  poeti  men  noti,  ma  più  fortunati.  Ond'è, 
che  se  del  Poliziano  e  del  Magnifico,  e  tanto  meno 
del  Cariteo,  dell'Aquilano,  del  Guidalotti,  poco  o  nulla 
trapassa  al  popolo  e  resta  durevolmente  nel  suo  pa- 
trimonio tradizionale,  e  la  sorte  arride  soltanto  a  piìi 
umili  rimatori,  come  il  Verino  e  l'Olimpo,  una  gran- 
dissima parte  invece  di  ciò  che,  per  l'esempio  prin- 
cipalmente di  Antonio  Veneziano,  si  produsse  in 
Sicilia  sullo  stampo  plebeo,  resta  e  si  perpetua.  (\) 
Forse  finché  l'intelletto  e  l'animo  del  popolo  erano 
nella  primitiva  freschezza  e  fecondità,  sdegnò  egli  di 
appropriarsi  le  rime  dei  suoi  imitatori:  piìi  tardi, 
quando  all'operosità  successe  per  ogni  verso  la  quiete 
e  la  stanchezza,  parve  al  popolo  che  il  desiderabile 
fastigio  dell'arte,  la  somma  bellezza  ch'egli  aveva 
sempre  vagheggiato  stesse  in  quei  componimenti  di 
sottile  arguzia,  filati  giù  giù  con  tanta  industria,  con 
tanto  bagliore  di  immagini  e  pretensione  di  forme  e 
antitesi  di  concetti  e  di  rime  consonanti  nella  stessa 
lor  dissonanza.  Quindi  queste  poesie  di  seconda  ge- 
nitura, 0  se  vuoisi  di  adozione,  divennero  popolari, 
perchè  rispondevano  alla  nuova  condizione  dell'in- 
telletto e  del  sentimento  del  popolo,  e  si  confusero 
con  quelle,  alquanto  diverse,  di  prima  e  domestica 
produzione. 


(1)  Il  Modica,  biografo  di  Antonio  Veneziano,  riconosce  clie  alcune 
sue  ottave  "  tuttora  dai  contadini  si  van  cantando  per  le  campagne  „.  Opere 
del  Veneziano,  pag.  xiii. 


474  LA  POESIA  POPOLARE  ITALIANA. 

Nel  corpo,  adunque,  dei  Canti  popolari  italiani 
stanno  e  con  egual  dritto,  la  forma  piìi  diretta  e 
spontanea,  e  l'altra  derivata  e  letteraria:  ma  in  so- 
stanza la  diversità  delle  due  forme  è  minore,  che  non 
potesse  a  prima  giunta  parere.  Ad  ogni  modo,  i 
cultori  delle  forme  studiate  e  artificiose  non  disde- 
gnino questi  Canti,  dove  pur  vi  lia  tanto  di  ciò  che 
ad  essi  piace,  e  solo  par  buono;  (')  e  coloro  che  esal- 
tano la  Musa  delle  plebi,  perchè  credono  con  antici- 
pata sentenza,  che  debbano  i  Canti  di  quella  ritrarre 
soltanto  dalla  natura,  vogliano  riconoscere  che  or 
pili  or  meno,  ma  pur  costantemente,  il  popolo  italiano 
cercò,  come  è  destino  suo  e  sua  proprietà  in  ogni 
forma  della  vita  e  del  pensiero,  di  porvi  in  atto 
un'immagine  dell'intima  norma  di  bellezza,  impressa 
nell'animo  suo  dalla  Natura  non  solo,  ma  pur  anco 
dalla  Storia. 

Però,  comunque  vada,  questi  Canti  ci  sembrano 
degni  di  studio,  dappoiché  questa,  di  che  abbiamo 
sì  a  lungo  discorso,  è  poesia  vivente  fra  il  popolo; 
e  per  più  di  un  verso,  sia  ch'ella  abbia  pòrto  esempj 
imitabili  ai  letterati,  sia  che  dai  letterati  scendesse 
alle  plebi,  altro  non  è  insomma,  se  non  una  forma 
particolare  della  poesia  nazionale. 


(1)  È  notevole,  come  addietro  accennammo,  che  nel  secolo  nostro  il 
primo  fra  i  poeti  culti  a  scernere  le  bellezze  della  poesia  popolare  e  porgere 
ascolto  ai  Canti  delle  piazze  e  dei  campi,  fu  Giacomo  Leopardi. 


TAVOLA 

DEI    PEINCIPJ    DI    CANZONI    DEL    SECOLO    XV    E    XVI    CITATI 
NELLE    RACCOLTE    DI    LAUDI    SPIRITUALI  ( ') 


A  cavallo  a  cavai,  Pavia,  Pavia. 

Ed.  1510  e  1512.  La  Lauda: 

O  regina  in  cìel  Maria 
tutti  ti  voglion  pregare 
che  ci  faccia  alfin  salvare 
iuvochiaiuo  ìuvochiani  Maria,  Maria. 

Accoullié  ma  la  belle. 

Ed.  1485.  L'.altra  1512  legge  anche 
più  erroneamente: 

AchoUie  mala  belle. 


Aggio  visto  l'ammappamondo. 

Ed.  1485.  Nel  Cod.  Magliabecliiauo 
744  CI.  VII: 

Aggio  viato  Tappamondo. 

Il   cod.  ital.  230  della  Biblioteca 
Eeale  di  Monaco  aggiunge  : 

Aggio  vì«to  lo  appaniondo 

e  la  carta  da  navicare, 

ma  Cicilia  pure  uii  pare 

la  più  bella  iwola  del  mondo  ecc. 


(1)  Ciò  che  in  questa  Tavola  si  contiene  è  tolto  dalle  .intiche  Raccolte 
di  Laudi  Spirituali,  del  1480,  del  1485,  del  1489  e  del  1510  ristampate  in  Fi- 
renze presso  il  Molini  dall'avv.  G.  C.  Galletti  nel  1863.  Sul  principio  o  alla 
fine  di  quasi  ogni  Lauda  sta  scritto,  per  indicar  la  notazione  musicale:  Can- 
tasi come;  e  qui  seguono  il  titolo  del  canto,  o  le  prime  parole  di  esso;  la 
qiial  cosa  giova  a  farci  note  non  poche  delle  Canzoni  popolari  del  secolo 
decimoquinto  e  dei  primordj  del  successivo.  Avremmo  voluto  registrare 
qui  i  piincipj  delle  sole  Canzoni  profane;  ma  poiché  in  certi  casi  da  sole 
codeste  poche  parole  era  difficile  indovinare  la  natura  dell'intera  poesia, 
e  poiché  anche  le  Canzoni  sacre  furono  popolarmente  note  e  diifuse  in 
que'  tempi,  abbiamo  preferito  uno  spoglio  compiuto  di  siffatte  indicazioni 
musicali  e  poetiche.  E  inutile  dire  che  ci  siamo  rigorosamente  uniformati 
alla  dicitura  delle  antiche  stampe;  i  principj  di  Canzoni  non  italiane  se- 
gnammo in  corsivo.  Qua  e  là  abbiamo  aggiunto  qualche  schiarimento;  ed 
altri  potranno  ancora  aggiungersi  in  seguito. 

Dopo  di  noi,  che  avevamo  già  dato  un  saggio  di  questi  capoversi  in 
articoli  sulla  Poesia  popolare  italiana  nella  Rivista  di  Firenze  del  1858, 
E.  Alvisi  ampliò,  nella  sua  raccolta  di  Canzonette  antiche  (Firenze,  tipo- 
grafìa Dante,  1884),  la  Tarala  che  avevamo  posta  in  fine  alla  1"  edizione 
di  questo  nostro  lavoro,  spogliando  anche  le  stampe  delle  Laudi  del  1510, 
del  1512,  e  alcuni  manoscritti.  Noi  ora  riproduciamo  la  Tavola  accresciuta 
dall'Alvisi,  facendovi  ancora  non  poche  aggiunte;  àa\\e  Rime  Sacre  di  Lo- 
renzo il  Magnifico  e  di  altri  Medici  edite  dal  Cionacci  (WSOi,  e  da  altre  fonti; 
ma  altre  ancora  potranno  certamente  farsene  dagli  studiosi,  specialmente 
con  uno  spoglio  più  attento  di  quello  che  a  noi  non  sia  stato  possibile,  della 
Bibliothek  der  gedriccklen  Weltlichen  X'ocahnicsik  Italiens  di  E.  Vogel  (Ber- 
lin, Haack,  1892),  che  tuttavia  contiene  più  ch'altro,  componimenti  di  più 
tarda  età.  Il  Saggio  sulla  melodia  popolare  del  Cinquecento  di  O.  Chilesotti 
(Milano,  Ricordi  s.  a.)  non  ci  ha  dato  in  proposito  nessun  contributo. 


476 


TAVOLA  DEI  PRINCIPJ  ECC. 


Di  questa  canzonetta  si  conoscono 
due  rifacimenti  religiosi.  Uno  è  nel 
«itato  codice  di  Monaco: 

Chi  cercasse  lo  appamondo 
per  volere  Jhesù  trovare. 

V.  Calalogus  Codicum  Mss.  Biblio- 
teca Regiie  Monacensis,  Tom.  VI,  p.  98. 

Un  altro  è  nel  cod.  Palatino  n.  172 
della  Bibl.  Nazionale  di  Firenze,  e 
nel  cod.  1544  SS.  Annunziata: 

Aggio  visto  il  cieco  mondo 
e  '1  suo  falso  dilettare 
ogni  suo  dolcie  mi  pare 
pien  d'amaro  et  grieve  pondo. 

Agli  uccelli,  donne,  agli  uccelli. 

Ed.  1510. 

Alme  eh'  V  moro 

Ed.  1510.  Messa  in  musica  da 
D.  Micliele  Pesento  trovasi  nel  1" 
Libro  delle  Frottole  pubbl.  da  Otta- 
viano dei  Petrucci:  vedi  A.  Verna- 
BECCI,  O.  de'  P.  da  Fossombrone  ecc. 
Bologna,  Romagnoli,  1882,  p. 2 17,  n.  42. 

Ai  me'  sospiri  non  truovo  pace. 

Ed.  1485  e  1512.  Il  cod.  119  CI.  35 
Magi,  ha  pur  questa  Lauda  di  Feo 
B  eicari  : 

Omè,  signor,  donami  pace. 

Al  gufo  al  gufo  uccelli. 

Ed.  1510  e  1512.  È  pur  detta  la 
Canzone  del  Gufo.  Riprodotta  con 
questo  titolo  in  Bibl.  Lett.  Pop.,  I,  27. 

Allegramente. 

Ed.  1480  e  1512. 

Alle  schiave  alle  schiavone. 

Ed.  1485,  1512  e  cod.  SS.  Annun- 
ziata n.  1545. 

All'  inferno  voglio  andare. 

Ed.  1510  e  1512.  Vedila  riferita 
per  intero  nell'ALViSi,  Canzonette  An- 
tiche, Fii-enze,  libr.  Danto  1884,  p.  5C,  e 


da  S.  Febkari,  in  Giorn.  ut.  Lett.  Ital., 
VL  398.  La  Lauda: 

Al  mio  Jesù  voglio  andare 
che  'u  su  legno  sta  piagato, 
versa  '1  sangue  immacolato 
per  le  mie  colpe  lavare. 

Alma  che  sei  glentlle 

Cod.  Chig.  577. Vedi  più  oltre:  Non 
à  lo  cor  gentile  ecc. 

Alzando  li  occhi  n'  vidi  una  donzella 

È  una  Canzonetta  a  ballo  di  Ser 
Giovanni  fiorentino,  autore  del  Peco- 
rone. Vedi  Carducci,  Cantilene  e  Bal- 
late ecc.,  Pisa,  Nistri.  1871,  p.  176.  Il 
Cod.  Chig.  577  ha  la  Lauda: 

Alzando  lì  ocelli  e'  vidi  Maria  bella. 

Ama  chi  t'ama  e  chi  non  t'ama  lassa 

Cod.  Chig.  577  e  Riccaid.  2871  con 
la  variante  "Ama  donnacce.  „  Cos'i 
I'Alvisi;  ma  A.  Zenatti  (Riv.  Crit. 
Lett.  Ital.,  II,  p.  20)  avverte  che  si 
tratta  della  Ballata  di  Francesco  de- 
gli Organi:  "Ama,  donna,  chi  t'ama 
in  piena  fede  „  (Trucchi,  II,  155). 

Amar  se  ti  diletta 

Cod.  Chig.  577  e  Riccard.  2871  con 
la  variante   "Amor„. 

Amore  io  vo  fuggendo. 

Va  su  questa  la  Lauda  del  Magni- 
fico Lorenzo:  "Vieni  a  me  pecca- 
tore „.  Ed.  Cionacci. 

Amor  quando  nella  mia  mente  miro 
el  dolce  tempo  e  la  stagion  fuggita 

Cod.  Riccardiano  2224. 

Angela  che  mi  fai. 

È  nel  Cod.  30  CI.  VII  Magi.  L'altro 
cod.  119  CI.  35  Magi,  aggiunge: 

Angola  che  mi  fai 
cliantare  atte  venire. 

Vedila  qui  addietro  a  p.  93,  dalle 
Canzoni  a  Ballo  n.  93:  è  la  Canzone 
pubblicata  dal  Morpukoo  in  Biblio- 
teca di  letteratura  popolare,  Voi.  II, 
pag.  30: 

Auzolla  che  me  fai 

de  qucnze  qui  venire, 

le  gran  beUoze  eli'  ài 

hor  mi  te  piaza  aldire  ecc. 


TAVOLA  DEI  PRINCIPJ  ECC. 


477 


Anche  la  Lauda  di  ser  Glielo  prete 
del  cod.  Chigiano  n.  577  è  fatta  sul 
testo  di  questa  Canzone  a  hallo: 

Vergine  tu  mi  fai. 
orando  a  te  venire, 
perchè  non  restì  mai 
per  me  pregare  il  sire. 

O  carità 

Ronima  piata  ecc. 

Anima  ingrata,  da  ette  vuoi  seguire 

Ed.  1480.  Nell'ed.  1510:  "A.  i.,  da 
che  vuoi  partire  „. 

A  pie  d'un  cesto  delia  verde  erbetta 
Cod.  Riccardiano  2224. 

Apresso  un  fiume  chiaro 

Cod.  Riccardiano  2871  e  Laurenz. 
n.  87. 

Arai  tu  mai  pietà 

Cod.  Chig.  577  con  la  Lauda: 
Merzé  con  gran  piata. 

Ave,  tempio  di  Dio. 

Ed.  1480,  1485. 

Benché  'I  ciel  mi  sforzi  amarti. 
Ed.  1510  e  1512. 

Benché  partir  da  te  molto  mi  doglia 

Cod.  Riccard.  2871.  Pubblicata  fra 
le  Ballate  di  Fr.  degli  Organi  dal 
Trucchi  (II,  154);  e  forse  fu  da  lui 
soltanto  intonata  (v.  Carducci,  1.  e. 
320). 

Benedetto  ne  sia  lo  giorno 
Cod.  Chig.  577. 

Ben  finirò  questa  misera  vita. 

Ed.  1480  e  1512.  La  Lauda  di  Feo 
Bel  cari: 

Ben  finirò  cantando  la  mia  vita. 
Sempre  sia  ringraziato  el  dolce  idio 
che  m'  ha  tratto  dal  core  gran  disio 
et  facto  san  d'ogni  raoiial  ferita. 

Ben  lo  sa  Dio  s' io  son  vergine  e  pura. 

Ed.  1480, 1485, 1512  e  cod.  palatino 
n.  172. 


Ben  venga  Maggio 

Ed.  1485.  1510  e  1512.  È  la  nota 
Canzone  polizianesca  del  Maggio  "la 
quale  s'avea  a  cantare  per  donne 
nell'entrare  de'  giostranti  in  campo, 
et  coronandogli,  per  loro  amore  gio- 
stravano „  come  dice  la  rubrica  di 
un  antico  codice,  cit.  dal  Carducci 
nell'ediz.  delle  rime  volgari  del  Po- 
liziano, p.  295.  E  la  Canzone  dura 
a  cantarsi,  specie  nel  contado,  fin» 
quasi  ai  di  nostri.  Il  Cod.  Riccar- 
diano n.  1497  ha  una  Lauda  di  Lucre- 
zia de' Medici,  che  cantavasi  a  quel 
modo  : 

Ben  venga  Osanna 
ben  venga  Osanna 
e  la  figliuola  d'Anna  ec. 

Quest'altra  conservava  le  rime; 

Viene  '1  Messaggio 
viene  '1  Messaggio 
e  lo  Spirito  saggio  ecc. 

L'una  e  l'altra  sono  edite  nella 
raccolta  del  Cionacci,  Firenze.  IfiSO; 
e  con  esse  anche  due  altre  di  Lu- 
crezia ToRNABUoNi,  che  pur  vanno 
sull'aria  di  "Ben  venga  maggio,,  e 
sono  la  I:  "Ecco  '1  Messia,  Ecco  'ì 
Messia  E  la  madre  Maria  ,,  e  la  IVl 
"  Ecco  il  re  forte,  Ecco  il  re  forte, 
Aprite  quelle  porte  „. 

Berrlquocoll,  donne,  e  confortini. 

Ed. 1510.  E  di  Lorenzo  de' Medici. 
Vedi  Canti  rarnasciolesehi,  pag.  7. 

Bìen  vegnant  matres. 

Ed. 1485  e  1512,  nella  quale  si  nota^ 
"  Cantasi  come  ;  Ben  venghant  ma- 
tres. et  come:  Pover  preson  pur  ma- 
ledies.  „ 

—  Canto  (el)  dello  Imperatore. 

—  Canzona  (la)  dell'  Alloro. 
Ed.  1489. 

—  Canzona  (la)  di  Bardoccio. 
Ed.  1489. 

—  Canzona  (la)  di  ben  morire. 

—  Canzona  (la)  delle  Cicale. 

Vi  sono  due  Canti  carn.  delle  Cicale,, 
uno  (p.  565)  che  comincia:  '  Fuor  Ci- 


478 


TAVOLA  DEI  PRLN^CIPJ  ECC. 


cale  in  malora,  fuor  cicale  „  ;  Taltro 
(p.  3):  "  Donne,  siam  come  vedete  „, 
sulla  cui  musica  va  la  Lauda  del  Ma- 
gnifico: "Io  soli  quel  misero  ingrato,. 

—  Canzona  (la)  dei  Diavoli. 

Ed.  1510.  Probabilmente  è  il  Canto 
Carneseialesco  (p.  190)  di  N.  Machia- 
velli :  "  Gi.à  fummo,  or  non  siam 
più  spirti  beati,.  Altri  di  simile  argo- 
mento ne  composero  il  Giuggiola  e 
rOiTONAJO  (C.  carn.  328,  423). 

Canzone  (la)  del  Fagiano. 
Va  sulla  musica  di  essa  la  Lauda 
del  Magnifico:  "0  Dio,  o  sommo  bene, 
or  come  fai  ,. 

—  Canzona  (In)  della  Forese. 

Ed.  1489  e  Cionacci.  Va  sulla  sua 
musica  la  Lauda  del  Magnifico:  "  O 
peccatore  io  sono  Iddio  eterno  ,. 

—  Canzona  (la)  delle  Forese  di  Xar- 
cetri. 

È  del  Magnifico  (C.  carn.  5).  Va 
sulla  sua  musica  la  Lauda  del  Magni- 
fico stesso  :  "  Quanto  è  grande  la  bel- 
lezza,. 

—  Canzona  (la)  dei  Fornai. 

Ed.  1489.  Vedi  più  oltre  a:  "Donne 
noi  siamo  giovani  fornai  „. 

—  Canzona  (la)  della   Gelosia. 
Ed.  1510. 

—  Canzona  (la)  della   ingratitudine 

dei  peccatori. 
Ed.  1510. 

—  Canzona  (la)  delle  Nocciòle. 

—  Canzona  (la)  de'  Valenziani. 

Ed.  1489,  1510  e  Cionacci.  Va  sulla 
sua  musica  la  Lauda  del  Magnifico: 
"  O  maligno  e  duro  core  „. 

—  Canzona  (la)  de'  Vecchi. 

E  il  Canto  de'  Vecchi  e  Ninfe  [Canti 
carn.  109)  :  "  Ciascun  apra  ben  gli 
oreccbi  „.  Infatti  ncll'ed.  1510,  aUa 
lauda:  "  Deli  volgete  ognun  l'afletto  , 
trovasi  notato  :  "  Cantasi  come  la 
canzona  de"  veccbi,  cioè  :  Deb  guar- 
date in  quanti  affanni  ,  e  la  3«  strofa 
del  cit.  Canto  carnasc,  dove  comin- 
ciano a  parlare  i  veccbi,  incomincia 


appunto  :  "  Risguardate  in  quanti 
affanni  „. 

—  Canzona  (la)  de'  risi  addietro. 
Ed.  1489.  Va  sulla  sua  musica  la 

Lauda  del  Magnifico  :  "  Peccatore] 
su  tutti  quanti  „.Vedi  nei  C.  carn. (79) 
quello  d'uomini  che  iranno  col  viso  volto 
di  dietro. 

—  Canzona  (la)  di  ben  morii-e. 
Ed.  1510. 

—  Canzoni  (le)  a  Ballo. 

Cela  san  plus 

Ed.  1512.  'SnWOdhecaton  del  Pe- 
TEUcci,  n.  26.  (Vedi  Vernakecci, 
p.  236). 

Che  credi  fare,  amore 
Cod.  Cbig.  577.  È  la  3»  fra  le  IV 
Ballate  popolari  del  secolo  XV,  pub- 
blicate da  E.  Percopo,  Napoli,  1884 
(Per  nozze  Coccbia-Del  Franco). 

Che  degglo  ma'  più  fare. 

Ed.  1489. 

Chiamo  merzè  o  caro  signor  mio. 

Ed.  1485  e  1512.  La  Lauda  di  Fran- 
cesco d'Albizo: 

Cliiarao  merzè  Jesù  clemente  e  pio. 

Chi  ara  maj  pietà. 

Cod.  119  CI.  35  MagL  con  la  Lauda: 

Amanti  del  Signore. 

Chiarita  stella  mia 

Cod.  Chig.  577. 

Chi  guasta  l'altrui  cose  fa  villania. 
Ed.  1480,  1510  e  1512.  E  cod.  Eie. 
n.  1502  e  Magi.  SO.  367  e  744  CI.  VII 
e  Cbigiano  577.  È  la  nota  Canzone 
della  Lisabetta  cui  accenna  il  Boc- 
caccio (IV,  5)  e  die  trovasi  nelle 
Canzoni  a  Ballo  n.  114.  Fu  di  poi 
riprodotta  dal  Fanfani  nella  sua  ed. 
del  Decam.,  dal  Carducci,  p.  48,  e 
ultimamente,  riducendola  a  pretta 
forma  siciliana,  da  T.  Cannizzaro, 
(v.  Bass.  Bibliog.  Lettei:  Ital.  XI,  124). 


TAVOLA  DEI  PRIXCIPJ  ECC. 


479 


Vedi  in  proposito  di  questa  canzone 
I'Alvisi,  p.  22.  La  Lauda  di  Feo  Bel- 

CAKI: 

Chi  non  serve  Giesù  con  mente  pia 

fa  grandissimo  peccato. 

Chimera  adormentata 

Cod.  Bice.  2224.  Vedi,  più  corret- 
tamente: "Io  m'era  ecc.  „ 

Chi  mi  terrà,  amor,  che  io  non  canti 
Cod.  Cliig.  577.  E  di  Aniuìea  Ste- 
fani e  fu  pareccliie  volte  pubblicata: 
vedila  in  Carducci,  p.  331. 

Chi  serve  a  Dio  con  purità  di  core. 
Ed.  I-ISO,  1485. 

Chi  vedes&e  il  Carmagnola 
Chavalcar  per  lo  Bresciano. 

E  citato  in  una  Lauda  del  cod. 
Cln'g.  577  e  in  un'altra  del  cod.  307, 
CI.  VII  Magliabecbiano. 

Chi  vuol  ballare  a  righoletto. 

Cod.  Magi.  119  CI.  XXXV.  Il  Cod. 
Palatino  172  ha  questa  Lauda: 

Chi  vuol  ballare  al  regholetto 
muova  al  passo  a  Porghanetto. 
Muova  al  passo  al  dolce  suono 
lo  schanbetto  facce  buono, 
achordando  il  pie  col  suono, 
cliome  suona  l'angioletto  ecc. 

Chi  vuol  castagne 

Ed.  1510. 

Chi  vuol  l'anima  salvare 
faccia  bene  a'  pellegrini. 
Ed.  1485. 

Come  tradir  pensasti  donna  mai 

Chi  t'amava  con  fé'  più  c'altri  assai. 

Cod.    Rice.   2224.    Il    testo    è    nel 

cod.    151,    Kediano    della    Biblioteca 

Laurenziana.  Vedi  Cantilene  e  Ballate, 

p.  151. 

Com'  haggio  perduto 
la  dolce  mia  fatica. 

Ed.  1480.  E  quella  di  Leonaedo 
GiusTiNiAN,  ediz.  Wiese,  Bologna, 
Eomagnoli,  1883,  p.  11: 

Poiché  azo  perduta 
la  dolce  mia  fatica. 


Con  allegro  disio 

Cod.  Chig.  577. 

Con  desiderio  vo  cercando. 

Ed.  1485  e  1512  e  panciaticli.  27. 
In  quella  del  1512  si  nota:  "Cantasi 
come:  "Con  desiderio  vo  cercando,: 
et  come:  "La  vita  della  sglialera  ec. „ 

Conosco. 

Ed.  1485,  1510  e  1512.  È  religiosa, 
attribuita  a  Jacopone: 
Conosco  ben  clie  pel  ])eccato  mio  ecc. 

Ma  nell'ed.  1485  è  data  a  France- 
sco d'Albizo,  con  questa  nota:  "Que- 
sta detta  Lauda  ha  modo  proprio 
fatto  per  ser  Firenze  prete  „. 

Corona  delle  donne,  o  gentil  fiore 

Cod.  Chig.  577. 

Cosa  crudel  m'ancide. 

Kel  Laurenz.  n.  87  e  nel  Cod.  Chig. 
577  con  la  Lauda: 

Il  cor  mi  si  divide. 

Cosi  ti  faccia.  Iddio,  contenta  te. 

Cod.  Chig.  577. 

Creature  la  plus  bella 

Xel  Cod.  Chigiano  .'.77  è  detta 
"  canzona  franciosa  „  e  su  vi  si  can- 
tava la  Lauda: 

Sopr'ogni  stella  bella. 

Crocifìsso  a  capo  chino. 

Ed.  1510. 

Crudel  donna  ch'ai  lassato  me 

Così  il  Cod.  Palatino  n.  172.  Nel- 
l'ed. 1480  e  1512  si  ha:  "O  crudel 
donna  eh'  liai  lassato  me  ,,  ed  anche: 
"poi  che  lasciato  m'ai  „. 

Fra  le  canzonette  del  Giustinian 
[Bihl.  Leti.  ììop.,  II.  4)  ve  n' è  una 
che  appunto  comincia: 

O  crudel  donna  despietata 
che  lassato  me  hai  ecc. 

ma  non  può  essere  quella  che  qui  si 
cita.  Vedi:   "0  crudel  donna  ecc.  „ 

Cum  autem. 

Ed.  148.5. 


480 


TAVOLA  DEI   PRINCIPJ   ECC. 


Da  che  tu  mi  hai,  o  Dio,  il  cor  ferito. 

Ed.  1480,  148.5  e  1.510. 

Dal  giardino 

La  laude:  "  Maria  dolcie  che  fai  „ 
nel  cod.  Cliigiaiio  ,577  ha  la  nota  che 
"  cantasi  come  quella  canzone  che 
dicie:  Dal  giardino  „.  (Abbia  che  fare 
con  la  canzone:  "  Vidila  in  un  giar- 
din  ch'ella  s'andava  ,  cit.  nell'edi- 
zione 1485?) 

Dalia  più  alta  stella. 
Ed.  1510.  È  una  Lauda  del  Magni- 
fico Lorenzo. 

D'altra  amanza  procaccia 
Cod.  Chig.  577. 

Dammi  il  tuo  amor.  Gesù  clemente  e  pio. 

El.   1510. 

Dammi  la  morte,  dolce  Signor  mio. 

Ed.  1480. 

Da  poi  che  aggio  perduta. 

Ed.  1489  e  1.512.  Vedi  "  Com'ag- 
gio  perduta  „,  e  "Poi  che  ecc.  „ 

De'  anima. 

Ed.  1512.  Su  di  essa  si  cantava  la 
Lauda  di  Messer  Castellano: 

Alma  leggiadra  gratiosa  e  bella 

diva  et  fulgente  stella 

volta  la  luce  ingrata  al  divìu  sole. 

Dedutto  se'  a  quel  che  mai  non  fusti 

Cod.  Chig.  577. 

Deh  guardate  in  quanti  affanni. 
Ed.   1485,   1510   e   1512.  Vedi   qui 
addietro  Canzone  (la)  de'  Vecchi. 

De'  lucie  del  mio  cor  non  voler  ch'io 

Cod.  Chis.  577. 

De'  merzè,  crudele  amore. 

Ed.  1510  e  1512.  E  la  Canzona  del 
Trionfo  della  Pudicizia:  vedi  Jiìhì. 
Lett.  pop.,  I,  .'ìi).  La  Lauda  di  Barto- 
lomeo DI  B.  è: 


De'  merze,  Uiesu  amore, 
di  me  raiser  peccatore 
non  guardare  a'  mìei  difetti 

Deh  quel  che  dentro  a  me  vampeggia. 

Ed.  1480. Vedi:  "Do  che  è  quel  ec.  „ 

De'  sappiatevi  guardare 
0  garzon  di  non  tor  moglie. 

Ed.  1485.  E  nell'ed.  1512  si  nota: 
Cantasi  come:  "De  ecc.,  et  come: 
"  Horamai  sono  in  età,.  La  Lauda  di 
Piero  di  Mariano  Muzi: 

Deh  sappiatevi  guardare 
da  cattive  compagnie 

Deh  torna  omai  pecorella  smarrita. 

Ed.  1510. 

De'  volgi  li  occhi  tuoi  piatosi  in  giù 

Cod.  Chig.  577.  Ed.  1510:  "Deh 
volgi  gli  occhi  „. 

Di  sospirar  sovente 

Cod.  Chig.  577.  11  testo  fu  pubbli- 
cato dal  Carducci,  Cantilene  e  Ballate, 
pag.  132. 

Diletto  non  spero  d'aver  mai 

Cod.  Chig.  577.  E  anche  col  se- 
condo verso:  "Poi  che  lei  per  viltà 
lassai  ,  nel  cod.  illustrato  da  T.  Ca- 
sini: Vn  repertorio  giullaresco  del  se- 
colo XIV.  Ancona,  tip.  dell'Ordine, 
1881,  p.  16. 

Dimm',  dolze  Maria,  a  che  pensavi. 
Ed.  1485.  1510.  Vedine  la  notazione 
musicale  in  E.  Levi,  Lirica  ital.  an- 
tica, Firenze,  Olschki,  1905,  pag.  67. 

—   Dingherlindina  (la). 
Ed.  1485  e  cod.  Palatino  172. 

Dio  mi  guardi  di  peggio 

Cod.  Chig.  577  e  Laurenz.  n.  87. 

Di  tuo  ben  pieni. 

Ed.  1510  e  1512  con  la  variante 
"  De  tu  „.  La  Lauda 

Dì  tutto  bene  sé'  forte  eterno  idio 
e  sé'  quel  sommo  ben  desiderato. 


TAVOLA   DEI   PRINCIPJ   ECC. 


481 


Do  che  è  quel  che  dentro  a  me  vampeggia. 

Ed.  USO  e  1512.  E  così  anche  nel 
cod.  367  CI.  VII  magliabechiano.  Il 
Chigiano  577  legge:  "Or  ecc.  „  Vedi 
sopra:  "Deh  ecc.  „. 

Dolze  fortuna,  omai  rendimi  pacie 

Cod.  C'iiig.  577,  con  la  L.auda: 
Dolze  signor,  de' don' all'alma  pacie. 

Donna  che  d'amor  sente 

Cod.  Chig.  577. 

Donna  s' i'  t'ò  fallito 

Cod.  Riccard.  2.871  ;  Laiirenz.  87  e 
Panciaticli.  26,  che  nota  essere  stata 
musicata  da  Fr.  degli  Organi.  Vedi: 
"  S' io  t'  ò  fallito  ecc.  ,. 

Donna  sti  mie'  lamenti. 

Nella  ed.  1+85  è  pur  citata  co- 
me: "Donna  questi  lamenti,.  E  nel 
cod.  1502  Riccardiano  :  "  Donna  que- 
sti mit'  lamenti  „.  Nella  ed.  1489  si 
trova  con  questa  nota  :  "  Cantasi 
come:  Donna  esto  mio  lamento:  Vi- 
nitiana  ,.  E  nell'ed.  1512:  "Cantasi 
come:  L'amore  a  me  venendo  „  et 
come  :  "  Donna  questi  lamenti.  „  E 
del  GiusTiNiAN,  ediz.  Wiese,  p.  1.59. 
Vedi  anche  Canzoni  a  ballo,  n.  87.  La 
riproduce,  sec.  il  CTadd.  Laurenz.  61. 
I'Alvisi,  p.  59,  e  cos'i  pure  il  Mok- 
PURQO  in  Bibl.  Leti,  pop.,  II,  56. 

Donne  chi  vuol  far  filare 
lino,  stoppa  over  capecchio. 

Ed.  US5  e  1512.  Le  rime  del  Canto 
carnascialesco  sono  cosi  conservate 
nella  Lauda: 

Chi  salute  vuol  trovare 
guardi  nel  divino  specchio. 

Donne  gentil,  di  gran  slam  mercatanti. 

Ed.  1510.  E  il  Canto  carnascialesco 
di  Gio.  Francesco  del  Bianco.  Vedi 
Canti  carnascialeschi ,  pag.  255. 

Donne  no'  slam  giovani  fornaj. 

E  pur  citata  come  la  canzona  de' 
Fornai.  V.  Canti  carnascialeschi,  Tp.  39. 


Ecco  il  Messia. 

Ed.  1510.  E  una  Lauda  di  madonna 
Lucrezia  Toenabuoni-Medici,  e  la 
musica  ne  è  data  nel  cit.  libro  di 
E.  Levi,  Lirica  italiana  antica,  p.  96. 

Eccho  la  primavera 

Cod.  Chig.  577  e  Laurenz.  87. 
Egli  è  tutt  bon  homme. 

Ed.  1485  e  1512:  con  questa  va- 
riante :  "  tutto  bonome  „  forse  è  una 
canzone  francese,  italianizzata  alla 
meglio.  Così  comincia  la  Lauda: 

Egli  è  il  tuo  buon  Jesù 
che  ti  darà  il  tuo  amore, 
egli  è  Jesù  aiguore, 
egli  è  '1  tuo  buon  Jesù  ecc. 

Ero  beato  e  mò  sono  Infelice. 

Ed.  1485,  1510  e  1512.  La  Lauda: 

Io  fu'  creato  a  essere  felice  : 
pensate  in  alto  et  io  penso  alla  terra, 
omè  ch'io  sono  condotto  in  tutta  guerra. 

E  in  un  tempo  fatta  ero. 

Ed.  1510  e  1512. 

En  suso  in  su  quel  monte 
chiara  vi  surge  la  fontanella. 

Ed.  1485.  Vedi  :  "  In  su  quel  mon- 
ticello.  , 

Et  se  gli  è  'I  vero. 

Ed.  1512,  che  dice  "  Cantasi  come  : 
"Et  se  gliel  vero„,  et  come  gli  Stram- 
bocti  „.  Il  modo  era  proprio  ad  una 
Lauda  di  Feo  Belcari  per  le  Murate  : 

O  gloriosa  regina  del  mondo 
soccorri  le  tue  serve 

—  Fagiano  (el). 

Ed.  1489.  Canto  d'  incerto,  che 
comincia:  "Portiam,  donne,  per  voi 
questo    fagiano  „.   (0.  carn.,  p.  113). 

Fammi  per  grazia  del  tuo  piacer  degno 
così  da  lungo  per  vederti  vegno.  (i) 
Cod.  Rice.  2224. 

—  Farunfera  (Ut). 

Vedi:   "Il  cervel  mi  fa,. 


(1)  L'Alvisi  ha  veramente  regno,  ma  sembra  un  error  di  stampa  o  di 
lettura  evidente. 


D'Ancona,  La  i>oesia  pop.  ital.  —  31 


482 


TAVOLA  DEI  PKLN'CIPJ   ECC. 


Fedel  e  bel  cagnìolo. 

Il  coJ.  Palat.  169  ha  pure  la  Lauda  : 

Benigno  et  dolze  agnìello  che  ti  riposi 
in  braccio  a  Gniesa  tua  diletta  sposa. 

Ferri  vecchi,  rami  vecchi. 

Ed.  USÒ  e  Cod.  119.  CI.  .35  Magi. 
L'ed.  1512  nota  '^Cantasi  come:  L'iier- 
ba buona  è  sempre  buona,.  Vedi  Canti 
carnascialeschi,  pag.  119. 

Finch'  i'  vivo  e  po'  la  morte. 

Ed.  1510  e  1512.  Vedila  per  intero 
in  A.  Saviotti,  Rime  ined.  del  se- 
colo XV.  Bologna,  Fava  e  Garagnani, 
1893,  p.  30. 

Fora  fora,  ingrata. 

Ed.  1510  e  1512.  La  Lauda: 

De'  contempla  auiiua  ingrata 

alla  morte  acerba  e  rea 

quonìam  conturbat.i  sunt  omnia  ossa  mea 

Fortuna  disperata. 

Ed.  1485  e  1512.  Musicata  da  Jo. 
Pinarole  è  nell" OdfeecatoH  del Petrucci 
(vedi  Vernarecci,  p.  241  e  243).  I 
primi  quattro  versi,  in  V.  Rossi,  Let- 
tele di  A.  Calmo,  p.  421. 

Franza  e  Franza. 

Ed.  1510.  È  forse  il  Cauto  carna- 
scialesco (p.  571): 

Fransa,  Fransa,  viva  Fransa 
colla  sua  perfetta  usanza 

Nel  Feeraei,  Bihl.  leu.  pop.,  I,  17, 
comincia:  "  Franza.  Fiandra,  viva 
Pranza  Con  la  lor  perfetta  usanza  ec.„ 

Fuor  cicale  in  malora  fuor  cicale. 

Cfr.  Canzona  (la)  delle  Cicale. 

Galantina,  morosina. 

Ed.  1485  0  1512  con  la  variante: 
"  G.alatina  etc.  „  e  Cod.  30  CI.  VII 
Magi.  Comincia  la  lauda: 

Vergine  alta  regina 

Genitrice  di  Dio. 

Ed.  1485. 


Gentil  madonna  non  mi  abbandonare. 
Ed.  1480,  1485  e   1512.  La  Lauda 
così  comincia: 
Humil  madonna  non  mi  abbandonare 
degnia  per  me  il  tuo  figliuol  pregare. 

Gesù,  fammi  morire 

Ed.  1510. 

Gesù,  sommo  diletto  e  vero  lume. 
Ed.  1485  e  1510.  Una  poesia  spiri- 
tuale del  Savonarola  (ediz.  Audin 
de    Rians,   p.   41)    comincia:    "Gesù 
splendor  del  cielo  e  vero  lume  ,. 

Giorno  perchè  mi  fai 

Il  Cod.  Chig.  577  nota  die  "  fé  ci  e 
Vanni  _. 

Giovinetti  con  fervore. 

Ed.  1485, 1510  e  1.512  e  Cod.  SS.  An- 
nunziata n.  154.5.  È  il  rifacimento 
sacro  del  Canto  carnascialesco  delle 
Vedove  e  de' Medici: 


De  maestri 
riparate  al 


con  fervore 
LOstro  onore. 


Giù  per  la  villa  lunga 
la  bella  se  ne  va. 
La  ma'  tornò  dal  santo 
trovò  il  figliuol  mala. 

Ed.  1485.  1512  e  cod.  Magi.  119 
CI.  35  con  la  variante:  "  Ciiù  per  la 
valle  lunga,.  L'altro  cod.  Magi.  367 
CI.  VII  ha  "  Giù  per  la  via  lunga  „. 
È  riportata  per  intero  dall'ALVisi. 
pag.  66.  Il  cod.  367  CI.  VII  Magi,  ed 
il  n.  1.545  SS.  Annunziata  hanno  la 
Lauda  (che  nell'  ediz.  1485  è  col  nome 
di  Feo  Belcari)  : 

Giù  per  la  mala  via 
l'anima  mia  ne  va  : 

s'ella  no'  ha  soccorso 
I>rcsto  morta  sarà. 

Giuroti,  donna,  per  la  fede  mia. 

Ed.  1480,  1512  e  Cod.  M.agl.  744 
CI.  VII  e  Chig.  577.  È  una  b.aÌl.ita  di 
Matteo  de"  Grifoni,  riportata  dal 
Carducci,  pag.  327  :  "  Zurote  donna 
ecc. . 


TAVOLA   DEI   PRIXCIPJ   ECC. 


483 


Guardami,  donna,  un  poco 
Ood.  Chig.  577,  con  la  Lauda: 

Guardami,  anima,  un  poco 

Guerriera  mia. 
Ed.   U85  e  1512,  e  Cod.  30  e  744 
CI.VII  Magliabechiano  e  Cliigiano  577. 
È  quella  del  Giustinian: 

Guerriera  mia,  consenti  a  mi 
esti  lamenti  un  pocho  aldire  ecc. 

Cfr.  Mazzatinti,  Ms.  iteti,  delle 
Bibl.  di  Francia,  II,  269:  "  Guerriera 
mia  consentirne  „  ;  e  vedila  per  intero 
in  S.  MoRPrRGO,  Canzonette  e  Stram- 
botti in  un  codice  veneto,  nel  voi.  2" 
della  Bibl.  di  lett.  pop.,  p.  31. 

Guerra  e  pace  e  pace  e  guerra. 

\e  ha  un  rifacimento  il  Codice 
SS.  Annunz.  1545. 

Horamai  che  fora  sono. 

Vedi:  "  Ora  mai  „. 

Humllmente  ad  te  eh'  i  son  venuto 

Cod.  Chig.  577. 

damai  fan  bua  je  vous  revojé. 

Ed.  1480.  I  cod.  Magi.  744  CI.  VII 
e  Chig.  577  leggono  meglio:  "  Jamais 
tant  que  je  vous  revoje  ,,  A  quel 
modo  si  cantavano  due  Laudi  : 

Giamai  laltlarte  quanto  degna  se\ 
Kou  si  può  dir  l'amor  che  '1  magno  re. 

Jam  pris  amore. 

Ed.  1485  e  1512  con  la  variante: 
"  J'a  pris  amour  „.  È  neW Odhecaton ; 
vedi  Vernarecci,  p.  23.3. 

Jamo  alia  caccia. 

Ed.  1489;  ed  è  anche  nel  Pan- 
ciatich.  27.  È  il  principio  di  un  canto 
romanesco,  di  cui  un'antica  stampa 
è  nella  Mise.  Palatina  di  Firenze  : 

Jamo  alla  caccia  su  su  alla  caccia 

su  su  su  su  ognun  se  sacia. 
Per  la  porta  pertusa 

ne  andarimo  in  questa  mattina 

senza  far  jiiù  possa 

a  la  tristiberina, 

che  gli  è  tempo  di  andare  ecc. 


Vedila  riferita  per  intei'o  dal  Car- 
ducci, Cacce  in  rima  dei  sec.  X/T^ 
e  XV,  Bologna,  Zanichelli,  1896,  e  in 
varia  lezione  da  E.  Lovaeiki,  Bass. 
hihliogr.  lett.  ital.,  V,  146. 

Una  canzone  Su  alla  caccia  è  ri- 
cordata nella  Rappresentazione  di  S. 
Uliva  (Rappres.  sacre,  HI,  259). 

Il  beilo  smerlo  da  me  s'è  fuggito 

Xel  cod.  Cliigiano  577  si  trova 
pure  la  Lauda: 

Giesò  Cristo  da  me  s'  è  fuggito 

Il  cervel  mi  fa  tutto  el  di  e  la  sera 

Ed.  1510  e  1512.  Vi  si  nota  "  Can- 
tasi come  la  Farunfera  cioè:  Il  cer- 
vel ecc.  „  L'Aretino  neirj}jo<:ri7o  ri- 
corda la  Canzone: 

Fara  rirunfera,  farà  rirunfà. 

Il  primo  di  di  maggio 
Canta  l'uciel  selvaggio 

Cod.  Chig.  577. 

Il  senno  e  be'  chostumi  e  lo  splendore 
Cod.  Chig.  577. 

In  su  quei  monticello. 

Ed.  1485  e  1512.  Vedi:  "  En  suso 
in  su  quel  monte,.  Il  cod.  Chigiano 
577  aggiunge: 

In  su  quell'alto  monte 

è  la  fontana  che  trabochella 

drento  vi  si  bagna 

bella  fantinella. 

Una  lauda  del  b.  Giov.  Colombini 
(Cod.  Palatino,  n.  172)  comincia: 

In  su  quell'alto  monte 

è  la  fontana  che  trabochella 

d'oro  si  ha  le  sponde 

ed  è  d'argento  la  sua  chanuella. 

Vedine  la  notazione  musicale  in 
E.  Levi,  Lirica  ital.  ant.,  p.  130. 

In  te,  domine  speravi. 

Ed.  1510.  Musicata  da  Josquino  : 
vedi  Vernarecci,  p.  270. 


484 


TAVOLA   DEI  PRINCIPJ   ECC. 


Invidia  al  ciel  nimicha. 

Cod.  30  CI.  VII  Magi. 

lo  m'era  adormentata 

cotanto  dolcemente  udi'  cantare 

Cod.  Chig.  577  con  la  Lauda: 

Io  m'er.i  adormeutato 

e  nel  pechato  forte  era  moitale. 

Insegnatemi  Gesù  Cristo. 

Ed.  148.5. 

r  seminai  lo  campo. 

Ed.  1485  e  1512.  Vi  si  nota.  "  Can- 
tasi come:  I'  seminai  lo  campo,  et 
come  gli  Strambotti  „.  Fra  le  poesie 
del  Poliziano,  pag.  266;  ed  il  Car- 
ducci pubblicò  l'intero  Rispetto: 

I'  seminai  lo  campo  e  altri  il  miete  ; 
aggiorni  spesa  la  fatica  invano  ecc. 

r  so'  ben  perchè  m'ài  lasciato  amore 

Cod.  Cliig.577.Vedi:  ".So  ben  ecc., 

r  son  l'angiol  buon  di  Dio. 

Ed.  148.5. 

I'  son  più  perfida  ingrata 
che  mai  fosse  donna  alchuna. 

Ed.  1512.  La  Lauda  : 

I'  son  più  perfida  ingrata 
che  mai  fusai  anima  alcuna   . 
di  virtù  priva  et  digiuna 
et  ne'  vitii  nutricata. 
Quando  mi  ritorna  a  mente 
come  Dio  mi  fece  bella  ecc. 

r  son  quella  villanella. 

Ed.  1510  e  1512.  Ne  fu  pubblicato 
il  testo  dal  Flugi  nei  Eomaniisdie 
Studien  del  Boehmer,  Strassburg  1875, 
Voi.  L  pag.  697: 

Io  son  quella  villanella 

poverina  sconsolata 

dal  mio  padre  abbandonata  ecc. 

La  Lauda  di  messer  Castellano 
dice  : 

I'  son  quella  pecorella 

che  '1  pastor  d'amore  infiamma  ecc. 


I'  son  l'uccel  che  sopra  rami  d'oro 
Ed.  1510  e  1512.  È  nel  libro  IV 
delle  Frottole  del  Petrucci.  musicata 
da  Marco  Cara.  (Vernarecci,  p.  253). 
La  Lauda: 

Io  son  Gìesù  che  sopra  e  rami  d'oro 
d'un  verde  legno  in  croce  mi  lamento. 

r  son  più  mal  maritata. 

Ed.  1510  e  1512.  Vedi  in  Casini, 
Un  Repertorio  giullaresco,  p.  25,  la 
Canzone:  "Ch'io  me  so  malmarita- 
ta  „  .  Una  Canzone  della  malmaritata 
è  in  Menghini,  Canz.  ani.  del  pop. 
ital.,  Roma,  1890,  p.  10.  E  in  genere 
sull'argomento,  vedi  Novati,  Malma- 
ritata, Canzone  a  ballo  lombarda  del 
see.  XV,  Genova,  1890. 

r  ti  riveggo  bella. 

Ed.  1480. 

r  veggo  ben  che  'I  ben  servire  è  vano. 

Ed.  1480  e  1512.  È  pure  nei  codici 
Riccardiano  n.  1502,  Magliabecliiaui 
367  e  744  CI.  VII  e  119  CI.  XXV  e 
Chigiano  n.  577  con  la  variante  "bon„ 
che  è  pure  nell'originale  del  Giu- 
stinian  (ed.  Wiese,  p.  385).  La  Lauda 
era: 

veggio  che  '1  servire  al  mondo  è  vano 

r  veggio  ben  ch'amor  m'è  traditore. 

Ed.  1480,  1512  e  Cod.  Magi.  367 
CL  VII  e  Chigiano  577.  Nell'ed.  1512 
si  nota  "  Cantasi  come:  Piangi  isven- 
turato.  et  come  Io  veggio  ben  ch'amor 
m'ò  tiaditore:  et  come  Sia  benedetto 
il  d'i  „.  E  del  GiusTiNiAN  (ed.  Wiese. 
287).  Un  testo  toscano  è  nel  cod. 
P.alatino  241  della  Bibl.  Naz.  di  Fi- 
renze. Altro  testo  nel  cod.  parigino 
illustr.ato  dal  Mazzatinti  (II,  26S), 
e  nel  marciano  346  (Bibl.  leti,  pop., 
II,  26). 

Lacrimosa  afflitta  e  stanca. 

Ed.   1480. 

La  bionda  trezza 

Nel  Lanreuz.  87  e  nel  Cod.  Chig. 
577  con  la  nota  "  di  Vanni  ..  Non  ò, 


TAVOLA  DEI  PKINCIPJ  ECC. 


485 


come  credette  I'Alvisi,  la  canzonetta 

del  GlCSTlNIAN: 
Vegio  la  bionda  treza  e  'I  vello  ad  auro. 

L'albero  delle  ghiande 

Ed.  1510. 

—  Lamentazioni  (le) 
Ed.  1480. 

Lamento  di  Geremia  profeta. 

Ed.  1480. 

L'amor  del  tuo  bel  viso  si  m'achora 

Cod.  Chig.  577,  con  la  Lauda: 
L'amor  di  Giesii  Cristo  si  m'accora 

L'amore  a  me  venendo. 

Ed.  1485,  1510  e  1512.  Il  Cod.  Palat. 
169  legge: 

L'amore  ch'a  me  venendo 

Il  Cod.  Palatino  n.  172  ha  una 
Lauda  che  cosi  comincia: 

L'amore  a  me  venendo 
sim  m'  a  ferito  il  chore 
sicché  chon  gran  fervore 
strugomi  e  vo  languendo  ecc. 

Ma  il  cod.  Chig.  577  ne  ha  un'altra 
che  si  cantava  a  quel  modo: 

D'amor  tutto  m'acciendo. 

La  morte  eh'  è  spavento  de'  felici 

Ed.  1485. 

La  puerli  bellezza. 

Ed.  1512.  Vi  si  nota:  "  Cantasi 
come:  Kon  son  più  innamorato  :  et 
come:  La  pueril  bellezza:  et  come: 
Più  bel  viso  del  sole  „. 

Laudate  el  sommo  Dio 

Ed.  1480,  1485,  1510. 

Laudato  idio  ch'io  son  fuor  di  tuo  trame. 
Ed.  1510,  1512.  La  lauda  è: 

Laudato  Dio  eh'  i  son  fuor  de'  legami 
delle  mie  grieve  colpe  inveterate. 

Lassa  quanto  son  lo. 

Ed.  1485  e  1512. 


La  vita  della  sgalera. 

Ed.  1485  e  1512.  Il  cod.  Chig.  577 
ha  una  Lauda  "Da  poi  che  '1  mondo 
rio  „  con  questa  nota  :  "  Cantasi  a  modo 
de'  canti  di  gh.alea  quando  si  voglia, 
e  in  SU:  Dappoi  che  '1  mio  messere,. 

La  vita  non  mi  piace. 

Ed.    1510   e    1512.   Una  Lauda   di 
Berto  delle  Feste  cosi  comincia: 
La  vita  non  mi  piace 
scliorretta  e  senza  guida 
di  questo  mondo  misero  e  fallace. 

L'erba  buona  è  sempre  buona. 

Ed.  1485,  1512  e  Cod.  119  CI.  .35 
Magi,  e  Palatino  172  con  la  nota: 
"Cantasi  come:  L'erba  ecc.  et  come 
le  Canzone  a  ballo  „.  La  Lauda: 

L'oratione  è  sempre  buona, 
se  la  carità  la  sprona. 

Leggiadra  damigella. 

Ed.  1480,  1512  e  Cod.  Magi.  367 
CI.  VIL  11  Cod.  30  CI.  VII  Magi.,  come 
il  Chig.  577,  aggiunge: 

Lezadra  damigella,  o  signor  mio. 

E  COSI  il  Cod.  Eie.  1502: 

Lezza'  danmizella,  o  signor  mio 

Kell'ed.  1480,  1512  si  nota:  "  Can- 
tasi come:  Leggiadra  damigella,  et 
come:  Molto  m'è  a  noia  de  lo  mio 
messere  „. 

Leggiadra  diva  e'  mi  convien  perire. 
Ed.   1480,  1512  e  cod.   Chig.   577. 
Le  ed.  1485  e  1512  hanno  per  va- 
riante   "partire,.  11  cod.   Rie.    1502 
aggiunge  : 

Lezadra  diva  eh'  el  mi  conven  partire 
tu  sa  ben  coutra. 

Levami  d'un  bel  mattino 
alla  stella  Diana. 

Ed.  1489.  Il  Cod.  30  CI.  VII  Magi, 
corregge  : 

Levami  un  bel  mattino 
alla  stella  Diana. 

Cfr.  colla  Canzonetta  musicata  da 
G.  B.  Zesso  e  stampata  nella  rac- 


486 


TAVOLA  DEI  PRDs'CIPJ  ECC. 


colta  musicale  di  A.  Antico:  "  Me 
levava  una  mattina  Per  andar  ad 
un  giardino  eec.  „  che  è  pur  riferita 
da  A.  Zenatti,  A.  A.  da  Montone, 
p.  28  deirestr.  dall' Archivio  per  Trie- 
ste ecc.,  e  dal  Reniek,  Giorn.  st.  Leti, 
ita!:,  XXII,  388.  Vedi  in  proposito  di 
questa  canzone  e  di  una  probabile 
fonte  francese,  E.  Lovarini,  Canz. 
pojìol.  in  Buzzante,  p.  19  dell'estr.  dal 
Fropiignatore.  E  cos'i  anclie  qui  ad- 
dietro a  pag.  98  e  segg. 

Levati  su  ornai. 

Ed.  1489. 

Madonna  il  vostro  core 
piacciavi  aumiliare 
Cod.  Chig.  577. 

Madre  che  fosti  colui  che  ti  fece. 

Ed.  1480.  Vedine  la  notazione  mu- 
sicale in  E.  Levi,  p.  100. 

Maggio  valente. 
Nel  cod.  Magi.  686  CI.  VII  si  nota: 
"  Cantasi  come  Maggio  valente,  e  ri- 
pigli ogni  volta  il  verso  „.  La  Lauda 
del  cod.  Chigiauo  577  è: 

Grande  allegrezza  ne  porta  la  gente. 

Mamma  l'erba. 

Cod.  Palat.  169. 

Ma'  si  debba  disperare. 

Ed.  1512. 

Mercè  ti  chiamo,  dolce  anima  mia. 

Ed.  USO,  1512  e  Cod.  Cliigiano  577. 
È  del  GiusTiNiAN.  11  Mazzatinti  ne 
riferisce  (II,  267)  il  primo  e  ultimo 
verso,  come  di  Strambotto  adespoto. 
Il  WiESE,  Neunzehn  Lieder  L.  Giusi., 
Ludwigslust,  1885,  lo  riporta  per  in- 
tero: ha  14  versi.  La  Lauda: 

Mercè  ti  chiamo  vergine  Maria, 
mercè  ti  chiamo  di  Dio  madre  e  nposa, 
mercè  ti  chiamo,  che  non  truovo  posa, 
mercè  ti  clùamo  per  la  jiena  mia. 

Mio  ben,  mio  amor. 
Ed.  1485  e   1512.  Una   Lauda  di 
Feo  Belcari  cosi  appunto  comincia: 


Mio   ben,  mio  amore 

mia  gioia  e  mio  disio, 

se'  tu  Giesu  letitia  del  mio  core 

cantando  vengo  a  te  dolce  mio  Dio. 

Miserere  al  mio  languire. 

Ed.  1510  e  1512.  La  Lauda  così  co- 
mincia: 

Miserere  al  mio  fallire, 

o  Maria  sola  regina, 

tomi  tanta  disciplina, 

nello  tuo  amor  fammi  morire. 

Molti  son  da  Gesij  nel  ciel  chiamati. 

Ed.  1485,  1510. 

Molto  m'è  a  noia  de  lo  mio  messere. 

Ed.  1480  e  1512  con  la  variante 
"  m'annoia  „. 

Mon  Seul  plesir,  ma  dolce  Joy  e. 

Ed.  1480,  e  anche  soltanto  "  Mon 
Seul  plaisir ,  come  nell'ediz.  1485; 
1512  "  Monseu  psalire  „.  Altrove,  pur 
nelle  ed.  1485  e  1512:  "Mon  sir  pra  „ 
e  "  Monsir  prasi  „. 

Mort'  è  l'anima  mia. 

Ed.  1510. 

Morte  0  merzè,  gentil  aquila  altera. 
Ed.  1480  e  1512.  Nell'ediz.   1485 
soltanto  :    "  Morte    merzè  „    Il    cod. 
SS.  Annunziata  1545  ha  anche  la  Lau- 
da di  Feo  Belcari: 

Anima,  mia  contempla  il  mio  patire  : 

i'  sono  Dio  Jesù  dolce  Signore 

elle  per  tuo  amore  -  in  croce  vo  morire. 

Nessuno  in  gioventù  ponga  il  desio. 

Ed.  1485,  1510  0  1512.  È  .sacra. 

Nella  bellezza  del  sommo  splendore. 
Ed.  1480. 

Né  tte  né  altra  voglio  amar  giammai 

falsa,  po'  che  cosi  tradito  m'ài. 

Cod.  Chig.  577  con  la  nota:  "Fatta 

per  Vanni  „.  Il  testo  è  nel  cod.  1394 

CI.  VII  Magliabechiano.  Cos'i  I'Alvisi; 

ma   come   di  Franco   Sacchetti   (e 


TAVOLA  DEI  PRINCIPJ  ECC. 


487 


Franciscus  de  Organis  sonum    dedit] 
è  nel  Carducci,  p.  223.  La  Lauda  è: 

Altro  che  te  non  voglio  amar  giamai 
madre  di  Dio  eli'  illuminato  ci  ài. 

Noi  Siam  tre  pellegrini. 

Ed.  1485.  Nell'ed.  1510:  "  Cantasi 
come  :  Noi  slam  tre  pellegrini,  e  come  : 
l' seminai  lo  campo,  e  come  gli  Stram- 
botti „.  E  nell'ed.  1512:  "  Cantasi  co- 
me: Noi  Siam  tre  pellegrini,  et  come 
e  Rispetti,  et  a  ballo  „. 

Non  à  lo  cor  gentile. 

Cod.  30  CL  VII  Magi,  e  cod.  Cliig. 
577  e  SS.  Annunziata  1544.  In  questo 
si  avverte:  "Cantasi  come:  0  rosa 
mia  gentile,  e  come:  Non  à  lo  cor 
gentile  „.  La  Lauda  è: 

Alma  ch'e  ssl  gentile 

Ma  c'è  una  Lauda  che  pure  co- 
mincia: 

Non  ha  lo  cor  gentile 

chi  te  Maria  non  serre  per  amore, 

che  sempre  a  tutte  1'  hoi-e 

tu  preghi  Dio  pel  peccatore  umile. 

Non  c'è  magior  diletto 

che  sempre  agientll  donna  star  sugietto. 

Cod.  Cliig.  577. 

Non  chieder,  donna,  che  l'ardente  fiamma 

Il  cod.  Chigiano  577  ha  pure  que- 
sta Lauda: 

Non  chieder,  alma,  che  la  dolze  fiamma 

Non  creder,  donna,  che  nessuno  sia. 

Cod.  Chigiano  577,  e  Riccard.2871 
con  la  v.ariante  "  nessuna  „.  E  del 
Sacchetti:  vedi  Carducci,  289. 

Non  più  guerra  eh'  io  m'arrendo. 

Ed.  1510  e  1512.  Una  Lauda  di  mes- 
ser  Castellano  cosi  comincia  : 

Non  più  guerra  ch'io  m'arrendo  : 
lasso  omè  Giesu  che  fai  ? 
col  tuo  sangue  vinto  m'hai. 
Non  più  guerra  eh'  i  m'arreudo  : 
lasso  omè  Giesu  che  fai  ? 

Non  son  piili  innamorato. 

Ed.  1480,  1512  e  Cod.  SS.  Annun- 
ziata 1545.  La  Lauda  diFEoBELCARi  è: 


O  peccator  ingrato, 

per  te  sostenni  pene, 

et  sono  il  sommo  bene  -  che  t'  ho  creato. 

Non  so  perchè  si  sia. 

Ed.  1480,  1510  e  1512  e  Cod.  Chi- 
giano  577.  Anche  il  cod.  Magi.  744 
CI.  VII  dice  come  l'ed.  1480,  1512; 

Non  80  perchè  sì  sia. 
Signor  a  questa  volta. 

E  fra  le  Canzoni  a  ballo  n.  74.  Una 
Lauda  di  Beenaedo  Giambullari. 

Nou  so  anima  mia 

come  tu  se'  si  stolta 

che  ti  sie  tolta  -  dalla  voglia  mia. 

Non  so  perchè  tu  m'ài  lasciato  amore 

Cod.  Chig.  577. 

Nunquam  fu/t  poena  ma/or. 

Ed.  1485.  Musicata  dal  Trombon- 
cino. E  neìVOdhecaton  (v.  Vernaeec- 
ci,  p.  235). 

0  benigno  Signore. 

Ed.  1485,  1510,  1512.  In  questa  si 
nota:  "Cantasi  come:  0  rosa  mia 
gentile  et  come:  O  benigno  signore „. 

0  canzonetta  mia. 

Ed.  1480,  1512.  È  del  Giustiniax 
(ediz.  Wiese,  p.  21,  e  Bill.  leti,  pop., 
II,  20).  Nel  cod.  30  CL  VII  Magi,  e 
nel  Chigiano  577  si  trova  la  Lauda: 

Dolce  preghiera  mia 

con  sospir  lachrymosa 

vanne  a  Maria  pietosa 

che  siede  in  ciel  sopr'ogni  gelarchia. 

0  chor  del  corpo  mio  perchè  mi  fai 

Cod.  Chig.  577  con  la  Lauda: 
O  uom  fatto  da  Dio  ijerchò  mal  fai. 

0  crucifìsso  che  nel  ciel  dimori. 

Ed.  1480;  nell'ed.  1485  solamente: 
"  0  crocifisso  „. 

0  crudel  donna  eh'  hai  lassato  me. 

Ed.  1480  e  1512.  La  variante  "poi 
che  lasciato  m'  hai  ,  indica  che  è  il 
principio  della  ballata  del  Poliziano 


488 


TAVOLA   DEI   PRIN'CIPJ   ECC. 


pubblicata  dal  Carducci,  pag.  350,  che 
appuuto  comincia: 

Crudel  donna,  poiché  lasciato  liai  me 
per  un  altro  amadore  ecc. 

Non  dissimile  è  la  Canzonetta  del 
GiusTiNiAN  :  "  0  crudel  donna  di- 
spietata Che  lasciato  mi  bai,  ecc.  „ 
(ediz.  Wiese,  p.  252). 

0  donna  del  mio  chore. 

Cod.  Eiccard.  1502  e  Cod.  Magliab. 
744  CI.  VII  e  Cbig.  577. 

0  Gesù  che  morte  è  questa 
SI  crudele  e  disonesta 

Ed.  1510. 

0  Gesù  dolce,  o  infinito  amore. 

Ed.  1480,  1485,  1510.  È  del  Giusti- 
NiAN  :  vedi  Mazzoni,  Miine  sacre  di 
un  tns.  del  secolo  A'T',  Padova,  Randi, 
1902,  p.  7.  Vedine  la  notazione  musi- 
cale in  E.  Levi,  p.  191.  Sulla  sua 
musica  va  la  Lauda  di  madonna  Lu- 
crezia: "  Contempla  le  mie  pene  o 
peccatore  „. 

0  gloriosa  Vergine  Maria. 

Ed.  1480. 

0  gloriosa  regina  mundi  suc- 

[curre  nobis 
Ed.  1480. 

Ogni  giorno  tu  mi  di. 

Cod.  Pai.  169.  È  riferita  colla  no- 
tazione musicale  in  E.  Levi,  op.  cit., 
p.  190. 

Ogniun  faccia  per  se 

Cod.  Cbig.  677  con  la  nota  "  Fatta 
da  Vanni  „.  Nei  testi  piìi  antichi  co- 
mincia: "Ciascun  faccia  per  se„;  ed 
anche  "  Ogni  liuom  ecc.  „  nel  cod. 
Kicc.  2224. 

0  Jesù  sommo  diletto. 

Ed.  1510. 

0  lasso  me  tapino  sventurato 

Ed.  1480  e  Cod.  Chig.577,  che  ag- 
giungo : 


O  lassa  a  me  tapina  iaventurata, 

eh'  io  fui  giovane  e  bella 

e  fantinella  -  fui  incharcierata. 

0  lasso  0  me  dolente. 

Cod.  italiano  230  della  Biblioteca 
Reale  di  Monaco.  Vedi  Catalogus  Co- 
diciim  Mas.  Bibliotecce  liegiie  Mona- 
censis.  Tom.  VII,  pag.  99. 

0  maligno  e  duro  core 

Ed.  1510  e  1512,  con  la  variante, 
o  forse  errore,  "  Omognial  „.  È  can- 
zone sacra  di  Lorenzo  de"  Medici. 
Vedine  la  notazione  musicale  in  E. 
Levi,  p.  194. 

Ornò  omè  quanto  mi  sarò. 

Cod.  P.al.  169. 

0  morte  dispietata. 

Cod.  Rie.  1502  e  Cbig.  577.  V.  Can- 
zoni a  ballo,  lì.  113  e  anche  qui  ad- 
dietro, pag.  96. 

0  partita  crudele. 

Ed.  1485.  In  questa  si  nota:  "  Can- 
tasi come:  O  partita  crudele,  et 
Doime  „. 

0  peccator,  perchè. 

Ed.  1510. 

0  peregrina  luce,  o  chiara  stella. 

Ed.  1480  e  1512.  È  uno  Strambotto 

del    GlUSTINIAN. 

Ora  gridar  omè  posso  ben  io. 

Ed.  1480  e  1512  e  Cod.  30  CI.  VII. 
Magi. 

Oramai  che  fora  sono. 

Ed.  1485  e  1512  e  cod.  Palatino 
n.  172.  Il  testo  intero  sì  rinvenne 
dall' IvE  nel  codice  n.  1069  della  Bi- 
blioteca nazionale  di  Parigi;  vedi 
Giornale  storico  della  letteratura  ita- 
liana, Voi.  II,  pag.  153. 

Ora  may  che  fora  son 
non  volio  esser  più  monica. 
Arsa  li  sia  la  tonicha 
a  chi  se  la  Testerà  più. 
•Stava  in  quclo  monastero 
Como  una  cosa  perduta  ecc. 


TAVOLA  DEI  PKIKCIPJ  ECC. 


489 


e  fu  pubblicato  anche  da  G.  Volpi, 
Note  di  varia  er udizione, Fivetize,See- 
ber  1903,  p.  29.  Vedi  qui  addietro 
p.  148  11. 

A  questo  modo  si  cantava  la  Lauda 
attribuita  a  Feo  Belcaei  ed  al  Savo- 
narola (ediz.  Capponi,  p.  49): 

Oramai  sono  in  età 
che  i'  vo  aex'vir  Gesù 
al  mondo  i'  no  to*  star  più 
perchè  pieu"  di  vanità. 

Cfr.  Serie  di  testi  di  lingua  di 
Gaetano  Poggiali.  Livorno,  1813.  To- 
mo I,  pag.  49.  Questa  Lauda  è  pure 
attribuita  a  suor  Diana  degli  Imbar- 
cati. Vedi  Opere  volgari  a  stampa  di 
Francesco  Zamhrini,  Bologna,  1884. 
E  il  capoverso  n'è  pur  dato  come 
quello  su  cui  modulare  altre  laudi. 
Ed.  1485,  1489. 

Ora  manze  oti. 

È  nel  Cod.  119  CI.  35  Magi,  che  no- 
ta: "Cliantasi  chome  Ora  ecc.  chan- 
zor.a  tedesca  a  piacevole  modo,.  La 
Lauda  comincia: 

Egli  è  "1  tuo  buon  Giesù 
che  ti  da  el  suo  amore 

Or  che  è  quel  che  dentro  a  me  vanpeggia 

Cod.  Cbig.  577.  Vedi  qui  addietro  : 
"  Do  che  è  quel  ecc.  „ 

0  regina  del  mio  core. 

Ed.  148=.  e  1512  e  cod.  SS.  Annun- 
ziata 1544.  E  la  Lauda  di  Francesco 
d'Albizo  è: 

O  speranza  del  mio  core 
sacra  virgo  alta  Maria 

Nel  cod.  Marucelliano  C.  256  a 
e.  172  si  trova: 

O  regina  del  mio  core 
solo  conforto  all'alma  atHicta, 
nauzi  a  tte  mi  guidi  amore 
che  distrugi  la  mia  vita. 
O  mia  rosa  colorita, 
poi  ch'amor  vuol  eh'  io  sia  tuo, 
segui  adunque  il  voler  suo, 
che  per  te  languisco  e  moro 
O  mio  tesoro  ecc. 

Or  è  mai  tempo,  amor,  che  questa  donna 

Cod.  Cbig.  577  con  la  variante 
"  tal  „ 


0  rosa  bella  o  dolze  anima  mia. 

Ed.  1485  e  cod.  Chigiano  577.  È  del 
Giustinian.  Nel  Mazzatinti  (II,  268) 
è  recata  per  intero  come  Strambotto 
adespoto;  ed  è  pure  nei  Neumehn 
Lieder  del  Wiese,  n.  1.  Lodovico  Ge- 
novesi in  una  lettera  del  2  marzo  1473, 
descrittiva  di  una  cena  carnevalesca 
del  card.  Pietro  Riario  (pubblicata  da 
N.  Tamassia  per  nozze  Vigo-Magenta, 
Roma,  Forzani,  1885)  narra  che  ad 
un  certo  punto  "  cantosse  in  uno 
chitarrino:  "0  rosa  bella,.  La  Lauda: 

O  diva  stella  o  vergine  Maria. 

0  rosa  mia  gentile. 

Ed.  1480,  1485  e  1512.  È  pure  nei 
Cod.  Chig.  577,  Rice.  1502  e  Magi. 
774  Ci.  VII  e  119  CI.  XXXV.  È  del 
Giustinian  (ediz.  Wiese.  138). 

0  vaga  damigella  onesta  e  pia 

Cod.  Chig.  577. 

0  vaghe  montanine  e  pastorelle. 

Ed.  1485  e  1512.  Vedi  anche  Cod. 
119  CI.  XXXV  Magi,  e  367  CI.  VII. 
Si  sa  che  fu  attribuita  a  molti  ;  vedi 
qui  addietro  pag.  92  n.  Si  cantava  a 
quel  modo  particolarmente  una  Lau- 
da COSI  rifatta: 

0  vaghe  di  Giesù  o  verginelle 
dove  n'andate  si  leggiadre  e  belle, 
dov'è  "1  vostro  Jesù? 

0  vergine  Maria 
guarda  la  tua  Fiorenza. 

Ed.  1510.  Nell'ed.  1485  semplice- 
mente: "0  vergine  Maria,. 

Pace  non  trovo  e  non  ho  da  far  guerra. 

Ed.  1485  e  1512.  È  il  sonetto  del 
Petrarca  così  rifatto  da  Francesco 
d'Albizo  : 


Pace  non  trovo  e  ■ 


vo  sempre  in  guerra. 


Partiti  messere,  e  vanne  al  tuo  cammino 

Cod.   Chig.  577  e  Rice.  2224   con 
la  variante  "va  lo,. 


490 


TAVOLA   DEI   PRI>'CIPJ   ECC. 


Peccator  che  non  hai  posa. 

Ed.  1489  (?). 

Pellegrino  son  tornato. 

Ed.  1485  e  1512.  Una  Lauda  di 
Francesco  d' Albizo : 

Pellegrino  Jesu  incarnato 
torno  a  te  con  devotioue, 
per  avere  redemptione 
di  quel  sangue  eh'  à'  versato. 

Perchè  l'amor  di  Dio. 

Ed.  14S5;  ed.  1510:   "Perchè,. 

Per  crudel  donna  vo  strugendo  'I  core 

Cod.  Chig.  577. 

Per  l'allegrezza  col  parlar  d'amore 

Cod.  Chig.  577  e  Laurenz.  87. 

Per  me  l'hor  è  venuta. 

Ed.  1512. 

Peschatori  se  vo'  volete 

del  buon  pescie  sanza  scoglio. 

Cod.  Chigiaiio  577  con  La  Lauda: 

Pechadori  se  voi  volete 

Piangete  con  Maria. 

Ed.  1480. 

Piangi  [sventurato  amante  privo. 

Ed.  1480  e  1512.  È  del  Giustikian. 

Piango  el  tempo  perduto. 

Ed.  1485, 1489  (?).  Sulla  sua  musica 
va  la  Lauda  di  Lorenzo  di  Pier 
Francesco  de"  Medici:  "Virgo  madre 
Maria  „. 

Piata  mi  tira  e  tanto  amore 

Cod.  Riccard.  1303. 

Piglia  lo  tempo  come  va. 

Ed.  1510  e  1512.  La  Lauda: 

Pi(,'lia  il  mondo  come  va: 
non  sperar  nella  fortuna 
imperUò  che  cosa  alcuna 
o  tesoro  rìcheza  o  stato 
ma'  conforto  ti  darà. 


PIÙ  bel  viso  che  'I  sole. 
Ed.  1480,  1512  e  Cod.  30   CI.  VII 
Magi.  Nel  cod.  Gaddiano  n.  161  della 
Biblioteca  Laurenziana  di  Firenze,  a 
e.  36-,  la  canzone  comincia: 

El  più  bel  viso  del  sole 

scholora  i  tua  saucti  oehi, 

che  par  che  fiochi-iiori  rose  e  viole. 

La  tua  volante  chioma 

eh'  ad  ogni  luscie  ecc. 

Più  con  Firenze  bella 

Cod.  Chig.  577. 

Plus  que  je  vis  le  negar  grac- 

[cieus. 

Ed.  1480  e  1512,  nella  quale  solo 
si  riporta:   "Più  que  ie  vis  „. 

Poiché  haggio  perduta 
la  mia  dolce  fatica. 

Cod.  MagL  744  CI.  VIL  Ed.  1512 
con  la  variante  "  Poch'  i'  „.  Vedi 
"  Com'aggio  perduto  e  Da  poi  ecc.  „ 
È  la  ballata  di  Leonardo  Giustikian  : 

Poi  che  azo  perduta 

la  dolce  mia  faticha  etc. 

Po'  che  in  festa  e  gaudio  siemo. 

Ed.  1510  e  1512  con  la  variante 
"  Poi  „.  Forse  è  una  cosa  stessa  con  : 
"Poiché  in  gaudio  siamo  „. 

Po'  che  partir  convienmi,  donna  cara 

Cod.  Kiccard.  2871,  Laurenz.  87  e 
Panciaticli.  26,  dove  si  avverte  eh' è 
intonata  da  Fr.  degli  Organi. 

Poi  ch'io  non  truovo  in  te,  donna,  merzé 

Cod.  Cliig.  577. 

Portiam  donne  per  voi  questo  fagiano. 

Si  cita  come  il  Fayiano.Yeài  Canti 
carnasrìaleschi,  pag.  113. 

Pover  presoti  pur  maladies. 

Ed.  1480  e  1512.  11  cod.  30  CL  VII 
corregge  : 

Pover  presou  pur  maladic. 


TAVOLA  DEI  PRINCIPJ   ECC. 


491 


Por  presonero. 

Ed.  1485  e  1512  anche  "Pour  pie- 
son  „.  Vi  si  nota:  "Cantasi  come: 
Vatten  mon  quer,  e  come  :  Pour  pri- 
son„.  Probabilmente  sono  un  solo  e 
identico  Canto. 

Provar  lo  possa  chi  noi  crede. 

Cod.  Chig.  577. 

Purità,  Dio  ti  mantenga. 
Ed.  1485. 

Pur  mi  posso  lamentare 
c'amador  che  fussi  mai 
d'una  eh'  m'ò  pres'  ad  amare 

Cod.  Chig.  577. 

Qua!  è  si  duro  core 

Ed.  1480, 1485, 1510  e  1512.  È  sacra, 
poiché  segue:  "  Che  Gesù  non  vuol 
seguire  „. 

Quando  le  spalle  mia. 

Ed.  1485. 


Quando  sono  in  sta  cittade. 


1510. 
E  in 


Ediz.  1485.  Neil'  altra  del 
"Quando  in  questa  cittade  „. 
quella  del  1512: 

Quando  sono  in  questa  ciptade.  „ 

che  è  proprio  il  principio  della  "  chan- 
zona  siciliana  „,  pubblicata  da  Ko- 
Vati-Pellegkini,  Feì-  nozze  Venturi- 
Fanzago,  Anconsi,  1884,  e  di  nuovo  dal 
Volpi,  Note  ecc.,  p.  33  : 

Quando  sono  in  questa  cittade, 
per  ite  sono  im  paradiso  : 
quando  veggio  tuo  bel  viso, 
8on  chonteuto  e  ehoasolato. 
Chi  nnon  fu  mai  innamorato 
vengha  a  vedere  questa  siugniora  : 
clii  di  lei  non  si  innamora, 
ben  è  di  prieta  chi  nnol  sente. 
Beato  è  Napoli  piacente 
d'està  donna  graziosa  ecc. 

Va  sulla  sua  musica  la  Lauda  di 
Madonna  Lucrezia  Toenabuoni  Me- 
dici :  "  Venite  pastori  A  vedere  Jesìi 
ch'è  nato  „. 


Quando  ti  sguardo  in  croce,  o  Signor 
[mio. 

Ed.  1510. 

Quanti  martir  verginegli 

Ed.  1510. 

Quanto  più  gli  occhi  mia. 
Ed.  1485. 

Quanto  più  penso  amore 
la  tua  nobiltà. 

Ed.  1485  e  1512  con  la  variante 
di  correzione  "  alla  „.  La  Lauda  di 
Feo  Belcari  è: 

Quanto  più  penso  Dio 
la  tua  gran  carità 
più  sVccende  il  cor  mio 
a  far  tuo  volontà. 

Questa  crudel  partita. 

Ed.  1489.  Vedi  Canzoni  a  hallo 
n.  77.  Probabilmente  è  la  Canzonetta: 
"  Questa  amara  aspra  partita  „  ,  mu- 
sicata dall'Antico:  v.  Zenatti,  p.  13. 
La  Lauda  dice: 

Quest'anima  ferita, 
o  Maria  aita  aita. 
Mia  dolente  alma  tapina 
nel  peccato  è  invecchiata, 
et  in  tenebre  camina 
come  cieca  et  insensata, 
prima  che  sia  giudicata 
o  Maria  aita  aita  ! 

Quest'è  donne  un  arber  grande. 

Ed.  1510  e  1512.  La  laude: 

Questa  è  quella  croce   grande 
la  qual  tutto  el  uiondo  honora 
perchè  Dio  su  vi  dimora 
el  suo  sangue  per  no'  spande. 

Questo  mondo  è  una  ruota. 

Una  Lauda  del  Tolosano  che  cosi 
comincia  è  pubblicata  dal  Trucchi 
nelle  Poesie  di  dugento  autori,  Voi.  Ili, 
p.  71  dal  cod.  Cimitile  di  Napoli. 

Questo  mostrarsi  adirato  di  fore. 

Ed.  1510  e  1512.  La  Lauda  di  ser 
Firenze: 

Ben  ch'adirato  si  mostri  il  Signore, 

non  esser  pertinace 

a  chieder  pace  allui  o  peccatore. 


492 


TAVOLA  DEI  PRINCIPJ  ECC. 


Regina  del  cor  mio. 

Ed.  1480  e  1512.  È  del  Gustinian. 
S.  MoRPUKGO  la  riproduce  di  sul  Cod. 
mare.  3-16  nella  Bihliot.  leti,  poji.,  II, 
40.  Kel  cod.  SS.  Annunz.  1.544  vi  è 
anche  la  Lauda  di  Feo  Belcari: 

Geuitrice  di  Dio 

chi  con  buon  quor  t'adora 

sanza  dimora  —  adempì  il  suo  desio. 

Rendo  l'armi  al  fiero  amore. 

Ed.  1510  e  1512.  Nel  V  libro  delle 
Frottole  dice  invece  "  Prendi  Tarmi 
o  fiero  amore  ,  (Vernarecci,  p.  257) 
ed  è  musicata  dall'Antico.  La  Lauda 
di  messer  Castellano  così  comincia: 

Rendo  l'arme  al  cieclio  mondo 
che  m'ha  tolto  ogni  conforto: 
to'  tornare  al  divin  porto 
dov'  el  cor  si  fa  giocondo. 

Ricordati,  Maria. 
Ed.  1510. 

—  Rispetti  (f). 
Ed.  1485. 

—  Ritornello  {il). 
Ed.  1485. 

Rose  gigli  e  viole  escon  dal  viso. 

Ed.  1480  e  1512.  Vedi  anche  i  Cod. 
Magi.  367  CI.  VII.  SS.  Annunz.  1544  e 
Chig.  577.  La  Lauda  di  Feo  Belcari  : 

S' i'  pensassi  a'  piacer  del  paradiso 

e  agli  etterni  guai, 

non  sare'  mai  —  dal  buon  Giesu  diviso. 

Il  cod.  Chigiano  ha  quest"  altra 
Lauda  "  di  Gerardo  d'Astore  „  che 
dice: 

De'  fa,  Jesù,  la  mia  misera  mente 


Salymandra  Salimandra. 

Cod.  30  CI.  VII  Magi. 

Sappiatevi  guardare. 

Cod.   Chig.    577.  Vedi: 
piiitevi  ecc.  „ 


Do'  sap- 


S'avesse  forza  sdegno  quant'amore 

Cod.  Chig.  577. 


Se  ben  soletto  vado. 

Ed.  1510. 

Se  del  signior  che  nella  quinta  lucie. 

Su  questo  "madriale,  il  cod.  Chig. 
677  ha  la  Lauda: 

Maria  el  tuo  figlio  ecc. 

Sed  io  ò  ragione,  de'  non  mi  far  torto, 
uccidimi  costei  che  mi  vuol  morto. 
Cod.  Eiccard.  2224. 

Seghuendo  la  beltà  che  'n  te  dimora 

Cod.  Cliig.  577. 

Se  gli  occhi  son  contenti  e  consolati. 

Ed.  1485. 

Se  la  fortuna  mi  vuol  pur  contastare. 

Cod.  Chig.  577.  Sembra  la  canzone 
a  ballo: 

Se  la  fortuna  o  il  mondo 
mi  vuol  pur  contrastare  ecc. 

che  è  ricordata  dal  Sacchetti,  nov. 
193,  riprodotta  col  nome  di  frate 
Stoppa  De'  Bostichi,  dal  Carducci, 
p.  104,  e  dal  Medin  (Propugnai.  N.  S., 
II,  139),  ed  è  anche  nella  Bibl.  Leti, 
pop.,  I,  368. 

Se  libertà  ma'  riavessi  amore. 

Ed.  1480  e  1512. 

Se  mai  adempierà  per  forz'amore. 

Cod.  Chig.  577. 

Se  mal  la  tua  virtii  vince  la  guerra. 
Ed.  14S5  e  1512.  Vi  si  nota  "Can- 
tasi come:  Se  ecc.   e  gli  Strambotti 
0  vero  Rispetti  „. 

Se  mai  lo  viceré  viene  in  sta  terra. 

Ed.  1480  e  1512. 

Se  mai  s'andrà  per  pietà  costei. 

Cod.  Chig.  577. 

Se  m'ascholtate,  donne  innamorate 

Cod.  Chig.  577. 


TAVOLA   DEI   PEIXCIPJ   ECC. 


493 


Sempre  nel  core  harò  ferma  speranza. 

Ed.  1480  e  1512.  Il  Cod.  SS.  An- 
nunziata 1545  ha  pur  questa  Lauda 
di  Feo  Belcari: 

Christo  Jeaù  tu  sei  la  mia  .speranza, 

io  ti  prlego  con  fede 

che  tu  in'  babbi  merzede, 

da  poi  che  '1  tuo  amor  o^'altro  avanza. 

Se  non  mi  pare. 

Ed.  1485  e  1512.  Il  cod.  Magi.  744 
CI.  VII,  come  il  Chigiano  577,  cor- 
regge : 

Senno  mi  pare  et  cortesia. 

E  COSI  i]  cod.  Magi.  367  Cl.VIL  II 
Cod.  SS.  Annunziata  1544  aggiunge: 
"La  sopradecta  pazzia  si  chanta  co- 
me: Senno  mi  pare  e  chortesia  Di 
inpazzar  pello  bel  messia,.  E  il  canto 
di  Jacoponequi  attribuito  al  Belcari. 

Se  non  ti  guardi  amore. 

Ed.  1485  e  1512  e  cod.  Chig.  577, 
e  30  CLVII  3Iagl. 

Se  per  diletto  amor  cercando  vai. 
Ed.  1510  e  1512. 

Se  poi  che  vi  partisti. 

Ed.  1510  e  1512. 

Serviteur  (le) 

Ed.  1510.  È  neW'Odhecaton,  mu- 
sicata dal  Busnoys  'v.  Vernarecci, 
p.  236). 

Sia  benedetto  el  di  che  'I  tuo  bel  viso. 

Ed.  1480. 

Se  v'  savè  maire. 

Il  cod.  Chig.  577  nota:  "Cantasi 
come  :  Se  vo'  savè  matre,  canzona 
franzese  ;  o  in  su:  Madre  che  festi 
ecc.,  A  quel  modo  si  cantava  anche 
l'altra  Lauda: 

Se  Tiioi  ghustar  el  dolze  amor  Jeaù. 

Siamo  stati  in  Fiorenza. 

Ed.  1485  e  1512.  Il  cod.  Magi.  744 
CI.  VII  aggiunge: 


Siamo  stati  in  Fiorenza 
alcuni  gioi-ni  a  riposto 
per  la  magnifìcentìa  ecc. 

Sia  benedetto  il  di  che  'I  tuo  bel  viso. 
Ed.  1480  e  1512. 

Siam  galanti  di  Valenza. 

Ed.  1510  e  1512.  È  pur  detta  la 
canzona  de' Valenziani,  o  anche  Canto 
dei  profumieri,  di  Jacopo  del  Bien- 
TiNA.  Vedi  Canti  carnasHal.,  p.  177, 
e  Bihliot.  lett.  popoh,  I,  48.  Va  sulla 
sua  musica  la  Lauda  del  Magnifico: 
"  O  maligno  e  duro  core  „.  Una  lauda 
di  Bernardo  Giambullari  : 


Sian  con  somma 

alla  croce  inginocchiati 

con  fervor  in  penitenza  ecc. 

Siccome  que'  che  non  sapea  niente. 

Cod.  Bice.  2224. 

SI  fortemente  son  tratto  d'amore. 

Ed.  1480  e  1512.  È  pure  nei  Cod. 
Rice.  1133  e  Magi.  367  e  744  CI.  VII 
e  Chigiano  577. 


Signor  Leons. 


Ed.  1480  e  1512.  Là  Lauda  è  cosi 
rifatta: 

Signor  Jean  tu  sia 
lo  ben  Tenuto. 

Signor  nostro  da  Pavia. 

Ed.  1485  e  1512. 

S' io  non  dezo  veder  più  gli  occhi  belli. 

Ed.  1510  e  1512. 

S' i'  ti  son  stato  e  voglio  esser  fedele. 

Cod.  Chig.  577  e  Laurenz.  87. 

S' io  t'ò  fallito  donna  mi  dispiace. 

Ed.  1512.  E  una  ballata  a  dialogo, 
riferita  per  intero  dal  Carducci,  pa- 
gina 149  e  dall'ALVisi,  pag.  75.  Xel 
Cod.  .30  CI.  VII  Magi,  Eiccard.2871  e 
Cod.  Chig.  577  si  ha  pur  la  Lauda: 

S'  i  t'  ho  fallito  Giesu  e'  mi  dispiace 
misericordia  idio  rendimi  pace. 
Misericordia  ecc. 


494 


TAVOLA   DEI   PEIKCIPJ   ECC. 


So  ben  perchè  tu  m'aj  lassato  amore. 

Ed.  1-510  e  eod.  Palatino  172  e  30 
CI.  VII  Magi. 

Son  stato  ne  V  inferno  tanto  tanto. 

Ed.  1485,  1512  e  Cod.  119  CI.  XXV 
Magi.  È  uno  strambotto  tradotto  in 
latino  dal  Cantalicio  (v.  Zannoni, 
Poeti  cortigiani  del  Monte  feltro,  Roma, 
tip.  dei  Lincei,  1894,  p.  27\  Il  Cod. 
SS.  Annunz.  1545  ha  pure  la  Lauda: 


Son  stato  in  paratils 
che  pianger  dovei'eì 


tanto  tanto 
la  notte  ei  die. 


Uno  strambotto  del  cod.  Palat.  288, 
p.  30,  cosi  comincia: 

Per  poco  tempo  che  so'  stato  fore 
son  stato  ne  1'  inferno  tanto  tanto. 

Speranza  del  cor  mio. 

Cod.  Cbig.  .')77. 

—  Stanze  della  Passione. 
Ed.  1480.  1485. 

—  Strambotti  (gli). 
Ed.  1485,  1510. 

Tanta  pietà  mi  tira. 

Ed.  1485  e  1512.  Va  sulla  musica 
di  questa  Canzone  la  Lauda  del  Ma- 
gnifico: "Poich'io  gustai,  Jesu,  la 
tuo'  dolcezza  „. 

Tardi  il  mie  core  harà  quel  che  disia. 
Ed.  1485. 

Temperai  fuor  di  natura. 

Ed.  1510  e  1512. 

Tot  pur  moi 
Ed.  1485,  1510  e  1512  con  la  v.v 
riante   "Tota  per  moi,.  E  così  Cod. 
SS.  Annunziata  1545.   La  Lauda   di 
Frakcesco  d'Albizo: 

Tntto  per  noi 

si  dette  il  sommo  Dio. 

Tu  m'hai  legato,  amore. 

Ed.  1489,  1510  e  1512. 


Tutta  soletta  si  già  mormorando. 
Cod.  Chig.  577.  La  Lauda  è: 

Tutta  gioiosa  Cristo  va  cliiamando 

Una  donna  d'amor  fino. 

Ed.  14S0  e  1512.  È  anche  nel  Cod. 
Rice.  1502  e  Magi.  744  CI.  VII  e  Chig. 
577.  Vedi  Cannoni  a  hallo,  n.  117. 

Un  verde  boschetto. 

Cod.  Rice.  2871  e  Laurenz.  87.  Se- 
condo lo  Zenatti.  la  vera  dicitura 
sarebbe  "  Per  un  verde  boschetto  , 
e  così  è  infatti  nel  Cod.  panciatich. 
26,  dove  è  avvertito  che  fu  intonata 
da  fra  Bartolino  da  Padova. 

Uscirò  di  tanti  affanni. 

Ed.  1512. 

Vaga,  bella  e  gentile. 

Ed.  1485,  1489.  1510.  1512  e  Cod. 
Magi.  774  CI.  VII  e  Chig.  577. 

—   l'angeli  (i)  della   Quaresima. 
Ed.  1480.  148.5,  1510. 

Va  pure  amore  cho'  le  reti  tue 

Cod.  Chig.  577  e  Laurenz.  87. 

l/aten  mon  guer. 

Ed.  1480.  Gali.  pag.  ,35.Ered.  1512: 
"  Cantasi  come  :  "  Vatten  mon  guer,  e 
come:  Pour  prison,. 

Vedranno  gli  occhi  miei  la  sepoltura. 

Ed.  1510  e  1512.  Anche  per  l'Av- 
visi sarebbe,  come  mostrano  le  rime 
della  Lauda: 

Farmi  sempre  veder  la  sepoltura. 

O  peccator  tu  non  ha  più  riparo 

la  tuo  bellezza  e  gioventù  non  dura: 

da  identificare  collo  Str.ambotto  (ch'e- 
gli chiama  rispetto)  già  edito  da  me 
di  sul  cod.  palat.  288,  e.  31: 
Videro  gli  occhi  miei  la  sepoltura 
In  mezzo  agli  occhi  tuoi  che  mi  sguardaro  : 
Vidi  la  vita  mia,  misera,  oscura, 
Vidi  lo  core  mio  senza  riparo; 
Hi  tanta  forza  ti  creò  natura 
Ch'  al  mondo  sola  sei  e  non  hai  paro; 
Quando  la  morte  darà  1'  nltim'  ora 
Dirai  :  queste  fur  l'ossa  che  m'amare. 


TAVOLA   DEI   PRINCIPJ   ECC. 


49i 


Vengoti  a  rivedere  anima  mia. 

Ed.  HSO.  Kell'ed.  1512  si  nota  che 
"  cantasi    come  e  Rispetti  „   qnesta 
Lauda: 
Vengoti  a  visitare  anima  amia 
e  vengoti  a  picchiar  Tuscio  del  cuore. 

È  lo  Strambotto  della  incatenatura 
del  Bronzino.  V.  qui  addietro  ap.  188. 

Ventura  a  Dio 

eh'  i'  mi  conduca  a  porto. 

Cod.  Chig.  577  con  la  Lauda: 
Etemo  Dio 
Conducim'  a  porto. 

Verbum  caro 

Ed.  U85. 

Vicin,  vicln,  vicln 

chi  vuoi  spazar  camin. 

Ed.  1485,  1512  e  cod.  Palatino  172 
e  SS.  Annunz.  1.545.  È  il  Canto  car- 
nasc.  degli  spazzacamini,  che  trovasi 
a  pag.  110  della  raccolta.  E  ripro- 
dotto in  Bibliot.  leti,  popol.,  I.  51,  e 
eolla  notazione  musicale  da  E.  Levi, 
p.  296.  Il  canto  Carnascialesco  cosi 
si  converte  in  Lauda: 

Gieaù  Gìeaù  Giesù, 
ognun  chiami  G-iesù. 

Vidila  In  un  giardin  ch'ella  s'andava. 

Ed.  1485  e  1512. 

Vidi  selvaggia  donna 

nel  dimestiche  fiore 

tal  che  rendea  sprendore 

di  sua  beltà  più  che  nlun  altra  donna. 


Cod.  Eiccard.  2224.  II  cod.  Chig. 
577  ha  solo  il  capoverso,  anche  con 
la  variante  "Chi  vidi  una  ecc.,. 

Vidi  una  foresetta  in  un  boschetto 

Cod.  Chig.  577  e  Riecard.  2871. 

Vien  a  me  peccatore. 

Ed.  1510. 

l/ie  sacfì  blider  dach. 

Ed.  1480,  1512  e  Cod.  SS.  Annun- 
ziata 1545  con  la  variante  "  Viesac 
hlider  drac  „. 

Vita  non  è 

Cod.  Eiccard.  2871.  Forse  è  il  com- 
ponimento del  repertorio  giullaresco, 
ilIu.strato  dal  Casini:  "  Vita  non  è 
più  ria  Che  troppo  amare  altrui  con 
gilosia  „   (n.  120). 

Viva,  viva  la  ragione. 
Ed.  1510  e  1512. 

Vivo  per  voi,  madonna,  in  gran  pensiero. 

Ed.  1480,  1512  e  Cod.  Chigiano 
con  la  variante  "  te  „.  È  una  Ballata 
di  anonimo  riferita  dal  Cardi-cci. 
p.  150. 

Vox  c/amant/'s. 
Ed.  1510. 

Vuo'  tu,  donna,  eh'  io  mora 
Cod.  Chig.  577. 


TAVOLA 


DELL  ARIE    ANTICHE,    E    MODERNE,    CHE    SI    SOX    POTUTE 
DESCRIVERE    SOTTO    I    NOMI    NOTI    AL    VOLGO 


Si  è  messo  questa  Tavola  per  maggior  facilità  di  quegli,  che  non  in- 
tendono le  Note,  e  sanno  tuttavia  cantar  le  Arie  sotto  i  nomi  più  volgari.  (}) 


Agli  amoi-,  agli  amor,  agli  amori. 
Alle  gioie,  alle  gioie,  Pastori. 
Altro  non  è  '1  mio  cor. 
Amor,  poiché  non  giovano. 
Andiam  compagni  alla  riviera. 
Antururù. 

La  ricorda  fra  le    canzoni   del  tempo 
il  Redi  in  un  suo  Capitolo  ; 
Apollo,  s'  a  cantar  rAutururù 

O  s'a  cantar  maestio  Bernabò 

Tu  m''invita9si,  o  la  Cucurucù  ecc. 
(Imbert,   n  Bacco   in    Toscana,   Città   di 

Castello,  Lapi,  1890,  p.  194). 

Aretina. 

Alia  dell'Ortolano,  o  Ruggieri,  ov- 
vero: Donne  mi  chiamo  il  maturo. 
Aria  di  Maggio. 

Quest'aria  è  diversa  da  quella  dei  Mag- 
gi drammatici  odierni,  della  quale  ho 
parlato  nel  voi.  II  delle  Origini  del  Teatro. 

Aria,  0  sia  ballo  di  Mantova,  ovvero  : 

Amor  fals'  ingrato. 
Aria  di  Narciso. 
Aria  di  Prudenza. 

Vedi  più  oltre  a  Prudenza 


B 


Ballo,  o  sia  Aria  di  Mantova  ovvero: 
Amor  fals"  ingrato. 


Belliri,  ovvero:  Luccioletta. 
Belle  Ninfe,  al  prato,  al  prato. 
Bellissima  Regina. 

Riferita  nella  Bìbl.  Leti,  pop.,  I,  152. 

Bergamasca,  ovvero:  Lerullelleru. 

Bosearola. 


C 


Carazzena,  ovvero:  Piti. 
Caterinin  con  quel  bocchin. 
Che  fustu  in  quella  vigna. 
Chicchirichì,   ovvero:    Ecco  la   bella 

Lisa. 
Chi  vuol  moglie  la  pigli,  ovvero:  Id 

Moda. 
Con  le  luci  d'un  bel  ciglio. 
Colonm,  colonna. 
Con  un  dolente  oimè. 
Cotognella. 
Crudel,  tu  vuoi  partire. 


Da  piani,  da  valli,  da  monti  e  colline. 
Della  vita  agili  e  destri. 

Riferita  neUa  Bibl.  Leti,  pop.,    I,    193, 
ed  è  Canto  dei  giocatori  di  pallone. 

Disperata  Ricciolina. 
Donne  mi  chiamo  il  maturo,  o  Aria 
dell'Ortolano,  ovvero  liuggieri. 


(1)  Questa  Tavola  con  tutto  il  titolo  sopra  riferito  trovasi  in  fondo 
alla  Corona  di  Sacre  Canzoni  o  Laude  Spirituali  di  diversi  autori,  nuova- 
mente corrette  ed  accresciute  per  opera  di  Matteo  Coferati,  Sacerdote 
fiorentino  ecc.  Firenze,  Onofri,  1689.  Come  si  vede,  contiene  soltanto  prin- 
cipj  di  Canzoni  profane,  cantate  nei  sec.  XVI  e  XVII. 

D'Ancona,  La  poesia  piop.  ital.  —  32 


498 


TAVOLA  DELL'ARIE   ANTICHE,   E    MODERNE   ECC. 


Doppo  lunga  tempesta. 
Dorino  mio. 


Ecco  la  bella  Lisa,  ovvero:  la  C'/iic- 

chirichì. 
E  la  medola  non  ha  gambe,  ovvero: 

la  Zampognetla. 
E  'n  su  quel  monte. 

Anclie  adesso  si  cauta  uua  canzone 
che  comincia:  Sopra  quH  monte  Noi  cene 
andremo  ecc. 


Felicissimo  giorno,  ovvero:  Sison. 
Fillide  mia,  o  mia  Fillide  bella. 
Follia. 


G 


Gallo  di  Mona  Fiore. 

Già  de'  bei  rai  di  quel  bel  ciglio. 

Già  l'Elefante  è  morto. 

Ghirumetta. 

Vedi  qui  addietro  pag.  117  nota.  Ag- 
giungiamo clie  nel  1799  i  deportati  di 
Cattaro  inventarono  e  cantarono  uua 
canzone  di  metro  singolare  col  titolo  di 
Giroletta. 

Gran  Bure. 
Girolamo,  Girolamo. 


H 


Hai  pur  mentito,  o  mentitrice. 


L 


La  bella  Boscarol.a. 

La  mia  donna  lusinghiera. 

La  mia  padrona  Gliiriglù. 

La  mia  Ninfa,  Ninfa  bella. 

La  speranza  mi  va  consolando. 

Leggiadra  donna  il  vostro  volto  fu. 

Lerullelleru,  ovvero:  Bergamasca. 

Probabilmente  è  la  vecchia  canzone 
bergamasca  Linim  bilUirum  lirum,  musi- 
cata da  BoBsino  mantovano,  qualificata 
"  un  sonar  de  piva  in  fachiuesco  „  (Ze- 
NATTI,  A.  Anticoda  Montone,  p.  11).  Vedi 
Vernarecci,  p.  249. 

Lo  rosignolo  canta  alla  gaiola. 
Luccioletta,  ovvero:  la  lieìliri. 


Madre  non  mi  far  monaca. 

Forse  reminiscenza  e  rimpasto  di  più 
antica  Canzone. 

Mentre  Amor  dentro  al  mio  petto. 

Mille  dolci  parolette. 

Minuet. 

Moda,  ovvero:  Chi  vuol  moglie  la  pigli. 

Mostri  terribili. 

N 

Narciso. 

Ninfa  cinta  le  chiome. 

Riferita  in  Bihl.  Leti.  po]K,  I,   145. 

Non  sa  che  sia  dolor. 

0 

0  Clorinda. 
0  faccia  bella. 
O  mio  bel  Sole. 
O  sommo  ben. 
O  Stelle  omicide. 
0  tu  eh'  a  tutt'ore. 

Riferita  in  Bitil.  Leti,  pop.,  I,  197. 


Piti,  ovvero:  Cai-azzena. 
Poiché  d'empia,  e  rigida. 
Prudenza. 

Vedi  a  Aria  di  Prudenza.  Probabilmente 
è  un  canto  che  si  riferisce  a  quella  ma- 
donna Prudenza,  elie  alcuni  dicono  gre- 
ca, altri  di  Trani,  altri  di  Ancona,  che 
avvelenò  il  marito  Matteo  Cecchi  e  fu  giu- 
stiziata a  Firenze  nel  1549.  Si  ha  a  stampa 
un  Lamento  (in  terzine)  piWoso  che  fece  la 
signora  Prudenza  anconitana  prima  che /osse 
condotta  alla  giustizia.  Firenze,  Sermar- 
telli,  1623;  Prato,  Vannini,  1841  ecc. 


Quando  vuoi  sentir  mia  voce. 

Riferita  in  lllll.  Lclt.  pop.,  I,  201. 

Quanti  cuori  hanno  gli  amanti. 
Quella  bella  Amor. 
Questo   è  quel  loco,  dov'ho  il  mio 
cuor  perduto. 


TAVOLA  DELL'ARIE  ANTICHE,   E  MODEKNE  ECC. 


499 


K 


Ruggieri,  o  Aria  dell'Ortolano  :  Donne 
mi  chiamo  il  maturo. 


Salone. 

V.  qui  addietro  pag.  10  n.  la  citazione 
del  Manni  e  qui  sotto  a  Scappino. 

S'alcun  vi  giura,  cortesi  amanti. 
Scappino. 

Il  Kedi  in  una  Frottola:  ...  cavato  dal 
zaino  il  ribechino,  Fece  spiccarvi  su  ?jer  eccel- 
lenza Il  Saltarello  o  Varia  di  Fiorenza  E 
l'antico  Sajone  e  lo  Scappino  (Imbekt,  p.  179) 
Vedi  Ferkabi,  Appendice  al  Centone,  p.  15, 
il  quale  dice  che  "l'aria  di  Scappino  [il 
comico  Francesco  Uabrielli]  ebbe  gran- 
dissima voga  „, 

Siam  quattro  fantolini. 

Sison,  ovvero:  Felicissimo  giorno. 

Spagnoletta. 

Stanotte  mi  sognava. 


Tarantella. 

Tempo  già  fu,  donna,  ch'io  amai. 

Tirinto  mio,  tu  mi  feristi. 

Trescone. 


Veddi  una  pastorella. 

Verginella. 

Vezzosetta  pastorella  che  mi  struggi. 

Riferita  in  Bill.  Leti,  pop.,  I,  151. 

Voi  partite  sdegnosa. 
Volgi  Jole  i  tuoi  bei  lumi. 

Riferita  in  Bihì.  Leti,  pop.,  I,  158. 


Zampognetta,  ovvero:   E  la  niedola 
non  ha  gambe. 


RISPETTI  DEL  SECOLO  XV 


Questi  Rispetti  sono  tratti  dal  Codice  della  Comunale  di  Perugia,  C,  43. 
Esso  è  di  mano  del  secolo  decimoquinto,  e  contiene  varie  scritture  in  versi. 
Pubblicando  intera  la  parte  che  contiene  i  Rispetti,  ci  siamo  dovuti  qua  e 
là  allontanare  dalla  lezione  del  codice,  e  sempre  dalla  scrittura.  Kel  primo 
caso  ci  Siam  presi  siffatta  licenza  quando  era  evidente  che  il  senso  era 
corrotto,  e  facile  si  porgeva  la  correzione;  ma  in  qualche  luogo  la  lezione 
è  disperatamente  errata.  Per  aver  poi  un'  idea  della  grafia  del  codice,  ci 
piace  riportare  la  prima  ottava  come  sta  scritta  dall'antico  amanuense: 

0  «jilio  fra  le  rose  o  fiore  de  lixo 
Ho  ^ema  Lorienttale  ho  voioletta 
Ben  credo  ttunassisty  in  paradiso 
Per  che  ttupari  ttarpata  an^oletta 
Et  mai  non  vitty  s'i  polito  viso 
Che  denttro  del  chore  mi  sentto  una  saetta 
Per  certo  ttunom  sie  nel  mondo  natta 
Ma  fusty  imparadiso  in^eneratta. 

A  maggiore  illustrazione  del  codice,  ch'io  potei  copiare  a  mio  agio,  per 
gentil  prestito  fattomi  dal  Municipio  perugino,  aggiungo  che  ogni  tante 
ottave  si  trovano  intercalati  alcuni  versetti,  che  cominciando  sul  verso  della 
pagina  di  sinistra  seguitano  nel  recto  di  quello  di  destra.  Se  ci  sieno  posti 
senza  r.agione  alcuna,  ovvero  se  sieno  quasi  epigrafi,  o  anche  debbano  pren- 
dersi per  indicazioni  della  diversa  intonazione  musicale  di  varj  gi'uppi  di 
Piispetti,  non  saprei  decidere,  Piacemi  piuttosto  recar  qui  questi  versetti 
nella  loro  esatta  grafia  : 

0  specchio  del  mio  core,  io  moro  ladra. 
Le  stele  per  to  amore  saluto. 
no  me  lasare  o  fortuna  o  dio. 
Amore  gentile  nel  to  peto, 

BeLEZA    VIVA    E    LA    PIETOSA    F. 

Costringeme  de  esere 
Sempre  to  sogeto  dolce  rosa  mia, 
Fanciula  che  de  bruna  vai  vestita. 
Io  saccio  bene  che  te  trovi  marito. 
To  porti  in  testa  uno  fornimento. 
Una  cordela  che  pare  d'ariento. 
Perche  m  abanduni  amore. 
O  spiechio  del  mio  core, 
llgiadra  damisela  o  signor  mio. 
o  chiara  perla  dal  viso  soave. 
Vita  e  honobe. 


502  KISPETTI  DEL  SECOLO  XV. 


JESUS  MARIA 


0  giglio  fra  le  rose,  o  fior  d'aliso, 
0  gemma  orientale,  o  violetta, 
Ben  credo  tu  nascesti  in  paradiso 
Perchè  tu  pari  tarpata  angioletta  ; 
E  mai  non  viddi  sì  polito  viso. 
Che  dentro  al  cor  mi  sento  una  saetta; 
Per  certo  tu  non  se'  nel  mondo  nata, 
Ma  fusti  in  paradiso  ingenerata. 

È  il  360  degli  Stfambotti  di  Luigi  Pulci,  riprodotti  da  A.  Zenatti, 
Firenze,  Libreria  Dante,  1887,  dove  ha  queste  varianti:  3  Io  credo  che  — 
4  Ch'a'  somiglianza,  mi  par,  di  —  5/0  mai  non  guardo  il  tuo  —  6  non 
senta  —  8  in  paradiso  da  Dio  formata. 


Tu  se'  più  bella  che  non  fu  Elèna, 
E  se'  più  bella  che  non  fu  Medea, 
E  se'  più  bella  che  mai  Pulissena, 
E  se'  più  bella  che  Pantasilea, 
E  se'  più  bella  che  non  fu  Alcmena, 
E  se'  più  bella  che  Venere  idea, 
E  se'  più  bella  che  morir  mi  fai  : 
Più  crudel  donna  di  te  non  fu  mai. 

Ricorda,  almeno  nella  mossa,  un  Rispetto  toscano  (Tigri,  n.  190): 

Siete  pili  bella  che  non  fosse  Elèna, 
Avete  le  bellezze  d'Assalone  ecc. 

Anclie  altrove  è  menzionata  Elena  (Tommaseo,  pag.  186): 
Eccola  là  quella  nobi!  galera 
Addormentata  nel  mezzo  del  mare, 
E  dentro  v'era  una  regina  Léna  ecc. 

Il  EuBiEEi,  p.  373,  in   questa  regina  Léna  ritrova  un'allusione  storica! 


EISPETTI  DEL  SECOLO  XV.  503 


Tu  se'  la  mia  speranza  e  il  mio  conforto, 
Tu  se'  pur  tutto  quanto  el  mio  desio, 
Mi  può'  far  lieto  e  sì  mi  può'  far  morto, 
Tu  se'  mia  stella  in  ciel,  tu  se'  mio  Dio. 
Se  m'uccidessi  mi  faresti  torto; 
A  te  m'arriccomando,  o  signor  mio  : 
Non  mi  lasciar  condurre  appresso  al  fine: 
Dammi  le  rose,  e  lascia  star  le  spine. 


IV. 


Tu  se'  pur  bella  !  e  quanto  più  rimiro, 
Gentil  fanciulla,  el  tuo  bel  viso  adorno. 
Veggo  stellato  tutto  el  cielo  empirò, 
La  luna  e  '1  sole,  e  ciò  che  v'è  d'intorno. 
0  gentil  perla,  o  orientai  zaffiro 
Tu  può'  far  notte  chiara  e  scuro  il  giorno 
Tu  sei  d'ogni  beltà  ferma  colonna  : 
Non  me  lassar  morir,  gentil  madonna. 


Chi  sarà  sì  crudel  che  non  t'amassi. 
Gentil  fanciulla,  e  '1  tuo  bel  viso  adorno  ? 
El  tuo  bel  viso  dentro  al  cor  mi  passi, 
E'  tuoi  occhi  leggiadri  tanto  belli. 
Faresti  innamorar  le  pietre  e  i  sassi, 
E  per  le  selve  innamorar  gli  uccelli  : 
E  se  tu  fossi  a  me  punto  pietosa. 
Al  mondo  non  sarìa  più  bella  cosa. 

Il  primo  verso  risponde  al  147  delia  Serenata  del  Bronzino,  ed  è  da 
aggiungersi  ivi,  a  pag.  202,  in  luogo  della  citazione  del  Rispetto  del  Po- 
liziano. L'ultimo  verso  ricorda  quello  della  Xencia  del  Magnifico:  Nel  mondo 
non  fu  mai  sì  bella  cosa  (st.  ■!;.  Del  resto,  trovasi  tutto  quanto  fra  gli 
Slraììibotti  del  Pulci,  n.  45,  con  queste  varianti:  1  sare'...  non  amassi  — 
2  idea,  e'  tuoi  biondi  capegli  ?  —  Z  El  vago  viso  con  che  il  —  4  £"  lucenti 
ocelli  tua  più  ch'altri  begli  ?  —  7  Se  in  ver  di  me  tu  fossi  un  po'  —  8  non 
fu  mai.  —  Ed  è  anche,  anonimo,  nei  Dodici  Rispetti  popol.  ined.  puljbl.  da 
M.  Menghini  nel  Propugnatore  (N.  S.,  Ili)  al  n.  10,  con  queste  varianti  : 
1  sare'  quel  —  2  Dama  bella  e'  tuoi  costumi  —  Z  E  quel...  che  'l  mio  cuore 
—  4  Con   quegli  occhi  sì  lucenti  e  —  h  la  terra  —  1  al  servo  —  8  fu  mai. 


504  RISPETTI  DEL  SECOLO  XV. 

VI. 

Se  fussi  tanto  umil  quanto  se'  bella 
Non  si  morrebbe  un  che  per  te  more  ; 
Tu  se'  mio  primo  amor,  tu  se'  mia  stella, 
Io  son  tuo  servo  e  tu  se'  il  mio  signoi-e. 
Tu  m'accendesti  al  core  una  tiammella 
Che  m'arde  sempre  e  strugge  a  tutte  l'ore, 
E  se  non  mi  darai  presto  conforto, 
Cìentil  fanciulla,  tu  mi  vedrai  morto. 

E  il  17'5  degli  Strambotti  del  Pulci,  con  queste  varianti:  1  S' tu  — 
2  chi  per  te  —  .3  lo  mio...  solo  se'  quella  —  i  Et  ~  (>  m'arde  e  strugge  sempre 
—  1  Se  non  soccorri  e  non  mi  dai  —  8  Tic  m'hai  vedere  in  poco  tempo. 

VII. 

De,  non  voler  nella  tua  giovenezza 

Tenermi  giorno  e  notte  in  pianto  e  in  foco; 
Tu  sai  che  in  cor  gentil  non  regna  asprezza, 
Non  mi  lassar  morire  in  questo  loco; 
Non  lassar  consumar  la  tua  bellezza, 
Che  fugge  come  gli  anni  a  poco  a  poco  : 
Non  si  può  sempre  star  nell'età  verde. 
Non  si  può  racquistar  chi  '1  tempo  perde. 

Il  tema  è  comune,  ma  odasi  questo  Strambotto  di  Bartolomeo  da 
Parma  (fra  le  Poesie  del  Calmeta,  Chivasso,  1529). 

Non  ti  varrà  pentir  da  poi  eh'  avrai 
Perduto  il  fior  della  tua  gioveneza, 
Tutta  dolente  ancor  ne  piangerai 
D'aver  usato  a  me  tanta  dureza. 
E  poi  son  certo  ancor  maladirai 
Che  indarno  al  mondo  passa  tua  helleza; 
Tempo  perduto  niai  più  s'areequista. 
Ma  in  quel  pensando  ognor  più  l'uom  s'attrista. 

Vili. 

Tu  fai  morire  el  più  Adele  amante 
Che  si  attrovasse  per  tutta  To.scana, 
E  chi  cercasse  el  ponente  e  levante; 
Nascesti  tu  nel  tempo  de  Diana, 
Che  tu  pari  de  le  sue  membre  sante  ; 
Tu  se'  più  bella  che  la  tramontana, 
E  se'  più  cruda  ;   e  se  morir  mi  fai, 
Gentil  madonna,  mai  pietà  non  hai. 


RISPETTI  DEL  SECOLO   XV.  505 


Tu  se'  più  cruda  che  non  fu  Nerone 
E  se'  più  cruda  che  non  fu  Mesenzio  : 
Fami  morire,  e  fai  non  a  ragione; 
Mostrami  el  mele,  e  poi  mi  da'  l'assenzio. 
Ara'  tu  mai  di  me  compassione, 
Darà'  tu  mai  a  me  qualche  silenzio  ? 
Ara'  tu  mai  pietà  de  le  mie  pene, 
Che  son  ligato  con  mille  catene? 

X. 

Amor  mi  dice  pur  che  'I  tempo  aspetti, 
Ch'ancor  di  me  tapino  incresceratti. 
Pertanto  leggerai  questi  Rispetti, 
E  tienli  per  amor  di  chi  li  ha  fatti. 
Che  so  che  di  cantar  tu  ti  diletti, 
E  so  ancor  che  di  me  ricorderatti  : 
A  te  li  scrivo,  a  te  li  dono  e  mando, 
E  quanto  io  posso,  io  mi  ti  raccomando. 

In  una  Serenata  di  Minèo  (Vigo,  n.  12G8)  : 

Stancati,  sunatori,  di  sunari 
Mentri  ca  sta  durmennu  la  me  Dia; 
Mi  spagnu  no  la  vegnu  a  rrisbiggbiari 
Ccu  sta  bella  famiisa  sinfunia  ; 
Sacciu  ca  cei  piaci  lu  cantari, 
Sidda  durniissi  'un  la  rrisbigghiaria: 
Lassatila,  lassatila  ripusari, 
Mi  credu  ca  s"  insonna  ca  è  ccu  mia. 

XI. 

L'alba  apparisce,  o  nohil  cherubino, 
E  la  stella  diana  si  nasconde  : 
Ancor  la  luna  ha  fatto  il  suo  cammino, 
E  '1  giorno  vien  ch'allumina  le  fronde; 
Levati  suso,  o  occhio  pellegrino, 
Alza  la  testa  da  le  trecce  bionde  : 
Levati  suso,  e  più  non  dormire, 
E  '1  tuo  servo  fedel  ti  piaccia  udire. 

Il  4'  verso  ne  ricorda  un  altro  di  un  Poemetto  noto  nel  Quattrocento, 
intitolato  La  visione  di  Yenus,  e  che  da  taluno  venne  attribuito,  a  torto 
secondo  noi,  al  Boccaccio.  La  prima  ottava  dice  : 


506  RISPETTI  DEL  SECOLO    XV. 

Già  le  sue  ^liorue  d'oro  s' intrecciava 
Apollo  iùella  Spagna  a  meze  l'onde, 
E  le  colonne  d'  Ercole  lassava  ; 
Spento  era  el  d"!  che  alumina  le  fronde, 
E  '1  cielo  d'ogni  parte  si  stellava. 
Il  penultimo  verso  ricorda  quello  di  una  stanza  "  da  dirsi  in  sulla 
viuola  la  sera  per  serenata  „  edita  da  6.  Volpi  {Note  di  varia  erudiz.,  Fi- 
renze, Seeber,  190.3,  p.  23): 

Alza  le  bionde  ciglia  e  non  dormire. 
Fra  i  Canti  marcliigiaui  uno  cos'i  comincia  (Gianandre\,  p.  131): 

Alza  la  bionda  treccia  e  non  dormire  ; 
e  un  Canto  toscano  (Tigri,  n.  263)  : 

Alza  la  bionda  testa  e  non  dormire  ; 
verso  che  tale  e  quale  trovasi  in  un  Canto  veneto  (Bernoni,  punt.  IV,  n.  45). 
Un  canto  toscano  (Giannini,  162): 

Alza  le  trecce  bionde  e  non  dormire. 

Altri  confronti  vedi  in  Gianandrea,  loc.  cit.,  e  in  Marcoaldi,  Canti  popol. 
nmbri,  n.  69  :  C.  popol.  latin.,  n.  40  ecc. 

XII. 

Soccorrimi,  per  Dio,  che  più  non  posso 
Tanti  crudi  martìri  più  durare, 
Che  li  occhi  tuoi  m'han  messo  il  foco  addosso, 
Tutto  m'accendi  e  non  mi  vuoi  aitare. 
Vorrìati  favellar,  ma  io  non  posso; 
Tu  che  sai  el  modo  me  lo  de'  insegnare  : 
Vorrei  che  lussi  gentile  e  cortese 
A  le  mie  pene  eh'  io  ti  fo  palese. 

Trovasi  anche  nei  Rispetti  a  Tishe  del  cod.  magliab.,  strozz.  638 
(ci.  VII,  1008),  ed  è  stampato  cosi  dal  Carducci  nel  Discorso  preliminare 
al  Poliziano,  CXIV: 

Soccorremi,  per  Dio  ;  che  più  non  posso 

Tanti  crudel  martini  sopportare; 

Co' gli  occhi  tuoi  m'hai  messo  il  foco  a  dosso, 

Tutto  mi  abbrucio  e  non  mi  posso  stare. 

Vorrùti  favellare,  e  io  non  posso  : 

Tu  che  sai  modo  me  '1  debbi  insegnare  : 

Merzè  ch'io  t'addomando  al  mio  tormento, 

0  tu  mi  uccidi  o  tu  mi  fai  contento. 
Vedi  anche  gli  ati-ambotti  del  Giustinian,  n.  XIV. 

XIIL 

Come  un  falcon  che  de  l'aria  discende, 
Così  fanno,  madonna,  gli  occhi  tuoi: 
Trist'ò  colui  che  tal   colpo  prende. 
Medico  al  mondo  guarir  no'  lo  poe. 


RISPETTI  DEL  SECOLO   XV.  507 

Dal  capo  ai  piedi  tutto  tu  Io  fendi  : 
Mestier,  madonna,  è  ch'io  m'arrenda  a  voi: 
Quegli  occhi  ad  un  falcon  tu  li  furasti, 
E  del  ferire  tu  li  ammaestrasti. 

XIV. 

Chi  ara  cotanta  grazia  da  Dio, 
Chi  sarà  quello  tanto  grazioso, 
Che  goda  el  tempo  che  perduto  ho  io 
In  questo  mondo  senza  aver  riposo  ! 
Chi  sarà  el  tuo  marito,  o  signor  mio, 
Chi  sarà  quello  avventurato  sposo, 
Chi  sarà  quel  di  sì  contenta  vita, 
Chi  metterà  l'anel  fra  le  tue  dita? 

Cfr.  colle  citazioni  al  v.  33  della  Serenata  del  Bronzino,  pag.  178;  e 
per  l'ult.  verso  cfr.  Giannini,  C.  p.  lucch.,  p.  22  : 

Oh  chi  ti  metterà  l'anello  in  dito? 
e  C  p.  tose,  in  uno  Stornello  chianaiolor 

Chi  ve  lo  metterà  l'anello  'n  dito? 

XV. 

Affacciati,  signora,  e  udirai 

Costui  che  par  che  tanto  pianga  forte: 
A  fatto  li  Rispetti  a  li  suoi  guai. 
Piange  e  sospira  e  domanda  la  morte. 
Oimè,  signora,  se  lasciato  m'ài, 
Girò  baciando  le  mura  e  le  porte  : 
Girò  baciando  le  porte  e  le  mura, 
Se  m'abbandoni,  o  cara  mia  signora. 
Cfr.  colle  citazioni  al  v.  51  della  Serenata. 

XVI. 

Fanciulla  ch'hai  i  capelli  d'oro  fino 
Ed  al  viso  le  rose  spampanate. 
Gli  occhi  tu  ài  d'un  falcon  pellegrino. 
Le  ciglia  nere,  e  portile  inarcate  ; 
Nelle  mascelle  porti  un  gelsomino, 
Le  labbra  rosse,  e  àie  inzuccherate  : 
O  zuccherina  'nzuccherata  da  Dio, 
Che  inzuccherasti  lo  compagno  mio  ! 

Bella  che  tiene  li  capeglie  d'oro,  è  il  principio  d'una  Canzone  musicale 
del  sec.  XVI  (Saviotti,  in  Giotn.  star.  lett.  ital.,  XIX,  447).  Il  3»  verso  ram- 
menta la  Fiammetta  (Decam.,  IV,  10)  "  con  due  occhi  in  testa  che  parevano 
d'un  falcon  pellegrino  „. 


508  EISPETTI    DEL   SECOLO   XV. 


xvn. 

0  fior  d'ogni  bellezza,  o  viso  adorno. 
Corona  e  specchio  d'ogni  leggiadria, 
Gli  occhi  rilucenti  più  ch'el  giorno 
Aprili  un  poco,  e  caccia  il  sonno  via  : 
Non  far  che  indarno  vegna  quinci  attorno, 
eh'  io  son  tuo  servo  e  tu  la  donna  mia  : 
De,  fa  ch'el  mio  parlar  non  sia  perduto, 
Che  sol  perchè  tu  m'odi  e'  son  venuto. 


Forse,  madonna  bella,  tu  non  sai 
Com'  io  son  forte  di  te  innamorato  : 
Non  mi  conosci,  e  non  m'udisti  mai 
Andar  cantando  per  questa  centrata. 
Madonna,  sono  lo  servo  che  ormai 
Novellamente  l'alma  t'ho  donata: 
Sono  il  servo,  madonna,  che  di  novo 
Tu  m'ài  ferito,  e  pace  più  non  trovo. 

XIX. 

Ferito  son  d' un'amorosa  fiama, 
Tutto  infiamato  con  perfetta  fede  ; 
Di  vedere  i  miei  occhi  [altro]  non  brama 
Ch'el  tuo  bel  viso  ched  ogn'ora  ride  ; 
El  cor  mio  di  dolcezza  sempre  brama 
El  tuo  bel  nome  e  gli  occhi  che  m'ancide; 
Così  son  preso,  e  fattomi  soggetto 
Novellamente  del  tuo  vago  aspetto. 

XX. 

Disposto  m'era  i  giorni  di  mia  vita 
Tutti  passar  senza  sentir  d'amore; 
Giammai  non  vidi  donna  si  fiorita 
Che  commovesse  el  mio  'ndurato  core  : 
Ma  poi  ti  viddi,  o  rosa  colorita. 
Gli  angelici  costumi  e  '1  bel  colore, 
Subitamente  innamorato  fui: 
Tanto  mi  piacque  il  viso  e  gli  occhi  tui. 


RISPETTI  DEL   SECOLO   XV.  509 

XXL 

Deh  non  fuggir,  amor,  poiché  natura 
T'à  di  bellezza  sì  bene  adornata  : 
Non  perder  tempo,  non  stare  più  dura. 
Centra  '1  tuo  servo  non  esser  spietata  ; 
Or  t' innamora,  angelica  figura  ; 
Fin  che  hai  il  tempo  vivi  innamorata  ; 
De  non  fuggir,  amor,  non  esser  vile. 
Che  donna  senz'amor  non  è  gentile. 

XXII. 

Non  posso  più  celar  l'ardente  fiama, 
Che  porto  per  tu'  amore  nel  mio  petto  ; 
Dir  mi  conviene  quanto  il  mio  cor  t'ama, 
Quanto  mi  piace  il  tuo  leggiadro  aspetto  : 
Tacer  non  posso  più  l'ardente  brama 
Se  non  servirti  ed  esserti  soggetto  : 
Ma  ti  puoi  avvantar  d'un  servo  ch'hai 
Il  più  fedel  che  donna  avesse  mai. 


Madonna,  tu  se'  molto  biasimata 

Che  tanti  amanti  passin  di  qni  via  : 
El  se  ragiona  molto  in  sta  contrata, 
Per  certo  dicon  che  tua  colpa  sia  : 
Ed  io  soltanto  ti  aggio  scusata 
Molte  fiate,  dolce  donna  mia  : 
Però  ti  priego,  non  li  ritenere, 
Cacciali  via,  e  fammi  sto  piacere. 

Il  V.  3  ricorda  quel  della  Kencia  (st.  Ili:  Pel  vicinato  molto  si  ragiona. 
XXIV. 

Credea  che  avessi  l'animo  gentile 
Quando  mi  festi,  donna,  innamorare, 
Io  t'ò  trovato  disleale  e  vile, 
Che  tu  non  ami  chi  ti  vele  amare  ; 
A  tutti  attendi  se  fussen  ben  mile, 
Con  tutti  quanti  stai  a  vagheggiare  : 
Madonna,  se  'sti  modi  ài  a  tenere. 
Tempo  verrà  che  te  'n  potrai  pentère. 


510  RISPETTI  DEL  SECOLO   XV. 


XXV. 

Io  maledico  l'ora,  il  giorno  il  punto, 
Il  mese  e  l'anno  che  m' innamorai  : 
Io  maledico  Amor  che  m'à  sì  punto, 
Che  vo  chiamando  Morte  alli  miei  guai, 
E  la  Fortuna  a  torto  m'  ha  congiunto 
Che  io  sia  tuo,  e  mia  tu  non  sia  mai  ; 
E  vo  piangendo  come  disperato, 
E  non  ti  vien  di  me,  donna,  peccato. 

Un  Canto  siciliano  (Vigo,  n.  3874)  : 

Fui  di  l'occhi  mei,  fui,  ti  dicu. 
Non  voggliiu  amari  ccliiu  stu  cori  'ngratu  ; 
Ha  tantu  tempu  mi  si'  statu  araieu, 
Ora  di  hi  me  cori  discacciata. 
Ti  malidicu  iu  lu  ben  sirvitu, 
Puru  lu  tantu  tempu  che  t' be'  amatu; 
E  tuttu  quanta  ti  lu  malidicu: 
Malidittu  sugn'  iu  ca  t' haju  amatu. 

Un  antico  rimatore,  citato  dal  Carducci,  Cantilene  e  Ballate,  p.  268  : 

Io  maledico  l'ora  e  '1  punto  e  '1  d''i 
E  '1  luogo  e  '1  tempo,  dove  Amor  mi  fé' 
Veder  le  tue  bellezze  ecc. 

Benedizioni,  invece  di  maledizioni,  in  proposito  di  amore  e  dell'  innamo- 
r.imento  annovera,  togliendole  specialmente  da  Poesie  popolari,  lo  Schu- 
CHAKDT.  pag.  121,  alle  quali  aggiungo  io  quest'ottava  del  Verini  ueir.4>"(ior 
d'amore  : 

Sia  benedetto  chi  trovò  l'amore, 

Sia  benedetto  chi  è  innamorato, 

Sia  benedetto  chi  ama  di  cuore. 

Sia  benedetto  chi  è  sempre  amato. 

Sia  benedetto  chi  amando  muore, 

Sia  benedetto  amore  e  il  suo  stato, 

Sia  benedetto  e  benedetta  sia 

L'  unica  di  beltà,  la  dama  mia. 

Che  rammenta  que'  versi  del  Rispetto  toscano  (Tigri,  n.  449): 

Sia  benedetto  e  benedetto  sia 

La  casa  del  mi'  amore,  e  poi  la  mia. 

XXVI. 

Addio  centrata,  addio  el  mio  redutto: 
Piangendo  el  mi  conviene  abandonai'e  ; 
Non  m'ò  giovato  a  dire  ajuto  ajuto, 
Non  m'è  giovato  le  braccia  incrociare, 


RISPETTI  DEL   SECOLO  XV.  511 

Perchè  '1  mio  bel  servire  e'  l'ho  perduto; 
Più  bella  donna  non  potrò  trovare  : 
Con  gli  altri  amanti  io  anderò  doglioso, 
Col  capo  chino  e  col  cor  lagrimoso. 

Cfr.  per  gli  ultimi  due  versi  questo  Rispetto  (Giannini,  C.  ì».  tose, 
pag.  226): 

Ne  mai  più  riderò  né  farò  festa, 
Con  altre  donne  abbasserò  la  testa. 

XXVII. 

Più  lieto  amante  in  questo  mondo  fui; 
Ora  mi  trovo  el  più  disconsolato. 
Questo  mi  vien  per  lo  mal  dir  d'altrui  : 
Or  male  n'aggia  chi  me  n'ha  incolpato; 
Ancora  spero  di  veder  colui 
Stentare  al  mondo  sol  per  sto  peccato  : 
Ancora  spero  di  veder  vendetta 
Di  quella  falsa  lingua  maledetta. 

Cfr.  qui  addietro  a  p.  166  n.  e  gli  Strambotti  del  Giustinian,  n.  XXI. 
Ed  è  fra  gli  Strambotti  del  sec.  XV  pubbl.  da  V.  Gian  (Giorn.  stor.  ìett.  ital., 
IV,  53)  con  queste  varianti:  1  amato  —  2  vezo  —  3  E  q.  si  è  sol  —  i:  tual 
aza  —  5  Che  ancora  credo  —  6  per  questo  —  1  E  ancora  credo.  È  anche 
nelle  Rime  amorose  del  sec.  A'F  pubbl.  da  V.  Joppi,  Ladine,  1879,  con  queste 
varianti  :  3  mi  avvien  —  4  Che  mal  ne  abbia  chi  mi  gli  ha  —  6  x>^''  questo  — 
8  lingua  falsa  e. 

xxvin. 

Ogn'uom  sta  lieto,  e  io  meschino  mai 
Non  mi  posso  veder,  sono  doglioso  : 
Da  poi  che  in  te,  fiore,  m' inamorai 
E'  par  ch'el  ciel  mi  sia  contrarioso. 
Lo  viver  m'è  tornato  in  pianto  e  in  guai, 
E  della  morte  io  son  desideroso  : 
Fosse  a  venire,  e  non  venisse  mai, 
Lo  giorno  che  di  te  m' inamorai  ! 

Cfr.  colla  lezione  in  Bibl.  lett.  pop.,  II,  75:  1  ormai  —  2  Se  non  — 
3  Del  ziorno  che  datte  —  5  Diletto  m'è  rivolto  —  7-8  Morir  vorria  e  non 
posso  morire  Kè  tante  pene  non  posso  soffi  ire. 

XXIX. 

Giojoso  vorìa  star,  ma  la  Fortuna 
Per  mille  modi  par  che  mi  molesta  ; 


)12  EISPETTI  DEL   SEGOLO   XV. 

E  par  elle  '1  cielo,  le  stelle  e  la  luna 
Giri  d'  intorno  ogni  allegrezza  e  festa. 
D'amarti  non  starò  per  cosa  alcuna, 
E  la  mia  fé  si  farà  manifesta; 
Sarò  fedele,  e  tu  '1  potrai  vedere  : 
Per  molti  modi  tei  farò  sapere. 

Cfr.  gli  Strambotti  del  Giustinian,  n.  XII. 


Tuo  servo  son,  madonna,  e  tu  m'ancidi 
Con  gli  atti  tuoi  e  con  la  guardatura  : 
Da  casa  tua  passo  e  non  mi  ridi. 
Ma  gli  occhi  abbassi  con  la  ciera  scura. 
Innamorar  mi  festi,  or  mi  disfidi, 
Spesso  fai  impallidir  la  mia  figura, 
E  se  ben  guardo,  morto  vo  per  via  : 
Tant'è  le  pene  cli'à  la  vita  mia. 

XXXI. 

Perla  gentil,  che  mai  non  sei  partita 
Dalla  mia  afflitta  e  tribulata  mente. 
Cristo  ti  doni  allegrezza  compita 
Quanto  desidra  l'alma  tua  piacente. 
Or  qui  venuto  son,  ora  m'aita; 
De,  non  abbandonar  'sto  tuo  servente; 
Che  sempre  più  che  Dio  io  faggio  amata 
Or  mi  soccorri,  o  rosa  angelicata. 


Le  male  lingue  pur  lassale  dire, 
Che  dal  mal  fuogo  (tutte)  arse  sia  ; 
E  se  credesse  ben  dover  morire 
Io  non  starò  di  passar  quinci  via. 
Quando  mi  vedi  di  qua  via  venire 
La  verdura  me  batte  notte  e  dia  ; 
E  se  '1  tuo  amor  mi  fa  di  qui  venire, 
De,  non  mi  far,  donna  gentil,  morire. 

Uno  stornello  toscano  (Giannini,  C.  p.  Inceli.,  p.  10.51: 

Tutte  le  male  lingue  lasci.i  dire. 

Quel  verdura  mi  riesce  difficile  a  intendere.  Noto  soltanto  clic  in  un  canto 
consimile  veneto  (v.  pag.  2.56)  si  legge:  ti  gieri  in  camara  serata  E  nii 
meschino  fora  a  le  verture. 


RISPETTI  DEL  SECOLO   XV.  513 

XXXIII. 

Ma  se  Madonna  m'è  stata  casone 
D'abbandonarmi  senz'aver  fallato, 
Io  prego  l'alto  Dio  che  li  perdono 
E  facciala  pentir  de  'sto  peccato: 
Ma  penso  se  vai  dire  alle  persone, 
Che  chi  è  cagion  non  crede  all'ammalato. 
Però,   0  dolce  amor,  fagli  sentire 
Oh  quant'è  acerbo  il  mio  grave  martire  ! 

XXXIV. 

Io  son  disposto  di  quinci   venire. 

Vaga  leggiadra  donna,  per  tuo  amore, 
E  più  che  mai  ti  voglio  servire 
Ch'omo  fedele,  amante  e  servitore  : 
Ma  una  grazia  ti  voglio  richiedere. 
Che  non  mi  lassi  per  altro  amadore  ; 
E  a  lui  vedessi  un  cortello  nel  core 
A  chi  dispiace  eh'  io  sia  tuo  amatore  ! 


L'anima  mia  ti  voglio  lassare. 

Che  me  la  salvi  per  ricco  tesoro  ; 

Per  bella  carta  mi  voglio  obbligare 

Di  non  ti  abbandonar  perfin  eh'  io  moro. 

A  la  mia  vita  ti  voglio  portare 

Nel  mezzo  del  mio  cor  scolpita  d'oro  : 

D'oro  ti  vo-glio  portar  nella  mente. 

Che  sempre  ti  sarò   obbediente. 

Confronta  il  Canto  toscano  (Tigri,  n.  461): 

Piglia  la  penna,  il  calamaro  e  il  foglio, 
Scrittura  ti  vo'  far  della  mia  vita: 
Du'  testimoni  alla  presenza  voglio, 
Acciò  che  tu  non  negbi  la  partita: 
Se  la  partita  a  me  la  negherete, 
Sarà  dal  poco  ben  che  mi  vorrete. 

XXXVI. 

Io  faggio  posto  nome  la  piti  bella. 

Cara  madonna,  perch'ai  mio  cor  piace: 
Mo  abi  per  certo  questa  novella 

D'Ancona,  La  poesia  pop.  itaì.  —  33 


514  EISPETTI   DEL   SECOLO   XV. 

Che  li  tuoi  occhi  sì  mi  fan  languire. 
Tu  sei  savia  e  pari  un'aiigiolella, 
O  dolce  donna,  tu  mi  fai  morire  ; 
Per  fin  eh'  io  moro  sarò  tuo  servitore, 
E  fitta  mi  starai  sempre  nel  core. 

xxxvn. 

Quando  io  mi  penso  del  bello  partito 
Cli'  io  persi  sol  per  non  aver  baldanza, 
Vorìa  esser  morto  o  vivo  sepellito, 

0  posto  in  croce  per  tanta  fidanza  : 
Per  tristezza  mi  trovo  isbigottito 
Per  via  dell'amorosa  e  bella  amanza; 
Se  a  quello  luogo,  donna,  non  ritorni, 
Morire  mi  vedrai  in  pochi  giorni. 

Kel  cod.  Laurenziano  SS.  Annunziata,  122.  dice  così: 

Quand'io  mi  penso,  oimè  del  bel  partito 
Sol  che  perdei  per  non  aver  baldanza, 
Ben  vorrei  esser  vivo  sepellito  ; 
E  porto  in  cuore  pur  tanta  tristanza. 
Che  di  baciarti  non  fui  sì  ardito 
La  tua  boccuccia  di  tanta  dolcezza. 
Che  se  a  quel  luogo  presto  non  ritorni, 
Morto  mi  troverai  in  pochi  giorni. 

xxx^^II. 

Se  '1  potesse  esser,  io  vorìa  sapere 
Come  e'  ti  piace  il  mio  leal  servire: 
Se  se'  contenta  eh'  io  vegna  a  vedere 

1  tuoi  bei  occhi  che  mi  fan  morire. 
Non  mi  tener  celato  el  to'  volere, 
Secretamente  mandamelo  a  dire  : 

Se  mandi  messo,  fa  che  '1  sia  celato, 
Che  '1  nostro  amore  i'  tegna  ben  secreto. 

XX  XIX. 

Quattro  parole  ti  voglio  ridire 

Poi  che  m'avesti,  donna,  abandonato. 
.E  la  prima  è  che  tu  mi  fai  morire, 
E  l'altra  ch'io  vi  sia  raccomandato: 
La  terza  io  non  la  po.sso  sotferire  : 
Dammi  la  morte,  io  sono  apparecchiato. 


RISPETTI  DEL  SECOLO  XV.  515 

S'io  muoio  ch'io  non  sia  da  voi  aiutato, 
Vostra  sarà  la  colpa  e  lo  peccato. 

Vedi  qui  addietro  (p.425;  e  Io  Strambotto  XX  del  Giustinian  (v.  i  con- 
fronti in  Sabatini,  Alcuni  St>:  di  L.  G.,  Koma,  1890,  p.  13).  Si  trova  già  nel- 
VAnconiiana  del  Ruzzante  (v.  Lovarini,  p.  25)  in  questa  forma: 

Quattro  suspiri  te  vorrie  mandare 
E  mi  meschino  fusse  ambassadore: 
Lo  primo  si  te  deza  salutare, 
L'altro  te  conta  lo  mio  gran  dolore; 
Lo  terzo  si  te  deza  assai  pregare 
Che  ti  confermi  questo  nostro  amore  : 
E  lo  quarto  te  mando  inamorato, 
Xon  mi  lassar  morir  desconsolato. 

Un  Canto  toscano  (Tigki,  n.  263): 

Alza  la  bionda  testa  e  non  dormire, 
Non  ti  lasciar  superar  dallo  sonno  : 
Quattro  parole,  amore,  io  son  per  dire, 
Che  tutte  e  quattro  son  di  gran  bisogno. 
La  prima,  ell'è  che  mi  fate  morire, 
E  la  seconda  che  un  gran  ben  ti  voglio  : 
Laterza  che  vi  sia  raccomandato; 
L'  ultima  che  di  voi  so'  innamorato. 

Cfr.  GlANANDREA,  pag.  131;  Maecoaldi,  Canti  popol.  umbri,  n.  69;  Canti 
Xiopol.  latini,  n.  29,  40:  Ive,  pag.  72;  Villanis,  XXV  Stramb.  pop.  zaratini, 
n.  1;  Mazzatinti,  n.  254;  Giannini,  C.  p.  tose,  162,  e  lucchesi,  p.  85;  Ron- 
dini, p.  49. 

XL. 

Ogni  uomo  sì  si  vuole  inamorare 
Credendo  che  l'amor  si  sia  piacere  : 
Non  vi  si  metta  chi  non  lo  sa  fare, 
Che  lo  conduce  al  punto  del  morire. 
Ma  ben  ti  voglio  questo  ricordare, 
Ch'  io  ti  sarò  un  leal  servitore  : 
Tu  sai.  Amore,  ciò  che  'I  mio  cor  vole  : 
Al  bon  intenditor  poche   parole. 

Cfr.  per  1  due  primi  versi,  Giannini,  C.  p.  tose,  p.  141  : 
Credevo  che  l'amore  fosse  un  gioco  ecc. 

XLI. 

S' io  mi  potesse  tanto  gloriare 

Che  m'appellassi  per  tuo  servitore, 

Voria  alle  tue  voglie  satisfare, 

E  conservarti  sempre  lo  tuo  onore. 


516  RISPETTI  DEL  SECOLO   XV. 

Pur  eh'  io  potesse  ben  poterci  stare 
Nella  tua  grazia,  caro  mio  signore, 
Sarìa  contento  più  ch'uomo  che  sia, 
-    Se  tu  m'amassi,  dolce  anima  mia. 

Nei  clt.  Rispetti  a  Tisbe  suona  cosi  (Carducci,  in  Prefaz.  al  Poli- 
ziano, pag.  cxiv) : 

Se  mi  potessi  tanto  groliare 
Ch'  io  m'appellassi  per  tuo  servidore, 
E  tutte  le  mie  voglie  sodisfare. 
Sempre  s.ilvando,  i'  dico,  il  tuo  onore, 
S' i'  fussi  certo  di  potere  stare 
Nella  tua  grazia,  caro  '1  mio  signore, 
Sare'  contento  più  clied  uom  die  sia, 
Se  tu  m'amassi,  dolce  anima  mia. 

XLIL 

Ecco,  madonna,  lo  tuo  servitore. 
Ecco  colui  che  ti  vuol  tanto  bene, 
Ecco  colui  che  ti  chiama  Signore, 
Ecco  colui  che  si  muore  per  tene: 
Aggi  pietà  de  lo  tuo  servitore, 
Egli  è  colui  che  per  te  porta  pene  : 
Egli  è  colui  che  mai  non  trova  posa: 
Per  Dio,  madonna,  siate  graziosa. 


Non  ti  credetti  mai  tanto  fallire 
Che  da  te,  donna,  fossi  abandonato. 
Misericordia,  quanto  se'  crudele. 
Che  fai  morir  lo  tuo  inamorato  ! 
L'omo  che  falla  e  poi  torna  a  mercede 
Quel  fallo  fatto  siagli  perdonato. 
Ahimè  meschino,  quanto  lungo  tempo 
Son  stato  servidor  ma  legnio  al  vento  ! 

XLIV. 

Recordati  di  me,  che  non  fu  mai 
Omo  che  una  donna  tanto  amassi  : 
E  degli  amanti  attroveresti  assai. 
Ma  no  chi  tanta  fede  a  te  portassi. 
Però,  fanciulla,  guarda  quel  che  fai. 
Non  credere  a  ogn'onio  che  qui  passi  : 
Però  che  spesso  ingannato  si  trova 
Chi  lassa  la  via  vecchia  per  la  nova. 


RISPETTI  DEL  SECOLO   XV.  517 


XLV. 

Portato  ò  più  pene  iu  vita  mia, 

E  per  amor  son  stato  a  gran  perigli  ; 
Ma  i'  non  credo  aver  melenconia 
Che  a  cento  a  una  a  questa  si  somigli  ; 
Un  vermine  ò  nel  cor  che  par  che  sia 
Un  can  che  per  istizza  il  cor  mi  pigli, 
E  mai  non  fina  notte  né  dì  né  ora, 
Che  a  poco  a  poco  tutto  mi  divora. 

XLVI. 

Tutta  la  notte,  lasso  me  dolente, 
Quand'ogni  omo  è  posto  a  riposare. 
Piango  e  sospiro  dolorosamente 
Fin  la  mattina  quando  il  giorno  appare; 
Il  dì  eh'  io  doverrìa  star  fra  la  gente 
Convienmi  in  qualche  luogo  ascoso  stare, 
Ch'  io  non  sia  visto  da  persona  alcuna 
Pianger  la  dispietata  mia  fortuna. 

XLYII. 

Che  fai,  dolce  speranza  di  mia  vita, 

Che  non  soccorri  il  tuo  servo  che  more  ? 
Li  giorni  volan  come  fan  saette  : 
Pure  aspettando,  io  muoro  per  tuo  amore. 
Poi  che  bellezza  e  gioventù  t' invita 
Prendi  piacer,  che  '1  te  Io  mostra  Amore  : 
Se  lasci  andare  il  tempo,  tu  vorrai 
Darti  piacere  quando  non  potrai. 


Cristo  ti  fece,  donna,  la  figura. 
Lui  stesso  credo  che  la  lavorasse: 
Siete  gentile  e  nobil  criatura, 
Mandata  al  mondo  ch'ogni  uomo  v'amasse. 
Se  '1  si  sforzasse  il  cielo  e  la  Natura 
Non  farìa  un'altra  che  ti  assomigliasse  ; 
Tanto  se'  bella  che  lo  sole  passi  : 
Giorno  faresti  se  la  notte  andassi. 


518  KISPETTI  DEL   SECOLO   XV. 


XLIX. 

L'  uomo  fallisce  a  Dio  mille  fiate, 
E  pur  ch'e'  si  ripenta  e'  gli  perdona  : 
Non  fa  [si]  come  voi,  madonna,  fate, 
Che  per  diletto  uccidi  ogni  persona. 
De,  lassa  andare  tua  crudelitate. 
Donna  che  di  beltà  porti  corona  : 
Non  fu  mai  bella  che  non  fusse  dolce, 
E  tu  sei  più  che  bella,  e  sei  feroce. 


Cavami  d'este  pene  e  d'esto  fuoco, 

E  parla  un  poco  a  quel  che  t'ama  tanto  : 
Ch'io  vo  penando  e  mai  non  trovo  luoco; 
Oimò  eh'  io  moro  per  te,  volto  santo  ! 
De,  non  tener  le  mie  parole  un  gioco. 
Abbi  piotate  al  mio  nojoso  pianto  : 
Fammi  contento,  che  n'è  tempo  omai  : 
Non  mi  lasciar  durar  con  tanti  guai. 

LL 

Io  vivea  senza  sentir  d'amore. 

Non  avea  donna  a  cui  volessi  bene. 
Quando  m'apparì  innanzi  un  bel  fiore. 
Per  dare  alla  mia  vita  amare  pene: 
Subitamente  m'entrasti  nel  core. 
Come  saetta  che  dall'iirco  viene  ; 
La  prima  volta  che  mi  riguardasti 
Lo  cor  s'aperse,  e  tu  dentro  v'entrasti. 

Vedi  gli  ytrambotti  del  Giistinian,  ii.  XI. 


0  chiave  ch'apre  e  chiude  lo  mio  core, 
Consolameiito  della  vita  mia, 
0  medicina  del  mio  gran  dolore. 
Per  te  non  ho  riposo  notte  e  dia. 
Tanto  n'è  inamorato  lo  mio  core. 
Fussi  in  le  braccia  tue,  madonna  mia! 


RISPETTI   DEL    SECOLO   XV.  519 

Fussi  con  teco  una  notte  d'inverno; 
Cento  cinquanta  poi  stessi  in  inferno. 

Il  4*  V.  ricorda  quel  di  Cielo  dal  Camo  : 

Per  te  non  haju  abentu  notte  e  dia 

e  il  canto  toscano  (Giajtnini,  C.  p.  lucch.,  p.  108): 

Per  te  non  dormo  né  notte  ne  giorno  : 

e  il  penultimo  è  il  voto  del  Petrarca  (sestina  1): 

Con  lei  potessi  stare 
Solo  una  notte,  e  mai  non  fosse  l'alba. 

E  anche  (sest.  7;  : 

Sola  venisse  a  stars'ivi  una  notte, 

E  '1  di  si  stesse  e  '1  sol  sempre  nell'onde. 

Come  questo  concetto  si  ritrovi  e  si  esprima  nella  poesia  popolare,  lo  ab- 
biamo fatto  notare  nel  nostro  lavoro  critico,  a  pag.  317  in  nota.  Citeremo 
qui  un  Canto  siciliano  (Vigo,  n.  674)  ivi  accennato  soltanto: 

Su'  graziosi  assai  li  vostri  mora. 

Li  labbruzzi  dui  mennuli  agghiazzati  : 
L'  haju  prijatu  a  Diu  pri  sinu  ad  ora 
Di  dormiri  nui  "nsemula  abbrazzati  ; 
E  li  nuttati  'un  li  vurria  quant'ora. 
Li  vurrissi  dui  jorni  di  la  stati  ; 
Ch' hannu  a  ssiri  biati  ssi  linzola, 
Appujannu  a  ssi  carni  dilicati  ! 


Tu  se'  cotanto  graziosa  e  adatta 
Che  Pulissena,  se  ma'  fosse  viva, 
Parìa  ad  ogn'uonio  una  cosa  disfatta 
A  tuo  rispetto,  tanto  sei  giuliva. 
Non  fu  mai  donna  in  questo  mondo  nata 
Ch'avesse  così  gran  prerogativa, 
Come  ài  tu,  donna,  che  con  gli  occhi  tuoi 
Leghi  per  gola  gli  uomini  che  vuoi. 

Liv. 

Tanti  dispetti  mi  fate  lo  giorno, 
Paretemi,  madonna,  disperare  : 
Vegno  a  vedere  lo  tuo  viso  adorno. 
Tu  ti  nascondi,  e  non  mi  vuoi  sguardare. 
Ed  io  come  uomo  morto  mi  ritorno 
Con  gli  occhi  bassi,  e  non  gli  posso  alzar( 


520  RISPETTI   DEL    SECOLO   XV. 

Poi  mi  ritorno  forte  sospirando, 

Di  passo  in  passo  la  morte  chiamando. 

È  il  320  dei  Bispetti  del  Pulci,  con  queste  varianti:  1  tu  mi  fai 
—  2  Che  tììi  farcii,  idea  —  3  il  tuo  bel  —  4  -E  tu  me  'l  celi  e  non  me  'l  vitui 
mostrare  —  5  ferito  a  te  —  6  Abbasso  gli  occhi,  e  non  so  che  mi  fare  — 
7  E  poi  mi  parto  —  8  ^  passo  a  p. 

LV. 

De,  non  mi  far  portar  sì  gran  dolore  I 
Mercè  ti  chiedo,  viso  d'angiolella  ; 
Per  ben  ch'io  non  sia  degno  del  tuo  onore, 
Perchè,  madonna,  siete  tanto  bella. 
Ama  chi  t'ama  con  leale  core, 
Con  pura  fede  ascolta  sua  favella  ; 
Pregoti,  donna,  non  esser  crudele 
Ad  un  amante  che  ti  sia  fedele. 

LVI. 

Odi  che  fa  1'  insognio  traditore 
La  notte  poi  che  sono  adormentato  : 
Fammi  venire  in  sogno  lo  mio  amore. 
Tutta  la  notte  me  lo  sogno  allato. 
Poi  mi  risveglio  con  grave  dolore. 
Trovo  r  insognio  ched  e'  m'  ha  ingannato  : 
Sogno  traditor  che  inganni  la  gente  ! 
Strinsi  le  braccia  e  non  trovai  niente. 

Nel  codice  laurenz.  plut.  90  super.  (89  gaddian.),  trovasi  questo  Stram- 
botto edito  dal  Carducci  (loc.  cit.,  pag.  cxvii,  : 

Sta  notte  lo  sognai  quello  che  fosse, 
Sta  notte  lo  sognai  quello  che  fla  : 
Ch'i'  ero  fra  le  rose  bianche  e  rosse, 
Ch'i'  ero  in  braccio  dell'amanza  mia: 
O  sogno  vano  che  inganni  la  gente  : 
Strinsi  le  braccia  e  non  trovai  niente. 

Kon  molto   diversa  lezione  è   data  dall'ALVisi,  Bispetti  del  sec.  XV,  An- 
cona, 1880: 

Stanotte  mi  sognai  quello  che  fia. 
Stanotte  mi  sognai  quello  che  fosse, 
Ch'io  ero  tra  le  braccia  della  donna  mia, 
Ch'io  ero  tra  le  rose  bianche  e  rosse, 
O  sonno  vano  clie  inganni  la  gente. 
Strinsi  le  braccia  e  non  trovai  niente! 
0  sonno  vano  che  la  gente  inganni. 
Strinsi  le  braccia  e  mi  trovai  fra'  panni  ! 


RISPETTI   DEL   SECOLO   XV.  521 

E  fra  i  Rispetti  a  Tisbe: 

Tutta  la  notte  dinanzi  m'apare 
L'angelica  figura  e  '1  bel  aspetto, 
E  parrai  star  con  teco  a  ragionare, 
Onde  per  questo  ne  prendo  diletto; 
Omè,  che  io  non  mi  vorre'  [dijsvegliare. 
Gigli  e  \iuole  parrai  aver  nel  letto, 
Omè,  ch'io  n'ebbe  tanta  consolazione 
0  gentil  donna,  di  tua  visione  ! 

Parte  di  esso  trovasi  in  un  Canto  veneto  (Beenoni,  punt.  VI,  n.  10): 

Sta  note  m' ò  insogna,  magari  fusse, 
Gaveva  de  le  rose  bianche  e  rosse: 

e  parte  in  un  Canto  vicentino  (Alvekà,  n.  LXVI  .  Cfr.  Righi,  C,  p.  veron., 
D.  49: 

Stanote  mi  sognai  di  te,  Betina, 

Che  per  amor  te  m'è  porta  una  rosa  : 

Quando  che  me  desmisio  a  la  matina, 

Trovai  la  rosa,  e  non  trovai  Betina: 

A  me  desmisio  co  l'amor  contento  : 

E  mi  trovai  le  man  piene  de  vento. 

Uno  Strambotto  siciliano  (Vigo,  n.  1116): 

Unn'è  la  n'osa  ch'haju  amatu  tantu? 
La  guardu,  la  scuprisciu  e  nnn  la  sentu  ! 
La  notti  m'insonnu  ehi  1' h.iju  accantu: 
La  vaju  ppi  tuccari,  e  toecu  venta. 

Un  canto  di  Serrara  d'Ischia  (Amalfi,  n.  71): 

Tutta  la  notte  mi  te  sonno  accanto. 
N'ho  potuto  fa' 'nu  suolino  contento; 
Vado  pe'  mme  vutare  a  l'auto  canto. 
Vado  p'abbracciare  a  vuje,  e  abbraccio  il  vento. 
Chisti  occhi  miei  sbuttarono  a  lu  pianto, 
E  me  parean  'nu  fiume  corrente. 
Oh  Dio,  o  essere  chell'ora  santa  ! 
Lu  core  tuo  e  lu  mio  fosse  contento  ! 

Uno  stornello  toscano  (Giannini,  pag.  19): 

Io  vado  a  letto  sotto  le  lenzuola; 
Mi  credeo  d'abbracciarti,  o  bella  cara; 
Mi  trovai  fra  le  braccia  le  lenzuola. 

E  finalmente  nelle  Raccolte  napolitane  (V.  pag.  19)  : 

Di  quante  volte  sospirai  per  voi. 

Una  sola  notte  in  sogno  t'abbracciai  ; 
Quando  alle  braccia  mie  stretta  ti  fui. 
Mille  baci  alla  cocca  ti  donai. 
Tu  mi  dicesti:  fa  quel  che  tu  vuoi, 
Saziatene,  cuor  mio,  ora  che  m'  hai. 
Quando  dal  sonno  risvegliato  fui. 
Le  mani  pien  di  vento  mi  trovai. 


522  EISPETTI   DEL   SECOLO   XV. 

Pel  tema  in  generale,  v.  A.  Saviotti.  in  Giorn.  star.  leti.  Hai.,  XIX.  449; 
Menghim,  C.  p.  rom.,  n.  228,  n.  ;  Rondici,  p.  29,  n.,  e  più  ampiamente 
V.  Rossi,  in  Ardi,  tradiz.  popol,,  XIV,  69. 

LVII. 

Cara  speranza  che  mantien  la  vita, 
Dolce  diletto  che  nel  mio  cor  stai, 
D'ogni  bellezza  voi  siete  fornita 
Piìi  ch'altra  donna  eh'  io  vedessi  mai  ; 
La  faccia  tua  di  rose  colorita 
E  di  viole  ingarofolata  1'  hai  ; 
Benché  ci  sia  dell'altre  che  sian  belle, 
Voi  siete  come  luna  in  fra  le  stelle. 

Xei  eit.  Rispetti  a  Tishe  (Carducci,  Pi-ef.  al  Poliziano,  pag.  cxiv): 

Cara  speranza  mi  mantien  la  vita  ; 
Dolce  diletto  nel  mio  core  stai. 
E  di  bellezza  se'  tutta  compita 
Più  c'altra  donna  eh'  io  vedessi  mai. 
La  faccia  tua  di  rose  è  colorita; 
Tapino  a  me,  percliè  la  viddi  mai: 
Perchè  la  viddi  mai?  perchè,  perchèe? 
Perchè  la  viddi  mai  ?  tapin  a  mee  ! 

E  v'è  anche  un  po'  di  parentela  con  qnesto  pubblicato  dal  Menghini  Do- 
dici Rispetti  ecc..  n.  9)  : 

Tante  bellezze  porta  il  tuo  bel  viso 
Chiunque  lo  veda  innamorar  lo  fai, 
O  fanciulletta  nata  in  paradiso, 
Più  bella  di  te  non  vidi  mai: 
Quando  alzi  gli  occhi  e  fai  un  certo  riso 
Se  fusse  morto  suscitar  lo  fai; 
Perchè  ci  sia  ancor  dell'altre  bolle 
Se'  come  il  Sole  in  mezzo  delle  stelle. 

L'ultimo  verso  ricorda  quello  del  Poliziano  (ediz.  cit.,  p.  278): 

Tu  pai  il  Sole  in  mezzo  delle  stelle. 


Gentil  madonna  graziosa  e  bella, 

Alta  speranza  e  specchio  del  mio  core, 
Non  fu  giammai  sì  polito  anello 
Né  mai  in  terra  un  si  leggiadro  fiore, 
A  questo  mondo  perla  nò  gioiello, 
Madonna  mia,  di  tanto  valore: 
Intra  di  tutte  porta  la  corona 
Anima  mia,  la  vostra  persona. 


RISPETTI   DEL    SECOLO   XV.  523 


0  Morte  o  Morte,  de,  ^'ercliè  cotanto 
Mi  tien  tu  in  vita  abbandonato  ancora 
Dal  più  bel  viso  che  mai  porti  vanto, 
E  per  lo  quale  io  mi  consumo  ogn'ora  ? 
Trami  di  pene  e  d'angoscioso  pianto. 
Che  a  poco  a  poco,  miser,  mi  scolora  : 
De,  ancidimi  se  ancider  tu  mi  dei, 
E  non  mi  far  gridar  cotanto  omei. 


Tu  spergiurasti,  e  dannata  morrai 
De'  sagramenti  tanti  che  facesti  : 
Come  ti  deggio  creder  più  giammai 
Che  tanto  quel  che  sai  m' impromettesti  ? 
Tu  di'  che  m'ami,  e  falsa  ti  provai 
In  nel  parlare  tuo  che  mi  facesti: 
Tu  mi  giurasti  per  quel  vero  Iddio 
Che  contento  faresti  lo  cor  mio. 


Non  ti  perdona  Dio  questo  peccato, 
Falsa,  spietata,  cruda  e  sconoscente  ; 
L'anima  e  '1  cuor  ad  altri  1'  hai  donato; 
E  me  tu  lasci  tanto  amaramente. 
Non  sai  quante  volte  m'  hai  giurato 
Ch'altri  che  me  non  sia  il  tuo  servente  ? 
Tu  m'  hai  pasciuto  di  parole  assai, 
E  nel  fine  tradito  pur  tu  m'  hai. 

LXII. 

Se  con  mille  mani  m'avessi  giurato 

D'abbandonarmi,  io  non  l'avrei  creduto; 
E  tu,  giudìa,  non  hai  di  me  peccato 
A  questo  punto  avermi  sì  distrutto  ! 
Vatti  con  Dio!  ch'io  non  l'avrei  pensato 
Che  tanto  amore  fosse  in  te  perduto  : 
Se  tu  fai  bene,  credi  che  '1  mi  piace, 
Ma  credi  eh'  io  non  ti  farò  mai  pace. 


524  RISPETTI  DEL  SECOLO  XV. 


LXIU. 

Se  incontra  Iddio  sperassi  aver  fallito, 
Io  gli  dirìa  che  '1  mi  facesse  torto  . 
Poi  che  perduto  veggio  tanta  fede 
Che  mi  giurasti,  o  dolce  giglio  d'orto, 
E  amo  una  giudìa  che  non  crede, 
Disposto  son  d'amarla  o  vivo  o  morto: 
Guarda,   madonna  mìa,  se  fai  peccato, 
Ch'  io  SDII  tuo  servo,  avermi  abandouato  ! 


Quando  ti  vedo  tutto  mi  conforto, 

Quando  ti  vedo  io  mi  sto  pien  di  gioglia; 
S' io  non  ti  vedo,  lasso,  eh'  io  son  morto, 
È  tutta  sconsolata  la  mia  voglia. 
De,  dolce  diva,  non  mi  farti  torto 
E  non  voler  che  morte  mi  ti  toglia. 
Guarda  se  con  ragion  debbo  morire  : 
Le  lagrime  m'abonda  ed  i  suspire. 

LXV. 

Pace  domando  a  te,  madonna  mia. 
Pace  domando  a  te,  madonna  bella. 
Pace  domando  alla  tua  leggiadria. 
Pace  domando  a  tua  gentil  favella  ; 
Se  pace  mi  darà  tua  signoria 
Giammai  non  spero  aver  miglior  novella  : 
E  sempre  pace  el  tristo  cor  domanda  : 
Da  l'altra  parte  a  voi  s'arricomanda. 


T'aggio  dipinto  in   una  carticella, 

Quando  ti  veggio  mi  sto  inginocchiato  : 

Adoromi  la  tua  persona  bella 

Ogni  mattino  po'  che  son  levato. 

Guardoti  spesso,  che  mi  par  pur  quella: 

Però  priego  ti  sia  ricomandato 

El  più  fedel  che  donna  avesse  mai. 

Che  in  questo  mondo  attormeutato  1'  hai. 

Cfr.  GiusTlNiAN,  Struiiib.  n.  XVIU. 


RISPETTI   DEL   SECOLO   XV.  525 


AI  paradiso  è  fatto  un  gran  rimore 
Che  via  se  n'è  volato  un'angiolellti  : 
Àia  furata  l'alto  dio  d'Amore, 
Perchè  li  parse  angelicata  e  bella. 
Amor  la  tiene,  ciascun  li  fa  onore, 
E  tutto  il  mondo  s'allegra  per  ella: 
Ben  par  che  la  sia  nata  in  paradiso  : 
Se  non  mi  credi,  guarda  il  fresco  viso. 


0  casa  bella,  gentile  e  graziosa, 

Ben  sopra  ogn'altra  vanto  ti  può'  dare 
Di  ritenere  in  te  si  gentil  cosa, 
Che  giorno  e  notte  mai  non  trova  pare. 
Bianca  e  vermiglia  e  fresca  quanto  rosa, 
La  bella  bocca  col  dolce  parlare: 
Rubato  hai  le  bellezze  all'altre  belle, 
E  sei  come  la  luna  in  fra  le  stelle. 

LXIX. 

Addio  vicine,  addio  dolce  contrada. 

Addio,  voi  che  ascoltate  el  mio  lamento, 
Addio,  fanciulla  bella  innamorata. 
Addio,  tutto  el  mio  consolamento  ; 
Addio,  balconi  e  fenestra  serrata, 
Addio,  che  mi  parto  malcontento: 
Addio,  che  lasso  l'alma  di  qua  via, 
Addio,  no'  ardisco  di  portarla  via 

LXX. 

0   viso  bello,  0  anima  beata, 
0  specchio  dell'eterno  paradiso, 
Ben  è  beato  il  luogo  e  la  centrata 
Dove  riposa  el  tuo  chiarito  viso. 
Chi  vede  tua  persona  tanto  ornata. 
Dice  :  Costei  è  nata  in  paradiso. 
Credo  che  Cristo  con  tutti  i  suoi  Santi 
Ti  fabricorno  con  soavi  canti. 

C'fr.  Petrahca,  RÌ7h.  CXXVI,  .55:  Costei  per  fermo  nacque  in  Paradiso. 


526  RISPETTI   DEL   SECOLO   XY. 


LXXI. 

Leggiadra,  bella,  valorosa  e  franca, 
0  rosa  colta  su  le  verde  spine 
Di  Maggio  all'alba  colorita  e  bianca. 
Per  onestate  voglio  por  qui  fine 
Al  mio  lamento  che  giamai  non  manca 
0  specchio  delle  donne  pellegrine, 
Soccorrime  per  Dio,  ahimè,  eh'  io  moro 
Cara  madonna,  tu'  se  il  mio  tesoro. 

Pel  2°  Y.  cfr.  (ili  Giannini,  C.  p.  tose,  126): 

Sembri  una  rosa  colta  sulla  spina. 

LXXII. 

La  bona  notte  resti  in  sta  contrada. 
Piccoli  e  grandi  che  qui  tutti  siete, 
Per  parte  d'una  giovinetta  ornata 
La  qual  in  vicinanza  vui  tenete  : 
Per  lei  arete  spesso  mattinata 
Da  un  pellegrin  amante  che  sapete  : 
La  buona  notte  Dio  si  ve  la  dia, 
A  voi  vicini  e  a  l'amorosa  mia. 

Cfr.  con  questa  serenata  toscana  (Tigri,  ii.  376): 

Si  dà  principio  a  questa  serenata, 
0  bella  gente,  perchè  in  casa  siete 
Ci  avete  una  fanciulla  tanto  vaga; 
Dov'è  quel  lato  che  voi  la  tenete  ? 
E  se  per  sorte  fosse  addormentata, 
Con  due  parole  la  risveglerete  ecc. 

E  nei  Canti  marchigiani  (Gianandeea,  pag.  121)  : 

Te  so'  venuto  a  fa'  la  mattinata. 
Capo  de  casa,  si  contento  sete; 
Ci  avete  'ssa  fija  tanto  garbata. 
Che  sotto  li  vostri  occhi  la  tenete. 

Cfr.  anche  Eondini,  p.  54. 


Se  ti  mettessi  in  cuor  d'abandonare 
Cotanti  amanti  sol  per  l'amor  mio. 
Io  t'  imprometto  di  volerti  dare 
L'anima  e  tutto  quanto  il  cuore  mio 


RISPETTI   DEL   SECOLO   XV.  527 

Ancor  ti  voglio  sagianiento  fare 
D'esser  tuo  servo,  caro  signor  mio: 
Pregar  ti  voglio,  amor,  ch'egli  ti  piaccia 
Ricever  il  tuo  servo  in  le  tue  braccia. 

LXXIV. 

Io  son  disposto  non  ti  abandouare 
Per  fin  che  vita  sì  mi  duri  adosso  : 
Ma  io  ti  veggio  tai  modi  pigliare, 
Che  '1  mi  viene  la  doglia  in  fino  all'osso. 
E  non  ho  modo  a  poterti  parlare 
Da  poi  che  a  te  [non]  piace  et  io  non  posso: 
Udito  ho  dire,  e  non  è  cosa  nova, 
Chi  ingannar  crede,  ingannato  si  trova. 

LXXV. 

Le  lagrime,  li  pianti  e  li  suspiri, 
Dolce  Signor,  de,  fatemi  ajutare, 
Dinanzi  a  Cristo  se  ne  voglion  gire, 
Voglionsi  di  te,  donna,  richiamare  ; 
Tu  mi  conduci  al  punto  di  morire. 
Vedi  eh'  io  moro  e  non  mi  vuo'  aitare; 
Moro,  0  ladra,  cogli  occhi  lagrimando  : 
Non  mi  lassar  viver  così  stentando. 

LXXVI. 

L'alta  bellezza  tua  e  lo  splendore 
Della  tua  vaga  luce  e  '1  bel  parlare, 
Gli  onesti  modi  e  '1  vago  tuo  colore 
M'  ha  mille  volte  e  piìi  passato  il  core  : 
Per  modo  tal  che  sempre  a  tutte  l'ore 
Convienmi  nella  mente  suspirare  : 
Pregar  ti  voglio  dolce  anima  mia. 
Raccomandato  il  tuo  servo  ti  sia. 

Di   poco   è   diverso   nel   principio    (la   uno   dei   dodici  pubblicati   dal 
Menghini  : 

L'alta  bellezza  tua  e  lo  splendore 
De'  tuoi  vaghi  occhi  e  de'  costumi  ornati, 
L'onestà  cara  e  '1  donnesco  valore 
E'  modi  e  gli  atti  pili  ch'altri  lodati,  ecc. 


528 


RISPETTI   DEL   SECOLO   XV. 


LXXVIL 

S'io  donno  o  veglio  o  s'io  vado  per  via, 
Non  posso  lo  mio  cor  riconsolare; 
Io  mi  distruggo  della  vita  mia, 
Disposto  son  di  mai  non  ti  mancare; 
Tu  se'  il  fiore  dell'altre,  o  vita  mia. 
Sempre  disposto  son  volerti  amare  : 
Se  errato  avessi  di  quel  ch'io  ragiono. 
Per  mille  fiate  vi  cliieggio  perdono. 


Bramosa  voglia  che  '1  mio  cor  tormenta 
Mi  fa  presuntuoso  a  te  venire: 
Ognor  eh'  io  non  ti  veggo  par  eh'  i  senta 
Tal  pena  al  cor  che  ne  credo  morire  ; 
E  se  del  mio  morir  ne  se'  contenta, 
Ti  priego,  amor,   che  tu  mei  facci   dire; 
Benché  mia  morte  sia  el  non  vederti. 
Prima  vorrei  morir  che  dispiacerti. 

È  il  200  (Jel  Pulci,  con  queste  varianti:  3  L'ora  che  ...el  par  — 
4  Amara  doglia  che  mi  fa  morire  —  a  E  sol  si  trova  l'alma  mia  —  C  Dove 
e'  tuo'  occhi  debbono  apparire  —  1-8  In  questa  doglia  sempre  staro  forte 
Pinchi  mia  vita  durerà  alla  morte. 


LXXIX. 

Per  dir  l'animo  mio  ci  son  venuto. 
Ti  piaccia,  donna,  volermi  ascoltare, 
E  non  guardare  al  suon  ch"è  qui  venuto. 
Ascolta  le  parole  del  cantare; 
Dice  il  proverbio  che  '1  tempo  perduto 
Giammai  indietro  non  po'  ritornare  : 
Sciocca  è  colei  che  crede  restorare 
Quando  i  capei  cominciano  a  imbiancare. 

Un   Rispetto   che  il   Cabduoci   attribuisce  al   Poliziano   (ediz.  cit., 
pag.  194),  ma  è  anche  rsò"  fra  quelli  del  Pulci: 

Prendi  bel  tempo,  innanzi  che  trapassi, 
Gentil  fanciulla,  el  fior  degli  anni  tuoi; 
Se  '1  dolce  tenijio  trapassar  lo  lassi, 
Prima  pentuta  tu  ne  sarà'  poi, 
E  prima  piagneran  gli  occhi  tuoi  lassi  : 
El  pentirsi  da  sezo  non  vai  poi: 
Tristo  a  colei  che  crede  ristorare 
Quando  e'  capei  cominciono  a  'mbiancare. 


RISPETTI  DEL  SECOLO  XV.  529 

Il  nostro  è  il  ò^  fra  i  dodici  del  Mbnghini: 

Per  dirti  le  mie  pene  i'  son  venuto 
Deh,  piacciati,  fanciulla,  d'ascoltare 
E  non  guardare  al  suono  del  liuto. 
Ascolta  le  parole  del  cantare. 
Dice  il  proverbio  che  il  tempo  perduto 
Giammai  nel  mondo  si  può  racquistare; 
Tristo  a  colei  che  perde  giovinezza 
E  chiede  ritrovarse  (ritrovarlaì)  in  sua  vecchiezza: 

e  confr.  la  lezione  data  dal  Volpi,  p.  24. 
LXXX. 

La  bona  sera,  signor  mio,  ti  dono. 
Non  saccio  che  saluto  mi  ti  dare 
Che  sia  sì  degno  e  ad  accettar  sì  buono  : 
Dio  ti  contenti,  ch'è  buon  salutare  . 
Prima  eh'  io  falli  ti  chieggo  perdono. 
Tu  graziosa  sarai  al  perdonare  : 
Io  ho  speranza  nel  senno  che  avete  : 
S' io  ho  fallito,  mi  perdonerete. 


Apri  la  tua  finestra  ch'è  serrata, 
Fatti  di  fuora,  o  pellegrin  falcone. 
Non  è  ora  ch'a  letto  sia  andata. 
De,  fatti  alla  finestra,  o  car  signore, 
E  udirai  la  nostra  serenata. 
La  quale  è  fatta  sol  per  lo  tuo  amore, 
E  udirai  cantar  nostri  Rispetti 
Che  so,  fanciulla,  che  te  ne  diletti. 

Un  Canto  marchigiano  (Gianandkea,  pag.  129): 

'Ffacciate  alla  finestra  rinserrata, 
'Ffacciate  fuori,  specchio  de  valore  ; 
Tu  ne  stai  nella  stanzia  rinserrata. 
Io  sto  de  fuori  collo  raffreddore  ecc. 

Vedi  a  pag.  182  l'illustrazione  al  v.  -io  della  Serenata. 
LXXXII. 

Rivolgi  a  me  la  tua  benigna  faccia, 
Conforta  il  mio  dolor  cogli  occhi  tuoi, 
Poss'  io  al  mondo  far  cosa  che  ti  piaccia, 
Ajuta  il  servo  tuo,  che  sai  e  puoi  : 

D'Ancoxa,  La  poesia  pop.  ital.  —  34: 


530  EISPETTI   DEL   SECOLO   XV. 

Chiedi  e  dimanda,  e  dimmi  quel  ch'io  faccia, 
Che  son  disposto  a  far  quel  che  tu  vuoi  : 
Del  gran  dolor  eh'  io  ho  tu  te  ne  ridi  : 
De,  non  lo  fare,  amor,  che  tu  m'uccidi. 


Se  alcun  fu  mai  d'amoroso  desire 
Acceso  ne'  tuoi  lacci  o  inviluppato, 
A  me  par  esser,  senz'alcun  fallire, 
E  così  bellamente  essere  entrato, 
E  sono  acconcio  vivere  e  morire 
Per  te,  signora,  e  non  essere  ingrato  ; 
Or  ti  priego,  signor,  con  tutti  i  prieghi 
Ch'a'  miei  dimandi  non  mi  facci  nieghi. 

LXXXIV. 

Quest'occhi  belli,  de,  non  li  celate. 
Quando  vedete  il  vostro  servidore  ; 
De,  perchè  tante  passion  li  date, 
Ch'affligger  fate  il  suo  dolente  core  ? 
Veggendo  che  per  lui  li  nascondiate 
Che  solo  vien  per  visitarti.  Amore, 
Non  esser  isdegnosa,  anima  mia, 
Ch'altro  che  '1  tuo  onor  non  cercheria. 

LXXXV. 

Non  vidi  mai  sì  bella  giovinetta 
Quanto  tu  sei  con  tanta  gentilezza: 
Tu  sei  tanto  benigna  e  benedetta, 
E 'I  viso  tuo  rende  tanta  bellezza: 
Quando  ti  vidi,  anima  mia  perfetta. 
Tu  mi  sfogasti  amor  con  tanta  asprezza, 
Ond'  io  ti  prego,  signor  mio  perfetto. 
Ch'aggi  pietà  di  me,  che  ho  gran  difetto. 


Le  lagrime  che  gettan  gli  occhi  miei, 
E  li  sospiri  che  getta  '1  mio  core, 
Farebber  convertire  li  giudei  : 
Tu  se'  più  cruda  che  non  fu  Nerone. 
Ahi  duri  affanni  ed  aspri  pensier  miei  ! 
Fami  morire,  e  sai,  non  a  ragione  : 


RISPETTI  DEL  SECOLO  XV.  531 

De,  moviti  a  pietà,  ch'Amore  è  forte  : 
Ch'  io  ti  sarò  leal  piìi  che  la  morte, 

LXXXVII. 

Arnoi*,  che  forte  nel  mio  core  entrasti 
Per  voler  la  mia  vita  consumare. 
Per  servidore  a  una  mi  donasti 
Ch'io  non  son  degno  di  doverla  amare; 
Crudele  Amore,  perchè  non  pensasti 
Che  mai  ninna  volsi  seguitare  '? 
Tu  m'entrasti  nel  cor  si  dolcemente. 
Che  tu  non  n'uscirai  al  mio  vivente. 

LXXXYIII. 

Ohimè,  eh'  io  soleo  gire  tra  gli  amanti 
Libero  e  sciolto  con  allegro  core. 
Lieto  vivendo  in  fra  stromenti  e  canti, 
In  giochi  e  in  festa  sempre  a  tutte  l'ore  : 
Ma  tu  in  quel  punto  m'apparisti  inanti, 
Che  mai  per  te  non  sto  senza  dolore  : 
Ormai  per  te-  io  son  redutto  a  porto, 
Ch'  io  non  so  s' io  son  vivo  o  s' io  son  morto. 

LXXXIX. 

Rigido  cor,  crudele  e  dispietato, 
Senza  nulla  cagione  abandonarmi  ! 
Il  tuo  servo  fedel  sempre  io  son  stato, 
E  non  ti  curi  tante  pene  darmi. 
Almen  tu  avessi  almanco  migliorato, 
Po' che  disposto  avevi  di  lasciarmi: 
Pregar  ti  voglio,  mio  diletto  e  bene. 
Ch'alquanto  die  conforto  alle  mie  pene. 


O  dolce  tempo,  che  ti  se'  rivolto, 
0  dolce  amore,  o  amara  fortuna. 
Un  po'  di  ben  che  aveva  tu  m'  hai  tolto  ; 
Era  contento  più  ch'altra  persona 
Sol  di  vedere  el  tuo  pellegrin  volto, 
CTcntile  aspetto  e  la  bella  persona  ; 
Po'  che  da  te  abandonar  mi  veggo, 
La  morte  a  Cristo  giorno  e  notte  chieggo. 


532  RISPETTI   DEL   SECOLO   XV. 


XCI. 

Qual  crudel  orso  o  tigre  venenoso 

Potrà  fuggir  che  non  ne  stesse  attento, 
Udendo  un  lamentar  tanto  pietoso, 
Gli'  io  fo  per  te,  e  tu  se'  piìi  contento  ? 
E  vedi  ch'ogni  corso  m'è  ritroso, 
Il  sole  e  luna  e  stelle  e  acqua  e  vento  : 
E  tanta  è  la  doglia  che  mi  viene, 
Che  chiamo  Morte  per  tìnir  mie  pene. 

XCII. 

Donna  gentil,  che  siete  innamorata 
D'un  pellegrino  amante  onestamente. 
Odi,  non  esser  in  ver  lui  spietata, 
Abbi  pietate  alquanto  al  suo  stento. 
Se  voi  sapessi  da  lui  qualche  fiata 
Quant'ò  noiose  le  sue  fiamme  aidenti, 
Voi  piangeresti  al  suo  grave  tormento. 
Cercando  i  inodi  di  farlo  contento. 

XCIIL 

Meschino,  non  mancai  per  bene  amare 
Né  per  leal  servire,  al  mio  parere  ; 
Cosa  non  mi  potevi  comandare 
Ch'  io  non  facessi  tutto  al  tuo  volere  ; 
Da  poi  che  '1  non  ti  piace  lo  mio  affare. 
Dio  ti  dia  cosa  che  ti  sia  in  piacere. 
Se  m'ami  e  se  non  m'ami  io  t'ameraggio, 
Tanto  ti  penserò  eh'  io  t'averaggio. 


Con  quante  pene  io  ho,  ti  chiamo,  Amore  : 
Amore,  Amore,  moviti  a  pietate  : 
Conforta  nn  poco  quest'afflitto  core. 
Non  li  donar  cotanta  crudeltate. 
Ch'io  ti  son  stato  fedel  servitore, 
Morivo  pel  tuo  amor  mille  fiate  : 
Sono  contento  per  tuo  amor  morire, 
Purcliò  morendo  io  ti  creda  servire. 


RISPETTI  DEL  SECOLO   XV.  533 


XCV. 


Voi  siete  ornata  di  tante  virtute 
Quante  si  posson  colla  bocca  dire  . 
Io  ho  per  certo  assai  donne  vedute, 
Nulla  con  teco  si  può  convenire: 
Di  tutte  quelle  eh'  io  ho  conosciute, 
O  che  mai  al  mondo  debbono  venire, 
Tanto  sei  bella  che  dir  non  lo  posso  : 
Quando  ti  guardo  mi  trema  ogni  osso. 


Perchè  lontano  sia,  non  consentire 

Ch'  io  sia  da  voi  in  tutto  abbandonato  ; 

Ricordati  del  mio  leal  servire 

E  quanto  fedel  servo  a  te  son  stato  ; 

Che  da  te  non  mi  volsi  mai  partire, 

Come  con  pura  fede  avea  giurato: 

Ma  non  de'  '1  mio  giurar  punto  fallire: 

Vogliovi  amare  per  fino  al  morire. 

XCVII. 

Occhi  miei,  perchè  non  piangete. 

Già  non  vedete  ch'io  so'  abbandonato? 
Piangete  forte,  e  tutto  me  lo  empite 
Di  lagrime  'sto  corpo  disperato. 
Amore  m'  ha  condotto  a  'sti  partiti 
Ch'  io  muoio  e  non  poss'essere  ajutato. 
Soccorrime,  per  Dio  ti  prego,  Amore, 
Ch'  io  ti  son  stato  e  son  buon  servitore. 

Pel  1«  V.  cfr.  il  Rispetto  pistoiese  (Giannini,  C.  p.  tose,  p.  242): 

Occhi  miei,  occhi  miei,  forte  piangete 
Or  che  di  tanto  ben  privati  siete. 

XCVIIL 

Cotanto  grazioso  è  lo  tuo  aspetto, 
Tanto  son  dolci  le  maniere  eh'  hai, 
Ch'ogni  uomo  ti  desidra  per  diletto, 
E  prova  amor  chi  non  amò  giammai. 
Co'  tuoi  begli  occhi  e  '1  tuo  gentile  aspetto 
Tolto  m'  hai  l'alma  e  imprigionata  1'  hai. 


534  RISPETTI   DEL   SECOLO   XV. 

Fecite  Cristo  che  bella  paressi, 

Ma  non  ti  comandò  che  m'uccidessi. 

xcix. 

Dio  ti  dia  buona  notte:  io  son  venuto, 
Bella  madonna,  a  veder  come  stai  : 
Fatti  di  fuora,  e  mo'  ti  do  saluto 
Di  miglior  voglia  ch'io  fossi  giammai. 
Tu  sei  colei  che  sempre  m'  hai  tenuto 
In  questo  mondo  innamorato  assai  : 
Però  ti  prego,  s'io  t'ho  ben  servito. 
Non  mi  lasciare  a  sì  duro  partito. 

Cfr.  gli  Strambotti  del  Giustiniani,  ii.  XIII. 


Mille  saluti  ti  manda  l'amore, 
A  te  leggiadra  donna  e  signorile  ; 
E  giorno  e  notte  ti  chiama  signore, 
Ad  alta  voce  el  tuo  nome  gentile. 
Pur  l'altro  giorno  mi  feristi  al  core 
Col  dolce  sguardo  e  con  parlare  umile: 
Volesse  Iddio  che  essere  potesse 
Là  dove  è  '1  core  la  persona  stesse  ! 

CI. 

Dimmi,  madonna  mia,  per  qual  difetto 
A  me  ti  mostri  tanto  dispietata. 
80  ben  che  non  è  già  per  mio  difetto 
Che  tu  mi  stai  sì  forte  corrucciata  : 
Ch'  io  ti  soa  stato  fedele  e  soggetto 
Ch'amante  mai  fosse  a  donna  nata: 
Sempre  faggio  servito  di  buon  core. 
Come  perfetto  amante  e  servidore. 


Madonna,  dimmi  quel  eh'  io  faggio  fatto, 
Che  non  m'accetti  piìi  per  tuo  servente  ? 
Non  sono  a  te  fedele  servo  stato, 
Come  colui  che  fama  lialmente? 
Non  son  io  quel  che  di  te  è  infiammato 
Già  tanto  tempo,  fior  d'ogni  diletto  ? 


BLSPETTI  DEL  SECOLO  XV.  535 

Non  son  io  quello  ch'era  tanto  amato, 
Che  sopr'ogni  altro  era  il  pia  beato? 

OHI. 

Perchè  ti  parti,  donna,  e  non  ci  stai 
Di  su  la  porta  ?  io  lo  vorrìa  sapere  ; 
Un  qualche  amante  innamorato  t'hai. 
Che  abbassi  gli  occhi  e  me  non  vùò'  vedere. 
0  renegata,  che  lo  cuor  vile  hai. 
Ti  feci  io  mai  alcuno  dispiacere? 
Tu  te  ne  parti,  e  sì  te  ne  va'  via  : 
Dimmi  perchè,  dolce  anima  mia. 

Pel  4"  V.  cfr.  il  Kispetto  pistoiese  (Giannini,  C.  p.  tose,  p.  2181: 
Abbassa  gli  occhi  per  non  mi  vedere. 


A  la  tua  grazia  voglio  ritornare. 
Cara  madonna,  se  far  si  potesse  : 
Pi'egoti  che  mi  degni  perdonare. 
Se  fallimento  alcuno  fatto  avesse. 
Non  creder  alia  gente  e  al  mal  parlare. 
Se  alcuno  male  di  me  ti  dicesse  : 
Che  faggio  amato,  e  mo  bene  lo  sai 
Che  abbandonarti  io  non  porrìa  giammai. 

Cfr.  il  1"  V.  col  canto  lucchese  (Giannini,  p.  108): 
Alle  grazie  die  hai  faccio  ritorno. 

CV. 

Partir  mi  voglio,  e  non  mi  so  partire, 
Se  la  licenza,  donna,  non  mi  dai  ; 
Comandami,  eh'  io  son  per  ubbidire, 
Bella  madonna,  quel  che  mi  dirai  ; 
Comanda  per  infine  al  mio  morire, 
Bella  madonna,  quel  che  mi  dirai  {tìi  vorrai'^): 
De,  fammi  grazia,  parlami,  amor  mio, 
E  poi  mi  di'  che  men  vada  con  Dio. 

Il  Rispetto  61  del  Pulci,  recato  anche  dal  Volpi  (pag.  28).  comin- 
cia: Vòmi  partire  e  non  mi  so  partire,  ma  poi  diverge:  e  un  altro  del 
Laurenz.  Conv.  122  similmente,  ma  ha  il  l'i  v.  identico  al  nostro.  {Bihl. 
luti,  pop.,  II,  107.) 


636 


KISPETTI  DEL  SECOLO  XV. 


evi. 

Ricordati  di  me,  madonna  cara  ; 

Ben  mille  volte  innanzi  al  tuo  cospetto 
Già  ti  pregai  con  giusta  fede  e  pura, 
Non  conoscendo  in  te  solo  un  difetto. 
Per  onorarti,  e  tu  crudele  e  dura 
Donimi  il  tuo  parlar  pien  di  sospetto. 
Quanto  t'ho  amata  di  fé  e  cortesia! 
Ben  mi  dovresti  essere  stata  pia. 

CVII. 

Dappoi  che  '1  Dio  dell'amor  t'  ha  creata, 
E  hatti  dati  tanti  be'  costumi. 
Io  ti  priego  che  alcuna  fiata 
Alzi  quei  vaghi  e  graziosi  lumi. 
De,  non  voler  esser  così  spietata 
Né  far  che  quei  be'  occhi  mi  consumi, 
Ch'io  ti  son  stato  leal  servidore; 
De,  non  voler  amar  altro  amadore. 


Tutti  gli  amanti  io  voglio  abbandonare. 
Da  poi  che  '1  vero  Amor  sì  mi  abbandona 
In  questo  mondo  non  ne  voglio  amare 
Alcuna  che  non  sia  bianca  né  bruna: 
Farò  la  vita  della  turturale, 
Poi  che '1  tuo  amore  di  me  non  ragiona: 
Vita  di  torturella  voglio  fare  : 
Lo  dì  dormire  e  la  notte  vegliare. 

Rispetto  all'immagine  della  tortorella,  vedi  a  pag.  225. 


La  notte  mi  si  viene  approssimando, 
Cara  madonna,  rimanti  con  Dio  : 
Agli  angioli  del  ciel  arraccomando, 
Ti  raccomando  l'anima  e  '1  cor  mio. 
Ch'io  son  disposto  a  fare  il  tuo  dimando: 
Non  ti  abbandono,  giuroti  per  Dio  : 
Chiamando  Amore,  chiamando  per  Dio, 
Che  '1  se  ne  porta  l'anima  e  '1  cor  mio. 


RISPETTI  DEL  SECOLO   XV.  531 


ex. 

0  ri.splendente  stella  o  gentil  fiore, 

Consenti  un  poco  a'  miei  lamenti  udire: 
Forse  pietà  ne  prenderà  '1  tuo  core 
E  farà  grazioso  el  mio  fenire  : 
Ora  ti  prego  che  non  fuggi  Amore, 
Ma  che  beato  facci  el  mio  languire  : 
Fammi  contenta,  o  cara  donna  mia, 
Che  non  mi  lasci  infin  che  in  vita  sia. 

Fra  i  Rispetti  del  PuLcr  questo  è  il  35»  con  alcune  varianti:  1  rilucente 
—  2  Attendi  un  po'  questi  —  4  Che  —  5  Priegoii,  Donna,  non  fuggire  — 
6  faccia  —  lo  dolce  anima  —  8  non  ti  lasso. 


Occhi  miei  hei,  che  mi  tenete  in  fuoco 
E  giorno  e  notte  mi  brugiate  tanto. 
Il  misero  meschin  non  trova  loco, 
Se  '1  tuo  bel  viso  noi  sovviene  alquanto; 
Oimè,  che  mi  distruggo  a  poco  a  poco 
A  far  questo  lamento  e  'sto  mio  pianto: 
Ognora  piango  e  mercè  t'addimando, 
Cara  madonna,  eh'  io  non  muora  amando. 


E  non  porrla  mai  tanto  pregare 

El  tuo  dur  cuor  che  si  rivolga  alquanto? 
Come  può'  tu  sofferir  di  lassare. 
Madonna,  lo  tuo  servo  in  fuoco  tanto? 
L'anima  trista  lasci  consumare, 
E  '1  misero  meschin  non  trova  aiuto  ; 
El  non  mi  giova  mercè  addimandare, 
Quando  a  diletto  tu  mi  fai  stentare. 

cxin. 

Crudel  madonna,  pur  m'arriccomando. 
Benché  '1  sia  indarno,  a  la  tua  poca  fede. 
La  notte  e  '1  giorno  vo  per  te  penando, 
Tanto  'sto  Amore  m'arde  e  non  si  vede. 
Già  fui  contento,  ed  ora  muoro  amando, 
E  la  tua  mente  altiera  non  mei  crede  : 


)38  RISPETTI  DEL   SECOLO    XV. 

Domando  pace,  e  pace  non  vien  mai, 
Perchè  del  servo  tuo  pietà  non  bai. 

cxiv. 

Non  fa  giammai  in  donna  cuor  di  diaccio, 
Che  del  suo  servo  no'  increscesse  alquanto. 
Vedi,  madonna,  stu  m'  hai  messo  al  basso, 
Quando  non  curi  di  mio  danno  o  pianto  ! 
Ben  posso  sofiferire  e  dire:  ahi  lasso, 
A  chi  ho  servito,  e  dato  el  mio  cuor  tanto  ! 
Ad  una  ch'è  nimica  dell'Amore, 
Quando  non  cura  del  suo  servidore  ! 

CXV. 

0  maledetto  e  biastemato  Amore, 
Crudel  nimico  al  tuo  fedel  servente, 
Qual  forza,  qual  possanza  o  qual  furore 
Sì  ti  comniove  a  farmi  sì  dolente? 
Come  pietà  non  hai  del  mio  cuore. 
Come  pietà  non  hai  del  tuo  servente. 
Come  sofferistù  sì  poca  fede, 
Ch'  io  bramo  chi  di  me  non  ha  mercede  ? 


Pietosa  voce,  andate  a  aumiliare 

Colei  che  in  fuoco  tien  la  vita  mia  : 

A'  suoi  be'  pie  v'andate  a  inginocchiare, 

E  questo  dite  de  la  vita  mia  : 

E  da  mia  parte  la  debbia  pregare 

Sì  dolcemente  che  crudel  non  sia 

A  me  meschin,  che  quasi  notte  e  giorno 

Penando  vo  per  lo  suo  viso  adorno. 

cxvn. 

Donna  leggiadra,  vaga  e  preziosa, 
Ecco  lo  servo  tuo  che  s'appresenta  : 
Or  mi  comanda,  o  angelica  rosa, 
Quel  che  ti  piace  e  quel  che  ti  attalenta. 
De,  non  esser  al  domandar  spaurosa 
S'alcuna  cosa  di  me  ti  attalenta, 
Che  per  servire  a  te  io  son  venuto, 
E  come  servo  ti  faccio  saluto. 


RISPETTI  DEL   SECOLO  XV.  539 


ex  VI  IL 


Novellamente  innamorato  m'ài, 

Donna,  che  passi  sopra  ogni  bellezza, 
Per  gli  atti  gentileschi  che  tu  fai, 
Per  la  tua  vaga,  bella  e  bionda  trezza. 
Rendimi  l'alma  mia,  che  tu  hai 
In  lo  tuo  cuore  e  in  la  tua  gentilezza. 
Volesse  Dio  ch'a  me  amor  portassi. 
Sicché  in  ver  di  me  pietà  mostrassi  ! 

CXIX. 

Ardente  fiamma  mi  mettesti  al  cuore 
Il  primo  giorno  che  ti  risguardai  : 
Ardomi  dentro  e  non  mi  par  di  fuore  ; 
La  vita  mia  porta  pene  assai. 
Ricordati  di  me,  che  son  tuo  amore, 
Soccorrimi  alle  pene  che  mi  dai  : 
Soccorrimi,  per  Dio,  cara  speranza, 
Che  son  tuo  servo,  e  tu  se'  la  mia  amanza. 

CXX. 

Fa'  eh'  io  mi  viva  per  te  consolato, 
Che  se  tu  m'ami  non  avrò  mai  doglia: 
Tu  se'  colei  che  mi  pòi  far  beato, 
E  vivere  in  'sto  mondo  in  canto  e  in  gioglia. 
E  se  tu  m'ami  paradiso  ho  trovato, 
E  sempre  t'amerò  di  buona  voglia: 
Fior  delle  donne,  lasciati  consigliare, 
Che  se  tu  m'ami  in  gioja  posso  stare. 

CXXL 

Quando  ti  veggo  tutto  mi  conforto. 

Quando  ti  veggo  mi  fai  pien  di  gioglia  ; 
Lo  dì  che  non  ti  veggo,  si  son  morto  ; 
Disconsolata  va  tutta  mia  voglia. 
0  dolce  diva,  de,  non  mi  far  torto 
E  non  voler  che  Morte  sì  mi  toglia: 
De,  lasciati  veder,  stu  vuoi  eh'  io  viva  ; 
Se  non,  del  viver  mio  Morte  mi  priva. 

Poco  dissimile  dal  n.  LXIV. 


540  RISPETTI  DEL  SECOLO  XV. 


CXXIL 

0  Dio,  che  dolce  cosa  è  '1  vagheggiare 
Ed  amar  donna  che  sia  innamorata  ! 
Le  greve  pene  non  potria  contare 
Ch'io  porto  per  'sta  donna  dispietata: 
Che  giorno  e  notte  la  mi  fa  penare, 
E  non  gli  incresce  di  me  alcuna  fiata: 
La  si  contenta  eh'  io  debba  morire, 
E  poco  cura  del  mio  ben  servire. 

CXXIII. 

0  vivo  0  morto  sono  al  tuo  piacere, 
Comandami,  per  Dio,  che  lo  può'  fare: 
La  mia  persona  sì  è  al  tuo  volere, 
Null'altra  cosa  voglio  a  te  contare. 
Ma  pruova  '1  servo  tuo,  se  vuo'  vedere 
Che  pure  aspetta  lo  tuo  comandare  : 
Mill'anni  parmi  avanti  el  mio  morire, 
Bella  madonna,  io  ti  possa  servire. 

CXXIV. 

E  con  licenza  mi  vorria  partire, 
Bella  madonna,  se  lo  comandate. 
Che  l'ora  è  tarda,  e  vogliomene  gire. 
Cara  madonna,  che  a  me  perdonate. 
Un'altra  sera  ci  voglio  venire, 
Che  tra  'niendui  staremo  consolati  : 
Addio  amorosa,  addio,  e  pure  addio; 
Per  fin  che  torno,  rimanti  con  Dio. 

È  il  30  dei  Rispetti  antichi  pnbbl.  da  G.  Lega,  con  queste  varianti: 
2  SI  me  'l  —  3  e  me  ne  voi/o  —  4  s»  me  7  —  5  io  vorù  —  8  al  mio  riliD-no. 
Pei  primi  versi  cfr.  Giannini,  C.  p.  tose,  p.  16i: 

E  giaccliè  vedo  qui  l'alba  apparire. 
Chiedo  licenza  e  non  vo'  più  cantare. 


RISPETTI  DEL   SECOLO  XV.  541 


CXXV. 

Non  ti  fidar  di  femmina  nessuna, 
Che  tutte  son  di  casa  di  Maganza, 
Tutte  si  voltan  come  fa  la  luna, 
In  loro  non  è  fede  né  speranza  : 
Per  me  lo  dico  che  n'ho  provato  una, 
Che  m' impromise  d'esser  lial 'manza: 
Guardommi  un  giorno  con  i  suoi  begli  occhi, 
E  femmi  una  insalata  di  finocchi. 

Nel  cod.  1069  della  Bibl.  Xazionnle  Parigina,  trovasi  questo  Rispetto 
con  lievi  varianti  (v.  6  Credendo  che  la  fosse  la  mia  manza)  ma  mancante 
dei  vv.  .3-1  (.Mazzatinti,  Ms.  delle  Bibl.  di  Francia,  II,  271). 


STRAMBOTTI  DI  LEONARDO  GIUSTINIANI 


Riproduco  qui  appresso  dal  Giornale  di  Filologia  Eomanza  (11,179), 
dove  primamente  li  inserii,  questi  strambotti  del  Giustiniani,  non  soltanto 
per  l'affinità  loro  con  i  Canti  propriamente  popolari,  ma  anche  per  ovviare 
ad  una  dimenticanza. 

Il  lettore,  che  mi  abbia  pazientemente  seguito  fin  qui,  avrà  potuto 
osservare  come  mi  sia  ingegnato  di  giovarmi  di  quante  pubblicazioni  sul- 
l'argomento uscirono  a  luce  dal  1878  in  poi,  che  è  la  data  della  prima 
edizione  di  questi  Studj,  se  anche  il  più  delle  volte  si  trattasse  di  articoli 
di  giornale  o  di  brevi  pubblicazioni  generalmente  in  pochi  esemplari;  nò 
pretendo  perciò  di  aver  di  tutto  profittato,  né  tutto  notato.  Ma  dolorosa 
mi  riesce  la  dimenticanza,  della  quale  ora  soltanto  mi  avvedo,  di  un  opu- 
scolo del  prof.  T.  Ortolani:  Appunti  su  Leonardo  Giustiniani  con  l'Appen- 
dice di  ventiquattro  nuoci  Strambotti  (Feltre.  Castaldi,  1896,  di  p.  56ì.  pregevole 
non  soltanto  per  la  notizia  di  quei  componimenti  e  per  la  bibliografia  delle 
antiche  stampe,  più  ampia  e  corretta  di  quella  comunicatami  dal  Tessier, 
ma  specialmente  per  il  luogo  che  nella  storia  letteraria  assegna  al  poeta 
veneziano  e  ai  suoi  Strambotti.  Bimedio  qui  il  meglio  che  posso  allo  scorso 
di  memoria,  e  quello  che  ora  dico  sarà  correzione  e  aggiunta  al  cap.  IV 
(pag.  14G  e  segg.). 

Secondo  quanto  il  prof.  Ortolani  afferma,  dopo  il  Gaspary,  il  Casini, 
il  Ferrari,  il  Gian,  e  saldamente  dimostra,  avrebbe  Leonardo  Giustiniani, 
0  Giustinian,  alla  veneta,  nato  nel  1388,  morto  nel  1446,  precorso  tutti  gli 
altri  poeti  culti  del  sec.  XV  nell" imitare  le  varie  forme  della  poesia  po- 
polare. Le  Laudi  sacre  appartengono  evidentemente  all'età  tarda  [extrema 
{etate,  come  attesta  un  contemporaneo),  quando  pei  conforti  del  fratello, 
patriarca  di  Venezia,  il  poeta  si  volse  a  casti  pensieri;  e  Ambrogio  Tra- 
versar! afferma  in  una  sua  lettera  che  già  nel  1429  il  Giustiniani  coltivasse 
la  poesia  e  la  musica  sacra.  Le  rime  profane,  Strambotti  e  Canzonette, 
sarebbero  adunque  opera  di  gioventù,  e  apparterrebbero  ai  primi  lustri  del 
Quattrocento,  cosicché  il  Giustiniani  avrebbe  di  parecchi  anni  preceduto 
il  Pulci,  il  magnifico  Lorenzo  e  il  Poliziano:  nati,  il  primo  quattordici  anni 
prima  che  il  Giustiniani  morisse,  il  secondo,  due  anni  dopo  la  morte  di  lui; 
l'ultimo,  otto.  Le  date  pertanto  non  permettono  di  porre  in  dubbio  l'ante- 
riorità del  Giustiniani,  come  autore  di  Strambotti  e  Canzonette,  sui  tre 
fiorentini. 

Ma  rispetto  allo  Strambotto,  noi  abbiamo  cercato  di  dimostrare 
ch'esso  è  un  prodotto  siciliano,  trasportato  di  buon'ora  e  diramatosi  di 
là  in  ogni  parte  della  Penisola,  e  in  Toscana  specialmente  accetto  e  tra- 
sformato: ed  anche  il  prof.  Ortolani  consente  con  noi  che  nel  Veneto  esso 
giungesse  dalla  Toscana  ;  ma  noi  abbiamo  anche  addotto  non  pochi  antichi 
esempj   di  imitazione  toscana  dello  Strambotto  insulare,   che  avrebbero 


544  STRAJIBOTTI  DI  LEO^'ARDO   GIUSTINIANI. 

potuto  essere,  più  che  gli  originali  componimenti  siciliani,  il  modello  del 
genere  coltivato  dal  rimatore  veneziano.  Ad  ogni  modo  però,  questi  sarebbe 
il  più  antico  fra  i  rimatori  culti,  del  quale  si  abbia  certa  notizia  come  autore 
di  siffatta  forma,  e  come  tale  che,  coU'autorità  dell'esempio  e  del  nome, 
introducesse  lo  Strambotto  fra  le  foggio  poetiche.  Se  poi  i  fiorentini  testé 
ricordati  seguitassero  consciamente  le  forme  di  lui,  richiamandosi  al  suo 
esempio,  o  se  perfezionassero  quei  primi  tentativi  paesani,  che  il  vene- 
ziano dal  canto  suo  non  avrebbe  probabilmente  ignorato,  è  diffìcile  deter- 
minare con  sicurezza. 

Per  quel  eh' è  poi  delle  Canzonette,  e  non  fermandoci  alle  Laudi  che 
dal  sec.  XIII  in  poi  appariscono  in  tutta  Italia  come  proprie  ai  Disciplinati, 
anch'esse  sono  un  genere  anteriore  al  Giustiniani  e  che  aveva  già  avuto 
nell'Italia  del  mezzo  larga  fioritura,  e  che  dalla  forma  plebea  delle  ballate 
bolognesi,  passando,  come  il  dolce  stil  nuovo,  l'Appennino,  era  in  Toscana 
giunto  a  forma  d'arte,  secondo  che  attestano  la  canzone  della  Ghirlandetta, 
quella  della  Bosa  novella  ed  altre  assai.  Se  poi  innanzi  al  Giustiniani  altro 
poeta  veneto  ci  si  fosse  esercitato,  o  se  egli  per  il  primo  riproducesse  gli 
eseuipj  toscani,  è  altro  punto  controverso  e  di  difficile  soluzione.  Questo 
è  ben  certo,  ch'egli  compose  fra  brevi  e  lunghe,  anzi  molto  lunghe,  non 
poche  Canzonette. 

Concludendo  diremo  pertanto,  che  ci  chiamiamo  in  colpa  del  non  aver 
parlato  a  suo  luogo,  fra  le  pagg.  156  e  157  del  Giustiniani;  e  similmente,  dopo 
ricordati  due  centri  —  Firenze  e  Napoli  —  dove  nel  secolo  XV  si  avverò 
il  fatto  dell'imitazione  della  poesia  popolare,  del  non  aver  anche  men- 
tovato Venezia.  Salvochè,  mentre  altrove  si  può  parlare  di  una  scuola,  cioè 
di  un  iniziatore  che  intorno  a  sé  raccoglie  altri,  i  quali  con  lui  consentono 
riconoscendolo  qual  duce  e  maestro,  il  Giustiniani,  per  quel  che  ne  sap- 
piamo, è  solo,  e  non  trova  consenso  e  par  che  scriva  non  pei  dotti  e  pei 
cortigiani,  ma  pel  popolo,  usando  di  preferenza  le  forme  idiomatiche  ve- 
neziane, e  nelle  Canzonette  molto  spesso  stemperando  quella  brevità,  che 
dovrebb'essere,  e  altrove  fu,  propria  del  genere.  Vero  è  che  diede  rinomanza 
a  siffatti  componimenti,  che,  come  il  Bembo  attesta,  furon  per  lui  detti 
comunemente  Giustiniane;  ma  forse  più  che  altro  a  eagion  della  musica 
ch'egli  vi  aveva  adattata,  e  che  servì  via  via  ad  altre  poesie  condotte  sui 
medesimi  metri. 

Questo  che  qui  diciamo  del  Giustiniani,  mentre  risponde  al  vero, 
corrisponde  anche  all'indole  della  cultura  italiana  nel  sec.  XV,  che  in  più 
punti  della  Penisola  si  andava  formando  e  svolgendo,  spesso  con  identiche 
manifestazioni,  e  congiungeudo  sempre  insieme  la  varietà  coli' unità. 


Quando  io  metteva  insieme  quegli  Studj  sulla 
poesia  popolare  italiana  che  furono  stampati  nel- 
l'anno 1878  dall'editore  Vigo  di  Livorno,  io  ricor- 
dava di  avere  tra  i  miei  libri  un  opuscoletto  stam- 
pato nel  secolo  XVIT  di  Strambotti  del  Giustiniani, 
e  mi  sembrava  per  una  certa  rimembranza  che  me 
ne  era  restata,  che  non  dovesse  essere  inutile  alle 
ricerche  che  allora  facevo,  e  soprattutto  a  meglio 
confermare  le  continue  ed  antiche  relazioni  fra  la 
poesia  cantata  dalle  plebi  e  quella  di  autori  che  imi- 
tarono la  forma  plebea.  Riuscitami  vana  ogni  inda- 
gine dell'opuscolo,  perdutosi  in  mezzo  ai  volumi  di 
maggior  formato,  e  non  avendone  trovato  copia  nelle 
Biblioteche  pubbliche  e  private  di  queste  parti,  non 
ci  pensai  piìi,  finché  per  caso  mi  ritornò  sotto  gli  oc- 
chi. È  desso  un  libercolo  di  8  carte  non  numerate, 
così  intitolato  : 

Strambotti  |  in  proposito  |  di  ciascuno  |  ama- 
tore I  LI  QUALI  SCRISSE  DI  SUA  PROPRIA  j  MANO  |  IL 
NOBILE    MESSER  LEONARDO  |  GIUSTINIANO  |.  Li  Trcvigi  | 

per  Girolamo  Righettini,  164L  |  con  licenza  de'  su- 
periori I  e  di  nuovo  ristampato.  —  Rilettolo  e  colla 
memoria  fresca  dei  molti  canti  popolari  che  avevo 
dovuto  ripetutamente  leggere  nel  comporre  il  vo- 
lume degli  Studj,  mi  avvidi  che  vi  erano  per  entro 

B' Ancona,  La  poesia  pop.  Hai.  —  35 


546  STRAMBOTTI  DI  LEONARDO   GIUSTINIANI. 

non  pochi  Strambotti  tuttora  viventi  sul  labbro  dei 
nostri  volghi,  ed  altri  compresi  nel  Cod.  perugino 
del  sec.  XY  da  me  riprodotto  in  Appendice  al  mio 
lavoro.  Pensai  allora  che  non  sarebbe  stato  inutile 
agli  studj  della  poesia  popolare  il  riprodurre  questi 
Strambotti  del  Giustiniani,  corredandoli  di  qualche 
raffronto  colle  versioni  antiche  e  moderne:  ed  offro 
questa  tenue  fatica  ai  benevoli  del  nostro  Giornale, 

Se  non  che  una  stampa  popolare  del  sec.  XVII 
di  poesie  che  risalgono  al  XV  non  offriva  sufficiente 
sicurezza  di  buona  lezione,  e  pensai  si  dovesse  ricor- 
rere 0  a  manoscritti  o  ad  edizioni  antiche,  e  a  tal 
fine  mi  rivolsi  all'egregio  bibliofilo  e  cortese  amico 
mio  il  sig.  cav.  Andrea  Tessier  di  Venezia,  perchè 
nella  Marciana  mi  trovasse  ciò  che  fosse  a  me  ne- 
cessario. Ed  egli,  con  quella  sollecitudine  che  rende 
più  graditi  i  favori,  mi  trasmetteva  copia  degli  Stram- 
lotti  del  Giustiniani  secondo  una  antica,  e  forse  prima 
edizione  veneziana,  accompagnando  la  trascrizione 
con  una  lettera,  che  stimo  utile  riprodurre  per  le 
notizie  biografiche  che  in  essa  contengonsi. 

"  Leonardo  Giustiniani,  che  nacque  intorno  al 
1388  e  morì  il  10  novembre  1446  era  patrizio  ve- 
neto e  fratello  al  Protopatriarca  di  Venezia,  il  B.  Lo- 
renzo ;  ed  è  autore  degli  Stramholti,  non  meno  che 
delle  Canzonette,  delle  Laudi  Spirituali  ecc. 

Di  lui  parlarono  moltissimi  autori,  fra'  quali  ri- 
cordo i  seguenti  :  l'Agostini  negli  Scrittori  Veneziani, 
tomo  I,  pag.  135  e  seg.  e  tomo  II,  pag.  31  ;  il  Fosca- 
rini  nella  Letteratura  veneziana,  a  pag.  368,  nota  44; 
il  Contarini  (G.  Battista)  negli  Anecdota  Veneta,  1757, 
a  pag.  73  e  seg.;  il  Morelli  a  pag.  193  della  sua i>/s- 
sertazione  sulla  cultura  della  poesia  presso  i  Veneziani, 
riportata  anche  nel  1. 1  delle  Operette,  Venezia  1820; 


STRAMBOTTI  DI  LEONAEDO  GIUSTINIANI.  547 

il  Tiraboschi  nel  voi.  YI,  parte  I,  pag.  157-9  della 
Storia  della  Leti,  ital.,  e  voi.  VI,  part.  IV  a  pag.  1069 
dell'edizione  di  Venezia,  1823  ;  il  Crescimbeni  nei 
Commentarj  a  pag.  246  del  voi.  II,  parte  II  ;  il  San- 
sovino  nella  Venezia  descritta,  lib,  XIII,  eart.  244 
tergo  ;  il  Quadrio,  voi.  II,  469,  474  ;  VII,  100-101. 
125-6,  200:  il  Corniani  nei  Secoli  della  Leti.,  voi.  II, 
pag.  289  ;  il  Cicogna,  Inscriz.  veneziane,  t.  II,  pag.  71-3  ; 
t.  V,  pag.  516,  t.  VI,  pag.  775-6;  ed  altri  assai. 

"  Quanto  agli  Strambotti,  oltre  l'edizione  di  Tre- 
vigi  da  Lei  posseduta,  varie  altre  ne  esistono.  La  piti 
antica  ch'io  conosca  è  la  seguente,  di  cui  sta  un  esem- 
plare nella  Biblioteca  Marciana,  ov'è  contrassegnata 
A.  T.  7.  5761  :  —  Questi  Strambotti  scrisse  de  sua 
mao  in  prepo  \  sito  d'  ciascaduno  amatore  il  nobile  mis- 
ser  I  Leonardo  lustiniano.  —  Senza  anno  e  senza  note 
tipograficbe,  ma  degli  ultimi  anni  del  sec.  XV  o  dei 
primissimi  del  sec.  XVI.  Di  sole  4  e.  in  4"  con  fig. 
intagliate  in  legno  nella  1-''  e  3^*  carta. 

"  La  stessa  Biblioteca  possiede  le  due  altre  edi- 
zioni che  seguono  :  l'una  intitolata  :  —  Strambotti  | 

IN  proposito  I  DI  CIASCUNO  |  AMATORE  [.  Li  QUALI 
SCRISSE    DI   SUA    PROPRIA    MANO,    JL    NoBILE    MlSSIER  | 

Leonardo  Giustiniano  |.  In  Trevigi,  con  licenza  de' 
Superiori  |  ed  in  Venezia  per  il  Lauezari. —  Senz'anno, 
del  sec.  XVII,  di  4  e.  non  numer.  in  4^  Tale  esemplare 
è  contenuto  nel  voi.  miscellaneo  n.  1945.  —  L'altra 
è  intitolata:  —  Strambotti  i  in  proposito  |  di  cia- 
scuno i  amatore  |.  Li  quali  scrisse  di  sua  propria 
mano  I  il  nobile  missier  I  Leonardo  Giustiniano  |. 
In  Trevigi,  mdclxii|.  Appresso  Francesco  Righettini  |, 
con  licenza  de'  Superiori.  Di  4  e.  non  numer.,  in  4", 
con  fig,  intagliata  in  legno  sul  frontespizio  e  nel- 
l'interno dell'opuscoletto.  E  nel  voi.  misceli,  n.  2677. 


548  STRAMBOTTI  DI  LEONARDO   GIUSTINIANI. 

"  Però  i  detti  Strambotti,  che  sono  i  medesimi 
in  ciascuna  delle  succitate  edizioni,  vennero  tratti 
dalle  13ÌÌ1  copiose  stampe,  di  cui  mi  è  dato  darle  una 
breve  descrizione,  per  averne  trovato  esemplari  nella 
Marciana.  La  più  antica  è  la  seguente  :  —  Comincia 

IL  FIORE  DELLE  ELEGANTIS  |  SIME  CaNCIONETE  DIL  NO- 
BILE MES  I  SERE  Leonardo  |  Iustintano.  —  In  fine:  Il 
'fiore  delle  elegantissime  cancionette  di  mes  \  sere  Leo- 
nardo lustiìiiano  qui  finisse:  I  Vene  |  tia  con  ogni  di- 
ligentia  impresse  per  Antonio  |  de  strata,  a  di  noue 
Marzo  mcccclxxxii  |  Messere  Giovanni  Mocenigo  in- 
clyto  principe  |  di  Venetia.  —  In  4"  di  e.  44,  non 
numer.  Magnifica  edizione,  contrassegnata  CXIII, 
4.  41127.  0  —  Altra  edizione  :  Queste  sono  le  Can- 
zonette ET  I  Strambotti  damore  conipo  \  ste  per  il 
Magnifico  mi  \  ser  Leonardo  Insti  \  niano  di  Venetia.  — 
In  fine  :  Impressum  Venetiis  per  Joanne  |  Baptistam 
Sessam.  Anno  |  diìi  mccccc  |  Die  uero  xiii  |  Aprilis, 
In  4"  di  16  e.  non  numer.,  contrassegnato  col  n.  2677. 
—  Altra  edizione  :  —  Queste  sono  le  Canzonette 
et  I  Stramboti  damore  compo  \  ste  per  il  Magnifico 
7ni\ser  Leonardo  Listi\niano  di  Vinetia.  ~  In  fine: 
Impresso  in  Venetia  per  marcliion  Sessa  |  nel  mcccccvi 
adi  XII  octobrio.  In  4''  di  16  e.  non  numer.  Contras- 
segnato A.  T.  7.  5761.  —  Altra  edizione:  —  Queste  | 

SONO    LE     canzonette     Et    |     STRAMBOTTI     AmORO  j  SI. 

Composte  per  \  el  Magnifico  \  miser  Leo  |  nardo  lusti- 
niano  da  \  Venetia.  Stapa  \  ta  novaméte.  —  In  fine  : 
Stampata  in  Veneciap.  Zorzi  de  Rusconi  j  nel  m.d.xviiii, 


(1)  Il  sig.  Ortolani  avverte  che  in  questa  ediz.  non  si  trovano  gli 
Strambotti,  ma  solo  le  Canzonette.  E  fa  notare  che  i  2-t  Strambotti  ch'egli 
riproduce  sono  in  due  stampe  non  ricordate  dal  Tessier:  di  Giovanni 
Sessa,  1500  e  di  Marchio  Sessa,  1505,  dopo  le  Canzonette. 


STRAMBOTTI  DI  LEONARDO  GIUSTINIANI,  549 

adi  XIII  de  Nouebre.  In  8",  di  40  e.  non  numer.  Con- 
trassegnato A.  S.  3.  5003, 

"  Quanto  a  codici  manoscritti,  la  Marciana  ne 
possiede  uno  contrassegnato  col  n.  CV  della  CI,  IX 
degli  italiani,  del  sec.  XVI,  in  4",  il  quale  contiene 
Bime  di  vari  onfichi  autori.  Fra  queste  àvvene  alcune 
del  Giustiniani,  che  reputo  inedite,  ad  eccezione  di 
quella  che  comincia  :  Io  vedo  ben  che  amor  è  traditore, 
la  quale  è  stampata  fra  le  Canzonette  delle  quattro 
edizioni  poc'anzi  indicate, 

"  Quanto  a  Laudi  Spirituali  del  suddetto  Giu- 
stiniani, se  ne  trovano  inserite  in  varie  raccolte  a 
stampa,  insieme  con  quelle  di  altri  autori,  secondo 
ne  fa  menzione  il  Gamba  sotto  i  n,'  105, 106, 107, 108 
della  Serie  de'  testi  di  lingua,  Venezia,  1839;  mentre  il 
Cicogna  nel  t,  II,  pag,  72,  col.  1  delle  suddette  Iscri- 
zioni veneziane  accenna  esistere  la  seguente  edizione: 
Le  DEVOTISSIME  ET  SANCTissiME  Laude,  Cremona,  1474, 
in  4";  le  quali  Laude  furono  stampate  più  volte. 

"  Molte  Laudi  Spirituali,  poi,  di  esso  Giustiniani 
stanno  nel  ms.  Marciano  contrassegnato  col  nu- 
mero CLXXXII  della  ci,  IX,  il  quale  è  in  foglio,  e 
del  sec,  XV  :  e  taluna  delle  stesse  Laudi  sta  nel- 
l'altro cod.  Marciano  contrassegnato  col  n,  LXXVIII 
della  detta  ci.  IX,  il  quale  è  in  foglio  piccolo,  e  della 
fine  del  sec,  XVI  o  del  principio  del  sec.  XVII  „. 

La  copia  fattami  diligentemente  dal  sig.  Tessier 
è  tratta  dall'edizione  s,  a.  ma  della  fine  del  sec,  XV 
0  dei  primissimi  del  XVI.  Il  testo  da  me  prodotto, 
ha  per  principal  fondamento  quella  stampa,  cont»ad- 
distinta  colla  lettera  a,  ma  si  giova  anche  dell'edi- 
zione del  Righettini  1641,  notandola  con  h. 

Le  relazioni  fra  gli  Strambotti  del  letterato  ve- 
neziano ed  i  Bispetti  colti  dalla  bocca  del  popolo  per 


550 


STRAMBOTTI  DI  LEONARDO  GIUSTINIANI. 


opera  dei  moderni  editori  sono  evidenti  dai  paragoni 
clie  verremo  notando,  e  de'  quali  forse  alcuno  ci  è 
sfuggito.  Ma  riconosciuto  il  fatto,  resta  sempre  da 
sapersi  se  il  letterato  imitò  il  popolo,  o  questo  l'al- 
tro :  e  la  questione  è  pressoché  insolubile. 

Certo  il  Giustiniani  dovette  imitare  le  forme  ple- 
bee, e  spesso,  non  che  i  sentimenti  e  i  concetti,  ripro- 
dusse nei  suoi  Strambotti  anche  versi  che  ripetevansi 
popolarmente  ;  ma  a  perpetuare  fra  il  popolo  la  me- 
moria di  canti  suoi  proprj  ab  antico,  non  poco  dovet- 
tero giovare  le  molte  e  ripetute  ristampe  volgari  di 
questi  Strambotti  giustinianei.  Del  resto,  approprian- 
dosi le  ottave  del  poeta  veneziano,  il  popolo  ripren- 
deva il  suo,  e,  mutandole  e  modificandole  variamente, 
vi  imprimeva  il  proprio  suggello,  come  ha  fatto  sem- 
pre delle  forme  di  poesia  letterata  che  andarongli 
a  genio.  Ad  ogni  modo,  se  questi  Strambotti,  che  qui 
riproduciamo,  non  servono  a  sciogliere  la  contro- 
versia, servono  almeno  a  sempre  meglio  comprovare 
ciò  che  nei  nostri  Stiuìj,  con  frase  mercantile,  ma 
acconcia  al  caso,  dicemmo  "  partita  aperta  di  dare 
e  avere  tra  la  poesia  eulta  e  la  popolare,  e  conto 
corrente  sempre  acceso  fra  i  rimatori  illustri  ed  i 
plebei  „. 


Luglio  1879. 


Alessandro  D'Ancona. 


Amore  vuol  che  novameute  io  canti, 
Tanta  è  la  pena  che  sente  il  cor  mio, 
r  sono  el  piti  fidel  fra  li  altri  amanti, 
E  sempre  vivo  lieto  e  con  disio. 
Risguardo  ancor  quando  vi  son  avanti 
El  vostro  volto  signoril  e  pio: 
E  poi  ringrazio  Idio  che  vi  produsse, 
E  avanti  a'  vostri  occhi  mi  condusse. 

1  si  voi  :  a,  si  vuol:  h  —  2  tanto  la:  a,  nel:  a  —  5  Te  riguardo  :  a, 
Eisguardo  anco:  &  —  6  bel  v. :  a  —  7  che  d'amor  vi:  a,  Ringratio  i  Dei 
ch'ancora:  6  —  8  belli  echi  si  me:  a,  E  innanzi  i:  &. 

Con  qualche  variante  è  nel  cod.  Venturi;  donde  lo  riproduce  il  Volpi, 
Noie  etc,  p.  27. 

IL 

Amor  mi  sforza  amare  il  tuo  bel  viso 
Là  dove  ogni  piacer  chiaro  si  vede. 
Con  quel  suave  e  dilettoso  riso 
Con  tuo  dolce  parlar,  con  tua  mercede  ; 
Tu  puoi  d'inferno  trarrne  al  Paradiso, 
Contento  mi  puoi  far,  come  tu  vede. 
Di  tutto  quello  che  '1  mio  core  brama, 
0  fior  ch'avanzi  ogni  leggiadra  dama. 

1  .si  me  condusse  :  a,  il  to  :  n  —  4  parlar  tua  :  a  —  5  poi  da  linferno  :  a. 
Tu  puoi  di  brutto  farmi  il  ver  Narciso  :  &  —  6  E  contento  me  poi  :  a,  si 
vede:  h  —  7  lo  cuor  mio:  h  —  8  avanza:  b,  ogni  altra:  a. 

IH. 

In  questo  mondo  Idio  t'ha  mandata 

Per  morte  darmi,  e  non  per  altro  fare  ; 
Dime  :  che  tu  no'  cerche  una  fiata, 
Quando  ci  passo,  dovermi  parlare? 
L'anima  mia  sarebbe  consolata. 
Né  mi  faresti  più  tanto  stentare  : 


552  STRAMBOTTI  DI  LEONARDO  GIUSTINIANI, 

Tu  hai  diletto  di  fanne  languire  : 

Deh!  guarda  ancor  che  non  t'abbi  a  pentire! 

1  credo  tu  sii  nata:  6  —  2  danni,  non:  h  —  3  che  te  no:  a,  Dimmi 
che  noglia  ti  saria:  6  —  G  E  non:  a  —  1  farmi:  6  —  8  ch'ancornon:  a, 
ancora  non  t'abbia  :  b. 

TV. 

Il  papa  ha  concesso  quindeci  anni 
De  indulgenzia  a  chi  te  pò  parlare: 
Cento  e  cinquanta  a  chi  te  tocca  i  panni, 
E  altri  tanti  a  chi  te  p5  basare  ; 
E  io  che  per  te  porto  tanti  affanni, 
Di  pena  e  colpa  mi  voi  perdonare; 
E  se  basar  potesse  '1  to  bel  viso 
L'anima  e  '1  corpo  mando  in  Paradiso. 

Manca  in  b,  dove,  come  si  vede,  sono  stati  modificati  o  tolti  scrupo- 
losamente tutti  gli  accenni  a  cose  sacre  o  divine  —  6  e  di  colpa:  a  — 
7  quel  to  :  a. 

Trovasi  anche  nel  Laur.  gadd.  161  con  queste  varianti:  1  gli  ha 
dato  XL  —  2  di  perdonanza ..  .  ti  può  —  3  sessanta  —  4  di  pena  e  colpa 
chi  ti  può  toccare  —  5-6  mancano  —  7  Et  chi  ti  bacia  el  tuo  —  8  In  carne 
e  in  ossa  ne  va  (Bibliot  Lett.  popol.,  I,  84).  E.  Lovaeini,  a  proposito  del 
verso  iniziale  ricordato  ne\V Anconitana  del  Ruzzante  (C.  p.  in  lituz.,  p.  22): 
Melchisedech  concesse  quindese  anni,  in  che  ravvisa  una  imitazione  dello 
strambotto  Giustinianeo,  riporta  questo  canto  siciliano  (Vigo,  n.  814)  : 

Lu  papa  n'ha  cuncessu  quindic'anni 
D'illurgenzii  ppi  cui  parrà  a  vui, 
Cinquent'anni  cu'  tucca  ssi  carni 
Novicent'anni  a  cui  dormi  ccu  vui. 

V. 

Se  li  arbori  sapessen  favellare 
E  le  lor  foglie  fusseno  le  lingue, 
L'inchiostro  fusse  l'acqua  dello  mare, 
La  terra  fusse  carta  e  l'erbe  penne, 
Le  tue  bellezze  non  potria  contare. 
Quando  nascesti,  li  angioli  ci  venne; 
Quando  nascesti,  colorito  giglio. 
Tutti  li  santi  fumo  a  quel  consiglio. 

1  sapesseno  :  a,  sapesser:  6  —  2  foglie  lor:  a  —  4  carta  1':  a  — 
6  anzoli  :  «,  la  grazia:  6  —  7  o  col.:  6  —  8  Dei,  b. 

Vedi  a  pag.  240  per  ciò  che  riguarda  i  primi  quattro  versi  e  ag- 
giungi le  indicazioni  di  F.  Sabatini,  Alcuni  strambotti  di  L.  G.  conservati 
nella  tradizione  poiìolare,  Roma,  1880,  p.  6;  e  di  G.  Giannini,  C.  p.  tose,  304. 


STRAMBOTTI  DI  LEONARDO  GIUSTINIANI.  553 

Gli  ultimi  quattro  si  raffrontano  con  Rispetti  popolari  : 

La  vostra  madre  quando  v'ebbe  a  fare 

Salì  negli  alti  cieli  a  far  consiglio. 

Da  quattro  Dei  la  ne  prese  parere.        (Tommaseo,  p.  61). 

Quando  la  vostra  madre  v'ebbe  a  fare 

Andiede  in  alto  cielo  a  far  consiglio  ecc.     (Tigri,  u.  93). 


Sia  benedetto  il  giorno  che  nascesti, 
E  l'ora  e  '1  punto  che  fusti  creata  ! 
Sia  benedetto  il  latte  che  bevesti 
E  il  fonte  dove  fusti  battezzata  ! 
Sia  benedetto  il  letto  ove  giacesti, 
E  la  tua  madre  che  t'ha  nutricata! 
Sia  benedetta  tu  sempre  da  Dio; 
Quando  farai  contento  lo  cor  mio? 

1  che  tu:   a  —  4  la  fonte:  a  —  5  dove:  —  7-8  A  te  siano  propizj 
sempre  i  Dei,  Quando  farai  contenti  i  voler  miei:  b. 

Tedi  qui  addietro  a  pag.  238,  e  Sabatini,  op.  cit.,  p.  10. 

VII. 

Non  perder,  donna,  el  dolce  tempo  e' hai: 
De,  non  lassar  diletto  per  dureza  : 
Tempo  perduto  non  s'acquista  mai; 
Ne  anche  in  donna  non  riman  belleza  ; 
Però,  madonna,  guarda  quel  che  fai, 
Non  perder  tempo  di  tua  gioveneza  ; 
Si  che,  donna,  da  voi  debo  venire  ? 
Con  qualche  modo  maudamel  a  dire. 

6  il  tempo  :  a  —  1  dama  s'a  te  debba  :  &  —  8  bel  m.:  a. 
Cfr.  coi  Rispetti  perugini,  n.  7. 

YIII. 

Presto  me  accorgerò,  donna,  se  m'ami, 
E  se  voi  trarmi  di  questo  martire; 
Presto  m'accorgerò,  donna,  se  chiami 
Contenta  de  l'antiquo  mio  servire  ; 
Presto  me  accorgerò,  donna,  se  brami 
Di  dar  soccorso  al  mio  giusto  desire  ; 
Presto  me  accorgerò  di  tuo  talento, 
Stu  vói  ch'io  mora,  o  che  abi  contento 

1  m'  :  6  —  2  E  voi . . .  trarmi  questo  mio  :  a  —  4  antico  :  b  —  5  in":  b  — 
6  De...  gran:  o  —  m':  6,  del  6  —  8  Se...  o  pur  che  sia:  b. 


554  STRAMBOTTI  DI  LEONARDO   GIUSTINIANI. 

IX. 

Stu  sei  donna  gentil,  tu  '1  degi  amare 
Servo  che  del  tuo  amore  sia  ben  degno 
E  l'amore   di  quel  solo  seguitare, 
Usando  verso  d'altri  del  contegno  : 
Un  solamente  ti  potria  bastare  ; 
Per  Dio,  m'agreva  che  dir  tei  convegno  ; 
Che  non  è  onor  né  non  è  gentileza 
'N  tanti   amanti  voler  aver  fermeza. 

1  se  vuoi ...  ti  degga  :  6  —  4  de  altri  :  a  —  5  potria  ben  :  a  —  6  A 
fé:  6  —  7  uè  meno:  h  —  8  In  . . .  voler  aver:  a,  aver  la  tua:  b. 

È,  con  varia  lezione,  il  78»  del  cod.  marciano  346  (v.  Bibl,  Lett.  popol., 
II,  116). 

X. 

Gioia  mia  cara,  com'  te  soffre  il  core 
Che  '1  caro  amante  stia  da  te  diviso? 
Non  ti  ricordi  il  nostro   antiquo  amore, 
L'usate  feste  e  '1  dolce  paradiso  ? 
Quest'è  la  doglia  che  mi  passa  '1  core, 
E  rivoltami  in  pianto  el  dolce  riso  : 
0  labri  di  coral,  zucaro  e  mèle, 
Non  hai  pietà  del  tuo  servo  fedele? 

1  Zola...  soffri:  a.  Clori  gentil...  soffri:  &  —  3  aricordi:  6  —  4  il 
dolce:  6  —  5  Questa  la:  a  —  6  Rivoltami:  a,  E  mi  rivolta:  6  —  7  corallo 
0:  a  —  8  to  :  a. 

XI. 

Io  mi  viveva  senza  nullo  amore. 
Non  era  donna  a  chi  volesse  bene  ; 
Denanti  a  me  paristi,  o  nobel  fiore, 
Per  dar  a  la  mia  vita  amare  pene  ; 
E  sì  presto  m'entrasti  tu  nel  core, 
Come  saetta  che  da  l'arco  vene  ; 
E  come  intrasti,  io  presto  serrai. 
Perchè  nuU'altra  donna  c'entri  mai. 

1  Io  :  6  —  2  E  :  a,  a  cui  volessi:  6  —  3  Davanti  a  me  paresti:  h, 
nobil,  6  —  5  tu  m' intrasti:  a,  così  presto  m'entrasti  nel:  6—6  viene  :  6  — 
7  entrata  fosti  io  lo  :  6  —  8  cintro  zamai  :  a,  altra  donna  non  c'entrasse 
mai  :  6. 

Cfr.  col  510  dei  lUspetti  perugini  e  col  44"  del  marciano,  nel  quale  va- 
riano del  tutto  i  due  ultimi  versi: 

Non  me  dovevi  nel  mio  cor  intrare 
Se  tu  volevi  un  altro  amante  amare. 


STRAMBOTTI  DI  LEONARDO  GIUSTINIA^^. 


XII. 

Gioioso  vorria  star,  ma  Ja  Fortuna 
Per  molti  modi  par  che  mi  molesta  ; 
Par  che  '1  cielo  e  le  stelle  con  la  luna 
Cercan  di  tórmi  ogni  diletto  e  festa; 
D'amarte  non  starò  per  cosa  alcuna, 
E  la  mia  fé  farotti  manifesta  ; 
Fortuna,  fortuneggia  quanto  sai  : 
Peggio  non  mi  poi  far  che  fatto  m'hai. 

1  stare  :  a  —  3  E  par  :  b,  ciel  stelle  :  a  —  i  cerca:  a  —  5  amarti  :  b 

—  6  Fede:  a  —   7  fortuneza:  a  —  8  che  pezo...  fare:  a,  puoi:  6. 

C£r.  col  290  (Jei  Rispetti  perugini. 

XIII. 

Dio  ti  dia  bona  sera  ;  son  venuto, 
Gentil  Madonna,  a  veder  come  stai  ; 
E  di  bon  core  a  te  mando  il  saluto, 
De  miglior  voglia  che  facesse  mai. 
Tu  sei  colei  che  sempre  m'hai  tenuto 
In  questo  mondo  inamorato  assai  : 
Tu  sei  colei  per  cui  vo  cantando, 
Giorno  e  notte  me  vado  consumando. 

1  la  6  :  a,  Ti  do  la  buona  :  b,  e  son  :  i  —  3  E  di  buon  cuor  io  ti  :  &, 
un  :  &  —  4  Di . .  .  facessi  :  b  —  1  che  mi  fa  gir  :  6  —  8  giorni  :  a,  E  giorno 
e  notte  andarmi  :  b. 

È  il  99'5  dei  Rispetti  perugini. 

XIV. 

Parlar  io  ti  vorìa,  e  io  non  osso  : 

Tu  che  sai  el  modo,  mei  degi  insignare  : 
Che  co'  li  occhi  m'ha' posto  foco  adesso; 
Vedi  ch'el  arde,  e  non  lo  vói  stuare  ; 
Ajutame  per  Dio,  che  più  non  posso 
Cotante  amare  pene,  omè,  durare; 
Se  non  me  ajuti,  moro  per  tuo  amore; 
Agi  di  me  pietà,  ligiadro  fiore. 

1  Parlarti:  a,  vorria:  6  —  2  e' hai  il  modo  mei  debbi   insegnare:  h 

—  3  il  f.:  6  —  4  che  l'arde   non  lo   vuoi:  b  —  Ajutami  perciocché:  b  — 
6  pene  amare  ahimé:  b  —  1  m'a:  6  —  8  Abbi  pietà  di  me  leggiadro:  b. 

Cfr.  col  12f>  dei  Rispetti  perugini. 


556  STRAMBOTTI  DI  LEONARDO  GIUSTIKIANI. 


XV. 

E  vengote  a  veder,  perla  lizadra, 
E  vengote  a  veder,  caro  tesoro  ; 
Non  sa'  tu  ben  che  tu  se'  quella  ladra 
Che  m'hai  ferito  il  cor,  tanto  che  moro? 
Quando  io  passo  per  la  to  contrada 
De',  lassati  vedere,  o  viso  adorno  ; 
Quel  giorno  che  ti  vedo,  non  potria 
Aver  doglia  nessuna,  anima  mia. 

1-2   veiigoti  :  b,   che    sei    leggiadra  :  i  —  3  sai  :  6  —  4   m' ha  :    h  — 
5  tua:  b  —  6  veder:  a,  o  viso  d'oro:  &  —  8  nissuna,  o  vita:  b. 

XVI. 

Non  te  maravigliar,  lizadra  donna, 
Se  spesse  volte  passo  de  qua  via: 
Non  sa'  tu  ben,  che  non  ho  altra  donna 
Che  signoreza  la  persona  mia  ? 
Tu  sola  sei  d'està  vita  colonna; 
E  quella  sola  che  '1  mio  cor  desia  ; 
Sapi  per  certo  che  tu  sola  sei 
Quella  che  bramo,  e  quella  ch'io  vorrei. 

1  . . .  dolce  Madonna:  6  —  3  sai  :  6  —  4  signoreggia:  &  —  5  de  que- 
sta: a,  de  sta:  b  —  7  sappi:  6  —  8  che  v.:  b. 

xvn. 

Quei  labri  mi  consuma  fin  a  tanto 

Che  non  li  strenzo  un  poco  al  mio  diletto  : 
De',  vengati  pietà  de  mi  alquanto. 
Cara  speranza  del  mio  cor  perfetto. 
Tu  sei  colei  che  porti  il  dolce  manto 
D'ogni  mio  bene  senza  alcun  sospetto  : 
Tu  sei  colei  per  fin  che  tu  sei  viva 
Ch'io  amerò  se  morte  non  ci  priva. 

1  consuman:  b  —  2  Ch'io  non  li  stringi:  &  —  3  di  me:  b  —  8  hamerò:  a, 
Io  t'amerò  :  b. 

XVIII. 


r  t'ò  dipinta  in  s'una  carticella. 
Come  se  fusti  una  santa  de  Dio  ; 
Quando  mi  levo  la  mattina  bella 
Ingenocchion  mi  butto  con  desio: 


STRAMBOTTI  DI  LEONARDO  GIUSTINIANI.  557 

Sì  t'adoro,  e  poi  dico  :  Chiara  stella, 
Quando  l'arai  contento  lo  cor  mio  ? 
Bàsote  poi,  e  stringo  con  dolceza  : 
Possia  mi  parto,  e  vòmen'  a  la  messa. 

1  in  SU:  a,  su  una:  &  —  2  Come  f.:  a,  fosti:  h,  il  vero  idolo  mio:  b 
—  4  avanti  a  te  mi  fermo:  b  —  5  E  si . . .  poi  d. :  a,  E  si  t'onoro  e  d.;  6  — 

7  Basciotti  :  6,  stringote  :  a  —  8  Poscia:  b\  disparto:  a;  e  lascio  tua  bel- 
lezza :  b. 

Cfr.  col  660  dei  Sispetti  perugini,  e  col  IO"  del  cod.  march.  346 
(MoRPUEGO,  Bibl.  Leu.  pop.,  II,  10"),  dove  però  è  col  nostro  comune  quasi 
soltanto  il  primo  verso. 

XIX. 

Dezo  sempre  servire  al  vostro  aspetto 
Che  me  destruge  l'alma  e  '1  cor  ognora  ? 
Non  se  de'  mai  porger  qualche  diletto 
Al  tristo  del  mio  cor    prima  che  mora? 
Dezo  sempre  portar  bagnato  il  petto 
De  lacrime  cotante  che  me  accora  ? 
Dezo  sempre  servir  chi  più  s'indura, 
0  maledetta  mia  disavventura  ? 

1  Deggio...  il  V.:  6  —  2  Che  l'anima  ed  il  cor  mi  strugo  :  b  — 
3  porgere:  a,  si  die  horamai  porger  d.:  —  4  A  Io  tristo  mio:  b,  ch'io:  b 
—  5  Deggio:  6  —  6  Di:  i,  cotanti  :  a  —  7  Deggio:  b,  servire:  a,  seguire:  b  — 

8  Che  maladetta  sia  la  mia  sciagura  :  h. 

XX. 

Quattro  sospiri  ti  vorìa  mandare, 
E  mi,  meschino,  fussi  ambasciatore  ! 
Lo  primo  s'i  te  degia  salutare, 
Lo  secondo  ti  conti  el  mio  dolore, 
Lo  terzo  sì  te  degia  assai  pregare 
Che  tu  confermi  questo  nostro  amore  ; 
E  lo  quarto  io  te  mando  inamorato  ; 
Non  mi  lassar  morir  disconsolato. 

1  vi  :  b  —  2  io  . . .  fosse  :  &  —  4  E  lo  :  «,  Il  :  6,  conta  :  6  —  5  II  :  &  — 
Lo  :  6  —  8  lasciar  :  b. 

Cfr.  il  39"  dei  Rispetti  perugini,  e  vedi  qui  addietro,  p.  168,  425,  e  per 
maggior  copia  di  testi,  Sabatini,  op.  rit.,  13,  nonché  Giannini,  C.  p.  tose,  314. 

XXI. 

Pili  lieto  amante  de  sto  mondo  fui. 
Ora  mi  trovo  el  più  disconsolato  : 
E  questo  è  stato  pe  '1  dir  mal  d'altrui  ; 
Che  malanno  aggia  chi  m'ha  incolpato! 


558  STEAIVIBOTTI  DI  LEONARDO   GIUSTINIANI. 

Ancora  spero  di  veder  colui 

Stentare  al  mondo  per  sto  gran  peccato  : 

E  spero  in  Dio  di  veder  vendetta 

Di  quella  lingua  falsa  e  maledetta. 

1  El  più:  a,  di  questo:  a  —  2  trovo  più:  &  —  3  per  il  dir:  a  — 
4  venga  bene:  h,  me  n'ha:  6  —  5  Dubito  ancora:  6  —  7  E  temo  an- 
cora: 6  —  8  SI  al  dir  mal  perfetta:  6. 

Cfr.  col  27"  dei  Bispetti  perugini. 

XXII. 

Da  poi  ch'io  vedo  fermo  il  tuo  volere 
E  che  al  tutto  abandonato  m'hai, 
Lassarle  voglio  per  farte  a  piacere  ; 
Di  qua  per  te  non  passerò  giamai: 
El  piacer  ch'io  ho  avuto  il  vo'  perdere, 
E  più  per  servo,  donna,  non  m'arai  : 
Fami  quanti  dispetti  che  tu  sai. 
Quel  ch'agio  avuto,  tu  non  mei  terrai. 

Dopo  :  6  —  3  farti  p.  :  6  —  4  E  quinci  per  tuo  amore  non  pas- 
sarò  :  a  —  5  La  morte  cercherò  per  mio  piacere  :  6  —  el  voglio:  a  —  6  E  se:  & 
—  7  fai:  i>  —  8  to  :  a  —  Che  quel  ch'lio  avuto  tu:  h. 

XXIII. 

Biastemo  il  giorno  che  me  inamorai, 
Biastemo  il  giorno  che  ti  missi  amore, 
Biastemo  il  giorno  che  in  te  mi  fidai, 
Biastemo  il  giorno  che  ti  dèi  il  mio  core  ; 
Biastemo  il  bene  ch'io  te  volsi  mai, 
Biastemo  l'alma  mia  che  per  te  more; 
Biastemo  l'assai  beffe  che  m'hai  fato: 
Ancor  biastemo  chi  cason  n'è  stato. 

Manca  in  i  —  5  ben:  a. 

XXIY. 
Non  ti  ricordi  quando  mi   dicevi 
Che  tu  m'amavi  sì  perfettamente? 
Se  stavi  un  giorno  che  non  me  vedevi 
Con  li  occhi  mi  cercavi  fra  la  gente. 
E  risguardando  stu  non  mi  vedevi 
Dentro  de  lo  tuo  cor  stavi  dolente  : 
E  mo  mi  vedi,  e  par  non  mi  cognosci, 
Come  tuo  servo  stato  mai  non  fosci. 

3  mi  :  6  —  5  riguardando  :  b,  se  tu  :  a,  che  b  —  1  or:  b,  e  non  mi  :  a, 
conosci  b. 


STRAMBOTTI  DI  LEONARDO  GIUSTINIANI.  559 

Il  principio  è  simile  a  quello  di  parecchi  Rispetti  toscani: 

E  ti  ricordi  quando  mi  dicevi  ?  (Tigri,  884). 

Non  ti  ricordi,  turca  rinnegata, 

Quando  t'amavo  e  ti  portavo  amore?         (Ibid.,  889). 

Ma  più  stretta  è  la  rassomiglianza  con  questo  tetrastico,  evidentemente 
monco  del  principio  : 

E  se  tu  stavi  un'ora  e  'n  mi  vedevi 

Con  gli  occhi  riguardavi  tra  la  gente; 

Ora  mi  vedi  e  non  dici  addio 

Come  se  tua  non  fossi  stata  io.  (Ibid.,  887). 

La  versione  romana  è  questa,  e  più  intera  (Nannaeelli,  p.  48): 

Dov'è  tutto  quel  ben  che  mi  volevi, 
Dov'è  tutto  l'amor  che  mi  portavi  ? 
Se  stavi  un'ora  ohe  non  mi  vedevi 
Coll'occhio  fra  la  gente  mi  cercavi. 
Adesso  passo  e  non  so'  piìi  guardata, 
Oh  mai  la  diva  tua  non  fossi  stata! 
Adesso  passo  e  non  mi  riconosci, 
Oh  mai  la  diva  tua  stata  non  fossi  ! 

Tornano   al  solo  tetrastico   due  forme  venete  :  l'una  (Dal  Medico, 
p.  128): 

Ma  dove  xe  quel  ben  che  me  volevi, 
Quele  careze  che  d'amor  me  fevi  ? 
Co'  g'era  un'ora  che  no  me  vedevi 
Del  vostro  caro  ben  vu  demandavi  ; 

l'altra  (Bernoni,  1»,  n.  30)  varia  al  solo  quarto  verso  : 

Co  i  oci  tra  la  gente  me  ^erchevi. 

Nel  vicentino  è  un  esastico  (Alvefà,  n.  85)  : 

Do'  è  quel  tanto  ben  che  mi  volevi, 
E  quele  carezine  che  mi  favi  ? 
Passava  un  giorno  che  non  me  vedevi 
Co  i  oci  per  le  genti  mi  <;ercavi  ; 
Bassavi  i  oci  e  la  bocca  ridevi, 
Dentro  nel  vostro  cor  mi  saludavì. 

In  Istria  con  saldatura  di  due  diversi  tetrastiei  (Ive,  205): 

Ragasso  bielo,  nuobili  sembianze 
Testimonio  saruò  li  me  belisse: 
Nu'  xi  ningoTÌn  che  me  se  portasse  amante, 
Ragasso  biel  che  me  farà  carisse. 
E  duve  xi  quii  ben  eh'  i  me  vulivi, 
Duve  li  caresseine,  Amur,  me  favi  ? 
Un  giorno,  biela,  cu'  i'  nu'  mi  vedevi 
Cu'  i  uoci  in  fi'a  la  zento  i'  me  (jerchivi. 


560  STRAMBOTTI   DI   LEONARDO   CilUSTINIANI, 

La  forma  toscana,  intera  e  più  prossima  a  queUa  del  Giustiniani,  è 
questa  (Tigri,  978)  : 

Non  t'anicordi  quando  mi  dicevi 
Che  tu  m'amavi  sì  sinceramente? 
Se  stavi  un'ora  che  non  mi  vedevi 
Cogli  occhi  mi  cercavi  fra  la  gente. 
Ora  mi  vedi,  e  non  mi  dici  addio. 
Come  tua  dama  non  fossi  stata  io  ; 
Ora  mi  vedi,  e  non  mi  riconosci. 
Come  tua  dama  io  stata  non  fossi. 

Vedi  per  altri  testi  e  raffronti,  Sabatini,  op.  cit.,  18. 

XXY. 

Viver  al  mondo  non  voglio  più  mai, 
Né  più  conforto  non  spero  d'avere  : 
Poi  che  del  tutto  abandonato  m'hai, 
La  morte  cercarò  per  mio  piacere. 
Ancora  una  sol  grazia  mi  farai, 
E  poi  contenta  tutto  il  tuo  volere  : 
Dimmel  palese,  e  no  '1  tener  celato 
Se  '1  tuo  amor  ad  altri  l'hai  donato. 

2  più   spero:  a  —  .S   al   tutto:    h  —  b  sola:    a  —  6   to  :  «  —   7  non 
mei  tenir:  a  —  8  l'amor  tuo:  b. 


Non  piangerò  giamai  quel  che  t'ho  fato. 
Né  '1  dolce  e  longo  ben  che  t'ho  voluto; 
Ma  ben  me  dole  ch'io  te  sono  stato 
Fidel  amante,  e  non  m'hai  cognosciuto. 
E  per  lo  grande  amor  che  t'ho  portato 
Merito  alcun  non  aggio  ricevuto  ; 
Ma  sempre  arai  piacer  di  poter  dire  : 
Ho  fatto  sto  meschin  per  me  languire. 

1  quello  ch'ò  fatto:  6  —  2  lungo:  6—3  son  :  a,  mi  duole  perch'io 
ti  son:  6  —  4  Fedel  :  6  —  5  Per  l'amor  grande  ch'io  ti  ho  :  6  —  6  alcuno 
non  ho  :  6  —  8  fato  questo  :  a. 

XXVII. 

Per  fin  che  vita  avrò  non  sarò  stanco 
De  biastemar  i  giorni  trapassati  : 
Oimè,   che  l'alma  trista  viene  al  manco 
Pur  in  pensando  i  bei  piaceri  andati! 
Misero  me,  che  per  conforto  abranco 
I  fazoletti  che  tu  m'hai  donati, 


STRAMBOTTI  DI  LEOXAHDO  GIUSTINIANI.  561 

E  poi  piangendo  dico  :  lasso  a  mene, 
Questo  m'avanza  de  tutto  il  mio  bene  ! 

1  charo  vita  non  serò  mai  :  a  —  2  Di  biasimar  :  b  —  3  mia  ne 
viene:  6  —  4  impensando:  a.  Solo  pensando  ai  bei  piacer  passati:  b  — 
5  e  branco:  a,  che  conforto  io  branco:  6  —  7  lasso  mene:  6—8  Quest'è 
l'avanzo  :  b. 

Nell'antica  stampa  segue  questo  terzetto  : 

Chi  se  dilecta  de  seguitar  amore 
Per  un  marchette  d'haver  questo  no  stia 
Che  son  a  preposito  a  ciascun  amatore. 


D'Ancona,  La  jìoesia  pop.  ilal.  —  36 


GIUNTE  E  CORREZIONI 


Licenziando  rultìmo  foglio  di  questo  volume,  mi  è  sem- 
brato non  inutile  raccogliere  qui  in  fondo  alcune  giunte  e 
correzioni.  Quanto  a  queste  ultime,  voglio  dichiarare  che  con 
tutta  la  cura  adoperata,  è  ben  possibile  che  sia,  non  per  tanto, 
errata  qualche  citazione,  specialmente  nei  riferimenti  dialet- 
tali e  nei  numeri,  e  tal  difetto  si  vorrà  perdonare  dal  discreto 
lettore  per  la  gran  quantità  di  siffatte  notazioni. 

Quanto  alle  aggiunte,  eccone  alcune,  delle  quali  mi  sov- 
venni troppo  tardi,  e  quando  era  già  tirato  il  foglio  ove  avrebber 
trovato  lor  luogo. 

Fra  la  pag.  10  e  la  13  cadeva  opportuna  la  menzione  di  un 
Canto  popolare  veneziano  su  di  un  fatto  avvenuto  nel  1297. 
Così  vi  accenna  A.  Medin  a  pag.  65  del  suo  libro  La  Storia 
della  Repubblica  di  Venezia  nella  Poesia  (Milano,  Hoepli,  1904): 
"  Marino  Saniito  Torsello  nella  sua  Istoria  del  Regno  di  Roma- 
nia racconta  come  Pangrazio  Malipiero  facesse  nell'anno  1297 
uno  sbarco  di  genti  veneziane  nell'isola  di  Cos  a  danno  del- 
l'Imperator  greco.  Gli  isolani  col  soccorso  dei  Turchi  assalta- 
rono e  misero  in  rotta  gli  uomini  delle  galee  veneziane.  Il 
capitano  Malipiero,  ragunati  da  cinquecento  de'  suoi,  si  volse 
fermar  e  essortava  quanto  più  poteva  li  suoi  star  fermi  e  gri- 
dava al  bandieraro,  che  fìcasse  la  bandiera  in  terra,  ma  tanta 
era  la  gente  in  fuga  che  noti  la  potè  fermar....  Tornato  a  Vi- 
nezia  ebbe  gran  impìUazione  e  villania  dal  popolo  solamente, 
in  modo  che  fu  levata  ima  Catizone,  che  si  giva  cantando  per 
la  città:  Ficca  bandiera.  Spoglia  spalliera  „. 


564  GIUXTE  E  COREEZIOXI. 

Pag.  47.  A  proposito  della  Canzone  L'acqua  corre  alia 
horrana  si  veda  ciò  che  F.  Notati  scrive  di  essa  e  di  altra 
Canzone  a  ballo:  Madonna  Pollaiola,  da  pag.  369  in  poi  del 
voi.  Attraverso  il  medio  evo  (Bari,  Laterza,  1905). 

Pag.  81.  Si  tolga  la  nota  5  colla  relaliva  citazione  del 
Melzi-Tosi. 

Pag.  92.  Fra  le  Canzonette  del  Poliziano  che  piìi  a  lungo 
durarono  è  quella  della  Pastorella,  la  quale,  conservandone  la 
musica,  fu  tramutata  a  significazione  religiosa  dal  p.  Silvano 
Razzi,  com'è  detto  nel  suo  libro  di  Laude  Spirituali  (Vene- 
zia, Giunti,  1563,  p.  19)  riferendo  l'antica  notazione  e  il  nuovo 
testo.  Cantavasi,  cosi  vi  si  avverte,  "  cantavasi  già  in  Firenze 
una  Canzona  di  molto  vaga  aria,  cioè  La  pastorella  si  leva  per 
tempo  Menando  le  caprette  a  pascer  fora  e  quello  che  segue; 
onde  il  p.  Serafino,  all'hora  giovane,  pregato  di  comporre  pa- 
role spirituali,  fece  la  precedente  Laude  di  dieci  stanze  „.  La 
Canzonetta  polizianesca  diceva:  La  pastorella  si  leva  per  tempo 
Menando  le  caprette  a  pascer  fora  Di  fora,  fora,  La  traditora 
Co'  suoi  begli  occhi  la  m'innamora  E  fa  dimezza  notte  appa- 
rir giorno.  E  il  rifacimento:  Lo  fraticello  si  leva  per  tempo 
A  render  gratie  a  Dio  nel  mattutino.  Nel  mattutino,  D'amor 
divino  È  tutto  acceso  quasi  Serafino  E  così  loda  Dio  con  puro 
core.  Nel  Santuario  di  Laudi  (Firenze,  Serniartelli,  1609,  p.  217) 
è  ricordata  altra  tramutazione  del  p.  Piazzi,  con  quest'avver- 
tenza: *  Cantavasi  intorno  all'anno  1600  una  Canzoncina  in 
Firenze,  che  anche  fu  stampata  con  alcune  altre,  di  tanto 
bell'aria  e  musica,  che  ne  venne  voglia  ancora  alle  persone 
spirituali.  Onde  pregarono  alcune  di  loro  p.  F.  Serafino  che 
ne  componesse  sopra  detta  aria  qualcheduua.  Ed  egli  compia- 
cendo loro  fece  la  soprascritta  lodando  la  Rosa  {La  rosellina 
In  su  la  spina),  ove  quella  secolare  lodava  la  Violetta  „,  che, 
notoriamente,  fu  composta  dal  Chiabrera.  Di  queste  notizie 
sono  grato  al  prof.  Angelo  Solerti. 

Pag.  104.  Colla  Canzone  Madre  mia  se  andé  al  mercd 
si  confronti  una  Ballata  di  Franco  Sacchetti  e  una  poesia 
popolare  francese  (v.  Cakducci,  Cantil.  e  Ball.,  p.  208  e  339): 
vedi  anche  Arch.   Tradiz.  popoL,  VII,  156. 

Pag.  110  n.  3.  Al  ricordo  che  fa  il  Sanuto  della  Canzone 
veneziana  Torcia  ino  villan  altro  ne  va  aggiunto  del  Trissino 
nella  Poetica  {Opere,  Verona,  Vallarsi,  1729,  11,  94):  "  Ancora 
è  cosa  manifesta  che  tra  le  altre  imitazioni  (che  avemo  detto) 
sono    queste   medesime   differenzie,  cioè   che   alcuni  imitano  i 


GIUNTE  E  CORREZIONI.  565 

buoni,  altri  i  cattivi.  Veibigrazia,  nel  ballare  alcuni  ballando 
Gioiosi  e  Lioncelli  e  Rosine  e  simili,  imitano  i  migliori:  altri 
ballando  Padoane  e  Spingardi,  imitano  i  peggiori.  E  questo 
parimente  fanno  i  piffari,  i  liuti  e  gli  organi  e  gli  altri  suoni 
e  canti,  che  sonando  la  Battaglia  e  canti  simili  imitano  i 
migliori,  e  sonando  tocca  la  cavalla  e  torrélla  mo  villan  e 
simili,  imitano  i  peggiori  „.  Debbo  questa  notizia  e  cosi  la  se- 
guente al  prof.  V.  Cortesi. 

Pag.  112.  La  bella  Franceschina  è  ricordata  anche  da 
Annibal  Cako  in  una  lettera  al  Duca  Farnese,  in  che  descrive 
le  feste  fatte  a  Bruxelles  per  l'entrata  della  Regina  di  Fran- 
cia (Como,  Ostinelli,  1825,  I,  n.°  38):  "  All'entrar  di  Brusselle, 
che  fa  agli  22  a  ore  24,  fu  bel  vedere  un  grandissimo  numero 
di  torchi  e  un  bel  sentire  i  conserti  delle  campane.  V.  Eccell. 
non  si  rida  che  io  abbia  notata  questa  musica:  perchè  in 
questo  paese  le  campane  suonano  fino  a  la  bella  Franceschina  „. 

Pag.  117.  La  musica  della  Givonietta  è  data  dallo  Zar- 
lino,  Histitntionì  armoniche.  Anche  questa  Canzone  fu  per  uso 
dei  novizj,  tramutata  a  significazione  spirituale  dal  p.  Razzi: 
vedi  il  Santuario  di  Laudi  (1609,  p.  213),  dove  si  riferisce  la 
vecchia  musica,  adattata  alle  nuove  parole:  Torna,  torna  al 
freddo  core  Onde  partito  se',  Onde  partito  se',  Gesù  mio.  Onde 
partito  se'  ecc.  Anche  questa  indicazione  mi  venne  fornita  dal 
prof.  Solerti. 

Pag.  133.  Debbo  qui  avvertire  che  nella  nuova  edizione 
dei  Canti  popol.  siciliani  (1891)  l'amico  Piteè  ha  alquanto 
modificato  la  sua  asserzione,  e  anziché  vedere  nell'ottava  Non 
v'azzardati  a  vèniri  in  Sicilia,  1'''  avanzo  di  qualche  poemetto 
nato  immediatamente  dopo  il  Vespro  „ ,  ha  tolto  la  troppo  pre- 
cisa designazione  di  tempo,  sopprimendo  l'avverbio. 

Pag.  135.  Il  nome  di  Gaito  non  solo  si  trova  ai  tempi 
della  dominazione  normanna,  ma  anche  in  quelli  dell'angioina: 
Gaito  de  Amalfi  è  in  un  documento  del  1346  recato  dal  Mi- 
uiERi-Riccio,   Ottanta  quattro  registri  angioini,  p.  31. 

Pag.  158.  Si  aggiunga  che  lo  Strambotto  non  fu  soltanto 
diffuso  nelle  corti  italiane  del  sec.  XV  e  negli  eleganti  e  culti 
ritrovi,  ma  anche  portato  fuori  della  Penisola.  Il  sig.  B.  San- 
visENTi  nel  suo  scritto  /  primi  influssi  di  Dante,  Petrarca  e 
Boccaccio  sulla  Ietterai,  spagnuola  (Milano,  Hoepli,  1902,  p.  433 
e  segg.)  riferisce  Strambotti,  e  anche  Canzonette,  composti, 
(però  sempre  in  italiano)  dal  poeta  catalano  Romeu  Lui),  stato 
a  Napoli  presso  il  Duca  di  Calabria. 


566  GIUNTE  E   CORREZIONI. 

Pag.  229.  CoiTeggi  la  citazione  Tigri,  n°.  4077  in  n°.  87. 

Pag.  295.  L'ipotesi  dell' Imbriani  che  nel  predicatore  deb- 
basi  riconoscere  il  Savonarola,  è  stata  testé  ripresa  dal  pro- 
fessor D.  Barella  (Lo  Strambotto  piemontese,  Alessandria, 
Jacquemod,  1896),  pel  quale  il  componimento  avrebbe  origine 
marchigiana,  e  trasportato  in  Piemonte  vi  si  sarebbe  mutato 
in  Canzonetta.  Non  ci  pare  che  gli  argomenti  addotti  possano 
farci  cangiare  d'opinione  circa  la  primitiva  forma  toscana  e 
la  nessuna  allusione  a  fra  Girolamo. 

Pag.  483.  Alla  citazione  del  primo  verso  della  Canzonetta 
In  su  quell'alto  monte  si  avverta  che  alla  tramutazione  in 
senso  spirituale  v'ha  un  commento  mistico  del  Bianco  da  Siena 
[Laudi  spirit.  del  B.  da  S.,  Lucca,  Giusti,  1851,  p.  187). 


INDICAZIONE  BIBLIOGRAFICA 

DELLE  EACCOLTE  DI  POESIE  POPOLARI  E  DI  ALTEE  OPEEE 
PIÙ  SPESSO  CITATE  NEL  CORSO  DEL  LAVORO 


Amalfi  G.,  Cento  canti  del  popolo  di  Sei-rara  d'Ischia,  Milano,  Biigola,  IS82. 
Si  cita  il  11.  progressivo. 

Amalfi  G.,  Canti  del  popolo  del  Piano  di  Sorrento,  Milano,  Biigola,  1883. 
Si  cita  il  numero  progr. 

Amalfi  G.,  CV  Villanelle  raccolte  a  S.  Valentino,  Tegiano,  1888  (v.  anche 
Arch.   Trad.  Popol.,  V,  389). 

Amalfi  G.,  XXIV  Villanelle  e  una  favola  in  vernacolo  pagognanese  (in  Ardì. 
Trad.  popol.,  V,  41). 

Arboit,  Villotte  friulane,  raccolte  e  pubblicate  per  Angelo  Akboit,  Pia- 
cenza, Del  Maino,  1876.  Si  cita  il  numero  progress. 

Archivio  per  lo  studio  delle  tradizioni  popolari.  Rivista  trimestrale  diretta 
da  G.  PiTRÈ  e  S.  Salomone-Maeino,  Palermo,  Pedone.  Si  cita  a  voi. 
e  pag.  dal  1883  in  poi. 

AvOLio,  Canti  popolari  di  Noto,  studii  e  raccolta  di  Corrado  Avolio,  Koto, 
Zammit,  1876.  Si  cita  il  numero  progressivo. 

Beenoni,  Canti  popolari  veneziani,  raccolti  da  Dom.  Giuseppe  Bertoni. 
Venezia,  Fontana-Ottolini,  1873.  Si  cita  il  numero  progressivo  delle 
varie  puntate. 

Berxoxi,  Nuovi  canti  popolari  veneziani,  raccolti  da  Dom.  Giuseppe  Bernoni, 
Venezia,  Fontana,  1874.  Si  cita  a  pagg. 

Blessig,  Eomische Kitor nelle,  gesammelt  und  herausgegeben  von  C.  Blessig, 
Leipzig,  Mirtei,  1860.  Si  cita  a  parti  e  numeraz. 

'Boi.T.A.  G.^.,  Canzoni  popolari  comasche,  estr.  dai  Rendiconti  dell'I.  E.  Ac- 
cademia delle  scienze,  voi.  LUI,  pag.  637,  Vienna,  Gerold,  1867.  Si  cita 
il  numero  progressivo. 

Caliari  P.,  Antiche  villotte  e  altri  Canti  del  folk-lore  veronese,  Verona- 
Padova,  Drucker,  1900.  Si  cita  a  pagg. 

Canale,  Canti  popolari  calabresi,  scelti  e  recali  in  versi  italiani  per  Achille 
Canale,  Reggio,  Siclari,  1859.  Si  cita  il  numero  progressivo.  (E  ripro- 
dotto colla  stessa  numeraz.  nei  Canti  del  pop.  reggino  del  Mandalari.) 

Capone  G.,  XL  Canti  pop.  ined.  di  Montella,  Napoli,  Giannini,  1881.  Si  cita 
la  numerazione  progressiva. 


568  INDICAZIONE  BIBLIOGRAFICA, 

Carducci,  Cantilene  e  haìlate,  strambotti  e  madrigali  dei  sec,  XIII  e  XIV, 
a  cura  di  Giosuè  Carducci,  Pisa,  Nistri,  1871.  Si  cita  a  pagg. 

Cesconi  L.,  Righi  A.,  Righi  E.,  Canti  popolavi  veronesi.  Verona,  1870.  Per 
nozze  Weil  Weiss-Cinzano.  Si  cita  il  numero  progressivo. 

Congedo  U.,  Canti  popolari  salentini,  letture.  Lecce,  Cooperativa,  1899. 

CORAZZINI  F-,  1  componimenti  minori  della  letter.  popol.  ital.  nei  principali 
dialetti,  Benevento.  Di  Gennaro,  1887.  Si  cita  a  pagg. 

Dal  Medico,  Canti  del  popolo  veneziano,  per  la  prima  volta  raccolti  ed  il- 
lustrati da  Angelo  Dal  Medico.  Seconda  edizione.  Venezia,  Antonelli, 
1857.  Si  cita  a  pagg. 

Dal  Medico,  Canti  del  popolo  di  Chioggia,  raccolti  da  Angelo  Dal  Medico, 
Venezia,  Antonelli,  1872.  Si  cita  il  numero  progressivo. 

De  Nino,  Saggio  di  Canti  popolari  sahinesi,  illustrati  da  Antonio  De  Nino. 
Seconda  edizione.  Rieti,  Trincili,  1869.  Si  cita  a  pagg. 

Ferrari  S.,  Biblioteca  di  Letter.  popol.  ital.,  Firenze,  Polverini,  1882,  il  1°  voi. 
e  la  1»  parte  del  2».  Si  cita  a  pagg. 

Ferraro  G.,  Canti  popolari  monferrini  raccolti  ed  annotati,  Torino,  Loescher, 
1870.  Si  citano  le  Canzoni  e  gli  Strambotti  secondo  il  numero  progres- 
sivo di  ciascuna  serie. 

Ferraro,  Canti  popolari  di  Ferrara,  Cento  e  Pontelagoscnro,  Ferrara,  Tad- 
dei,  1S77.  Ciascuna  delle  tre  raccolte  si  cita  secondo  il  n.  progressivo. 

Ferraro,  Canti  poiwlari  del  Basso  Monferrato,  Palermo,  Pedone,  1888.  Si 
cita  la  numerazione  progressiva. 

Ferraro,  Canti  popolari  in  dialetto  logudorese,  Torino,  Loescliei',  1891.  Si 
cita  la  numerazione  progressiva. 

FiLippi.vi  E.,  Foìk-lore  fabrianese,  Fabriano,  Gentile,  1898.  Si  cita  la  nume- 
razione progressiva. 

Finamore  G.,  Tradizioni  popolari  abruzzesi,  voi.  II:  Canti,  Lanciano,  Ca- 
rabba,  1886.  Si  cita  la  numerazione  progressiva. 

Finamore,  Vocabolario  dell'uso  abruzzese,  Lanciano,  Carabba,  ISSO.  Da 
pag.  262  in  poi  contiene  Canti  popolari  abruzzesi,  che  si  citano  secondo 
la  numerazione. 

Fiori  Selvatici  per  l'onomastico  del  Preside  P.  Giorgi,  raccolti  dai  prof,  e 
alunni  del  Liceo  di  Reggio-Calabria.  Siena,  S.  Bernardino,  1S91.  Si  cita 
secondo  la  numerazione  progressiva. 

FuoRTES  G.  e  T.,  Saggio  di  canti  popolari  di  Giuliano  (Terra  d'  Otranto}. 
Napoli,  Unione,  1871.  Si  cita  la  numerazione  progressiva. 

Garlato  a.,  Chioggia  e  i  suoi  coHii.Venezia,  Narratovicl),  1885.  Si  cita  a  pag. 

GiANANDEEA,  Canti  popolali  marchigiani,  raccolti  e  annotati  dal  Prof.  Anto- 
nio Gianandrea;  Torino,  Loescher,  1875.  Si  cita  a  pagg. 

Giannini  A.,  Canti  popolari  pisani,  Pisa,  Galilejana.  1891.  Si  cita  la  nume- 
razione progressiva. 

Giannini  G.,  Canti  popolari  della  montagna  lucchese,  Torino,  Loesclier,  1889. 
Si  cita  a  pagg. 

Giannini  G.,  Canti  popolari  toscani,  scelti  ed  annotati,  Firenze,  Barbèra, 
1902.  Si  cita  a  pagg. 

Giorgi  P.,  Canzoni  pop.  siciliane,  Livorno,  Vigo,  per  nozze  Mazzoni-Chiarini. 
Si  cita  la  numerazione  progressiva. 

Giuliani  0.  B.,  Moralità  e  poesia  del  vivente  linguaggio  della  Tcicana,  Terza 
ediz.,  Firenze,  Le  Mounier,  1873.  Si  cita  a  pagg. 

Guastella,  Canti  piopolari  del  circondario  di  Modica,  raccolti  e  illustrati 
da  Serafino  Amabile  Guastalla,  Modica,  Lutri  e  Secaguo,  1876.  Si 
cita  il  numero  progressivo. 

Gortani  G.,  Saggio  di  Canti  friulani  popolari,  Udine,  Gambierasi,  1867. 


INDICAZIONE  BIBLIOGRAFICA.  569 

Imbhiani,  Canti  popolari  delle  proviiicie  meridionali,  raccolti  da  Antonio 

Casetti  e  Vittorio    Imbeiani,  voi.  II,  Torino,  Loescher,  1871-72.  Si 

cita  a  voi.  e  pagg. 
Imbkiani,   Canti  popolari  calabresi,  estratti   dal  voi.  V  del  Propugnatore, 

Bologna,  Fava  e  Garagnani,  1873.  Si  cita  il  numero  progressivo. 
Imbriani,  XV  Canzoni  popolari  in  dialetto  titano,  estratte  dal  voi.  VI  del 

Propugnatore,  Bologna,  Fava  e  Garagnani,  1873.  Si  cita  il  n.  progr. 
Imbeiani,  XLV  Canti  popolari  dei  dintorni  di  Marigliano  (Terra  di  Lavoro), 

Napoli,  1871.  Si  cita  il  numero  progi'essivo. 
Imbriani,   XXXIll  Canti  popolari   di  Mercogliano   (Pi'incipato  ulteriore): 

estr.  dal  Propugnatore,  voi.  VI,  Bologna,  Fava  e  Garagnani,   1874.  Si 

cita  il  numero  progressivo. 
Imbeiani,  Canti  popolari  avellinesi,  illustrati,  Bologna,  Fava  e  Garagnani, 

1874.  Estr.  dal  Propugnatore,  voi  VII.  Si  cita  a  pagg. 
Imbriani,  Canti  popolari  di  Massa  Lombarda  e  Varese,  nella  Nuova  Anto- 
logia (1866),  voi.  V,  p.  190,  Si  cita  il  numero  progressivo. 
IVE  A.,  Canti  popolari  istriani  raccolti  in  Povigno,  Torino,  Loesclier,  1878. 

Si  cita  a  pagg. 
KopiscH,   Agrumi,   Volkstiiniliche   Poesien    aus    alien   Mundarten   Italiens 

and  seiner  Inseln,  gesaramelt  and   iibersetzt  von  August   Kopisch, 

Berlin,  Crantz,  1838.  Si  cita  a  pagg. 
Leopardi  (famiglia).  Canti  del  popolo  recanatese,  iper  nozze  Galaniini-Garulli, 

Loreto,  Rossi,  1848.  Si  cita  la  numerazione  progressiva. 
Livi  C,  Canti  popolari  della  campagna  pratese.  Prato,  Passigli,  1853.  Per 

nozze  Guasti-Becherini.  Si  cita  a  pagg. 
Lizio-Bruno,  Canti  scelti   del  popolo  siciliano,  illustrati   e  posti   in  versi 

italiani  da  L.  Lizio-Beuno,  Messina,  D'Amico,  1867.  Si  cita  a  pagg. 
Lizio-Bruno,  Canti  popolari   delle  Isole  Eolie  e  di  altri  luoghi   di  Sicilia, 

messi  in  prosa  italiana  ed  illustrati  dal  Prof.  L.  Lizio-Bruno,  Messina, 

D'Amico,  1871.  Si  cita  il  numero  progressivo. 
Lovaeini  e.,   Canti  popol.    tarantini,   in   Miscellanea    nuziale    Possi- Teiss, 

Bergamo,  Arti  grafiche,  1897.  Si  cita  il  numero  progressivo. 
Mandalari  M.,  Canti  del  pìopolo  reggino,  Napoli,  Morano,  1881.  Si  cita  sec. 

la  paginazione. 
Mandalari,  Altri  Canti  del  p.  reggino,  Napoli,  Prete,  1883.  Si  cita  il  nu- 
mero progressivo. 
Marcoaldi,  Canti  popolari  inediti  umbri,  liguri,  piceni,  piemontesi  e  latini, 

raccolti   e  illustrati  da  Oreste  Marcoaldi,  Genova,  Tip.  Sordo-Muti, 

1855.  Si  cita  il  numero  progressivo  di  ciascuna  raccolta. 
Marcoaldi,  Guida  e  Statistica  della  città  e  comune  di  Fabriano,  Fabriano, 

Crocetti,  1879.  Il  voi.  Ili,  a  pag.  131   contiene  fino  a  pag.  200  C.  impol. 

fahrianesi.  Si  cita  secondo  la  numerazione. 
Marsiliani  A.,   Canti  popol.  dei   dintorni  del  Lago  di  Bolsena,  di  Oivieto  e 

delle  Campagne  del  Lazio.  Orvieto,  Mai-sili,  188(5.  Si  cita  il  n.  progr. 
Mazzatinti  G.,  Canti  popol.  umbri  raccolti  a  Gubbio.  Bologna,  Zanichelli,  1883. 

Si  cita  il  numero  progressivo. 
Menghini  M.,  Canti  pop.  romani,  estr.  dal  voi.  IX-X  à&WArch.  Trad.  popol. 

(1896).  Si  cita  sec.  la  numerazione  progressiva. 
Molinaro  del  Chiaro,   Canti  popolari  teramesi,  raccolti   ed  illustrati   da 

Luigi  Molinaro  Del  Chiaeo,  Napoli,  Tortora,  1871.  2»  ediz.  Napoli, 

Raimondi,  1882.  Si  cita  il  numero  progressivo. 
Molinaeo  Del  Chiaro,  Canti  del  popolo  napolitano,  Napoli,  Argerio,  1889. 

Si  cita  la  pag. 


570  INDICAZIONE  BIBLIOGRAFICA. 

MoLiNARO  Del  Chiaro,  Canti  del  popolo  di  Meta,  Napoli,  Detken,  1869.  Si 

cita  secondo  il  numero  progressivo. 
MoLiXAEO  Del  Chiako,  Canti  del  popolo  materano,  Napoli,  Raimondi,  1882. 

Si  cita  il  numero  progressivo. 
MoLiNARO  Del  Chiaro,  Canti  popolari  molisani,  in  Arch.  Trad.  pop.,  XII,  392, 

Si  cita  il  numero  progressivo. 
Morosi,  Studi  sui  dialetti  greci  delia  Terra  d'Otranto  del  Prof.  D.'   Giu- 
seppe Morosi,   preceduto   (sic)   da  una  raccolta   di   Canti,  Leggende. 

Proverbi  e  indovinelli  nei  dialetti  medesimi,  Lecce,  Tip.  edit,  Salen- 

tina,  1870.  Si  cita  il  numero  progressivo. 
Mueller-Wolff,  Egeria,  Raccolta  di  poesie  popolari  italiane,  cominciata 

da  Guglielmo  Muelleb,  dopo  la  di  lui  morte  terminata  e  pubblicata 

da  0.  L.  B.  WoLFF   dottore  e  professore,  Lipsia,   Fleischer,  1829.  Si 

cita  a  pagg. 
Nanxarelli,  Studio  comparativo  sui  Canti  popolari  di  Arlena,  per  Fabio 

Nannarelli,  Roma,  Sinimberghi,  1871. 
Nerucci,  Saggio  di  uno  studio  sopra  i parlari  vernacoli  della  Toscana  fatto 

da  Gherardo  Nerucci,  Vernacolo  montalese  ecc.  Milano,  Faijni,  186.5. 
Nervo  G.,  C.  popolari  di  Pieve  Tesina.  Borgo,  Marchetti,  1885.  Si  cita  a  pagg. 
Nieei  L,  BaccoUa  di  Canti  popolari  lucchesi,  Lucca,  Giusti,   1900.  Si  cita 

la  numerazione  progressiva. 
Nigra  C,  Canti  popolari  del  Piemonte,  Torino,  Loesclier,  1888.  Si  cita  a  pp. 

l'Introduzione,  e  i  componimenti  secondo  l'ordine  progressivo. 
Pasqualigo  C,  Canti  piopolari  vicentini,  Venezia,  Grimaldo,   1876.   Si  cita 

secondo  la  numerazione  progressiva. 
Percoli  B.,  Saggio  di  Canti  jjopolari  romagnoli,  Forlì,  Bordandini,   1894. 

Si  cita  secondo  la  numerazione  progressiva. 
Pigorini-Bebi,  /  Canti  popolari  marchigiani,  artic.  di  Caterina  Pigorini- 

Beri,  nella  Nuova  Antologia,  anno  XI,  2"  serie,  voi.  II,  fase.  S".  —  Con 

altri   scritti   folklorici   della   medesima   autrice  fu  riprodotto  nel  voi. 

Costumi   e  Superstizioni   dell'Appennino  marchigiano.  Città  di  Castello, 

Lapi,  1889. 
Pinoli  G.,  Canti  popolari  canavesani,  Ivrea,  Sarda,  1887.  Si  cita   a   pagg. 
PiTRÈ,  Canti  popolari  siciliani,  raccolti   ed  illustrati   da  Giuseppe  Pitrè, 

preceduti  da  uno  Studio  critico  dello  stesso  autore.  Voi.  II,  Palermo, 

Pedone  Lauriel,  1870-71:  2»  ediz.  Palermo,  Clausen,  1891.  Si  cita  il  nu- 
mero progressivo. 
PiTEÈ,  Studj  di  poesia  popolare  per  Giuseppe  Pitrè  ,  Palermo  ,  Pedone 

Lauriel,  1872.  Si  cita  a  pagg. 
Pitrè,  Centuria  di  Canti  popolari  siciliani,  ora  per  la  prima  volta  pubbli- 
cati da  Giuseppe  Pitrè  :  estratto  daW Eco  dei  giovani,  voi.  II,  fase.  IV, 

Padova,  s.  a.  Si  cita  il  numero  progressivo. 
Righi  E.,  Saggio  di  Canti  popolari  veronesi,  Verona,  Zanclil,  1863.  Si  cita 

secondo  il  numero  progressivo. 
Hivista  di  Letteratura  popolare,  diretta  da  Fr.  Sabatini,  Roma,  Loesclier, 

1877.  Si  cita  a  pagg. 
Hivista  di  Letteratura  popolare  diretta  da  G.  PitkÈ  e  F.  Sabatini,  Roma, 

Loescher,  1877-79. 
Rondini  D.,   Canti  popolari  marchigiani   raccolti   a  Fossomhrone,  Pesaro, 

Nobili,  1895.  Si  cita  a  pagg. 
RuBiERi  E.,  Storia  della  poesia  popolare  italiana,  Firenze,  Barbèra,  1877. 
Salomone-Marino,  Canti  popolari  siciliani,  in  aggiunta  a  quelli  del  Vigo, 

raccolti  e  annot.iti  da  Salvatore  Salomone-Maki.vo,   Palermo,  Gili- 

berti,  1867.  Si  cita  il  numero  progressivo. 


INDICAZIONE  BIBLIOGRAFICA.  571 

Salomone-Marino,  Leggende  popolari  siciliane  in  poesia,  Palermo,  Pedone, 

1880.  Si  cita  il  numero  progressivo. 
SCHEKILLO  M.,  Saggio  di   Canti  popol.  della  Provincia   di  Salerno,  Milano, 

Bortolotti,  1880.  Si  cita  il  minerò  progressivo. 
ScHlFONE,  Mazzetto  di  Canti  pojiolari  savesi,  raccolti  e  annotati  da  M.  SCHI- 

FONE,  Napoli,  Tip.  dell'Unione,  1871.  Si  cita  secondo  il  numero  progress. 
ScHUCHAEDT,  Ritomell  und  Terzine...  von  Hugo  Schuchardt,  ordenti,  prof. 

d.  roman.  sprach.  d.  Universit.  Halle,  Halle,  Niemeyer,  1875.  Si  cita 

a  pagg.  e  paragrafi. 
Beverini  V.,  Raccolta  comparata  di  Canti  pop.  di  Morano  Calabro,  Morano, 

tip.  del  Sibari,  1895.  Si  cita  il  numero  progressivo. 
Tigri,  Canti  popolari  toscani,  raccolti  e  annotati  da  Giuseppe  Tigri.  Terza 

ediz.  riveduta  dall'autore  sulla  seconda  nuovamente  ordinata  e  accre- 
sciuta ecc.  Firenze,  Barbèra,  1869.  Si  cita  il  numero  progressivo. 
Tommaseo,  Canti  popolari  toscani,  corsi,  illirici  e  greci,  Venezia,  Tasso,  1814. 

Si  cita  a  pagg.  il  voi.  I  contenente  i  Canti  toscani. 
Villanis  P.,  Saggio  di  C.  popol.  dalmati,  raccolti  in  Zara,  e  in  Arbe.  Zara, 

Artale,  1890.  Si  cita  a  pagg. 
ViLLANis  P.,  XXV Stornelli  zaratini,  Zara,  Woditzka,  1892.  Si  cita  il  n.  progr. 
Vigo,  Raccolta  amplissima  di  Canti  popolari  siciliani,  seconda  edizione:  in 

Opere  di  Lionardo  Vigo.  Catania,  Calatola,  1870-74.  Si  citano  le  pagg. 

della  Prefaz.,  e  pei  componimenti  il  numero  progressivo. 
Visconti  P.  E.,  Saggio  de'  Canti  popolari   della  provincia   di  Marittima  e 

Campagna,  Roma,  Salviucci,  1830.  Si  cita  secondo  il  nuni.  progressivo. 

Furono  riprodotti  anche  dal  Didier,  Campagne  de  Rome.  Paris,  Labitte, 

1842,  pag.  365-426. 
Visconti  P.   E.,   Saggio   di  Canti  popolari   di  Roma,   Salina,  Marittima   e 

Campagna,  Firenze  presso  gli  editori  della  Strenna  Romana,  1858.  Si 

cita  a  pagg.,  secondo  l'impaginatura  propria  all'estratto  della  .Strenna. 
Widter-Wolf,  Volkslieder  aus  Venetien,%esa.mmeM\or\  G.  Widter,  lieraus- 

geg.  von  AdolfWolf,  Wien,  Gerold,  1854.  Si  cita  il  numero  progressivo. 


Fine. 


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